Introduzione
«Dove andiamo a mangiare questo fine settimana?» è la domanda ricorrente che aleggia prima di ogni uscita di gruppo con le mie amiche di Rimini. E se la risposta cambia ogni volta, il menù è sempre lo stesso: affettati misti per antipasto, tagliatelle al ragù, strozzapreti con la salsiccia, pappardelle al cinghiale, grigliata di carne, gratinati (verdure!), il tutto accompagnato dalla piadina. Con lo strutto, ovviamente. È così più o meno sempre, prima in motorino e poi in macchina abbiamo percorso in lungo e in largo l’entroterra romagnolo. A casa della mia famiglia, invece, in cucina c’è un gran mischione, o meglio, il risultato dell’incontro fra mia mamma che è inglese e mio papà che è umbro. Ma la quantità di prodotti di origine animale è la stessa. «È pronto il vostro piatto preferito!» urlava mia mamma, consapevole che bastasse quella formula per far sedere in un lampo me e mia sorella a tavola. Il piatto consisteva fondamentalmente in rigatoni con besciamella, ripassati al forno e con spruzzate di ketchup (scuserete il nostro sangue anglosassone). Mi leccavo i baffi quando mia mamma preparava il fegato di vitellone alla griglia o la lingua, sempre di vitello, in salsa verde. Per non parlare degli uccellini arrosto. Vi svelerò subito un segreto inconfessabile: mio papà è un cacciatore. Alla fine di ogni partita di caccia invita gli amici ad assaggiare il suo bottino, da mangiare rigorosamente con le mani (gli uccelli sono piccoli e pieni di ossicini) e a fine pasto è tutto un leccarsi le dita. L’unico inconveniente, che si supera facilmente con l’abitudine, è il frigorifero pieno di cadaverini con la testa penzolante, alcuni con le piume e altri già spiumati. Non è il massimo quando, per prendere lo yogurt che sta là dietro, devi farti strada fra quei corpicini. Vi risparmierò, invece, le ricette più sanguinarie di Natale e Pasqua.
Poi è arrivata l’università. E la vita da fuorisede, una casa in cinque e una cucina che gridava vendetta. Di peggio c’era solo quello che veniva cucinato. O meglio, che non veniva cucinato. I miei amici ancora mi prendono in giro per quei pasti al limite della sopravvivenza. La mia specialità era aprire la scatoletta di tonno insieme a quella di mais, e vuotare tutto nello stesso piatto. Questo succedeva quando ero di buona volontà. Altrimenti mangiavo direttamente dalla scatoletta della Simmenthal. Non so, mi sembrava buona anche la scatola. Ho passato molte sere davanti alla tv a mangiare il latte con i cereali, e da piccola bevevo anche un litro di latte al giorno. Quando capivo che ero arrivata al limite (nonostante le apparenze, ero dotata di un minimo di coscienza), andavo dal macellaio e compravo una bistecca, che pagavo circa sette euro. Era molto, lo consideravo il giusto prezzo per espiare i miei peccati alimentari. Sarà stato questo a farmi ammalare? O forse lo stress, con giornate che si dividevano in mille e più attività? Non lo so. Fatto sta che un giorno mi sono ritrovata letteralmente con un buco in testa, che ho scoperto solo dopo chiamarsi alopecia. Per un bel po’ di mesi non ho potuto fare la coda e andavo in giro con i capelli appiccicati alla faccia stile Marilyn Manson. In seguito ho sofferto di mal di pancia molto forti. E a Capodanno di qualche anno fa sono finita all’ospedale. Ricordo ancora gli infermieri entrare nella mia stanza: «Auguri! Vuoi lo spumante, il vino bianco o un goccino di grappa?». «Voglio solo la Tachipirina, e il prima possibile per piacere!» Quando sono arrivata avevo quarantadue di febbre; non immaginavo che la gente potesse sopravvivere a quelle temperature. Scoprirono poi che avevo un’infezione al rene.
Nulla di grave, fortunatamente. Ma non ero mai stata ricoverata all’ospedale prima, e quei cinque giorni rinchiusa nella stanza del reparto infettivi mi fecero dire che c’era qualcosa che non andava. Avevo bisogno di qualcosa di forte, che mettesse in discussione il mio stile di vita. Avevo letto da qualche parte che l’ultimo libro di Jonathan Safran Foer parlava degli allevamenti intensivi e della produzione della carne. Benissimo: sarei partita dall’alimentazione. Non potevo immaginare, però, che quel libro avrebbe in parte cambiato la mia vita. Da subito non riuscii più a toccare il pollo. È stato per un passaggio che mi prese direttamente allo stomaco. Ancora lo ricordo: le carcasse di pollo passano «in un enorme vascone d’acqua refrigerata, dove vengono raffreddate anche migliaia di carcasse contemporaneamente. Tom Devine, del Government Accountability Project, ha affermato che “l’acqua in questi vasconi è stata giustappunto soprannominata zuppa di feci per lo sporco e i batteri che vi navigano. Immergendo nello stesso vascone carcasse sane e pulite insieme a quelle sporche, in pratica stai garantendo la contaminazione incrociata”».1 Non sapevo se era così che producevano anche i polli che arrivavano sul mio piatto. Ma mi bastò sapere dell’esistenza di un simile processo, per essere schifata da tutto il pollo in circolazione.
Da quando lessi quel libro, cambiò in generale il mio modo di stare a tavola. Prima non sapevo, perché semplicemente non mi facevo domande. Per sapere come viene fatto quel fegato di vitellone, quel ragù con le tagliatelle, quella fetta di prosciutto, devi voler sapere. Ma per avere quella volontà devi associare il tuo piatto a qualcosa che c’era e che adesso non c’è più. Il costo del mio piatto, lo posso ritenere accettabile? Ma quello che mi sono chiesta, soprattutto, è stato: le aberranti pratiche di allevamento e macellazione raccontate nel libro Se niente importa, che mi avevano così tanto scossa, riguardavano solo gli Stati Uniti? O anche in Italia carne e formaggio venivano prodotti da animali malati chiusi nei capannoni, che vedevano il cielo solamente nel loro tragitto verso il macello?
Questo libro è frutto del mio viaggio, che è durato più di un anno e mezzo, alla ricerca delle risposte. Fra inchieste giudiziarie e incursioni notturne negli allevamenti. Scartabellando i documenti delle associazioni degli allevatori e le leggi, andando a conoscere chi ha scelto di combattere questo sistema di produzione e chi invece lo difende a spada tratta. Un viaggio dal quale mi sembra impossibile tornare indietro.