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Il cameriere, Gabriel, non aveva niente da fare. Se ne stava in piedi, con il tovagliolo sul braccio, a guardare il breve tratto di strada che si scorgeva attraverso i vetri leggermente appannati del caffè.
Erano le tre del pomeriggio e cominciava a fare buio sia all’interno che all’esterno del locale. All’interno regnava una lussuosa penombra: erano lussuosi i rivestimenti in legno patinato che ricoprivano i muri e il soffitto, e il velluto color porpora dei divanetti; qua e là, nell’acqua profonda degli specchi molati, si riflettevano le poche lampadine già accese.
Fuori, la strada principale, rue de Moulins: troppo stretta, con tutte quelle macchine, il tram, i negozi e la facciata aggressiva del Prisunic. Erano le tre di una giornata invernale, senza pioggia, senza neve, ma con una massa d’aria umida e fredda sospesa sotto un cielo crepuscolare.
Gabriel vide la lunga limousine nera fermarsi silenziosamente accanto al marciapiede, riconobbe Arsène che lasciava il posto di guida per aprire lo sportello ed Eugène Malou che scendeva dalla macchina, congestionato come sempre, e dava disposizioni all’autista.
Istintivamente Gabriel passò il tovagliolo sul legno verniciato di un tavolo, il tavolo di Malou, il migliore, ben in vista nell’angolo a sinistra, una posizione da cui si dominavano sia il caffè che la strada.
La macchina ripartì. Malou entrò. Non pareva diverso dal solito. Nonostante ciò che i giornali avevano scritto su di lui quella mattina, si comportava esattamente come al solito.
«Gabriel, un armagnac...».
Posò sul tavolo una pila di fogli. Aveva sempre un sacco di carte in mano. Senza sedersi, si aggiustò il cappello di feltro grigio spingendoselo all’indietro sulla fronte.
«Dammi un gettone...».
«Non vuole che le chieda la comunicazione, signor Malou?».
Fu l’unico particolare insolito: in genere, quando voleva telefonare, pregava il cameriere di chiedere la comunicazione e prima di scomodarsi aspettava che l’interlocutore fosse all’altro capo del filo.
In quel momento Gabriel guardò l’ora. Le tre e due minuti. La cassiera sferruzzava. L’unico cliente del caffè, un commesso viaggiatore, scriveva da più di mezz’ora senza mai alzare la testa dal foglio.
Nella luce fioca della cabina la sagoma di Malou si distingueva appena. La telefonata fu breve. Poco dopo si sentì il clic del ricevitore che veniva riagganciato. Uscì, si avviò verso il suo tavolo, bevve, restando in piedi, un sorso di armagnac, quindi, senza chiedere il conto, posò venti franchi accanto al bicchiere.
A questo punto, nella giornata di Eugène Malou c’era un buco. Gabriel lo vide allontanarsi a piedi verso sinistra. Qualche vetrina era già illuminata. Nelle città di provincia quella era l’ora più deprimente, così Gabriel andò ad appoggiarsi con i gomiti sul bancone per scambiare due chiacchiere con la cassiera.
Alle quattro Eugène Malou era di nuovo in rue de Moulins e svoltava a destra per una strada in discesa, più residenziale, dove i pochi negozi sembravano incastrati fra le ville imponenti. Percorse circa cinquanta metri e sollevò il batacchio in ottone di una di quelle antiche dimore in pietra scolpita, cui si accedeva da una scalinata di cinque gradini.
Era la casa dei d’Estier. In città la conoscevano tutti. La facciata era riprodotta nel dépliant dell’ufficio del turismo.
Un domestico in giacca bianca andò ad aprire, poi la porta si richiuse.
Dall’esterno si potevano vedere due finestre rischiarate da una luce rosata, una al pianterreno e l’altra al primo piano, ma i passanti non ci facevano caso, perché quando calava la sera il freddo diventava più pungente: avevano tutti il naso rosso e gli uomini affondavano le mani nelle tasche del cappotto.
Era novembre. Nell’arteria principale, un po’ più su, dove i tram passavano sferragliando, attraverso le porte sempre in movimento del Prisunic si riversava in strada una musica chiassosa diffusa da un altoparlante.
Proprio di fronte alla villa dei d’Estier c’era una piccola farmacia, di quelle antiche, con la facciata nera e due vetrine polverose in cui troneggiavano da una parte un boccale verde e dall’altra uno giallo. Di tanto in tanto entravano delle clienti, quasi sempre donne del popolo, in nero anche loro, a volte con un bambino per mano, e le si vedeva parlare con il farmacista, che aveva uno zuccotto sulla testa e il pizzetto sale e pepe.
Potevano essere le quattro e un quarto, forse le quattro e venti, quando il pomello della porta d’ingresso della villa dei d’Estier cominciò a girare. Girava, ma la porta non si apriva, come quando qualcuno aspetta impaziente, con la mano sulla maniglia, che il visitatore si decida ad andarsene.
Probabilmente i due uomini stavano in piedi nell’ampio ingresso illuminato da una lanterna veneziana. A un certo punto si aprì uno spiraglio, che subito si richiuse, poi si aprì di nuovo, e un tale che si trovava a passare di lì sentì delle grida, ma andava di fretta e non si girò.
Di colpo la porta si spalancò disegnando un rettangolo giallastro nel buio della strada. Un uomo molto alto, di mezza età, teneva fermo il battente, mentre un altro, più robusto, arretrava senza smettere di parlare, e poco ci mancò che mettesse un piede in fallo e ruzzolasse all’indietro per la scalinata.
L’uomo alto era il conte Adrien d’Estier, l’altro era Eugène Malou. Possibile che il conte avesse davvero cercato di chiudere la porta mentre Malou era ancora lì davanti e tentava di impedirglielo?
Una detonazione improvvisa fece voltare le clienti della farmacia. Lì accanto, una merciaia che vendeva anche giornali accorse sulla soglia e si sporse a guardare stringendosi lo scialle sul petto.
Nessuno avrebbe saputo dire con esattezza che cosa fosse successo, nemmeno il conte d’Estier, che al momento dello sparo aveva già quasi completamente richiuso la porta.
Ma una delle donne della farmacia dichiarò:
«Non è caduto subito. È riuscito a scendere i gradini all’indietro, tutto storto, e solo quando è arrivato in fondo alle scale si è accasciato sul marciapiede...».
Alcune persone si erano fermate all’angolo della strada e aspettavano di capire se valesse la pena di avvicinarsi.
Prima di uscire il conte d’Estier si girò verso l’interno e chiamò qualcuno, forse il maggiordomo, perché un uomo in giacca bianca fu visto avviarsi per primo giù per le scale, con circospezione, e chinarsi sul corpo, mentre il conte rimaneva impalato in cima alla scalinata.
Il farmacista attraversò la strada e si chinò a sua volta. Quando si rialzò, intorno a lui si era già formato un capannello di curiosi.
«Un medico...» disse. «Qualcuno vada a chiamare il dottor Moreau... Abita una decina di case più avanti... Presto...».
Alcuni si allontanavano, si giravano dall’altra parte, consigliavano alle donne appena arrivate:
«Non guardi...».
«Che è successo?».
«Un uomo si è sparato un colpo in testa...».
La pistola era rotolata sul selciato. Tutti facevano attenzione a non toccarla, limitandosi a guardarla in silenzio. Arrivò un poliziotto in divisa.
«Potremmo portarlo dentro da me...» suggerì il farmacista.
Un paio di volenterosi si fecero avanti per aiutarlo. Ci fu anche qualcuno che si preoccupò di raccogliere dal marciapiede il cappello grigio perla di Eugène Malou.
Questi gemeva emettendo un suono monotono, lugubre, che nessuno dei presenti aveva mai sentito, un lamento così regolare da non sembrare umano, e che faceva pensare al verso di certi animali notturni o al cigolio di un apparecchio meccanico.
«Ha sbagliato la mira?».
La porta della farmacia era stretta.
«Via, sfollare...» gridava l’agente. «Tutti fuori... Forza!... Fate largo, che diamine!... Non c’è niente da vedere...».
Ma le persone continuavano ad accalcarsi tutt’intorno. Il corpo venne steso sul pavimento, con la testa vicino alla bilancia smaltata. Una donna che aveva voluto a tutti i costi guardare svenne.
Era una scena orribile. Chissà, forse Malou era troppo nervoso per prendere bene la mira... O forse gli era tremata la mano. E se avesse sbagliato di proposito? Fatto sta che il proiettile, penetrato – così sembrava – vicino al mento, all’angolo della bocca, gli aveva letteralmente fatto saltare un pezzo di mascella.
Malou aveva ancora gli occhi aperti. Era quella la cosa più impressionante. Continuava a vedere le persone che gli si affannavano intorno. Le vedeva dal basso. Uno dei due occhi era quasi completamente uscito dall’orbita.
«E il dottore?...».
«Ci sono andato, signore... Non è in casa...».
«Telefonate a qualcun altro... E anche all’ospedale... Ma, per amor di Dio, fate spazio...».
Il farmacista aveva aperto dei pacchi di cotone idrofilo e con quello cercava di tamponare il sangue, che nel frattempo aveva già formato una pozza densa sulla polvere del pavimento.
E intanto Eugène Malou non moriva. Sembrava impossibile, nello stato in cui era, e ognuno, in cuor suo, si augurava che quello strazio finisse alla svelta, per non dover più vedere il suo sguardo e sentire quel lamento ininterrotto.
Il poliziotto era riuscito ad allontanare buona parte dei presenti e se ne stava in piedi davanti alla porta, di fronte a quella folla sempre più fitta, a quei visi che si stagliavano nell’oscurità, illuminati dai riflessi gialli e verdi dei boccali in vetrina.
A destra del bancone un tizio telefonava a tutti i medici della zona, ma a quell’ora la maggior parte di loro era in giro per le visite.
«È Malou...» si sentiva dire tra la folla.
«Com’è successo?».
«Stava uscendo dalla casa del conte, pare...».
Il conte d’Estier era ancora in piedi, da solo, in cima alla scalinata.
E allora nella strada, nell’intero quartiere, a mano a mano che la notizia si diffondeva, serpeggiò un senso di imbarazzo.
Tutti avevano letto gli articoli che da qualche giorno venivano pubblicati sul «Phare du Centre». Tutti avevano letto anche quello, dal tono più intimidatorio, quasi trionfante, apparso la mattina stessa:
La fine di Malou
Tutti lo avevano accolto con soddisfazione, perché tutti aspettavano impazienti la conclusione di quella battaglia che durava ormai da un pezzo.
«Prima o poi lo fregheranno...».
E adesso era proprio fregato! Eugène Malou era lì, steso sul pavimento di una piccola farmacia, con mezza faccia maciullata e la spalla del cappotto inzuppata di sangue. A poco a poco i curiosi indietreggiavano: volevano sapere, ma preferivano non vedere.
Il sentimento che si diffondeva per la strada, e che presto avrebbe invaso tutta la città, era una specie di vergogna collettiva, e alcuni si voltavano già con aria di riprovazione verso la sagoma del conte d’Estier che, sempre da solo, fumava una sigaretta sul marciapiede.
Può capitare di vedere una banda di ragazzini scalmanati che prendono a sassate un gatto rognoso. E quando sono riusciti ad abbatterlo, a ferirlo senza ucciderlo, preferiscono tenersi a distanza, si vergognano di ciò che hanno fatto, impressionati dal sangue che cola, dagli spasmi della povera bestia agonizzante a cui nessuno di loro ha il coraggio di dare il colpo di grazia.
Che almeno Malou morisse in fretta! Si vedeva il camice bianco del piccolo farmacista con il pizzetto andare avanti e indietro, chinarsi e rialzarsi. Apriva qualche fiala, scompariva nel laboratorio, tornava con una siringa. E da fuori, nonostante la porta chiusa, si sentiva ancora – o si aveva l’impressione di sentire – quel gemito cadenzato che alla lunga diventava esasperante.
«Andate a giocare da un’altra parte, bambini!».
Finalmente una macchina: scese un medico, che si precipitò all’interno togliendosi il cappotto prima ancora di entrare.
Chissà se sarebbe riuscito a salvarlo... Per certi versi sarebbe stato peggio. Avrebbero dovuto abituarsi a vederlo con la faccia sfigurata, e uno come lui sarebbe stato capace di andarsene in giro per le strade come se niente fosse, di mettersi a sedere al solito tavolo del Café de Paris, diventando così una sorta di rimprovero vivente.
Ecco perché ognuno, in cuor suo, si augurava che morisse. E la gente se ne stava lì fuori in attesa di un segno, per poter tirare un sospiro di sollievo, il segno che era tutto finito.
In quel momento tre ragazzi sui sedici o diciassette anni stavano svoltando l’angolo di rue de Moulins. Erano appena usciti da scuola. Avevano in mano libri e quaderni. Quello al centro era il più alto, il più magro, e indossava un cappotto scuro che gli scendeva giù dritto facendolo sembrare ancora più allampanato.
Parlavano camminando con passo deciso sul marciapiede di sinistra, quello della villa dei d’Estier. Si sentì una voce che diceva:
«... Ho detto al prof d’inglese che se continua a...».
Li riconobbero. Adesso gli sguardi erano puntati su di loro, soprattutto su quello al centro, che intanto guardava distrattamente la folla assiepata all’ingresso della farmacia.
Forse avrebbero attraversato la strada tutti e tre per capire che cosa era successo, per vedere anche loro. Istintivamente la gente si accalcò ancora di più, come se volesse fermarli.
«Signor Malou...».
Un tratto di marciapiede buio, una porta socchiusa in cima a una scalinata di cinque gradini e il conte d’Estier che, ancora con la sigaretta in mano, avanzava verso i ragazzi.
«Posso chiederle di entrare un momento da me?».
Il giovane, stupito, continuava a spostare lo sguardo dal suo interlocutore alla farmacia:
«Mi scusate un attimo?...» disse ai suoi amici.
Li videro salire i gradini insieme, il conte e il ragazzo. La porta non si richiuse del tutto, e anche questa volta, dopo un po’, il pomello cominciò a girare. Non poteva durare a lungo. La gente era tentata di mettersi a contare i secondi. Si chiedevano se il rantolo non si fosse affievolito, poi videro il dottor Fauchon che si alzava e andava dietro il bancone a lavarsi le mani.
All’angolo della strada spuntò un’ambulanza. Non era difficile indovinare dove fosse diretta. Ma che diamine stavano facendo nella casa di fronte? La gente si ammassò sul marciapiede per lasciar passare l’autovettura con la croce rossa.
Finalmente la porta si aprì. Il giovane scese i gradini della scalinata, e a tutti parve che non si affrettasse abbastanza. Fece un cenno vago ai suoi amici, poi, chiedendo permesso, si aprì un varco tra la folla.
Quando spinse la porta della farmacia, si sentì tintinnare il campanello, e il medico gli corse incontro come per sbarrargli la strada. Da fuori si vedeva tutto: il dottore gli aveva preso la mano e la teneva nella sua mentre gli parlava in modo concitato. Non si sentivano le parole, ma si potevano intuire dal movimento delle labbra. Si capiva che il giovane voleva interromperlo per potersi avvicinare al corpo steso a terra, mentre il suo interlocutore cercava di guadagnare tempo.
Doveva guadagnare tempo, perché era una vista troppo penosa, perché quello strazio non era ancora finito, perché probabilmente era questione di minuti. Tant’è che facevano aspettare anche i due infermieri dell’ambulanza, che avevano tirato giù la barella.
Alla fine il dottor Fauchon lasciò la mano del ragazzo, che goffamente fece un passo, poi un altro, con lo sguardo rivolto a terra, come intimidito. Lo videro chinarsi, allungare un braccio, poi rialzarsi di colpo e restare lì immobile, alto e magro, tenendosi il cappello sulla pancia.
«È morto...» disse qualcuno fuori.
E tutti gli credettero. Alcuni uomini, che fino allora non avevano osato farlo, si accesero finalmente la pipa o la sigaretta, e le donne si decisero a portar via i bambini.
Il conte Adrien d’Estier, solo ai piedi della scalinata di casa sua, continuava a camminare su e giù. Dietro le tende della finestra illuminata al primo piano si intravedeva un viso.
«È morto...» riferì un cliente a Gabriel, al Café de Paris.
Qualcuno dei presenti lo sentì e lanciò un’occhiata al tavolo di Eugène Malou.
«Ce ne ha messo di tempo a morire... È stato orribile...».
Nella farmacia il dottore si rimise il pesante cappotto e prese per il braccio il giovane, che, dopo aver cercato debolmente di opporsi, si lasciò condurre via. Fauchon lo accompagnò fuori, facendogli strada tra la gente.
I due compagni di classe erano ancora lì. Passando, il ragazzo li riconobbe, perché se ne stavano un po’ in disparte, sotto un lampione a gas, e li salutò con un cenno della mano.
«Dobbiamo avvertire sua madre prima che portino il corpo...».
Il dottore sembrava sostenerlo, ma lui non ne aveva bisogno: camminava svelto, con lo sguardo perso, come se stesse sognando.
Così il dottore decise di non prendere la macchina. Del resto la casa era a due passi da lì. A mano a mano che scendevano, la strada diventava più buia, perché i negozi diminuivano. In fondo c’era solo una ditta di arredamento con una vetrina che nessuno si prendeva la briga di illuminare.
A un certo punto svoltarono a sinistra, per una via simile ma più stretta. In quello stesso momento il corpo di Eugène Malou veniva caricato sull’ambulanza, e il commissario di polizia, che non era nel suo ufficio quando avevano telefonato, arrivava trafelato sul posto.
«Mi raccomando, davanti a sua madre dovrà essere forte...».
Alain Malou non rispondeva, forse non ascoltava nemmeno. Non aveva pianto. Non aveva ancora detto niente.
Arrivarono in una piazzetta con un selciato di ciottoli e al centro una graziosa fontana rinascimentale. Con il buio, era calata una nebbiolina sottile che dava un aspetto ancora più dolce alle antiche pietre delle ville.
Le case, le cinque o sei case che si affacciavano sulla piazza, avevano tutte ampi portoni con ai lati le colonnine di pietra dell’epoca delle carrozze. Dietro le poche finestre illuminate, le luci erano così discrete da far pensare che fossero ancora quelle delle candele di un tempo. I passi risuonavano sul selciato, amplificati dall’eco.
I due uomini si fermarono davanti al portone, il dottore suonò, e il giovane rimase ad aspettare come se quella non fosse casa sua, come se si trovasse lì in visita.
«Forse non c’è nessuno...» mormorò, poiché tardavano ad aprire.
Il dottore suonò di nuovo, e finalmente all’interno si sentirono dei passi, una porta che sbatteva, qualcuno che camminava sotto l’androne, una catena che cigolava, finché il grosso battente cominciò ad arretrare.
«È lei, signor Alain...».
L’uomo indossava una divisa da maggiordomo, abito nero e cravatta bianca.
«Mi scusi... È in compagnia...».
Il dottore chiese:
«La signora Malou è in casa?».
«È uscita circa due ore fa...».
Il giovane se ne stava lì impalato, senza sapere cosa fare.
«Dovrebbe tornare a momenti. È andata dal parrucchiere...».
Fu il dottore a occuparsi degli aspetti pratici.
«Sarebbe meglio aprire entrambi i battenti del portone, in modo che l’ambulanza possa entrare».
«È successo qualcosa?».
«Il signor Malou è morto».
L’ambulanza stava già arrivando, e ci fu di nuovo una gran confusione. Innanzitutto si dovette aprire il portone. Il dottore chiese sottovoce al maggiordomo:
«Dove lo facciamo portare?».
Probabilmente al pianterreno c’erano delle grandi sale. Uno scalone a doppia rampa di legno scolpito conduceva al primo piano.
«Non possiamo metterlo dabbasso» sussurrò il domestico.
Aveva acceso solo poche luci, ma il dottore notò lo stesso i sigilli rossi sulle porte.
«Di sopra?».
«L’ufficiale giudiziario ha lasciato libere tre stanze...».
Gli infermieri salirono con la barella, che era stata coperta da un lenzuolo. La casa sembrava vuota, abbandonata. Il maggiordomo camminava davanti agli altri e di volta in volta girava gli interruttori.
Seguivano Alain e il dottore. Fauchon non era il medico di famiglia dei Malou. Era stato in quella casa solo di rado, due o tre volte, per delle urgenze.
«La cosa migliore è metterlo in camera sua...».
Ma quella era ancora la camera del defunto? Anche lì, sui vecchi armadi, campeggiavano i sigilli. In un angolo erano ammassati quadri e oggetti di ogni genere. Era difficile immaginare che, fino a poche ore prima, quella casa fosse abitata da una famiglia; non si riusciva a capire dove mai potesse vivere.
«Sua sorella?» chiese il dottore.
«Dovrebbe tornare oggi da Parigi...».
«E suo fratello Edgar?».
«È vero... Possiamo telefonargli in ufficio, in Prefettura».
«Prego, da questa parte...» fece il maggiordomo.
Il corpo di Eugène Malou era steso sul suo letto, sempre coperto da un lenzuolo. Gli infermieri sembravano in attesa di qualcosa. Il medico stava quasi per dire al giovane: «Bisognerebbe dargli una mancia...».
Ma alla fine preferì tirar fuori una banconota e metterla in mano a uno di loro.
Anche le altre stanze erano in disordine come alla vigilia di un trasloco: in giro si vedevano ceste in cui probabilmente era stata riposta la biancheria o l’argenteria, bauli, casse. Passarono in una sala da pranzo che invece era rimasta quasi intatta, e il maggiordomo accese il lampadario.
«Sua madre arriverà da un momento all’altro... Sa da quale parrucchiere va?».
«Da Francis...».
«Forse sarebbe meglio telefonare per prepararla».
«Lei crede?».
«Vuole che provi a chiamare?».
Il dottore telefonò. Gliela passarono, anche se forse in quel momento aveva la testa sotto un enorme casco a forma di siluro.
«Signora Malou?... Le passo suo figlio Alain...».
«Mamma?».
Parlava con una voce distaccata, senza calore.
«Sì, sono Alain... Sono a casa... Papà è morto...».
Rimase un momento in silenzio, riagganciò e guardò altrove, un punto qualsiasi, come se in quella casa, in quella famiglia, lui fosse un estraneo.
Il dottore, che voleva fare le cose per bene, chiamò la Prefettura e riuscì a farsi passare Edgar Malou, il primogenito.
«Glielo dica...».
«Edgar?... Sono Alain... Papà è morto... Come dici? Già lo sai?... Sì, è qui... L’hanno appena portato... Ho telefonato alla mamma che stava dal parrucchiere... Se vuoi... Non lo so. Lui non mi ha detto niente...».
Il rumore di una macchina nella piazzetta. Senza aspettare che bussassero alla porta, il maggiordomo scese al piano di sotto. Sentirono bisbigliare a lungo per le scale. I passi e le voci erano sempre più vicini.
«Dov’è Alain?».
«Nella saletta da pranzo, signora...».
Prima ancora di vederla avvertirono il suo profumo. Aveva una pelliccia gettata sulle spalle, i capelli fissati dalla permanente.
«Oh, mi scusi, dottore...».
«Sono io che devo scusarmi, signora... Mi hanno chiamato dalla farmacia e ho pensato che fosse meglio venire anche a casa...».
«E tu che ci facevi là, Alain?».
«Stavo tornando da scuola...».
«L’hai visto prima?... Ti ha detto qualcosa?... Dove l’hanno messo?».
«È in camera sua, signora... Sarebbe meglio che non lo vedesse in questo momento...».
Sembrava fragile, con i lineamenti morbidi di una donna di quarantacinque anni che si prende cura del suo aspetto, eppure non aveva avuto neanche un attimo di cedimento.
Dopo essersi guardata attorno con aria ansiosa, chiese:
«Che accadrà adesso?».
«Non lo so, signora. Penso che fra non molto arriverà il commissario di polizia per sbrigare qualche formalità...».
«Dove è successo?...».
«Per strada... Anzi, per l’esattezza davanti alla porta della villa dei d’Estier...».
«Tu ci capisci qualcosa, Alain?».
Poi, nervosa:
«È morto subito?...».
«Quasi subito...».
«Ha sofferto?».
Alain abbassò gli occhi senza fiatare.
«Si accomodi, dottore... Joseph non le ha offerto niente?».
«Non si preoccupi, le assicuro che non c’è bisogno...».
«Joseph...».
Joseph aveva capito e mise sul tavolo una piccola caraffa di acquavite e dei bicchieri.
«Fa molta impressione?».
Si era messa una sigaretta fra le labbra e cercava l’accendino nella borsa.
«Dovrebbe fare un po’ di fuoco nel camino, Joseph...».
Aveva i nervi a fior di pelle.
«E Corine che è a Parigi... Hai avvertito tuo fratello?».
Stavano di nuovo suonando alla porta. Era Edgar, il primogenito, che aveva avuto il tempo di passare da casa, in taxi, a prendere la moglie. In realtà sembrava che avessero avuto anche il tempo di cambiarsi d’abito, perché erano entrambi vestiti di nero dalla testa ai piedi.
Anche loro parlavano salendo le scale, chiedevano notizie al domestico. Ancora quella domanda:
«Dove l’hanno messo?».
Poi, con fare grave, Edgar, che aveva ventisette anni, si diresse verso la signora Malou, l’abbracciò e la tenne stretta per qualche secondo in silenzio.
«Povera mamma...».
«Povero Edgar...».
Gli occhi della signora Malou si velarono di lacrime, e il suo petto fu scosso da due o tre singhiozzi, dopodiché toccò alla nuora gettarsi fra le sue braccia.
«Coraggio, mamma...» le disse.
«Si sa almeno com’è successo?».
Edgar si girò verso suo fratello Alain.
«Tu c’eri?».
«Sono arrivato quando era già tutto finito... È stato il conte d’Estier a raccontarmi...».
«Vogliate scusarmi...» mormorò il dottor Fauchon, che si sentiva di troppo.
Lo ringraziarono.
«Un altro goccio di acquavite, dottore?».
Ma il dottore non vedeva l’ora di andarsene, di respirare un po’ d’aria fresca.
«Racconta...» disse Edgar a suo fratello.
«Non te lo immagini?».
«Racconta lo stesso... Diranno talmente tante balle, dobbiamo almeno sapere la verità...».
«Permettete, mamma...» disse sua moglie togliendosi il cappotto.
Alain aveva sempre quella sua espressione un po’ assente.
«Che cosa ti ha detto Estier?».
«Papà è andato a trovarlo...».
«Questo l’ho capito. Poi?».
«Gli ha chiesto un altro prestito...».
Il fratello maggiore, che era capufficio in Prefettura, arricciò le labbra.
«Ovviamente. Poi?».
«Ha detto che non ne poteva più, che era assurdo, che era stufo di trattare con gente che non capiva niente e che, siccome lo avevano portato all’esasperazione, preferiva farsi saltare le cervella...».
«E tu ci credi?» ironizzò il fratello.
Alain non rispose. Stava ancora in piedi accanto al tavolo ed era l’unico che non si era tolto il cappotto.
«Su, parla... Sai meglio di me che cosa voglio dire... Non è la prima volta...».
«È morto...».
«Sì, lo so... Ma come?».
«Pare che abbia preso la pistola dalla tasca...».
Alain parlava controvoglia, aveva lo sguardo sfuggente.
«Il conte l’ha spinto fuori e ha cercato di chiudere la porta... Ma papà l’ha bloccata con il piede... Nel momento in cui si è sparato Estier non lo vedeva...».
«Siamo in un bel guaio...».
«Papà è morto...».
«E voi siete messi male... E anche io, in realtà, mi chiedo se in Prefettura...».
Un’occhiata di sua moglie, una donna rosea e cicciottella, lo mise a tacere. Ma, quasi subito, riprese:
«Che pensate di fare, mamma?».
«E chi lo sa!».
«Soldi ne avete ancora?».
«No, lo sapete benissimo...».
«I gioielli...».
«Sono impegnati da tanto di quel tempo...».
«Mi chiedo» proseguì allora Edgar «come faremo a pagare il funerale... Un funerale costa caro, carissimo... Quest’anno, io e Marthe, abbiamo avuto un sacco di spese per la casa nuova e quindi non abbiamo potuto tenere da parte niente... Dov’è Corine?».
«È andata due giorni a Parigi da un’amica... Se non fa come l’ultima volta, dovrebbe tornare oggi...».
«Tanto lei che può fare?».
«E io allora?...» rispose la madre.
Qualcuno aveva suonato alla porta. Joseph entrò ad annunciare:
«È il commissario di polizia. Chiede di parlare con la signora».
Dove riceverlo? C’erano i sigilli dappertutto. La casa non era più una casa.
«Qui...» disse lei.
Buttò giù in fretta un sorso di acquavite e gettò la sigaretta nel camino, dove ardeva qualche ciocco di legno.
«Deve scusarmi, signora».
«Ma le pare, signor commissario... È stata una cosa così improvvisa, così atroce...».
«La prego di accettare le mie più sincere condoglianze... Per lei e per la sua famiglia così duramente provata... Mi vedo costretto...».
«Lo so... Ero da Francis, il mio parrucchiere, quando Alain mi ha telefonato... Credo che lui non si renda conto... È solo un ragazzo...».
Alain arrossì e si voltò verso il camino.
«Di certo saprà della campagna diffamatoria scatenata contro mio marito... Ma lui era abituato a lottare... Ero sicura che se la sarebbe cavata anche questa volta».
«Lei sapeva che aveva una pistola con sé?».
«Da quando lo conosco, ha sempre avuto questa abitudine... Anche di notte la teneva a portata di mano... Una fissazione che ho cercato inutilmente di togliergli... Di che cosa mai poteva avere paura?...».
«È questa l’arma, vero?».
«Credo... Sì... Le confesso che non ci ho mai fatto troppo caso, detesto tutto ciò che uccide...».
«Le sembra possibile o addirittura probabile che si sia suicidato?».
«Avrà avuto un momento di sconforto... Da qualche giorno era cupo, inquieto...».
«Per via degli attacchi del “Phare du Centre”?».
«Non lo so... Suppongo di sì...».
«Quando sono venuti a mettere i sigilli...».
«Sono venuti proprio stamattina... È stato gentilissimo con l’ufficiale giudiziario, è andato lui stesso in cantina a prendere una buona bottiglia per offrirgli da bere... Gli ha detto:
«“Non è la prima volta e probabilmente non sarà l’ultima...”.
«Ricordo che ha aggiunto:
«“Deve riconoscere che se nel mondo non ci fossero persone come me, lei non avrebbe di che tirare avanti... Insomma, noi siamo i migliori amici di voi ufficiali giudiziari...”.
«Faceva lo sbruffone, suppongo... Ha sempre fatto così... Perciò non mi aspettavo che succedesse una cosa del genere...».
Piangeva sommessamente, senza convinzione.
«Adesso mi impediscono di vederlo, dicono che per me sarebbe troppo impressionante... Che cosa succederà ora, signor commissario?... Ormai i ragazzi hanno solo me... Io non posseggo niente di mio... Qui hanno messo i sigilli dappertutto... Non so nemmeno dove trovare i soldi per farlo seppellire...».
Il commissario si voltò verso Edgar, che gli disse a mezza voce:
«Verrò da lei... Dobbiamo parlare...».
In fondo erano entrambi pubblici funzionari. In un certo senso erano colleghi.
«Non so ancora cosa succederà esattamente, signora. Per il momento devo solo scrivere un rapporto. Mi creda, mi dispiace di aver... di aver...».
Bene, almeno quella era fatta! Se ne andò indietreggiando, dopo aver lanciato un’occhiata complice a Edgar.
Ora erano rimasti tra di loro, in famiglia; Marthe, la nuora, disse in tono solenne:
«Bisogna assolutamente che la mamma mangi un boccone... Ce ne occuperemo io e Joseph... Ma la cuoca...».
«Julie se n’è andata ieri...».
«Ci pensiamo io e Joseph...».
Eugène Malou era solo, in quella camera con gli armadi sigillati, solo sotto il lenzuolo che gli nascondeva la faccia sfigurata.
«Mamma, mi chiedevo...».
«Siediti... Lo sai che mi dà fastidio parlare con una persona che cammina avanti e indietro...».
«Mi chiedevo se la polizza di assicurazione...».
«Tuo padre l’ha venduta il mese scorso, per cui non abbiamo proprio più niente su cui contare».
Alain uscì senza fare rumore. Non si curavano di lui. Gli altri due, Edgar e la signora Malou, erano seduti in poltrona davanti al fuoco, e lei si era accesa un’altra sigaretta.
Attraversò il corridoio ed entrò nella camera del padre, dove il freddo era pungente, perché già da tre giorni, per mancanza di carbone, il riscaldamento centrale era rimasto spento.
Non provò nemmeno a scoprire il viso di suo padre. Si sedette su una sedia bassa, accanto al letto, si prese le ginocchia tra le mani e rimase immobile, senza guardare niente, neppure il lenzuolo sotto il quale si intuiva la sagoma del morto.
Solo dopo un bel po’ sentì il suono del campanello, poi dei passi. Ma quei rumori appartenevano a un altro mondo, e non ci badò. Un’altra voce di donna, la voce di sua sorella. Non gliene importava niente. Non si rendeva neanche conto che era appena arrivata con il treno delle sette e venti, e che la stavano informando dell’accaduto.
Il suo nome risuonò nell’appartamento vuoto:
«Alain!... Alain!...».
Sentì aprire e richiudere la porta della sua vecchia stanza, poi sua cognata che diceva:
«Qui non c’è...».
Allora, per evitare che lo trovassero lì dov’era, si alzò, raddrizzò il suo corpo magro, rimase un attimo immobile, in piedi accanto al letto, muovendo le labbra come se stesse mormorando qualcosa, poi aprì la porta e gridò:
«Arrivo...».
La cena era servita in sala da pranzo, e nei momenti di silenzio si sentiva scorrere l’acqua nella fontana della piazzetta.