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Cosa ci fa davvero male

«La carne fa bene, non fa male. [...] Anche l’acqua ci può far male se ne abusiamo.»

Rolando Manfredini, responsabile sicurezza alimentare di Coldiretti1

L’antibiotico-resistenza

«Super batterio resiste a tutti gli antibiotici, colpita donna negli Usa.»2 Il 27 maggio 2016 i giornali titolano così, dopo che una donna ha contratto una forma di escherichia coli che non si può curare con nessun tipo di antibiotico in circolazione. Neppure con quello di ultimissima generazione, la colistina. Il direttore dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Usa, Thomas Frieden, ha dichiarato: «Può essere la fine per gli antibiotici, se non agiamo con urgenza».

Il direttore non voleva essere apocalittico o regalare frasi a effetto. Semplicemente, è scattata l’ora X che in tanti aspettavano (e temevano): ora sappiamo che circolano batteri che resistono a qualunque antibiotico. E che quindi non si possono curare. Ma è un problema solo degli Stati Uniti? Purtroppo no. «In Italia abbiamo frequentemente ceppi di un altro batterio, la Klebsiella, resistenti a tutto, compresa la colistina [...]. La mortalità per questi ceppi resistenti a tutto può arrivare al cinquanta per cento»3 ammonisce Annalisa Pantosti, dirigente di ricerca dell’Istituto superiore di sanità. E la mortalità è al cinquanta per cento anche per i pazienti che contraggono infezioni ospedaliere multiresistenti, cioè da batteri capaci di resistere a quasi tutti gli antibiotici in circolazione. Una vera e propria emergenza sanitaria, visto che in Italia ogni anno sono trecentomila i pazienti che in ospedale contraggono un’infezione.4

E i numeri sono in aumento: nell’ospedale San Martino di Genova dal 2008 al 2014 i casi di Klebsiella, un batterio ultraresistente, sono aumentati del trecento per cento. «La comparsa di batteri ultraresistenti ci riporta drammaticamente indietro di oltre mezzo secolo, ai tempi in cui non esistevano farmaci per trattare le infezioni, che erano un’importante causa di morte» ha commentato, laconico, il direttore del Laboratorio di microbiologia e virologia dell’ospedale Careggi di Firenze.5

Settecentomila persone muoiono ogni anno per antibiotico-resistenza. «Senza politiche attive che fermino la diffusione del fenomeno, [...] entro il 2050 potremmo arrivare a dieci milioni di morti l’anno, più delle persone che muoiono oggi per tumore.»6 Una persona ogni tre secondi. Non è uno scenario dipinto da qualche sito complottista, ma è il risultato del rapporto commissionato dal governo inglese a una squadra di esperti e che ha richiesto diciannove mesi di lavoro. A capo della squadra c’era Jim O’Neill, economista, che da ex presidente della Goldman Sachs Asset Management ha voluto precisare quanto ci costerebbe questo scenario apocalittico in termini di spesa sanitaria: centomila miliardi di dollari. Una cifra in realtà sottostimata, perché non tiene conto degli effetti secondari dell’antibiotico-resistenza, dai tagli cesarei ai trapianti di anca, dalle chemioterapie alle operazioni al fegato. Operazioni che potrebbero diventare pericolose, senza la possibilità di usare antibiotici efficaci. Ci dobbiamo preoccupare? Sì. E forse molto più di quanto abbiamo fatto finora. Ma cosa c’entra questa parentesi di terrorismo sanitario in un libro che parla di allevamenti intensivi?

Una pasticca a te, una a me

Una sezione del rapporto è dedicata all’uso degli antibiotici in agricoltura e nell’ambiente.7 Un uso destinato ad aumentare, come conseguenza della crescita economica e del consumo alimentare dei Paesi emergenti. Se consideriamo infatti solo Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, il consumo degli antibiotici raddoppierà da qui al 2030.8

In questa sezione, si spiega per esempio come l’uso degli antibiotici per gli animali da reddito sia «esteso», e che molti degli antibiotici usati negli allevamenti siano gli stessi usati dagli uomini. Anche quelli che oggi sono considerati l’ultima cura a disposizione.

Ma perché è pericoloso che gli animali consumino i nostri stessi antibiotici?

Serve fare un passo indietro, perché è importante capire come funziona l’antibiotico-resistenza. Un batterio può resistere all’azione dell’antibiotico da sempre, ma può anche sviluppare la resistenza in un momento successivo. La selezione naturale conserverà soltanto i batteri che resisteranno all’antibiotico e, data la riproduzione velocissima dei batteri, la resistenza si sviluppa in tempi molto brevi. La patologia diventa allora più difficile da trattare, perché ci saranno sempre meno farmaci in grado di curarla. Il decorso sarà più lungo, e nei casi più gravi la malattia porterà alla morte.

Più si usano gli antibiotici – negli animali e negli uomini – più aumentano i livelli di resistenza ai batteri.9 L’unica speranza, a quel punto, è di non venire infettati da batteri resistenti. Ma il rischio è altissimo: il modo più diretto è attraverso il contatto uomo-animale, che riguarda soprattutto la categoria degli allevatori; ma anche attraverso quello che mangiamo, soprattutto i prodotti di origine animale; e con un contatto, anche indiretto, con le feci degli animali, per esempio attraverso frutta, verdura o acqua contaminata.10

Fino al 2006 in Europa gli antibiotici erano usati come stimolatori della crescita degli animali, utilizzo poi vietato. Ma i numeri restano da capogiro. E l’Italia è in testa alle classifiche. Degli antibiotici oggi in commercio nel nostro Paese, il settanta per cento è destinato agli animali negli allevamenti.11 Solo Cipro e Spagna ci superano per consumo di milligrammi di antibiotici per chilo di animale; e siamo addirittura sopra gli Stati Uniti, nonostante lì sia ancora permesso usare gli antibiotici per stimolare la crescita degli animali.12

L’uso improprio dei medicinali veterinari è sanzionato con una multa salata.13 Evidentemente però se i numeri sono questi qualcosa non funziona. Il ministero della Salute avverte che «nella moderna zootecnia, la somministrazione routinaria di antimicrobici a tutti i gruppi di suini da ingrasso che giungono in allevamento non è tollerabile».14 Ma forse, oltre ai proclami, servirebbe un colpo di reni. Come ha fatto, per esempio, la Danimarca. Che già dal 1995 lavora per ridurre l’utilizzo di antibiotici negli allevamenti: nel giro di tredici anni l’uso negli allevamenti di maiali è diminuito del cinquantuno per cento, mentre per i polli addirittura del novanta. Un tracollo per l’industria? Niente affatto. Fra il 1992 e il 2008 la produzione suinicola è aumentata del quarantasette per cento, e anche quella dei polli è leggermente cresciuta. Si è ridotto il numero di allevamenti, però, perché secondo gli esperti sono rimasti in piedi soltanto quelli con buone pratiche, mentre gli altri sono stati costretti a chiudere. Oggi la Danimarca è uno dei più grandi esportatori al mondo di carne di maiale, tanto che viene venduto all’estero l’ottantacinque per cento del maiale che produce. E questo senza raggiungere neanche i cinquanta milligrammi di antibiotico per chilo di animale.

L’Italia tocca i trecento milligrammi per chilo.

Quanto resiste il made in Italy?

Seguendo le direttive di un piano coordinato a livello europeo, in Italia nel 2014 sono stati prelevati in macello 1267 campioni di intestino cieco. Sono risultati positivi alla salmonella spp. il dodici per cento dei campioni di polli e il ventisei per cento dei campioni di tacchini; positivi all’escherichia coli il novantacinque per cento dei campioni di polli e il novantatré per cento dei campioni di tacchini. Quanti di questi batteri erano resistenti agli antibiotici? Il settantotto per cento della salmonella spp. nei polli e il sessantanove per cento nei tacchini; il settantacinque per cento dell’escherichia coli nei polli e l’ottanta per cento nei tacchini. La conclusione è stata che «il monitoraggio dell’antimicrobico-resistenza nella produzione primaria avicola ha mostrato elevati tassi di multi-resistenza sia in isolati di escherichia coli che di salmonella spp.». Una buona notizia, però, ve la voglio dare: non è stata trovata «nessuna resistenza ai carbapenemi, importanti agenti antimicrobici in medicina umana, impiegati in casi di infezioni severe». Almeno quello. Il ministero della Salute, anche a fronte di questi dati, ha fissato un obiettivo: «la riduzione del consumo totale di antimicrobici del quindici per cento nel 2015 e del quaranta per cento nel triennio successivo».15

Ce la farà? Presto per dirlo. A vedere le disposizioni che ha dato, qualche dubbio è legittimo. Nel manuale Biosicurezza e uso corretto e razionale degli antibiotici in zootecnia, i tecnici del ministero spiegano che i «focolai di malattie sono spesso legati a un’alta concentrazione di soggetti allevati [...]. Il sovraffollamento può provocare un rapido aumento di concentrazione di organismi patogeni [...] presenti nell’ambiente. Questi organismi possono infettare o reinfettare i gruppi di animali in allevamento». Quindi? «La presenza di malattie negli allevamenti suinicoli può essere evitata adottando pratiche di gestione che riducano al minimo l’esposizione ai patogeni e allo stress e comprendano buone prassi di igiene». Sì, certo. Ma se avete letto le pagine precedenti, avrete capito che non è esattamente quello che avviene. E che i veterinari tendono spesso a chiudere un occhio. Facciamo pure due.

Anche i mangimi sono importanti, non solo per garantire agli animali «una dieta appropriata ed equilibrata», ma anche perché all’interno dei contenitori possono formarsi i batteri, quindi bisogna «pulire e disinfettare regolarmente». Eppure abbiamo visto che in gran parte degli allevamenti di suini in cui sono entrata nei mangimi confluivano le feci perché i contenitori non avevano una barriera adeguata. Anzi, spesso i contenitori non c’erano proprio, e il mangime veniva messo in una canalina. Dove appunto confluiva tutto. Per la felicità dei batteri.

Ovviamente occorre anche «tenere sotto controllo le infestazioni da ratti, topi, mosche», e anche «i cani e i gatti [devono stare] lontano dai suini».16 Peccato che non solo io abbia visto topi, talvolta anche sugli stessi maiali; in un paio di occasioni ho visto anche dei gatti (se ci sono i topi, non c’è da sorprendersi!). Ricordo ancora una sala parto dove ci accolse un gatto che si scaldava sotto una lampada, in mezzo ai suinetti appena nati. Sembrava lui la mamma, al posto della scrofa rinchiusa in gabbia.

Anche «una ventilazione adeguata degli edifici aiuterà a prevenire le malattie». Sì, di edifici spesso senza finestre e con ventole rotte.

Insomma, si enunciano buone prassi a fronte di cattive abitudini che persistono. E che sono pericolose, perché come segnala in maniera burocratica il manuale del ministero, «la diffusione della resistenza agli antibiotici provoca fallimenti terapeutici, tassi di ospedalizzazione maggiore, più morti e più elevati costi per la sanità pubblica».

Il rapporto inglese da cui siamo partiti, quello che prevede dieci milioni di morti l’anno, ha scelto invece un tono più risoluto: i Paesi devono accordarsi per restringere o persino vietare agli animali l’uso degli antibiotici che sono importanti per gli umani.17 Perché, solo per fare un esempio, dei quarantuno antibiotici autorizzati alla vendita per animali negli Stati Uniti nel 2012, trentuno sono classificati come importanti per la salute umana.

Prima che i governi riescano a imporre un divieto così draconiano, potrebbero intanto incentivare buone pratiche. Come quella dei vaccini, che protegge «gli animali contro le infezioni batteriche, riducendo la necessità [di cure con] antibiotico». Perché non si fa? Principalmente per una questione di costi. Potete immaginarvi cosa vorrebbe dire vaccinare un capannone di ventimila polli? Il rapporto propone allora di alzare il costo degli antibiotici con la leva fiscale, per rendere più conveniente il vaccino. E se si preferisce una soluzione a costo zero, basterebbe puntare sulla trasparenza e obbligare i produttori alimentari a scrivere in etichetta gli antibiotici utilizzati per produrre quell’hamburger o quel litro di latte. Così i consumatori avrebbero modo di scegliere. Sulla carta sembra facile. Ma ve lo immaginate il ministro che comunica ai produttori tale decisione? Sono caduti governi per molto meno!

Alexander Fleming, l’inventore della penicillina, ci aveva già avvertito durante il suo discorso per l’accettazione del premio Nobel: «C’è un pericolo. Che l’uomo ignorante usi una quantità inferiore di antibiotico; esponendo i suoi microbi a quantità non letali li farà diventare resistenti».18 Era il 1945, e Fleming probabilmente non immaginava che la sua invenzione sarebbe stata usata più per gli animali degli allevamenti che non per gli uomini da curare. Ma già adombrava il pericolo. In Italia oggi sono cinquemila i morti ogni anno per antibiotico-resistenza. Che cifra dobbiamo raggiungere perché suoni il campanello d’allarme: diecimila? Cinquantamila? Mezzo milione?

La carne fa male?

La Romagna, dove sono nata e cresciuta, è una delle regioni con maggiore incidenza di tumore allo stomaco: 29 casi ogni 100.000 uomini, 15 casi ogni 100.000 donne. Quattro volte di più dell’Italia del Centrosud. Un primato che varca i confini italiani: alla Romagna spetta uno dei tassi più alti del mondo occidentale.19 Perché? «Il basso consumo di verdura e frutta e l’alto consumo di carni rosse, di cibi conservati con sale, nitrati e affumicatura sono associati a un aumento del rischio.»20 Quindi salsiccia, prosciutto, mortadella, salame, salamini e salamelle, di cui dalle mie parti vanno ghiotti. Grazie anche al lavoro fatto dai medici contro quella che veniva considerata una vera e propria epidemia, l’incidenza oggi è in diminuzione. Ma il tumore allo stomaco in Italia continua a essere la quinta causa di morte per cancro.21 Preceduto dal tumore al colon-retto, il secondo più frequente in assoluto, che è stato alla base del polverone di polemiche che si è abbattuto sull’Organizzazione mondiale della Sanità, quando ha classificato la carne lavorata come «cancerogena per gli umani, sulla base di evidenze sufficienti che il consumo negli umani della carne lavorata causa il cancro al colon-retto».22 Gli esperti dell’OMS hanno tradotto questo rapporto in una formula matematica: «Ogni 50 grammi di carne lavorata al giorno aumenta il rischio di contrarre il tumore al colon-retto del 18 per cento». Cosa si intende per carni lavorate? Salate, essiccate, fermentate, affumicate, trattate con conservanti per migliorarne il sapore o la conservazione; come «gli hot dog, il prosciutto, le salsicce, la carne in scatola, i sughi con la carne».23 Gli esperti hanno trovato anche un «legame [...] fra il consumo di carne lavorata e il tumore allo stomaco»,24 legame che spiegherebbe anche l’epidemia mortale fra i mangiatori di piada col prosciutto e salamini della Romagna.

Il rapporto dell’OMS, però, ha fatto tanto arrabbiare perché non si è fermato agli insaccati, da tempo sotto osservazione. Ma ha tirato in ballo anche la carne rossa, cioè la carne di manzo, di vitello, di maiale, di agnello, di montone, di cavallo e capra, inserendola nella categoria degli elementi «probabilmente cancerogeni per gli uomini». Legame osservato «soprattutto per il cancro al colon-retto, ma anche per il cancro al pancreas e quello alla prostata».25 Tumore, quest’ultimo, che è un vero e proprio incubo per gli uomini visto che per loro è il più diagnosticato in assoluto.26

Come ha fatto l’OMS ad arrivare a queste conclusioni? Il gruppo di lavoro dello IARC, l’Agenzia dell’ONU per la ricerca sul cancro, ha messo insieme ventidue esperti da dieci Paesi diversi, che hanno rivisto ben ottocento studi sul legame fra oltre una decina di tumori e il consumo di carne rossa o lavorata. Gli studi riguardavano una serie di Paesi e popolazioni con diversi tipi di alimentazione.

Anche EPIC, la ricerca europea che ha studiato il rapporto fra cancro e nutrizione – una delle più estese nel suo genere: 521.000 partecipanti di dieci diversi Paesi europei seguiti per quasi quindici anni27 – ha confermato il rapporto fra consumo di carne rossa e lavorata e tumore al colon-retto.28, 29

EPIC ha chiarito che «non ci sono meccanismi biologici chiaramente dimostrati che spieghino il perché sia più forte il legame fra carne lavorata e tumore al colon-retto rispetto alla carne rossa».30 Potrebbero essere i nitriti e nitrati, aggiunti alla carne per la sua conservazione, a dare luogo alla formazione delle nistrosammine. Che sono sostanze cancerogene, che inducono l’infiammazione delle pareti intestinali. Che si produrrebbero anche durante alcuni tipi di cottura della carne rossa, come quella alla brace. Infatti la carne è rossa perché nei tessuti vi sono due proteine: l’emoglobina e la mioglobina. Tutte e due contengono la molecola detta gruppo eme, che al centro ha un atomo di ferro. È a livello dell’intestino che il gruppo eme stimola la produzione delle nitrosammine. «Un’infiammazione prolungata nel tempo, dovuta a una massiccia ingestione di carne rossa, aumenta le probabilità di sviluppare tumori al colon-retto.»31 Per le carni lavorate, lo studio EPIC ha tradotto la pericolosità in una formula: le morti premature legate alla carne lavorata potrebbero essere ridotte del tre per cento ogni anno se le persone non ne consumassero più di venti grammi al giorno.32

Non è finita qui: «Gli epidemiologi concordano sul fatto che gli individui che seguono diete ricche di proteine animali, soprattutto carni rosse e lavorate, hanno un maggiore rischio di sviluppare patologie come diabete, infarto e problemi cardiovascolari, obesità», e oltre al cancro al colon-retto, anche «alcuni tumori ormone-dipendenti, come quello al seno, alla prostata e all’endometrio».33 Uno studio su centoventimila uomini e donne ha dimostrato che per ogni consumo di ottantacinque grammi di carne rossa in più al giorno, il rischio di morire per malattie cardiovascolari aumenta del tredici per cento. Per la carne rossa lavorata, invece, bastano quarantadue grammi per aumentare il rischio del venti per cento.34 Le pagine di questo libro non sarebbero sufficienti, se dovessi citare tutti gli studi autorevoli e dati per assodato dalla comunità scientifica che vanno in questa direzione. Nel presentare i risultati della loro analisi, i ricercatori dell’OMS hanno detto che mai nella storia dell’umanità si è consumata così tanta carne e in modo così diffuso. Ci sono quindi i margini per ridurne il consumo.35

Appello accolto dalle nostre autorità di salute pubblica e operatori del settore, giusto?

Uniamoci al fronte!

«Noi come Italia proponiamo la dieta mediterranea, che ha già in sé tutte le caratteristiche per una vita salubre.» Così ha risposto all’uscita della ricerca dell’OMS la ministra della Salute Lorenzin.36 E ha rassicurato: «La nostra dieta ha un apporto equilibrato di nutrimenti freschi e di tutte le componenti nutrizionali». Le ha dato man forte Maurizio Martina, ministro dell’Agricoltura: «In Italia abbiamo i più alti standard qualitativi e di sicurezza a livello mondiale sulla produzione e lavorazione di carni».37 Capito? Addirittura gli standard di sicurezza più alti «a livello mondiale». Mi tornano in mente le pagine precedenti. Vabbè, guardiamo avanti.

In difesa del tipo di alimentazione degli italiani si schiera anche il presidente della Coldiretti, associazione che tutela allevatori e agricoltori: «Nel nostro Paese i modelli di consumo di carne si collocano perfettamente all’interno della dieta mediterranea, fondata su un’alimentazione che si basa su prodotti locali, stagionali, freschi».38 Della stessa linea Assica-Assocarni, l’associazione che rappresenta l’industria della carne: «Gli italiani mangiano in media due volte la settimana cento grammi di carne rossa (e non tutti i giorni) e solo venticinque grammi al giorno di carne trasformata». La conclusione, quindi, è che il dato dell’OMS è «superiore al doppio della media del consumo in Italia».39 E la Coldiretti torna sull’argomento per rimarcare la differenza della materia prima: «Gli animali allevati in Italia non sono uguali a quelli allevati in altri Paesi». In che senso? Sono meglio? E va bene, prendiamo pure questa per buona. Anche perché sempre la Coldiretti sottolinea che «i cibi sotto accusa come hot dog, bacon e affumicati non fanno parte della tradizione italiana». Sì, certo, siamo d’accordo. Ma prosciutto, salame e insaccati invece sì! Prendiamo solo la parte che più ci piace della lista dei cibi incriminati?

Al giorno due dall’uscita della ricerca, il nostro fronte si fa ancora più compatto. Prima interviene Confagricoltura, che mette in guardia: «Si sta facendo una pericolosa caccia alla streghe».40 Ordita da chi, esattamente? Non c’è tempo per rispondere, anche perché è in gioco l’economia italiana: «I falsi allarmi lanciati sulla carne mettono a rischio centottantamila posti di lavoro, in un settore chiave del made in Italy a tavola che vale da solo trentadue miliardi di euro», tuona il presidente della Coldiretti.41 Tocca alla ministra Lorenzin intervenire nuovamente, nel tentativo di calmare le acque: «Io mi alimento in modo equilibrato mangiando tutto, anche la carne rossa, che tra l’altro mi serve per tenermi su e per il contenuto di ferro». C’è una formula magica per far quadrare tutto: «Basta rispettare la dieta mediterranea».42 Ma la «psicosi» generata dall’OMS ha già fatto crollare «del venti per cento» i consumi dall’uscita della ricerca.43 Serve quindi il parere dell’esperto. Chi meglio di Giorgio Calabrese, il rassicurante professore con capelli e baffi bianchi, che ha la poltroncina prenotata nel salotto di Porta a porta ogni volta che si parla di alimentazione? «L’OMS esagera, pubblica notizie difformi dalla realtà. Hanno elaborato un rapporto che si basa su indicazioni di abitudini alimentari anglosassoni in cui non è contemplata la dieta mediterranea.»44

Tutto questo sarà servito a calmare il povero consumatore, che in preda al panico non sa più se entrare nella sua macelleria di fiducia o in un esotico negozio vegano? Forse no. E allora viene chiamato al fronte l’intellettuale, incaricato di elaborare una cornice teorica per il periodo che stiamo vivendo. E sotto il titolo Carne diem, Camillo Langone con i lettori del «Foglio» tira in ballo «la crisi del cristianesimo», perché è stato Cristo, «vero Dio e vero uomo», mangiatore di carne e oppositore dei divieti alimentari, il vero «fondatore dell’onnivorismo»; e non può mancare nemmeno la «crisi dell’uomo moderno», che ci sta sempre bene. Dopo tanta fatica filosofica, chiosa: «Per chi credeva fosse una faccenda di wurstel».45 A questo punto sono ben pochi a crederlo; e a quei pochi rimasti si rivolge il presidente dell’Istituto superiore di Sanità: «Un hot dog ogni tanto non ammazza nessuno».46

Al fronte italiano si unisce quello europeo, non si capisce quanto consapevolmente. Perché, a guardarlo così, sembra uno scherzo. A quattro giorni dall’uscita dell’OMS, il parlamento europeo vota in favore dei novel foods, «i cibi del futuro che ci permetteranno di nutrirci meglio e inquinare meno». Porte aperte della cucina, quindi, a insetti, come «mosche, vermi, grilli e bachi da seta», e «bistecche in provetta e animali clonati».47 L’armata dei media, in prima linea sul fronte, non aspettava altro: Al posto della fiorentina ci servono gli scorpioni, titola «Libero» in prima pagina.48 Mentre «La Stampa» sferra la sua artiglieria contro l’agenzia che ha pubblicato i dati: «Allarmi infondati, conflitti d’interesse. L’altra faccia imbarazzante dell’OMS».49

La genialata, però, è della Federazione italiana dell’industria alimentare, che annuncia di voler citare per danni l’OMS, «per la grave impudenza dimostrata nella comunicazione relativa allo studio sulle carni rosse o trasformate, non corrispondente agli elementi certi a disposizione».50 L’ultima parola, quella definitiva, spetta però alla Lorenzin, che sceglie il «Corriere della Sera» per mettere la parola fine alla vicenda: «Un conto è dire che mangiare troppa carne, o bruciacchiata sulla brace, può aumentare i rischi, un conto è dire che consumare le carni rosse è pericoloso. Noi abbiamo la tracciabilità dei prodotti, il divieto di somministrare antibiotici. Altri Paesi no». Tralasciando il fatto che per difendere la carne italiana, non tirerei in ballo proprio gli antibiotici, visto che nel settore quasi deteniamo il record, la domanda è: cosa c’entrano gli antibiotici con il tumore al colon-retto? Non c’è spazio per fare domande, perché la ministra deve lanciare «un appello agli italiani»: «Affidiamoci alla Dieta Mediterranea».51

Viva la dieta mediterranea! Sì, ma quale?

Ma che diavolo è questa «Dieta Mediterranea»?

Dobbiamo tornare agli anni Cinquanta, quando uno studioso americano finì a Rofrano, nel Cilento, e rimase colpito dalla bassa incidenza delle malattie cardiovascolari della popolazione. La sua intuizione fu associare questa fortunata condizione all’alimentazione basata su pasta, pane, legumi, verdure, olio di oliva, frutta e vino. Che sono di conseguenza diventati gli ingredienti alla base della «dieta mediterranea», formulata da Keys nel corso degli anni in cui trasferì il suo quartier generale a Pioppi, sempre nel Cilento. E che anche grazie a lui oggi è patrimonio dell’umanità riconosciuta dall’UNESCO. E i prodotti di origine animale, come formaggio, carne e pesce? Il consumo era molto ridotto, come lo era anche il consumo alimentare in generale. Negli anni Cinquanta il consumo di alimenti della popolazione italiana era di trecentocinquanta-quattrocento chili procapite annui; di questi, il consumo dei prodotti di origine animale era intorno agli ottanta-cento chili. Quanti di questi erano di carne? Venticinque.52 E oggi? Mangiamo praticamente il doppio, con un consumo degli alimenti che si attesta intorno ai settecento-ottocento chili a testa, facendo una vita molto più sedentaria di allora. Ma il dato che più colpisce è il consumo di carne, che è più che triplicato: tocchiamo i novantadue chili a testa.

Quando parliamo di dieta mediterranea, parliamo di quella del passato o di quella di oggi? A vedere il portale ufficiale della dieta mediterranea, si direbbe quella del passato. Dove «gli alimenti alla base della Dieta Mediterranea», in maiuscolo, sono «pane, pasta, verdure, legumi, frutta fresca e secca, ma anche carni bianche, pesce, latticini, uova, olio d’oliva e vino». In pratica «un modello alimentare sano ed equilibrato fondato prevalentemente su cibi di origine vegetale».53 In cui la carne rossa e lavorata non è neppure contemplata Invece oggi, con i nostri novantadue chili a testa, siamo di poco sotto alla soglia dell’eurozona, che è di novantotto chili. E ne consumiamo più di tedeschi (ottantanove) e britannici (settantotto)!54 Oltretutto, della carne consumata dagli italiani oggi, due terzi sono di maiale e bovino,55 quindi carne rossa. Basta fare un rapido calcolo, e viene fuori che a testa consumiamo duecentocinquantadue grammi di carne al giorno. 1,7 chili a settimana!

Ma come, non eravamo quelli che non dovevano preoccuparsi? L’associazione dell’industria della carne, che dopo l’allarme dell’OMS si è prodigata in comunicati stampa per dire quanta poca carne mangino gli italiani, in altri tempi comunicava tutt’altri contenuti e previsioni. Durante un convegno di Assocarni, infatti, fu proprio Luigi Cremonini, leader della carne bovina e all’epoca presidente dell’associazione, ad annunciare che l’hamburger in Italia stava «prendendo piede». La strada da fare era ancora lunga, visto che mentre negli Stati Uniti ben il cinquanta per cento del consumo di carne bovina era «rappresentato da hamburger, in Italia la quota» si fermava «al cinque per cento». Ma il presidente era fiducioso: «L’Italia recepisce con ritardo abitudini che si sviluppano all’estero e che vengono soprattutto dagli Stati Uniti. Inizialmente fa un po’ di resistenza, ma poi si verifica un’esplosione».56 E forse l’esplosione già c’è stata, se è vero come dice il professore Antonino De Lorenzo, uno dei massimi esperti del settore, che la dieta mediterranea «è praticata appena dal dieci per cento degli italiani».57 Per la maggior parte di loro, quindi, «non è più la dieta di riferimento». La conseguenza è che oggi ingeriamo più calorie: «quattrocento al giorno in più di quanto è raccomandabile».

Dove abbiamo messo le calorie in più?

Un popolo di (futuri) obesi

In Italia quasi una persona su due è in eccesso di peso: il trentacinque per cento è in sovrappeso, mentre quasi il dieci per cento è obeso.58 La regione che detiene il record assoluto è il Molise (cinquantadue per cento di persone in eccesso di peso), seguita dalla Campania (cinquantun per cento). Eh sì, proprio la regione dov’è nata la Dieta Mediterranea! In generale al Sud un abitante su due ha chili di troppo, mentre al Nord la quota si abbassa a poco più del quaranta per cento. Non siamo ancora ai livelli degli Stati Uniti, dove gli obesi sono il trenta per cento della popolazione, e siamo sotto la media europea.59 Il problema, però, è che da noi il fenomeno è in crescita.60 Quindi sono in crescita anche le malattie collegate all’obesità: il ventisei per cento degli obesi soffre di asma, il quarantaquattro di artrite, il cinquantuno di ipertensione, il cinquantadue di cancro. Già, il cancro. Secondo il presidente della Società italiana di chirurgia dell’obesità, l’obesità «è un fattore di rischio per il cancro alla stregua del fumo di sigarette».61

Che c’entra l’obesità con tutto quello di cui abbiamo parlato finora? C’entra, perché se siamo più grassi non è solo perché ci muoviamo meno e mangiamo più zuccheri, ma anche perché mangiamo più carne. I ricercatori della Scuola di salute pubblica di Harvard hanno seguito dieta e stile di vita di centoventimila uomini e donne per vent’anni. Quelli che mangiavano più carne rossa e carne lavorata prendevano più peso, circa mezzo chilo in più ogni quattro anni, mentre quelli che mangiavano più noci prendevano meno peso, circa mezzo chilo in meno ogni quattro anni.62

Il problema è anche che le colpe dei padri ricadono sui figli. Secondo l’ISTAT, se entrambi i genitori sono in sovrappeso, la percentuale di giovani nella stessa condizione è del trenta per cento; scende al sedici se entrambi i genitori sono normopeso. Stiamo condannando i nostri figli a essere grassi: considerando i ragazzini di tredici anni, l’Italia è al quarto posto in Europa per sovrappeso, dopo Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna.63 I nostri bambini mangiano troppe merendine, bevono bevande zuccherate e gassate e il ventidue per cento dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta o verdura.64 Secondo il professor Valerio Nobili, esperto in obesità infantile, fra il settanta e l’ottanta per cento dei bambini obesi rimane obeso anche da adulto.65 Per non parlare dei problemi dei bambini in sovrappeso: spesso hanno alti livelli di colesterolo, condizione che può aprire le porte a molte malattie mortali; la probabilità di ipertensione è nove volte superiore; uno su dieci soffre di apnea notturna, che può causare problemi neurocognitivi;66 il quindici per cento dei bambini italiani soffre di steatosi epatica, comunemente chiamato fegato grasso;67 e si sta diffondendo sempre più anche fra i bambini una malattia che un tempo era prerogativa degli adulti, il diabete di tipo 2.68 Non sorprende, quindi, che il professor Docimo prevede che fra duecento anni in Italia saremo tutti obesi.69 A quel punto, però, ci sarebbe «un’esplosione» – per citare Cremonini – del sistema sanitario oltre che della salute degli italiani, visto che la spesa sanitaria sostenuta da un obeso è in media un quarto più alta di chi è normopeso. Già oggi il costo dell’obesità rappresenta oltre il sei per cento della spesa sanitaria totale nel nostro Paese. Se andremo avanti così, nel 2050 un decimo del PIL andrà a coprire i costi dell’obesità.70

È vero che siamo fra i popoli più longevi al mondo. Ma quelli che hanno ottant’anni oggi sono fra i pochi che hanno davvero praticato la Dieta Mediterranea. Come ci arriveremo noi a ottant’anni? E se continueremo a mangiare così – considerato che in Italia si stima siano cinquantaduemila71 i decessi ogni anno legati direttamente o indirettamente a un’alimentazione eccessiva o sbagliata – ci arriveremo?

E il latte?

Ricordate quando la mamma vi diceva di bere un bicchiere di latte al giorno, per avere le ossa più forti? Ecco, scordatevelo. Non è vero che il latte ci aiuta a prevenire le fratture ossee. O meglio, i più recenti studi dicono che le donne che assumono il latte quotidianamente hanno lo stesso rischio di sviluppare fratture ossee di chi non lo beve.72 E infatti, nonostante negli Stati Uniti vi sia uno dei più alti consumi di latte vaccino, fra le americane dai cinquant’anni in su si registra uno dei tassi più elevati di fratture all’anca a livello mondiale.73 Un tasso eccessivo di fratture all’anca è spesso utilizzato come indicatore attendibile di osteoporosi, la malattia delle ossa che colpisce soprattutto le donne in post menopausa. Uno studio dell’Università di Yale, che analizza il rapporto fra consumo di proteine animali e tasso di fratture ossee in donne di diversi Paesi, ha addirittura trovato che un settanta per cento dei tassi di frattura era attribuibile al consumo di proteine animali.74 Secondo i ricercatori, le proteine animali aumentano il carico acido nell’organismo, che comincia a combatterlo servendosi del calcio. Dove va a prenderlo? Dalle nostre ossa, che di conseguenza sono indebolite dalla perdita di calcio e sono esposte quindi al rischio di frattura. L’Università della California a San Francisco ha scoperto invece che un elevato consumo di proteine vegetali è associato alla sparizione delle fratture ossee. Come spiega però la Scuola di salute pubblica di Harvard, l’area di ricerca legata all’osteoporosi è ancora controversa, e i risultati delle ricerche non sono consistenti.75

Esiste un rapporto fra latte e tumori? Anche qui i «dati disponibili sono incoerenti e incompleti»,76 ma sono emerse diverse prove a testimonianza di un probabile ruolo protettivo del latte e dei suoi derivati rispetto al tumore al colon-retto. Stessa cosa sembra valere per il tumore alla vescica.77

Al contrario, i consumatori di dosi elevate di derivati del latte avrebbero un rischio maggiore di sviluppare il tumore alla prostata: una ricerca condotta a Harvard ha concluso che gli uomini che consumano grandi quantità di latticini hanno il doppio del rischio di cancro alla prostata, e un rischio di metastasi o di mortalità quattro volte maggiore rispetto ai consumatori di quantità ridotte.78 Per quanto riguarda invece il tumore al seno, che in Italia colpisce quarantottomila donne l’anno, occorre fare una distinzione: il latte avrebbe un moderato effetto protettivo nelle donne di età superiore ai quarantacinque anni; mentre sarebbe da sconsigliare a quelle già colpite, perché aumenterebbe il rischio di ricaduta a causa degli estrogeni presenti nel grasso animale.79

A finire sul banco degli imputati, soprattutto grazie al libro The China Study, è stata la caseina, una proteina contenuta nel latte. Per l’autore T. Colin Campbell, professore emerito di nutrizione e biochimica della Cornell University, la caseina sarebbe un fertilizzante per il cancro. Il professore è arrivato a queste conclusioni incrociando i dati emersi dall’indagine avviata in Cina su scala nazionale negli anni Ottanta. Dall’indagine era emerso un atlante del cancro della popolazione cinese, a cui Campbell e altri ricercatori hanno attinto per verificare il nesso fra determinati cibi, il tumore e le malattie cardiovascolari. Alcune «malattie del benessere», come le chiama l’autore – infarto, ictus, ipertensione, cancro della mammella, della prostata e del polmone, diabete e osteoporosi – sono legate principalmente alla carne, ai latticini e ai grassi di origine animale. Malattie del benessere di cui gli americani sono vittime, mentre i cinesi, con una dieta prevalentemente vegetale e una vita poco sedentaria, sono quasi esenti. Per fare un esempio fra i tanti: le donne americane si ammalerebbero di cancro al seno cinque volte di più delle cinesi.

Benché la maggioranza di questi dati sia stata confermata anche da altri studi, come il già citato EPIC, sulla testa del professor Campbell è piovuta una valanga di critiche. Innanzitutto perché, anziché pubblicare i risultati su una rivista scientifica sottoposta a peer review, rendendo così possibile il controllo da parte di altri ricercatori, ha preferito pubblicare un libro.80 Poi perché il metodo utilizzato per legare le possibili cause agli effetti è stato giudicato statisticamente discutibile. Infine, «ciò che la comunità scientifica ha trovato scarsamente dimostrato è il fatto che, secondo questi calcoli, il consumo anche di piccolissime quantità di grassi e proteine animali (compresi quelli provenienti dai latticini, indicati come particolarmente pericolosi), porterebbe a un incremento importante del rischio». Questa è «una differenza notevole rispetto agli altri studi epidemiologici», come fa notare l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro in una sua nota, «che hanno mostrato un aumento sì del rischio, ma graduale, tale da consentire un consumo ragionevole di questi alimenti».81

I limiti dello studio non hanno però impedito al professor Umberto Veronesi di dire che «l’evidenza scientifica emersa suggerisce che la concezione occidentale di dieta sia da rivedere radicalmente, e che ci siano ben pochi dubbi che l’alimentazione corretta sia quella basata sui vegetali, come è la tradizione cinese». Dieta che prevede soltanto quattro grammi di proteine animali al giorno, contro i settantuno dell’alimentazione occidentale.

Il professor Campbell ha tirato conclusioni ben più estreme: ha optato per un’alimentazione completamente vegana, rinunciando a tutti i prodotti di origine animale, latte e derivati inclusi. E non solo: l’ha adottata per sé, per la sua famiglia e anche per personalità del calibro di Bill Clinton, che si è rivolto a lui a seguito di un’operazione al cuore nel 2010. E che a distanza di sei anni dal drastico cambio alimentare, dice: «Forse non sarei più qui se non fossi diventato vegano. Ho molta più energia, non mi fermo mai. È fantastico».82

Vegetariani o vegani?

«Una dieta vegetariana aiuta a prevenire il cancro: questa è, ormai, una teoria condivisa da medici e scienziati di tutto il mondo.» Così scrive la Fondazione Veronesi in uno dei suoi quaderni della salute.83 «Una dieta appropriata, unitamente a un’adeguata attività fisica, riduce il rischio di cancro di circa un terzo.» E non solo: i vegetariani «hanno il quarantacinque per cento di probabilità in meno di ammalarsi di leucemia» rispetto a chi consuma abitualmente la carne, hanno in genere valori del colesterolo più bassi, meno possibilità di ammalarsi di malattie cardiovascolari, pressione arteriosa più bassa. Una dieta a base vegetale, ricca di frutta, verdura, legumi e cereali e povera di grassi saturi e zuccheri semplici, rappresenta la migliore prescrizione per i malati di diabete.84

Senza latte e formaggi, i vegani da dove prendono il calcio? Dalla soia, dai ceci, dai fagioli, dalla verdura a foglia verde e della famiglia del cavolo, dal pane al malto, dal muesli e dal grano saraceno, dalla crusca di frumento, da mandorle, noci, pistacchi, fichi secchi, nocciole. Per metabolizzare il calcio abbiamo bisogno della vitamina D e per quello basta mettersi al sole, anche solo per mezz’ora due o tre volte alla settimana. E il ferro, di cui la carne è ricca? «Gli scienziati sono concordi nell’affermare che il miglior ferro possibile è presente nel mondo vegetale, nelle foglie verdi, nel succo fresco di carote, nei complessi multicereali come il muesli.»85 Per assimilarlo al meglio basta associargli la vitamina C, che aumenta circa del trenta per cento l’assorbimento del minerale. Per esempio spremendo il limone sugli spinaci.

I vegetali hanno addirittura il potere di prevenire il cancro. Perché contengono il licopene, una sostanza che protegge l’organismo dai rischi di tumore, presente in grandi quantità nel pomodoro; se cotto, come per esempio nel sugo per la pasta, ne produce fino a cinque volte di più.86

Veronesi ha stilato una lista degli alimenti che svolgono questa funzione protettiva: oltre ai pomodori anche «i broccoli, le arance, la zucca, i cavoli, i fagiolini verdi, la carota, le verdure a foglia verde, i legumi, l’aglio, la cipolla, i piselli, i peperoni, le patate, i cetrioli, il prezzemolo, i finocchi, gli asparagi, i carciofi, i funghi, i ravanelli, le erbe aromatiche. E poi le fragole, le albicocche, i lamponi, l’uva, il melone, l’anguria, i mirtilli, le castagne. Ancora: il tè verde, lo yogurt, i crostacei, i molluschi, il pesce in generale, l’olio d’oliva».87

Il futuro è della nutrigenomica, la scienza che cerca di elaborare un’alimentazione adatta al profilo genetico di ognuno, perché analizza come ciascun alimento modifica il funzionamento dell’organismo a livello molecolare. Infatti, come ricorda Veronesi, «soltanto il quattro per cento dei tumori è causato da ciò che respiriamo, e ben il trenta per cento da ciò che mangiamo».88 Il professor Valter Longo, in uno studio pubblicato su Cell, ha scoperto che chi segue una dieta ricca di proteine, specie se animali, ha un rischio del settantaquattro per cento maggiore di morte prematura, rispetto a coloro che seguono una dieta povera di proteine animali.89 Si suggerisce quindi di non mangiare più di 0,8 grammi di proteine animali al giorno per chili di peso. Vale a dire, per una persona di sessanta chili, quarantotto grammi. Che è pochissimo. Basta un piatto di spaghetti cacio e pepe per superare la dose giornaliera. O un uovo.

È vero anche che i vegetariani e i vegani sono più magri? Sì: dai due ai tredici chili più snelli dei loro connazionali.90 Il China Study ha dimostrato che i cinesi delle regioni rurali, «pur consumando la stessa quantità o addirittura parecchie calorie in più dei mangiatori di carne, [...] sono più snelli». Questo perché la loro dieta è a base vegetale. Scoperta confermata in altre ricerche, fatte in Israele e nel Regno Unito. Il meccanismo risiederebbe nella termogenesi, che si riferisce alla produzione di calore corporeo durante il metabolismo. Sembra che i vegetariani abbiano un tasso di metabolismo leggermente più alto quando sono a riposo: bruciano più calorie, anziché depositarle come grasso corporeo.91

A Natale come fate?

«I vegani è una setta, sono come i testimoni di Geova. Io li ammazzerebbe tutti.»

Gianfranco Vissani, chef92

«Il mio piatto preferito sono gli spinaci.» «A me invece piacciono l’insalata, le zucchine, il pomodoro...» Mai sentiti bambini che tessono le lodi delle verdure. «Ho chiesto il menù vegano a scuola perché mia figlia era stufa di scartare tutto» mi dice la mamma. Il formaggio lo mangi? Chiedo alla figlia di otto anni. «No.» E l’uovo? «Nemmeno.» La carne manco a parlarne. E il cane e il gatto? «Anche loro sono vegani.» Davvero? Ma il gatto è un animale super carnivoro. «Io preferisco che viva un po’ di meno, ma che lo faccia senza ammazzare altre vite.» La casa di Valentina è molto bella e accogliente, ha le pareti verdi in salotto e gialle in cucina. Ci sono delle pentole sui fornelli. «Sto preparando il piatto preferito di mia figlia: polenta taragna con farina di mais e grano saraceno, insieme alle lenticchie. E poi gli spinaci, che condiamo con il limone per assimilare meglio il ferro, mentre i cereali insieme ai legumi soddisfano il fabbisogno giornaliero.»

Ci sediamo a tavola. Le analisi del sangue, tutte a posto? «Sì, a postissimo.» Avrete però delle carenze di vitamina B12, quella che si prende soltanto con alimenti di origine animale. O con verdure iper biologiche, che però sono difficili da trovare. «Si possono usare degli integratori. Io ora ne sto prendendo uno, me l’ha consigliato il pediatra, perché così alla bambina passa nel latte» dice sorridendo alla piccola di sei mesi in braccio al papà. «Quando ho avuto i primi due ero ancora vegetariana, e ho avuto le carenze di ferro fisiologiche. Con lei, da vegana, invece non ho avuto niente. Spero di allattare a termine, cioè fino ai suoi quattro o cinque anni.» A cinque anni le darai ancora la tetta? «Un bambino è un lattante fino ai cinque anni di età. Infatti perdono i denti da latte a partire dai sei anni. Non vedo perché dovrei darle un altro tipo di latte quando ha già il suo, che è perfetto per lei.» Il mio sarà anche un retaggio culturale, ma fatico a immaginare un bambino attaccato alla tetta della mamma all’età di cinque o sei anni. Quando avete scelto di fare crescere i vostri figli con un’alimentazione vegana, immagino che siate stati molto criticati. «Alcuni pediatri ti guardano come se fossi il peggiore dei criminali. Altri non esprimono la loro opinione, ma comunque non sono in grado di seguirti.» È vero che per essere vegani ci vogliono i soldi? «Al contrario, perché il formaggio e la carne sono alimenti molto cari» mi dice il papà.

Perché avete scelto di essere vegani? «Come tutti i vegetariani, cercavo un modo etico di consumare il latte e il formaggio» spiega Valentina. «Eravamo andati in una stalla ad Avigliano a prendere il latte dalle mucche felici. Una volta lì, però, abbiamo visto una realtà totalmente diversa da quella che ci immaginavamo. Ti rendi conto che non può esistere una produzione di latte etica, un latte senza schiavitù e sofferenza animale.» La interrompe la bambina: «C’erano le mucche attaccate a dei macchinari che prendevano tutto il latte, e i vitelli dentro un capannone». Come dovrebbero stare le mucche? «Libere!» mi risponde lei con un sorriso. «E nella strada per andare dal mio papà» dice il bambino, con una grande fessura in mezzo ai denti, «ci sono degli asini, delle capre e delle pecore, che a Pasqua li uccidono!» Anche lui chiude la frase con un sorrisone, e mi sembra quasi che con quella annotazione mi sfidi. Lascio cadere, non so che dire. Mi rivolgo alla bambina: e quando vai a una festicciola, come fai? «Quando sono andata dalla mia amica Sara, ho mangiato la pizza con le olive, il sugo, e i peperoni.» E non c’era la mozzarella. «Ma nelle altre pizze sì!» Quindi avevi una pizza un po’ speciale. Fa cenno di sì con la testa, con un imbarazzo che sembra venire dalla sua timidezza. E al pranzo di Natale con la famiglia, come fate? «Quest’anno l’abbiamo saltato» dice Valentina. Addirittura? «Fino all’anno scorso riuscivo ad andare lì, avevamo il nostro cibo a parte. Poi però non me la sono più sentita di condividere un momento piacevole con gente... Non riesco più a vedere certe cose. Quelli sono gli stessi animali di cui ci occupiamo tutti i giorni, che coccoliamo, per cui lottiamo. Non capisco come la gente non riesca a rinunciare a mangiare carne o derivati quando sono in nostra compagnia, un giorno su trecentosessantacinque. Non lo accetto più.» Rimango senza parole. Mando giù l’ultima forchettata di polenta e chiedo come abbiano passato il Natale. «Abbiamo invitato i nostri amici vegani, e abbiamo fatto una cena stupenda» dice il papà, chiudendo il discorso con una risata.

Sparecchiamo, e Valentina dà il frutto di fine pasto ai bambini (tutti e due chiedono una banana, che fa bene perché ha il potassio). Andiamo a vedere la fattoria che hanno messo in piedi in un campo gentilmente concesso da un vicino di casa. Capre, pecore, capre tibetane. In tutto saranno una decina di animali. Per loro hanno costruito un rifugio in legno, con scritte come «pace» e «libertà» in azzurro e giallo. Valentina mi presenta gli animali, ognuno di loro ha una storia. «Loro sono Sole e Luna» dice indicandomi le due caprette, che nel frattempo mi stanno annusando per capire se io sia commestibile. «Sole ce l’hanno portato perché era lo scarto di un pastore; tengono le femmine, mentre i maschi vengono abbattuti. Luna viene da un sequestro, la tenevano in un sottoscala per fare giocare i bambini. Lei invece» e indica una pecora «viene da un allevamento dove non vedevano né luce del sole né erba.» I bambini giocano con gli animali. Il gioco preferito della bambina è inseguire le pecore per il campo. I vostri animali fanno il latte? Valentina fa un ghigno, capisco di aver fatto una domanda stupida. «Questa cosa è simpaticissima. La maggior parte della gente è convinta che capre, mucche e pecore, siano animali particolari che fanno il latte continuamente. Per fare il latte c’è un solo modo: ingravidare una mucca, toglierle il vitello una volta che ha partorito e rubarle il latte. Il cucciolo diventa uno scarto. Loro non hanno il latte perché non si riproducono. E per stare sicuri, i maschietti li abbiamo castrati.»

I bambini sono saliti sull’albero, e tendono delle foglie appese a dei rami alle capre, che tentano di arrampicarsi per mangiarle. «Molti mi dicono: ma che senso ha salvarne uno? Dipende da che valore dai alla sua vita. Salvarne uno è la cosa più bella che si possa fare.» «È un simbolo, come salvarli tutti» le fa eco il papà. La beffa è che ufficialmente loro sono una famiglia di allevatori. «Capre e pecore non sono riconosciuti come animali da affezione, quindi per avere degli animali devi registrare un numero di stalla e diventare allevatore. Noi siamo allevatori da ingrasso!» I bambini scendono dall’albero, è tempo di rientrare a casa. Bisogna prepararsi perché fra poco c’è una manifestazione in piazza contro gli allevamenti intensivi. Qual è il vostro animale preferito? «Capre e agnellini» mi rispondono, praticamente in coro. Da grandi cosa volete fare? «Vorrei fare la veterinaria perché mi piace curare gli animali» mi dice la bambina. E tu? «Voglio fare il veterinario e salvare gli animali insieme a mia sorella» risponde lui.

La vitamina B12

«Mi sembra così innaturale dover prendere delle pillole di vitamina B12, che assumiamo solo attraverso il cibo animale, per una ragione etica. Se mangiassero ogni tanto l’uovo di una gallina felice, che danno farebbero a questa gallina?» A chiedermelo è il professor Berrino, epidemiologo presso l’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Anche il professor Campbell definisce la questione della vitamina B12 come un caso «problematico» e suggerisce «l’assunzione occasionale di una piccola dose di integratore di B12».93

La vitamina viene prodotta dai microrganismi presenti nel terreno e nell’intestino degli animali, esseri umani compresi. Le quantità prodotte dal nostro intestino, però, non vengono assorbite in modo adeguato, e serve quindi consumarne attraverso l’alimentazione. Non è esclusivamente nei prodotti di origine animale; sarebbe presente anche nelle piante coltivate in terreni sani. Per assimilarla dovremmo mangiare frutta e verdura con piccoli resti di terreno. Purtroppo, la maggioranza dei vegetali in circolazione viene da terreni inerti, e oggi siamo abituati (giustamente) a lavare tutto attentamente.

Al di là del problema della vitamina B12, i vegani hanno l’alimentazione più sana di tutti, giusto? Secondo l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, «al momento non vi sono prove che ciò sia utile o benefico dal punto di vista della salute».94 Mentre per il professor Berrino dipende: «Se mangi zucchero, farine raffinate, se bevi whisky», tutti alimenti che possono entrare in una dieta vegana, stai peggio. «In uno studio fatto in Inghilterra si era addirittura visto, e tutti si erano stupiti, che i vegani avevano maggiore probabilità di sviluppare il cancro dell’intestino. La carne è il principale fattore che lo influenza; l’altro fattore è la carenza di fibre nell’alimentazione. Andando a pranzo con il gruppo, vidi che sul tavolo c’erano Coca-Cola, zuccheri e alimenti con farine raffinate. Quindi vegani sì, ma in modo intelligente, con un po’ di cultura su quello che fa bene alla salute.» E cosa fa bene alla salute? «Un’alimentazione basata in prevalenza sul cibo di origine vegetale, anche se non esclusivamente, un cibo non industrialmente raffinato: cereali, ma integrali, legumi, verdure e frutta. Occasionalmente si può mangiare cibo di origine animale.» Questa è anche l’alimentazione raccomandata dal Codice europeo per la prevenzione dei tumori.95 Conclude Berrino, lapidario: «Chi muore di meno sono i pescovegetariani, cioè chi mangia cibo vegetale ma anche un po’ di pesce». È la dieta che segue il professor Veronesi.96

Lettera aperta ai pediatri italiani

Cari Pediatri,

dopo l’ennesimo caso (mediatico?) della bimba vegana ricoverata in gravi condizioni, è arrivato il momento di fermarsi un momento a riflettere. Non si tratta di mettere sul banco degli imputati i genitori vegani, come fanno solitamente i media nei cosiddetti spazi di approfondimento, ma di chiederci quale sia il compito dei pediatri.

I pediatri hanno o non hanno il compito di garantire assistenza a tutti i bambini, rispettando le decisioni, specie se etiche, prese dai genitori nell’interesse dei propri figli? I pediatri hanno o non hanno il dovere di formarsi e aggiornarsi anche in relazione a regimi alimentari «particolari»?

Lo chiedo perché quando tre anni fa è arrivato per mia figlia il momento del divezzamento, il pediatra che la seguiva si è rifiutato di supportarci nella nostra scelta: o facevamo mangiare alla bimba animali e derivati o potevamo andare via. Ci siamo dovuti rivolgere a un pediatra privato. Mi confronto con decine di genitori vegani che subiscono la stessa discriminazione: i pediatri, quasi tutti, impongono alle famiglie la loro volontà, invadendo la sfera etico-educativa e costringendo di fatto i genitori (che possono permetterselo) a rivolgersi a privati o, peggio ancora, inducendoli a commettere errori con il fai-da-te.

Tutto ciò è di una gravità inaudita. Anche i pediatri sono obbligati al rispetto della potestà genitoriale, dei diritti e delle libertà individuali. Una puntualizzazione piuttosto banale, in un Paese democratico, ma a quanto pare necessaria.

L’American Dietetic Association e l’American Academy of Pediatrics sostengono che una dieta vegana appropriatamente pianificata è adatta a tutte le fasi del ciclo vitale, infanzia inclusa. I vantaggi della dieta vegana sono ormai ben noti, anche in riferimento alla salvaguardia dell’ambiente, al risparmio idrico e alla possibilità di salvare bambini riducendo la fame nel mondo con una più equa distribuzione delle risorse. E puntualizzo che mia figlia, quattro anni, svezzata vegana con il supporto di esperti, cresce oltre la media e gode di ottima salute.

È ora di uscire dal surreale clima della caccia alle streghe e cominciare tutti insieme a interrogarci sull’opportunità di sostenere un cambiamento sociale e culturale che avanza e che può solo portare benefici, al Pianeta e a tutti i suoi abitanti.

Io da mamma che spera nel futuro ci conto.

Arianna Fioravanti