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Dentro gli allevamenti

IL «BENESSERE ANIMALE»

Centosessanta chili

Se sei un maiale e vivi in Italia, hai molte probabilità di essere un maiale DOP: degli otto milioni di suini presenti nel nostro Paese,1 gran parte rientra nella denominazione di origine protetta.2 Sei cioè destinato a diventare salume pregiato, principalmente prosciutto di Parma e San Daniele, ma anche prosciutto di Modena, culatello di Zibello o salame di Varzi. Sei anche più fortunato degli altri: a voi sono concessi tre mesi di vita in più dei maiali normali, e questo perché dovete raggiungere un peso maggiore. Vi chiamate suini pesanti: 160 chili in nove mesi di vita. E che vita.

Quella notte in mezzo al campo

Avevo guardato qualche video su YouTube, ma non potevo credere che quella fosse la condizione in cui vivono i maiali. Non da noi. Non la maggioranza. Di certo non quelli destinati a diventare un prodotto di eccellenza. Decisi di entrare in un allevamento. Non con una visita guidata organizzata dall’allevatore, ma come avevo visto fare: di notte, di nascosto, per verificare il vero stato delle cose. Contattai una delle associazioni che avevano girato quei video. «Sono una giornalista, vorrei entrare in un allevamento intensivo.» Dall’altra parte della cornetta c’era un ragazzo: «Certo, parliamone a voce». Un mese dopo mi ritrovai in mezzo a un campo della Pianura padana, a mezzanotte, pronta a compiere il reato di violazione della proprietà privata per vedere dei maiali. O peggio, pronta a farmi sparare. Un magistrato, che quelle zone le conosceva bene, prima della mia missione si raccomandò di fare attenzione: «La maggior parte degli allevatori ha un fucile in casa, e molti di loro hanno il grilletto facile». Scoprii infatti che erano frequenti i furti di bestiame. Pochi giorni prima, e poco distante da dove stavamo andando, dei ladri avevano rubato duecento maiali, per un valore di 50.000 euro. Da lì il «grilletto facile» degli allevatori, pronti a tutto per difendere il loro patrimonio.

Nel viaggio in macchina per arrivare in quel posto, individuabile solo attraverso le coordinate satellitari annotate dagli animalisti in un precedente sopralluogo, pensavo a cosa avrei preferito: meglio fuggire da un allevatore col colpo in canna o dalla polizia? Sicuramente dalla polizia. Sarebbe stato difficile spiegare chi ero a un allevatore che pensava di avere di fronte un ladro. Per tranquillizzarmi mi aggrappai alle statistiche: non mi risultava fosse mai morto nessun animalista per essersi intrufolato in un allevamento. Non osai però chiedere ai miei accompagnatori se fosse vero.

Era anche la prima volta che camminavo di notte in un campo. Senza poter usare una torcia, ogni passo era potenzialmente pericoloso. E portava con sé un rumore maledetto. Sterpaglie, fusti di coltivazioni, pozzanghere: mi sembrava che con i nostri passi avessimo già svegliato tutti gli abitanti nei dintorni. Le luci alle finestre rimanevano spente, e capii che dovevo liberarmi dalle mie paranoie.

Decisi di affidarmi completamente agli animalisti. D’altronde, erano loro a farmi entrare ed erano loro a guardarmi le spalle. Un ragazzo mi avrebbe fatto da guida dentro l’allevamento, mentre altri due sarebbero rimasti fuori a fare i «pali» per controllare che nessuno, a piedi o in macchina, si avvicinasse. In quel caso, ci avrebbero avvertito con la radiolina.

A cinquanta metri dall’allevamento, iniziammo a sentire delle grida. Erano i versi degli animali. Di notte, e nelle condizioni in cui ci trovavamo, ammetto che la mia percezione potesse essere alterata, ma quelle grida sono fra le cose più inquietanti che abbia mai sentito. Sembrano la reazione a qualcosa di straziante, come quando urliamo d’istinto per un dolore lancinante. Un coro che squarcia le notti immobili e con cui i vicini avranno fatto i conti già da un pezzo, ma che a te, novellino che ti senti Indiana Jones solo perché stai attraversando un campo, gela il sangue. Superammo nauseati i vasconi dei liquami, e raggiungemmo la porta dell’allevamento. I pali erano lì: uno sull’unico ingresso possibile venendo dalla strada, e l’altro sul sentiero che collegava l’allevamento alla casa dell’allevatore. Indossate le tute, i calzari e le mascherine, necessari per questioni di biosicurezza, eravamo pronti a entrare.

Abbassai la maniglia

Entrare fu più facile del previsto: bastò aprire la porta. Nessuna catena, neanche un giro di serratura. Davanti a noi un corridoio, lunghissimo, con una distesa di porte sui due lati. Ne aprimmo una. Solo in quella stanza ci saranno stati duecento maiali. Alla vista della lucina della nostra torcia, si alzarono piano piano dal loro stato di torpore, distesi uno sopra l’altro. Erano enormi, a fatica si riusciva a vedere il pavimento sotto di loro. Il ragazzo che era con me mi spiegò che quelli erano al settimo o ottavo mese, mancava poco perché andassero al macello. Il loro grugnito si accese come una sola orchestra, facevano un rumore assordante. La puzza mi prese subito alla gola, era come stare davanti a una piscina di pipì. Colpa dell’ammoniaca presente nelle deiezioni degli animali che cadono sotto il pavimento fessurato, oppure rimangono nel recinto. E colpa anche del sistema di aerazione. O meglio, del mancato sistema di aerazione. Non c’erano finestre, solo una ventola sul muro. Spenta, e lo sembrava da chissà quanto, visto che era ricoperta di ragnatele. Mi accorsi che stavamo camminando letteralmente sulla cacca. Nonostante fossimo sul corridoio centrale che divideva le recinzioni in due, le feci erano così tante che fuoriuscivano dal recinto. Finivano pure nelle canaline che contenevano il mangime. Assistetti in diretta a un maiale che defecava sulla schiena di un altro maiale.

Potevano starci, lì dentro, tutti quei maiali? Era accettabile che mangiassero le loro feci, e che ci dormissero sopra? E quella puzza, era normale odore di campagna?

La legge

«Benessere animale» è una delle espressioni che ho sentito più spesso da quando ho cominciato il mio viaggio nel mondo degli allevamenti. Rischia però di essere una di quelle formule vuote utilizzate proprio dove più se ne sente la mancanza, come «legalità» in alcuni angoli dimenticati d’Italia o «lotta alla corruzione» in politica.

Gli allevatori, attraverso i loro rappresentanti e le direttive che guidano il settore, parlano costantemente di «benessere animale», come un mantra. È vero che il benessere dei loro animali è fondamentale, e per una ragione molto semplice: meglio sta l’animale, e più dura. Più dura, e più rende. E se sta davvero bene rende ancora di più, perché il suo benessere si traduce in qualità del prodotto. C’è un però. Realizzare concretamente il «benessere animale» costa. Laddove si possono fare dei tagli, mantenendo una produzione soddisfacente, si fanno, come in una qualsiasi industria. E quella che ha a che fare con esseri viventi non fa eccezione.

Anche la legge parla di benessere animale, e le disposizioni sono talmente lapalissiane che c’è da chiedersi perché si siano presi la briga di scriverle. Se fossero normative per gli esseri umani, sarebbe un po’ come dire che nel corso della propria vita tutti devono avere la possibilità di respirare. Se il legislatore le scrive, però, è perché nella realtà non è scontato che vengano rispettate. Gli animali devono potersi distendere tutti contemporaneamente, in una zona che sia prosciugata e pulita in modo adeguato. Devono potersi alzare e sedere con movimenti normali. Nell’allevamento in cui ero entrata tutto questo non accadeva. Gli animali erano letteralmente gli uni sopra gli altri, senza spazio sufficiente a toccare il pavimento.

Scoprii solo dopo, nelle tante notti di blitz, che purtroppo non era un’eccezione. Gli allevamenti sovraffollati, con i maiali che non riescono a distendersi completamente e costretti a vivere nei loro escrementi e pure a mangiarli, sono comuni. E queste condizioni inducono i suini all’aberrazione più grande: il cannibalismo. I suini sono animali onnivori che in natura vivono spostandosi in uno spazio ampio: dai cento agli ottocento ettari. Trascorrono più della metà del tempo in esplorazione alla ricerca di cibo, di un luogo dove riposare, o anche solo per conoscere l’ambiente. Le porcilaie sono però un ambiente monotono e privo di stimoli, «l’impossibilità di esprimere il comportamento esplorativo è indicata come la principale causa della comparsa di comportamenti anomali e potenzialmente pericolosi».3 Per passare il tempo, insomma, i maiali si mangiano fra di loro, a partire dalle estremità: orecchie, genitali, e soprattutto code.

Cosa fanno allora gli allevatori?

Mutilati

Partiamo da una pratica di cui l’Italia è grande estimatrice: la castrazione. È fatta principalmente per una questione di gusto della carne, e cioè per evitare «l’odore di verro», dovuto a un ormone che i maiali sviluppano in pubertà. I maialini sono afferrati per le zampe a testa in giù e immobilizzati. Un operatore taglia lo scroto del maiale con uno strumento che assomiglia al bisturi che recide i testicoli. È una pratica molto dolorosa, ma se il maialino non ha superato i sette giorni di vita, può essere fatta senza anestesia. Esistono alternative alla castrazione, come per esempio il vaccino che inibisce la formazione dell’ormone che causa l’odore di verro, utilizzato già in 63 Paesi. Solo Italia, Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia non si sono ufficialmente impegnati a mettere fine a questa pratica.4

Un’indagine compiuta in diversi allevamenti ha mostrato inoltre come gli operatori buttino i materiali organici direttamente nel recinto dei maiali, che poi se li mangiano.5 Spesso proprio nel recinto della mamma scrofa, che assiste e non può fare niente.

Per evitare che i suinetti creino ferite ai capezzoli delle scrofe durante l’allattamento, ai cuccioli vengono troncati i denti. La punta dei denti viene rotta con una pinza. Anche questa pratica è permessa senza anestesia, se effettuata entro i primi sette giorni di vita dell’animale.

Le pratiche citate fanno rabbrividire. A loro modo, però, una spiegazione ce l’hanno. C’è una pratica, invece, che mi colpisce più delle altre, perché causata solo dalle condizioni contro natura in cui vivono gli animali: il taglio della coda. Ho assistito a una scena raccapricciante. Davanti a me una, poi due, poi tre, infine quattro code sanguinanti di maiali che stavano chiusi nello stesso recinto. Sento il grido di un maiale: un altro gli aveva morsicato la coda. Un maiale mi si avvicina: sul suo viso una macchia di sangue, probabilmente della ferita aperta di un altro maiale. E tutti questi maiali avevano già le code tagliate, proprio per evitare che se le mordessero fra loro. Eppure succedeva lo stesso.

La legge vieta il taglio della coda. Meglio, dice che «non deve costituire operazione di routine», perché prima «si devono adottare misure intese a evitare le morsicature delle code», modificando le «condizioni ambientali o sistemi di gestione inadeguati». Sul tema è intervenuta anche la Commissione europea.6 Quali sono le misure che possono evitare le morsicature delle code, richiamate dalla legge? «I suini devono avere accesso permanente a una quantità sufficiente di materiali che consenta loro adeguate attività di esplorazione e manipolazione, quali ad esempio paglia, fieno, legno, segatura, composti di funghi, torba o un miscuglio di questi.»7 Fattibile, no? L’approvvigionamento di questi materiali costa qualche euro in più, è vero, ma ci sarebbe un sicuro risparmio in termini di cura di infezioni e lesioni. E allora perché negli allevamenti dove sono entrata non ho mai, ma dico mai, visto un filo di paglia?

Per capirlo basta andare sul sito dell’Associazione nazionale degli allevatori di suini, che ha pubblicato un rapporto dell’Università degli studi di Milano sull’uso dell’arricchimento ambientale.8 Lo studio dice che il suino è un animale «estremamente intelligente», per questo ha bisogno di un materiale che lo stimoli e mantenga alto il suo interesse. Deve inoltre essere pulito, perché «il suino perde rapidamente interesse in ciò che è imbrattato in feci e urine». La paglia è il materiale manipolabile «che meglio stimola il comportamento esplorativo» dell’animale, tanto che a oggi non esiste «un altro arricchimento ambientale in grado di garantire un livello di occupazione superiore a quello della lettiera di paglia». La paglia può essere «masticata, grufolata, ingerita, e migliora il comfort termico e fisico della zona di riposo». Il problema allora qual è? Il pavimento. Per raccogliere le deiezioni, il pavimento ha delle fessure, sotto le quali ci sono dei vasconi. La paglia bloccherebbe le fessure, mettendo ko il sistema di evacuazione delle feci. E se la paglia fosse messa nelle rastrelliere? Migliorerebbe comunque il benessere, grazie a un «aumento del livello di occupazione dei suini e il conseguente contenimento delle morsicature di orecchie e code». Soluzione trovata, quindi? No, perché «il principale svantaggio di questi sistemi è l’aumento dei costi, legato all’elevata richiesta di manodopera, all’eventuale acquisto di attrezzature come le rastrelliere, e all’elevata quantità di paglia».

Ricapitolando: la legge dice che prima di tagliare le code ai suini devono essere migliorate le condizioni in cui essi vivono. Per migliorare le condizioni in cui vivono basterebbe aggiungere della paglia, che però blocca il sistema di evacuazione delle feci, quindi non si può aggiungere. La conclusione è che l’allevamento intensivo è un luogo che per sua stessa conformazione spinge gli animali a commettere atti di cannibalismo e l’unica soluzione che rimane agli allevatori è il taglio della coda, nonostante questa sia vietata dalla legge. In parole povere, bisognerebbe chiedere agli allevatori di mettere mano al portafoglio, ma nessuno ha il coraggio di farlo. Si va avanti così in questa ipocrisia sistemica che non scontenta nessuno. È contento il legislatore, che ha la coscienza pulita perché formalmente vieta il taglio della coda; ed è contento l’allevatore, che può continuare a tagliare le code dei suoi maiali, senza agire sulle condizioni che portano gli animali a mangiarsi fra loro. Tutti contenti, quindi. Tutti, fatta eccezione per i maiali.

Ho raccolto maiali scoppiati

Ho lavorato per più di una decina d’anni in un allevamento della provincia di Reggio Emilia. Lo spazio era per cinquemila suini circa, ma ce n’erano stipati più del doppio. Erano in condizioni di sopravvivenza proprio al limite: sporchi, pieni di escrementi, urine e feci. Se li mangiavano anche. Quando gli portavamo il mangime, erano uno sopra l’altro e facevano a gara a chi arrivava per primo. Chi non ci riusciva saltava sopra gli altri capi, azzoppandosi o prendendo botte o cose simili; qualcuno poteva pure rimanerci secco. Un maiale quando muore, se non si toglie subito dal recinto e non si mette in cella frigo, crea del gas al suo interno, e in certi casi può anche esplodere. Mi è successo di dover raccogliere maiali aperti a metà, letteralmente scoppiati.9

Chiuse in gabbia

Ci sono gli allevamenti da ingrasso, che fanno crescere solo i maiali destinati alla macellazione; gli allevamenti da riproduzione, che fanno nascere i suini che venderanno ad altri allevatori da ingrasso; e quelli che svolgono entrambi i processi. Il primo allevamento in cui sono entrata era sia da riproduzione che da ingrasso. Scoprii poi che rispetto alla media era molto pulito e ben tenuto, e fu proprio questo lucido rispetto delle regole a rendermi lampante l’aberrazione delle condizioni dell’allevamento intensivo. Le scrofe erano chiuse in gabbie con zanne di ferro circolari, grandi più o meno quanto il corpo degli animali che dovevano contenere. La mangiatoia da una parte, le feci che si accumulavano dall’altra. Una di fianco all’altra, tutte posizionate nella stessa direzione. Al soffitto, dei tubi collegati alle mangiatoie, che portavano automaticamente il cibo. La luce era accesa, anche se era notte. Una luce al neon che le illuminava a giorno. Nessuna di loro poteva uscire dalla gabbia. Nessuna di loro poteva avere contatti con altri animali. Nessuna di loro poteva girarsi dall’altra parte. Perché? Che motivo c’è di chiuderle in gabbia?

In un convegno tenutosi a Cremona fra l’Associazione provinciale degli allevatori di suini e l’ERSAF, l’Ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste, si parla di come ridurre i costi «aumentando natalità e svezzati».10 Questo perché bisogna «reggere al contraccolpo delle produzioni di Paesi che godono di costi meno elevati». E per ridurre i costi, la formula magica trovata è «aumentare il numero di suinetti che l’allevamento può produrre». Perché ciò sia possibile, le scrofe devono fare regolarmente «due parti l’anno e svezzare complessivamente almeno 21 suinetti». Considerato che la gestazione dura 115 giorni e la lattazione 28, e che la scrofa va in calore ogni 21 giorni, non c’è tempo da perdere. E non ci deve essere alcun margine di rischio: quando la scrofa viene fecondata artificialmente, la procedura deve andare a buon termine. Il momento più a rischio è l’annidamento degli ovuli fecondati sulla parete uterina. Le scrofe, quando vivono in gruppo, formano delle gerarchie, con lotte per la dominanza e stress per le scrofe sottomesse, che «portano a un aumento considerevole del cortisolo con riduzione di progesterone e morte embrionale». L’ideale quindi è «lasciare le scrofe in gabbia fino a che l’embrione passa alla fase di feto con la mineralizzazione dello scheletro». Anche la legge prevede che le scrofe stiano in gabbia, ma ne delimita la permanenza a un periodo contingentato. Le scrofe, infatti, devono essere allevate in gruppo almeno nel periodo che segue il primo mese dopo la fecondazione e una settimana prima della data prevista per il parto. Quindi 35 giorni dei 115 di gestazione. Cioè passano la maggior parte della loro vita in gabbia.

Sempre in quell’allevamento, aprendo un’altra porta, trovammo altre scrofe in gabbia. Attaccati alle loro mammelle c’erano i suinetti appena nati. Eravamo in una sala parto. Perché anche le scrofe che allattano i loro piccoli devono stare chiuse in gabbia? A questa domanda gli allevatori rispondono che serve a ridurre la mortalità dei suinetti: muovendosi troppo, la scrofa rischierebbe di schiacciare i piccoli. «In realtà, non ci sono evidenze scientifiche che attestano minore mortalità complessiva dei suinetti nelle gabbie. Al contrario, alcuni lavori registrano mortalità dei suinetti simili in gabbia parto o con scrofe libere»,11 ha scritto una rivista del settore suinicolo. In favore della tesi controcorrente, la rivista riporta un’indagine fatta su 655 allevamenti in Svizzera, che calcola che la media di morti totali nei box parto con scrofe libere è di 1,4. Lo stesso numero registrato con le gabbie tradizionali.12 Diversi studi, che evidentemente si rifanno al pensiero minoritario, dimostrano come in media muoiano più suinetti nelle «nidiate numerose», cioè quando la scrofa partorisce tanti cuccioli. Che però è proprio l’obiettivo degli allevatori, la formuletta magica che riduce i costi, e che viene perseguita attraverso il processo di selezione genetica. Perché più cuccioli significa più reddito.

La gabbia è una delle misure dell’allevamento intensivo più combattute. Norvegia, Svezia e Svizzera hanno vietato quelle tradizionali, mentre la direttiva europea sul benessere animale ne ha contingentato l’utilizzo. Un modo per ridurre la mortalità dei suinetti in realtà ci sarebbe: basterebbe assistere il parto. Tuttavia, «nella pratica di allevamento, capita spesso che non ci si concentri adeguatamente sulle operazioni principali che potrebbero essere in grado di migliorare il tasso di sopravvivenza dei suinetti per una serie di ragioni». Ad esempio, «si ritiene [che] il tempo dedicato all’assistenza ai parti sia tempo perso». E poi perché «gli sforzi per salvare i suinetti più piccoli [sono] inutili, visto che questi moriranno comunque».13

Ma se non servono a diminuire la mortalità dei suinetti, perché si continuano a usare le gabbie nelle sale parto? Perché «garantiscono un’ottimizzazione dello spazio e una facile gestione delle deiezioni, grazie alla pavimentazione fessurata».14 Il pericolo, sbandierato dagli allevatori, che la mamma schiacci i suoi piccoli, a detta di questa rivista, non c’entra un granché.

È la stessa rivista specializzata a rincarare la dose, e lo fa menzionando la controindicazione delle gabbie: lo stress provocato alla scrofa. Se la scrofa vivesse in libertà, qualche giorno prima del parto si isolerebbe per cercare un posto da trasformare nel suo nido. «Quando la scrofa è in gabbia questi comportamenti naturali sono molto limitati e la partoriente mostrerà segni di irrequietezza con comportamenti stereotipati.» La rivista cita diverse ricerche che dimostrano come «le scrofe [...] tenute in gabbie individuali, senza possibilità di effettuare spostamenti, avevano muscolatura e ossa meno robuste e un sistema cardiovascolare meno efficiente». Conseguenze negative sono riscontrabili anche su unghioni e zampe. Spesso le scrofe in gabbia «urtano le strutture quando si alzano o si sdraiano». Rispetto a scrofe libere di muoversi, manifestano zoppie e stanno sdraiate molto più tempo. È stato dimostrato che gabbie parto con più spazio attorno alla scrofa «facilitano lo sdraiarsi e l’alzarsi e stimolano l’animale a muoversi di più con evidenti benefici». Alcune ricerche dimostrano anche «incrementi di cortisolo, l’ormone dello stress, nel sangue di scrofe messe in gabbia». Anche qui, basterebbe un po’ di paglia, per «permettere all’animale di stimolare il comportamento materno». La madre infatti potrebbe costruirsi il nido parto con la paglia.

Tuttavia, l’aspetto più terribile delle gabbie, che difficilmente sarà citato in qualche rivista specializzata o studio, visto che non ha conseguenze sulla redditività, è che la scrofa non può mai avere un contatto con i suoi piccoli. Può solo restare sdraiata e offrire loro i capezzoli. Non può leccarli, non può spostarli, non può aiutarli nella poppata, non può accudire i più deboli. Più volte ho trovato cuccioli morti ancora nel recinto insieme ai fratellini. E la mamma lì, impotente, costretta ad avere davanti agli occhi i cadaveri, finché un operatore non procede alla raccolta dei morti. Ogni scrofa vivrà così per tre anni e mezzo circa. Partorirà una media di cinque o sei volte, dopodiché sarà ritenuta improduttiva e mandata al macello.

L’eccellenza

Il prosciutto di Parma, secondo il suo disciplinare di produzione, deve essere di «forma esteriore tondeggiante», di colore «uniforme tra il rosa e il rosso» e dal «sapore delicato e dolce».15 La zona di produzione è delimitata manco fosse territorio militare: «A sud della via Emilia distanza da questa non inferiore a cinque chilometri fino a una latitudine non superiore a 900 metri, delimitato a est dal corso del fiume Enza e a ovest dal corso del torrente Stirone». Perché tanta precisione? Perché «solo qui arriva, preziosa e unica, l’aria che prosciuga e rende dolce ed esclusivo il prosciutto di Parma. Aria che giunge dal mare della Versilia, si addolcisce tra gli ulivi e i pini della Val Magra, si asciuga ai passi appenninici arricchendosi del profumo dei castagni fino a soffiare tra i prosciutti delle valli parmensi». E per sfruttare al massimo un’aria così pregiata, gli stabilimenti di produzione «sono orientati trasversalmente al flusso dell’aria e sono dotati di grandi e numerose finestre, affinché l’aerazione possa dare il suo decisivo contributo per quei processi enzimatici e di trasformazione biochimica del prodotto». Per fare il prosciutto ci vogliono nove fasi; fra queste il raffreddamento, «per portare la temperatura della coscia da 40 a 0 gradi, perché il freddo rassoda la carne che può essere rifilata più facilmente»; la rifilatura, in cui «vengono scartate le cosce che presentano imperfezioni anche minime»; la salagione, che utilizza sia sale umido sia sale secco; il riposo, un periodo che va «da 60 a 90 giorni con un’umidità del 75 per cento circa e temperatura da 1 a 5 gradi», per lasciare «respirare» il prosciutto; l’asciugatura, che avviene «sfruttando le condizioni ambientali naturali, nelle giornate di sole secche e ventilate, oppure in appositi asciugatoi»; la pre-stagionatura, «in stanzoni con le finestre contrapposte, [...] aperte in relazione ai rapporti di umidità interna/esterna e umidità interna/umidità del prodotto»; il sondaggio, fase in cui viene utilizzato «un ago di osso di cavallo, che ha la particolarità di assorbire rapidamente per poi riperdere gli aromi del prodotto, e che viene fatto penetrare in vari punti della massa muscolare [per poi essere] annusato da operai esperti dotati di particolari caratteristiche olfattive, che potranno stabilire il buon andamento del processo produttivo». Trascorsi infine i dodici mesi di stagionatura e fatti i dovuti controlli, «viene apposto il marchio a fuoco corona ducale». Un procedimento così elaborato e minuzioso fa invidia ai preparativi della NASA per il lancio di una navicella spaziale!

E dei maiali, che costituiscono la fondamentale materia prima – anzi, unica direi – del prosciutto, il disciplinare che dice? Ne delimita innanzitutto il territorio. Le cosce devono venire solo da determinate regioni: «Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio». Devono essere solo di alcune razze, che non siano incompatibili con la produzione del suino pesante, e devono raggiungere i «160 chili più o meno 10 per cento». La composizione dell’alimentazione dei maiali sembra una caccia al tesoro alla ricerca di ingredienti pregiati: «mais, pastone di granella e/o pannocchia, sorgo, orzo, frumento, triticale, avena, cereali minori, cruscami e altri sottoprodotti della lavorazione del frumento, patata disidratata, manioca, polpe di bietola surpressate e insilate, expeller di lino, polpe secche esauste di bietola, marco mele e pere, buccette d’uva o di pomodori, siero di latte, latticello, farina disidrata di medica, melasso, farina di estrazione di soia, farina di estrazione di girasole, farina di estrazione di sesamo, farina di estrazione di cocco, farina di estrazione di germe di mais, pisello e/o altri semi di leguminose, lievito di birra e/o di torula, lipidi con punto di fusione superiore a 40 gradi».

E sulle condizioni in cui vivono gli animali? Una paginetta striminzita. Una su 52. E su come devono essere gli allevamenti, solo poche righe. Che prescrivono che le strutture e le attrezzature «devono garantire agli animali condizioni di benessere». Come? In che modo? Cosa possiamo considerare benessere per gli animali, e cosa malessere? «I ricoveri devono risultare ben coibentati e ben areati in modo da garantire la giusta temperatura, il ricambio ottimale dell’aria e l’eliminazione dei gas nocivi.» Come? Con finestre «contrapposte» da aprire a seconda del tasso di umidità, come per i prosciutti? O con delle ventole? E se il livello di ammoniaca è troppo alto, che si fa? «I pavimenti devono essere caratterizzati da una bassa incidenza di fessurazione e realizzati con materiali idrorepellenti, termici e antisdrucciolo.» La fessurazione serve perché cacca e pipì cadano nei vasconi sottostanti. Cosa si intende per «bassa incidenza»? E la paglia, è obbligatoria, necessaria, o solo auspicabile? E i materiali manipolabili per ridurre lo stress dei maiali annoiati? E se si mangiano la coda fra di loro, che si fa? Come contrastare gli atti di cannibalismo? Il protocollo del prosciutto di Parma non lo dice, ma rimanda alle disposizioni previste nel «piano dei controlli approvato dal ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali». A seguire quattro pagine su come apporre i vari timbri per riconoscere che una coscia di maiale è destinata a essere prosciutto di Parma. Quattro pagine su un marchio, e una sola sulle condizioni di vita del maiale.

Io ho visto le cosce tatuate. Le ho viste negli allevamenti con i maiali tutti ammassati, feriti, con i topi che camminavano sui loro corpi. Ho visto il timbro su un maiale che probabilmente stava mangiando «polpe secche esauste di bietola, expeller di lino e siero di latte», insieme però alle feci e alle urine dei suoi compagni di recinto. L’aria non giungeva «dal mare della Versilia», perché quasi sempre le finestre o non c’erano o erano serrate, e non si addolciva «tra gli ulivi e i pini della Val Magra», bensì era intrisa di ammoniaca a causa della quantità enorme di deiezioni presenti nei recinti o nelle vasche sottostanti. Era un odore che ti rimaneva addosso. Era come se rimanesse attaccato alle narici, fra il ricordo e l’ossessione. Un giorno eravamo in macchina, e non capivamo perché continuassimo a sentire la puzza di allevamento. Nessuno di noi indossava abiti che aveva portato lì dentro. Solo dopo un’attenta disamina capimmo da dove veniva quell’odore nauseabondo: dalla spugnetta che copriva il microfono. L’unico minuscolo pezzo sopravvissuto alla lavatrice.

Vita da infiltrato

È dal 2010 che entro negli allevamenti e nei macelli per filmare. Sarò entrato cento volte o più, ma se devo contare anche tutte le volte che sono entrato solo per fare i sopralluoghi, allora non lo so. Una volta, da infiltrato, ho anche aiutato ad ammazzare un animale. C’era questo toro che guardava in basso, e l’operaio non riusciva a centrarlo in fronte con la pistola captiva. Mi fa: «Usa quel foglio che hai in mano per attirare la sua attenzione». Io gliel’ho messo davanti, ma niente. Allora mi dice: «Aiutami a tirargli su la testa». Gli abbiamo legato una corda intorno al muso e abbiamo tirato, così lui gli ha sparato. Ho aiutato ad ammazzarlo, capito cosa vuol dire? Però penso che tanto non sarebbe cambiato niente. Anzi, no, l’ho aiutato a soffrire meno, magari se non l’avessi fatto gli avrebbe sparato comunque senza prenderlo. L’episodio più brutto a cui ho dovuto assistere riguardava una mucca che era più piccola del normale. Tieni conto che il punto dove gli sparano è fatto anche per tori enormi. L’operaio le spara ma la becca nel punto sbagliato, e a lei comincia a uscire il sangue dal naso. Io stavo lì a guardare. E intanto lui doveva ricaricare la pistola, quindi ci è voluto un po’ per spararle di nuovo. Una volta invece è arrivata una scrofa enorme, di trecento chili. Prima stavano macellando suini all’ingrasso di centosettanta chili, e l’operaio si è scordato di cambiare il voltaggio e ha dato la stessa scarica elettrica che usava per gli animali più piccoli a quella scrofa. Le ha dovuto fare otto scariche prima che perdesse i sensi. Quando le ha staccato gli elettrodi le usciva il fumo dalla testa. L’aveva bruciata.

Una volta Fabio [nome di fantasia, ndr] si è arrabbiato. Dovevo fare il palo mentre lui era dentro l’allevamento a filmare; stavo a bordo strada, mi ero seduto per terra. A un certo punto, senza luci né niente, è arrivato uno in bici; mi è passato alla distanza di questo tavolino. Io d’istinto mi sono alzato, ho fatto la cazzata. Ho chiamato Fabio e gli ho detto che doveva uscire, che dovevamo andare via da lì. Quello in bici è arrivato al casolare di fianco, forse per chiamare i padroni. Fabio però si è incazzato, mi ha detto che avrei dovuto aspettare, perché così non abbiamo approfittato a pieno della serata. Sai, ogni volta è un’occasione per denunciare, sensibilizzare, quindi è meglio non sprecarla. Però non puoi neanche rischiare troppo. Una notte mi è capitato un allevatore che è arrivato senza torcia, passando per i campi. Voleva fregarci. Ce la siamo vista brutta: per seminarlo ci siamo dovuti buttare nel fosso e aspettare lì, finché non se ne è andato. A un mio amico gli è anche successo che gli hanno menato. La volta che me la sono vista più brutta, però, è stata quando stavamo cercando un allevamento. Era notte fonda e noi eravamo in una stradina di campagna in mezzo al nulla. Eravamo appena usciti da un altro allevamento, avevamo il fango fino alle ginocchia ed eravamo vestiti come quando entriamo negli allevamenti, con le mimetiche e tutto. Ci si affianca una macchina dei carabinieri. Io mi sono cagato sotto. Mi avessero chiesto di uscire dalla macchina, cosa gli dicevo? Oltretutto ci hanno beccato mentre avevamo in mano cellulare e iPad aperti su Google Maps. Avessero svaligiato una villa quella notte, o qualcosa di simile, sicuro avrebbero pensato che eravamo stati noi. Mi chiede i documenti senza farmi scendere dall’auto. Che culo!

A me dispiace per gli allevatori. Cioè, aspetta un attimo. Ci sono quelli che piangono miseria, e poi vedo tutta la famiglia con i Mercedes, e allora vaffanculo. Ma ci sono anche quelli con l’allevamento piccolo, e quelli sì che alla fine mi fanno pena. Io sto rompendo il cazzo a gente che lavora, mi dispiace farli andare in malora. Anzi no, in realtà vorrei che chiudessero tutti! Però preferisco stare con gli allevatori che con certi animalisti. Ho solo due o tre amici fra gli animalisti. Alla fine ci litigo e me ne vado. Sono andato al festival vegano e ho messo le Nike apposta. Ero sicuro che mi avrebbero rotto il cazzo accusandomi di aver sfruttato qualcuno, e infatti è successo. O come l’altro giorno, che ero con il borsone della palestra. Le mie amiche l’hanno aperto perché dovevano prendere una cosa e hanno trovato un deodorante. L’avevo comprato in fretta, senza neanche pensarci, ed era testato sugli animali. Hanno cominciato a rompermi. Che palle, è un deodorante, non ho fatto male a nessuno, io! All’inizio non sapevo un sacco di cose. Tipo mica sapevo che c’è il pane con lo strutto, la focaccia con lo strutto. Ma perché devi mettere lo strutto anche nel pane? Venivo qui in centro e non mangiavo niente. Adesso vengo in questo bar perché so che hanno il croissant vegano. Sono vegano da dieci anni. Mia mamma e mia sorella sono vegetariane.

Ci sono degli animalisti che pensano che non puoi essere animalista senza essere anarchico. Ma cosa c’entra? Una volta una si è incazzata con me perché uno ha dato un volantino a un fascista. O meglio, a uno che era vestito da fascista. A me non frega niente se uno è fascista o no, io vorrei solo che la gente mangiasse meno carne. Una volta, però, abbiamo detto che il corteo non partiva finché non se ne andavano tre nazisti, ma quelli restavano. La gente ha cominciato ad arrabbiarsi, dicevano che eravamo lì per gli animali e chi se ne frega della politica. Va bene tutto, però i nazisti al corteo non li voglio.

«COME FATE A NON CHIEDERVI?»

La signora Steele

Jonathan Safran Foer racconta in Se niente importa com’è nata la moderna industria avicola. Praticamente per caso: «Nel 1923 nella penisola di Delmarva (dalle iniziali dei tre stati Delaware, Maryland e Virginia), un piccolo incidente quasi comico capitato a Celia Steele, casalinga di Ocean View, diede inizio alla moderna industria avicola e alla diffusione globale dell’allevamento intensivo. La signora Steele, che gestiva il piccolo pollaio di famiglia, a quanto pare ricevette cinquecento pulcini invece dei cinquanta che aveva ordinato. Invece di disfarsene, decise di condurre un esperimento tenendoli al chiuso durante l’inverno. Con l’aiuto di integratori alimentari da poco scoperti, i polli sopravvissero e la signora proseguì il suo ciclo di sperimentazioni. Nel 1926 aveva diecimila polli; nel 1935 era arrivata a duecentocinquantamila. (In media nel 1930 un allevamento avicolo americano era ancora di soli ventitré polli.) Appena dieci anni dopo la svolta della signora Steele, la penisola di Delmarva era la capitale mondiale della pollicoltura».

Convertitori

L’appuntamento è davanti alla chiesa di Monticelli Brusati, paesino di quattromila anime della Franciacorta. Mi viene a prendere la moglie dell’allevatore e mi porta all’allevamento, dove mi aspetta in tuta e stivaloni Paolo Tancredi. La coppia vive nella casa lì davanti. Tancredi mi fa strada e apre la porta del capannone. Entriamo in una specie di cabina di regia, con un sacco di tasti colorati e grafici e tabelle, e un vetro, dietro al quale ci sono quindicimila polli. Hanno circa venti giorni. Tancredi mi colpisce subito per la sua schietta parlantina: «Non sono animali questi, sono convertitori di mangime. Adesso con 1,6 chili di mangime faccio un chilo di carne. Un tempo questa proporzione era molto più alta, ma grazie alla genetica sono riusciti a diminuirla. Se il pollo non sta bene, però, non converte il mangime in maniera efficiente, e devi usare più mangime. Ma io riesco a prevedere quando stanno male. Guarda questo grafico: registra il mangime consumato. È una curva che sale, perché più i polli crescono e più mangiano. Appena vedo una leggera flessione della curva, capisco che c’è qualcosa che non va. Chiamo il veterinario e gli dico: “Vieni qua che i miei polli non stanno bene!”. E lui: “Quanti te ne sono morti?”. E io: “Nessuno!”. Un veterinario scemo ti risponderebbe: “Allora vai tranquillo, cosa vengo a fare dai tuoi polli?”. Il mio no. Il mio viene. Infatti ho una mortalità intorno al due per cento, mentre altri arrivano al venti. Un ciclo di medicinali ti costa mille euro. Alla fine dei conti, a prevenire ci guadagni».

Era il primo allevamento di polli che vedevo, e me li aspettavo più ammassati. «Io ne tengo 16 per metro quadro. Per legge ne potresti tenere 22. Ho l’aria che viene da fuori, più i climatizzatori. Altri hanno solo l’aria forzata, ma se va via la corrente elettrica, e qui spesso succede, muoiono tutti nel giro di un’ora. Io posso vedere anche dal cellulare com’è la qualità dell’aria.» Gli chiedo come fa con la luce. Mi fa vedere le diverse gradazioni. Il tramonto, l’alba, la luce del giorno. Chissà se ai polli intanto viene il jet lag.

«Ho accettato di incontrarti perché voglio farti capire il sistema, di cui l’allevatore è solo l’ultimo pirla. Il cinquanta per cento sono dei criminali, ma c’è un cinquanta per cento di brave persone. Ma chi è che gli permette di fare quelle cose lì? È una catena, che parte dal consumatore. Come fa a non chiedersi perché il pollo all’ingrosso costa due euro al chilo, meno del pomodoro?»

Un veterinario pubblico su una panchina di Villa Borghese a Roma

Trentatré chili per metro quadro

Se sei un pollo e vivi in Italia, hai l’ottantacinque per cento di possibilità di finire in un allevamento intensivo.16 Siete un numero enorme, ben cinquecento milioni, e la stragrande maggioranza di voi vive in allevamenti in soccida. Significa che grandi aziende, come Amadori, Aia o Crescenti, forniscono i pulcini, il mangime, i veterinari, il macello. L’allevatore mette la propria manodopera e il capannone. In alcuni casi queste grandi aziende sono proprietarie anche dei capannoni. Negli anni l’allevatore è diventato una specie di operaio, che non ha margini di scelta su come allevarvi, cosa dare da mangiare, che tipo di razza comprare. Il suo lavoro è incentrato tutto intorno a due obiettivi: usare la minor quantità di mangime possibile, e raggiungere il peso di macellazione nel minor tempo possibile. La media di conversione è oggi 1,8 chili di mangime per un chilo di carne. Significa che per ogni chilo di carne venduta, sono stati usati 1,8 chili di mangime. La durata media di vita è di 38-40 giorni.

La Commissione europea ha dichiarato che la densità di allevamento dovrebbe essere al massimo di 25 chili, cioè 16 polli al metro quadro, per evitare i problemi più gravi legati al benessere animale.17

Per legge la densità degli allevamenti non deve superare i 33 chili al metro quadro. Se consideriamo che il peso medio di un pollo è di 1,5 chili, significa 22 polli. Sempre la legge, però, dice che si può salire fino a 39 chili al metro quadro se l’aria è tenuta sotto controllo. Sempre la legge, però, dice che si può salire a 42 chili se il tasso di mortalità è basso. Significa 28 polli da 1,5 chili in un metro quadro. Immaginati un metro, trasformalo in un quadrato, e mettici sopra 28 polli. Senza alcun intento retorico, e appellandomi esclusivamente alle leggi della fisica, sai spiegarmi come sia materialmente possibile mettere 28 polli in un metro quadro? Evidentemente c’è chi ce la fa. Ora immaginati di dover vivere in condizioni simili: stai stretto, schiacciato, hai difficoltà a respirare, ti è quasi impossibile muoverti. È esattamente quello che succede ai polli.

La lettiera rimane la stessa sempre. Ciò significa che dal giorno uno al giorno quaranta la cacca e la pipì di quindicimila animali rimane lì. Il capannone viene ripulito solo quando i polli verranno mandati al macello. Le urine e le feci che si accumulano provocano dermatiti sulle piante delle zampe degli animali.18 Le malattie della pelle sono aumentate considerevolmente: nel giro di soli vent’anni, da che colpivano solo un pollo su cento, hanno infestato un pollo su tre. Nei casi peggiori le erosioni si possono trasformare in ulcere con reazioni infiammatorie del tessuto sottocutaneo. Le lesioni si infettano. L’aria all’interno del capannone è irrespirabile. (Lo è anche dall’esterno a dir la verità, e lo sanno bene quelli che vivono nelle vicinanze) L’esposizione all’ammoniaca, alla polvere e ad altri agenti inquinanti provoca conseguenze dirette ai polmoni.19 Bronchite, infezione ai polmoni e insufficienze respiratorie croniche sono le malattie più diffuse.

La legge regolamenta anche la luce, che «deve comprendere periodi di oscurità di almeno 6 ore totali, con un periodo ininterrotto di oscurità di almeno 4 ore». Meno luce significa più benessere: diminuiscono i disturbi ossei, la mortalità e l’ansia, e aumentano le attività motorie. Però la luce induce a mangiare, per questo l’allevatore avrà interesse a tenerla accesa il più a lungo possibile. Secondo alcuni studi, per rispettare maggiormente il comportamento naturale, l’esposizione alla luce dovrebbe essere intorno alle 16-17 ore. Ma la luce del neon è diversa da quella naturale: quest’ultima è più stimolante, tanto da aumentare le attività di beccata a terra.20 In media un pollo in libertà all’esterno compie 98 passi, quelli al coperto solo 7,2.21

A corredo dell’uscita della direttiva europea che per prima ha regolato il tetto massimo di polli a metro quadro, i veterinari dell’AUSL di Bologna, Aia, Amadori e MGM, scrivono un articolo per delinearne l’applicazione.22 I veterinari spiegano che per l’allevatore stipare più polli per metro quadro significa guadagnare di più, ed è per questo che è incentivato a farlo. Tuttavia, un aumento di densità comporta maggiore stress per l’animale, che si traduce in «maggiore competizione per l’abbeveratoio, mangiatoia, siti di lettiera più asciutta o ventilata ecc., fino a giungere a fenomeni come la plumofagia e il cannibalismo». L’alta densità, quindi, ha conseguenze negative sulla produzione. Che i veterinari elencano così: «più malattie, mortalità, minor conversione [del mangime], aumento di scarti al macello, vesciche sternali, abrasioni».

Sempre nel loro articolo, i veterinari segnalano che le illuminazioni molto basse possono essere utilizzate per impedire i fenomeni di cannibalismo. E può essere autorizzata la troncatura del becco, eseguita da personale qualificato sui pulcini che non abbiano superato i dieci giorni, ma solo come extrema ratio. Lo strumento utilizzato per farlo è una specie di ghigliottina a lame arroventate, in cui viene inserito il becco del pulcino appena nato; la lama rovente ne taglia l’estremità. I ritmi sono serrati, e tagli imprecisi e ferite gravi non sono da escludere.23

Conta dei morti

Per legge «tutti i polli presenti nello stabilimento devono essere ispezionati almeno due volte al giorno». «Tutti» è smodatamente ottimista, considerato che generalmente in un capannone i polli sono all’incirca 15.000. Gli allevatori, che sono persone schiette, chiamano l’ispezione «la conta dei morti». Fanno su e giù per il capannone, raccolgono i corpi senza vita e li mettono in una cella frigo, in attesa che se li venga a prendere una ditta specializzata incaricata di incenerirli. L’allevatore deve segnare questa conta su un registro quotidiano che in genere è all’ingresso dell’allevamento, come a dare il benvenuto.

La legge parla anche dei polli «gravemente feriti o che mostrano segni evidenti di deterioramento della salute, come quelli con difficoltà nel camminare o che presentano ascite o malformazioni gravi, e che è probabile che soffrano». A questo punto l’allevatore ha davanti a sé due strade: dare una «terapia appropriata» oppure abbattere l’animale «immediatamente». La legge dice proprio così: «o». È una scelta che spetta esclusivamente all’allevatore, visto che il veterinario è contattato «ogniqualvolta se ne presenti la necessità». La legge è forse troppo cinica, nel permettere a un allevatore di spezzare il collo a un pollo, anche se ha solo qualche «difficoltà a camminare»? Magari è semplicemente pragmatica, davanti a esseri destinati a vivere non più di quaranta giorni. E se la fine è comunque una, ha senso rendere la tua brevissima vita più decente, o anche solo allungarla di qualche giorno appena?

«Gli allevamenti intensivi sono bufale che girano su Internet, con fotografie molto spesso taroccate. Gli animali non soffrono, sono allevati in ottime condizioni igieniche, e il produttore non ha nessun motivo di imbottirli di antibiotici.»

Andrea Ghiselli, nutrizionista del Crea, il principale ente di ricerca italiano dedicato all’agroalimentare e vigilato dal ministero delle Politiche agricole24

La speranza è l’ultima a morire

Se sei un coniglio e vivi in Italia, hai due possibilità: crescere con una famiglia che ti ha adottato come animale domestico e morire di morte naturale, oppure vivere in batteria in un allevamento intensivo e morire al macello. Puoi permetterti di coltivare il sogno di finire in una casa: sono ottocentomila i conigli da compagnia, superati solo da cani, gatti, uccelli e tartarughe.25 Purtroppo per te, però, la realtà è che hai più probabilità di finire in un allevamento intensivo.

Non è chiaro quanti siano i conigli da carne che vivono nel nostro Paese; si va dagli undici milioni dell’ISTAT ai 175 milioni di FAOSTAT.26 L’intervallo è vasto (ma perché così poca chiarezza sui numeri?), ma anche prendendo per buona la stima più bassa, sono comunque molti, moltissimi. Perché gli italiani mangiano tanta carne di coniglio (quattro chili per abitante, terzi in Europa dopo Malta e Cipro; in Campania addirittura dieci chili a testa) e perché l’Italia è il primo produttore in Europa di carne di coniglio e secondo al mondo, dietro solo alla Cina.27 Puoi sperare di finire in un allevamento estensivo, magari all’aperto, ma anche lì le possibilità sono poche. Ancora una volta i dati non sono chiari (ma perché, se i conigli sono così tanti, nessuno se ne occupa seriamente?): secondo il ministero dell’Agricoltura, il 65 per cento cresce in allevamenti intensivi con più di cento fattrici;28 secondo l’associazione Compassion in World Farming, il 99 per cento viene allevato in gabbie reticolate staccate dal suolo.29 Che poi, in realtà, uno non esclude l’altro. Perché è possibile che pur essendo in un allevamento piccolo, un coniglio debba comunque crescere in gabbia. Ed è proprio la gabbia che devi temere.

Una vita sul reticolato

È dalla fine degli anni Cinquanta che i conigli della razza Bianco di Nuova Zelanda vivono sul grigliato, e che mangiano alimenti sotto forma di pellet provenienti dagli Stati Uniti. Nonostante questo, restano conigli selvatici. Amano i prati con piante e sterpaglie dove nascondersi. Passano dal venti al settanta per cento del loro tempo a cercare cibo, e il loro raggio d’azione si estende fino a cinquecento metri.30 Corrono fino a trenta chilometri all’ora e saltano fino a un metro di altezza.31 In allevamento però passano la vita in gabbie che sono per lo più in ferro zincato, strutture chiuse da una rete metallica con il fondo a maglie rettangolari, sempre di rete metallica, facilmente pulibili e disinfettabili. Possono essere disposte secondo il modello flat-deck, cioè su un unico piano, con una migliore ventilazione e illuminazione. Oppure a batteria, cioè disposte su più piani.32 I conigli sotto, saranno bersaglio delle deiezioni di quelli sopra; per quelli sopra, l’allevatore avrà difficoltà a controllare il loro stato di salute, compromesso innanzitutto dal dover stare rinchiusi in gabbia. Subiranno deformazioni alla colonna vertebrale, perché costretti a stare sempre seduti e non si muoveranno quasi mai.33 Le gabbie avranno un’altezza massima di quaranta centimetri. Ciò significa che avranno problemi anche solo a tenere le orecchie dritte, un’attività che permette anche di regolare la temperatura del corpo. Basterebbero dieci centimetri in più per permettergli di stare in piedi.34 Potranno soffrire di piaghe ai garretti, la parte delle zampe che tocca terra, o più correttamente, che tocca il reticolato della gabbia, che provocherà delle ferite. Una soluzione ci sarebbe: l’utilizzo di tappetini.35 Ma non lo fa quasi nessuno, perché i tappetini andrebbero puliti e cambiati.

Non conviene

Ai conigli è andata male: a differenza degli altri animali, non è stata fatta nessuna legge che dica quanto deve essere grande la loro gabbia o quali siano le regole base per allevarli. Di fatto, in genere hanno a disposizione meno di un foglio A4.36 Eppure, basterebbe un oggetto di legno che pende dal soffitto per farli stare meglio, per evitare che mordano la gabbia e per farli tranquillizzare,37 e di conseguenza crescerebbero persino qualche grammo in più al giorno,38 per la felicità dell’allevatore. Nonostante questo, il pezzetto di legno non glielo dà quasi nessuno, perché probabilmente non conviene. D’altra parte, lo ammette persino l’Autorità europea per la sicurezza del cibo: è il «ritorno economico» a determinare le pratiche di allevamento che saranno adottate.39

La mortalità negli allevamenti di conigli è altissima: arriva a toccare il trenta per cento. Supera il cinquanta quando si diffondono malattie altamente contagiose, e non è una rarità. Diarrea, micosi, encefaliti, infezioni oculari, enteriti, parassitosi alle orecchie, malattie respiratorie, escherichia coli. Le malattie gastrointestinali sono il primo fattore di morte dei conigli: si gonfiano come palloncini. Dopo dodici settimane, chi sopravvive va al macello. Le femmine, per vivere più di dodici settimane, possono sperare di diventare fattrici: partoriranno ogni quarantadue giorni, e fra un parto e l’altro saranno impegnate ad allattare per circa un mese.40 A questi ritmi non possono comunque sperare di superare l’anno di vita.41 Le fattrici sono spessissimo rimpiazzate per problemi respiratori o per infezioni legate all’intestino. Un numero significativo, però, viene eliminato per problemi legati alla riproduttività: scarsa fertilità, mastiti, lesioni all’apparato genitale o urinario, come per esempio la torsione o il prolasso dell’utero. E poi infezioni, sangue alla vulva o perforazione della vagina, tutti disturbi causati dalla fecondazione artificiale.42 Non saranno curate: capita spesso che a un addetto siano affidate 600 fattrici; il tempo dedicato alla cura di ogni animale è quindi di 48 secondi.43 Può capitare che ci si accorga di un decesso anche parecchi giorni dopo. Basterebbe anche solo ridurre i ritmi di riproduzione, per esempio allungando l’intervallo di tempo fra ogni inseminazione, per dare il tempo alla fattrice di recuperare le forze.44 Ma, come scritto sopra, non «conviene», perché significa meno cuccioli. Quindi meno soldi.

Ma cosa dovrebbe fare un allevatore per alleviare la sofferenza degli animali? Rivoluzionare l’allevamento? Dalla regione Piemonte arriva un suggerimento. Secondo uno studio commissionato, basterebbe avere le gabbie un po’ più grandi e mettere il tappetino di plastica per ridurre drasticamente la mortalità: con le nuove gabbie si ferma al 3,8 per cento, a fronte del 15,7 delle gabbie tradizionali.45 Ma se gli allevatori non lo hanno fatto, date retta a loro: non conviene.

Il dilemma

Se sei una gallina e nasci in Italia, hai il 65 per cento delle probabilità di vivere in gabbia. Siete 62 milioni, e ben 40 milioni di voi passeranno tutta la vita poggiando le zampe su un pavimento grigliato, in gabbie alte 45 centimetri, con a disposizione meno di un foglio A4, in capannoni dove siete stipate fino a settantamila.46 In natura passeresti la maggior parte del tuo tempo a razzolare, cioè a cercare cibo; sbatteresti le ali, ti stireresti, e dedicheresti del tempo anche a lisciarti le penne (attività molto importante per la salute del tuo piumaggio). Per deporre le uova cercheresti un luogo tranquillo e isolato, e strofineresti il corpo e le ali con materiale polveroso per rimuovere eventuali parassiti e depositi di sporco.47 Il bisogno di fare la toelettatura rimarrà così forte che ci proverai anche in gabbia, sfregando le ali contro il pavimento reticolato, lesionandoti la pelle. Da qualche anno in Europa sono state messe al bando le cosiddette gabbie classiche, per lasciare spazio alle «gabbie arricchite», arricchite cioè da alcuni dispositivi che cercheranno di farti sembrare la vita in gabbia più simile a quella fuori. Purtroppo, la vaschetta di sabbia che dovresti usare per pulirti le penne, si svuota al tuo primo passaggio.48 Ma almeno qualcuno ha fatto lo sforzo di rispettare la legge. L’Italia è stata condannata dalla Corte europea, perché non ha fatto applicare la direttiva che vieta l’utilizzo delle gabbie convenzionali.49

La malattia più comune alle galline chiuse in gabbia, e che provoca dal 20 al 35 per cento della mortalità, è l’osteoporosi. Se l’osteoporosi non le uccide, possono comunque soffrire di fragilità delle ossa o paralisi.50 D’altra parte oggi una gallina depone trecento uova l’anno, il doppio di quante ne faceva cinquant’anni fa. Ritmi così intensi provocano una carenza di calcio nell’organismo, dato che il calcio è implicato nella formazione del guscio.51

Certo, sarebbe meglio un allevamento a terra. Eppure, in gabbia le galline vivono più a lungo. Il motivo è semplice: nell’allevamento a terra, il mix tra feci, umidità provocata da abbeveratoi mal regolati, e animali come mosche, insetti e roditori che condividono la lettiera con le galline già stipate ad alta densità, si trasforma in una bomba di malattie infettive. Inoltre, se la lettiera è bagnata e vi è un’alta presenza di ammoniaca, l’animale rischia di lesionarsi le piante dei piedi. Le lesioni infette dallo staffilococco aureo, per esempio, possono portare alla pododermatite. La mortalità è resa ancora più alta dalla polvere presente nell’aria e dalle infezioni provocate dalle unghie che si spaccano.52 Dovessi rimanere ferita e sofferente, devi sperare che il tuo allevatore abbia pietà di te; se così fosse, ti abbatterà dislocandoti le vertebre cervicali.53

Predestinata a essere debeccata

Non ti ho ancora detto qual è la prima causa di morte delle galline in allevamento perché la sola idea è mostruosa: cannibalismo e beccaggio delle penne.54 Le ferite aperte, abbiamo visto, si infettano, e attirano le altre galline, che cominceranno a beccarti proprio là dove fa più male.55 E a quel punto le speranze di sopravvivere saranno poche.

Per paura di essere beccata dalle galline più aggressive che difendono l’alimentatore, la gallina mangerà di meno. E non sarà al sicuro da questo tipo di fenomeno in nessuna tipologia di allevamento: in gabbia solo la bassa densità potrebbe ridurre il cannibalismo. Anche negli allevamenti all’aperto, se di grandi dimensioni, si registrano alti tassi di cannibalismo e plumofagia, soprattutto se solo poche galline riescono ad avere accesso all’esterno.56

Non pensare che l’allevatore se ne resti con le mani in mano. A soli pochi giorni, la gallina viene debeccata con una lama rovente fino a 750 gradi, cosicché il becco, ridotto di un terzo, potrà provocare meno danni.57 La pratica, senza anestesia, fa un male cane, e lo dimostrano diverse ricerche.58 Per questo alcuni Paesi come la Svezia hanno deciso di vietare il taglio del becco. Per evitare la plumofagia si potrebbe usare una luce a bassa intensità.59 Ma questo indurrebbe l’animale a produrre meno uova, e all’allevatore non conviene.

Se la gallina sopravvive, a poco più di un anno di vita verrà mandata al macello60 perché sarà meno produttiva. Anzi, per un periodo non produrrà più uova. Questo periodo si chiama muta, ed è un evento naturale in cui la gallina mangia molto meno, cessa di produrre uova e cambia il piumaggio. A seguito di questo periodo ricomincia a deporre le uova,61 ma l’allevatore non può permettersi di cibarla senza avere niente in cambio, anche se solo per un breve periodo di tempo! Alcuni allevatori hanno escogitato una soluzione: inducono le galline a compiere la muta in anticipo per aumentarne la produttività. L’operazione ha successo soltanto se l’allevatore riesce a indurre uno stress tale alle galline, tanto che perdono le piume in poco tempo e tornano velocemente a produrre uova. Per farlo, però, l’allevatore dovrà costringerle a digiunare per qualche giorno, ridurre l’acqua e pure le ore di luce.62 La sospensione totale di acqua e cibo, lo ha ricordato anche il ministero, è vietata,63 e potrebbe persino provocare infezioni da salmonella, visto che gli animali sarebbero più deboli e suscettibili.64

Terroristi

In casa

L’appuntamento è per le undici di sera, a casa di uno di loro. È una palazzina di tre piani, nella periferia milanese. Salgo fino al terzo piano, l’ascensore non c’è. Vengo accolta da due cagnoni che mi fanno la festa. Sono tutti lì, ne manca solo uno che ci raggiungerà con un po’ di ritardo; da casa sua sono duecento chilometri, e prima di partire doveva mettere a letto le bambine. La casa è spoglia, ma accogliente. Ci convivono due membri del gruppo. Hanno già indosso i vestiti, mancano solo gli scarponi; e i passamontagna, ovviamente. «Stasera c’è la luna piena, in pratica è illuminato a giorno. Meglio aspettare un po’ di più. Anziché andare a mezzanotte, saremo là per le due.» Chiedo di andare in bagno. «In fondo a quel corridoio a destra. Quando entri chiudi subito la porta.» Perché? Vabbè, non chiedo e vado. In bagno con me c’è un coniglio. Cammino in punta di piedi, ho paura di disturbarlo. Ma lui, eccetto per un po’ di curiosità nei miei confronti, sembra continuare le sue attività come se non ci fossi. Faccio pipì davanti a un coniglio. Carino il coniglio! Dico quando torno in salotto. «Lo abbiamo salvato da un allevamento, era veramente in pessime condizioni. È solo da una settimana che è con noi, ma si è già ripreso.» E i cani? «Ce li hanno portati. Lei è stata trovata su una statale in Sicilia. Lui, invece, da un canile qua vicino, non lo voleva nessuno. Guarda che bello che è.» Il cane, come per ringraziare per il complimento, tutto scodinzolante va a infilare la testa fra le gambe della padrona, seduta sulla sedia.

Vorrei fare tante domande, vorrei approfittare di questo momento per conoscerli di più, capire le loro motivazioni. Ma, detto in soldoni, mi cago sotto. Riesco solo a pensare a quello che dobbiamo andare a fare. O meglio, che andranno a fare. Io li seguirò a distanza. Certo, ho già fatto cose di questo tipo, non è la prima volta che vado di notte in mezzo ai campi. Ma mai ho fatto, o meglio, assistito, a quello che faranno loro questa notte. E mai sono andata con loro. È molto importante con chi vai. Sono loro che hanno in mano la situazione, tu ti affidi totalmente. Non sai dove stai andando, non sai quanto sia pericoloso, non conosci le vie di fuga... O hai fiducia in loro, o è meglio che rimani a casa. Decido allora di tastare un po’ il terreno, per capire quello che mi aspetta. Com’è l’allevamento dove andremo? Ci siete già stati? «Sì. Ha capre, pecore e mucche. Tenute in condizioni pietose.» E l’allevatore, dove sta? «In pratica c’è una specie di cortile, dove c’è la casa dell’allevatore. Tutto intorno si sviluppa l’allevamento: prima il capannone dove stanno le mucche, poi...» Ah, l’allevatore vive lì? «Sì, certo.» E non è rischioso? «Il fattore rischio c’è sempre. Noi andremo dritti verso il capannone di pecore e capre, che è quello più distante dalla casa, facciamo quello che dobbiamo fare, e ce ne andiamo dritti alla macchina. Se vediamo che la situazione è tranquilla, io ho portato la bomboletta per lasciargli la firma sul muro: ALF

Animal Liberation Front, o Fronte di Liberazione Animale

Dal sito dell’organizzazione: «Consiste in gruppi autonomi di persone che in tutto il mondo eseguono azioni seguendo le linee guida. Questi gruppi vengono chiamati cellule. [...] Gli attivisti in una cellula non conoscono quelli di altre cellule [...]. Questo li aiuta a rimanere sconosciuti, a non coinvolgere troppe persone in caso di arresti. [...] I danneggiamenti economici e il danneggiamento della proprietà privata sono considerate azioni ALF, così come lo sono le liberazioni degli animali. Siccome non c’è un modo per contattare ALF, perché l’ALF è solo un’idea e non una organizzazione, sta a ognuno di voi decidere se prendere la responsabilità di lottare per fermare lo sfruttamento degli animali».65

ALF è nata negli anni Settanta in Gran Bretagna, e da lì si è diffusa in Europa e negli Stati Uniti. È stata classificata come organizzazione terroristica monotematica,66 e due dei dieci terroristi americani più ricercati negli Stati Uniti sono legati ad ALF.67 L’FBI stima che ALF ed ELF – Earth Liberation Front, la sua consorella e gruppi a loro vicini, abbiano commesso più di millecento atti criminosi negli Stati Uniti dal 1976 a oggi, con danni stimati attorno ai centodieci milioni di dollari. Negli ultimi anni ALF insieme a ELF «sono diventati gli elementi di estremismo criminale più attivi degli Stati Uniti».68 Sempre secondo l’FBI, «questi estremisti portano avanti atti di violenza motivata politicamente per forzare segmenti della società, inclusa l’opinione pubblica, a cambiare le abitudini legate ai temi considerati importanti per le cause degli estremisti».

Il metodo professato è quello nonviolento.69 Tuttavia, l’FBI ritiene che ci sia «una nuova volontà di alcuni all’interno del movimento di abbandonare il codice di condotta nonviolento [...] in favore di tattiche più aggressive».70 Dello stesso avviso il rapporto di Europol,71 che rileva come negli ultimi anni «c’è stato un aumento in Europa del numero di attività criminali portate avanti dall’estremismo per i diritti degli animali e degli atti che hanno danneggiato diverse proprietà attraverso esplosivi o incendi dolosi». Questi esplosivi sono piazzati «sotto le auto di proprietà di aziende o dei loro dipendenti, o all’ingresso delle loro case [...], che siano occupate o meno». Per l’Italia il rapporto cita un attacco incendiario che ha colpito «alcune strutture situate vicino all’ingresso delle guardie di un parco. L’incendio, che ha causato danni considerevoli, è stato rivendicato con la scritta “Questo è per gli animali imprigionati, ALF”». Il rapporto si riferisce all’attacco al parco naturale di Cumiana, nel torinese, avvenuto nel 2009.72 L’obiettivo degli animalisti era probabilmente quello di denunciare l’apertura di uno zoo. Qualcosa deve essere andato storto, perché le vittime delle venti molotov sono stati quaranta uccelli: poiane, falchi e gufi. ALF si è beccata una valanga di critiche anche dalle associazioni animaliste. Negli anni a seguire gli attacchi si sono intensificati. Nel 2010 in Europa sono stati registrati più di duecento incidenti legati a questo tipo di terrorismo, inclusi ventiquattro incendi dolosi scatenati da ordigni esplosivi.73 E nel 2013 tre persone sono state arrestate in Italia, per un attacco incendiario a Montelupo Fiorentino contro otto veicoli di proprietà di un caseificio.74

Leggendo i rapporti di Europol, sono rimasta colpita da questo passaggio: «Inoltre, cercano supporto via Internet e sui social network attraverso campagne di disinformazione. In un caso un gruppo di estremisti è entrato illegalmente in diversi allevamenti di suini e di conigli. Le riprese video all’interno degli allevamenti sono state poi pubblicate per dimostrare presunti abusi in corso in quegli allevamenti».75 Entrare illegalmente negli allevamenti per pubblicare successivamente le testimonianze video. Ma è esattamente quello che faccio io, con l’unica differenza che io sono una giornalista! E non conosco il caso del gruppo di estremisti di cui parla Europol, ma io sicuramente non faccio disinformazione, bensì faccio vedere quello che succede! Mi ha fatto strano che la mia attività fosse paragonata, nei fatti, a quella dei terroristi. Chi sta sbagliando, qui?

Nel bosco

Siete considerati dei terroristi, dico al gruppo di quattro ragazzi, equamente divisi in maschi e femmine, che già indossano il passamontagna. Siamo in un bosco, ma ancora lontani dall’allevamento, quindi possiamo parlare. Approfitto di quest’ultimo momento, perché poi dovremo stare attenti a non fare alcun tipo di rumore. «Se noi che salviamo degli esseri senzienti siamo considerati dei terroristi, come li chiamiamo chi sgozza questi animali?» Di fatto compiete dei reati. «Noi non siamo ladri, non sottraiamo niente a nessuno. Gli animali non sono proprietà di queste persone.» Non sono dell’allevatore? «La vita di un essere senziente non può essere sua, se ne è appropriato perché la legge glielo permette. Ma non tutto quello che è a norma di legge è giusto. Tra uccidere un essere vivente e salvarlo, la cosa giusta è salvarlo.» Ha senso salvare una vita quando ci sono miliardi di animali nella stessa condizione? «Se io salvassi te, mi chiederesti perché lo faccio?» No, effettivamente non te lo chiederei. Cosa vi ha fatto scattare la volontà di dedicare la vita a salvare gli animali? «Quando ognuno di noi prende finalmente coscienza che l’uomo non è il padrone incontrastato del mondo e non si può appropriare della libertà e della vita di un altro essere, pensi: devo fare qualcosa. Tutti gli animali e tutti gli esseri nascono liberi, nessuno si deve arrogare il diritto di togliere la libertà e di decidere della loro vita. Noi liberiamo i visoni per le pellicce, gli animali sfruttati nei circhi, i cani allevati per la vivisezione.» Rischiate tanto però. «Mai quanto rischiano loro. Noi abbiamo sempre una possibilità, loro no. Se ci chiedi se abbiamo paura di fare questa cosa, ti rispondiamo: mai quanto loro.» Interviene l’altro: «Se una pattuglia della polizia dovesse fermarci, sarebbe molto difficile spiegare che stiamo andando a salvare delle vite. Tante persone come noi sono state denunciate, tante arrestate».

È da quando c’è l’uomo, che ci sono gli animali allevati. «Non con gli allevamenti intensivi. È un vero e proprio olocausto, questo. Oggi non abbiamo veramente pietà per questi animali. Questa notte salveremo degli animali, e molti rimarranno lì. Per salvare quelli rimasti bisogna sensibilizzare la gente, solo così si potranno salvare tutti.» «Non c’è scritto da nessuna parte che siamo obbligati a mangiare carne per sopravvivere» aggiunge l’altro. «Carne o prodotti derivati.» Voi come giudicate chi lo fa? «Noi abbiamo mangiato animali, abbiamo indossato animali, siamo stati anche noi quelle persone. Ma abbiamo preso coscienza. A essere colpevoli sono soprattutto i consumatori. L’animale è stato ucciso per mano del macellaio, certo, ma quel macellaio ha avuto una richiesta. Quindi siamo anche noi colpevoli.» Prende parola la ragazza: «Soltanto a scopo alimentare muoiono novanta animali al secondo. Novanta adesso», e gli altri cominciano in coro a seguirla, «novanta adesso, novanta adesso, e così via. E queste sono le ultime ore di vita per migliaia di animali».

La luce accesa

Ora non possiamo più parlare, siamo a una distanza di duecento metri massimo in linea d’aria dall’allevamento. Le due ragazze rimangono alle macchine. Nel frattempo ci ha raggiunto il terzo ragazzo che veniva da fuori. Ci addentriamo in mezzo al campo, attenti a camminare sul sentiero di terra battuta, anziché sull’erba, per attutire i rumori che inevitabilmente facciamo. Seguo in silenzio i tre ragazzi. Tutto d’un tratto si bloccano, guardano dritto davanti a loro. Quello che mi sembra essere l’allevamento ha una luce accesa. È l’allevamento? Sussurro. «Sì.» Ma non dovrebbe esserci la luce accesa. «Non l’abbiamo mai trovata accesa.» È tardi, è strano che sia accesa. «Sono le due di notte. Quella luce dovrebbe essere spenta.» Potrebbe essere che l’allevatore si è svegliato? «Sì. Forse un animale sta partorendo, magari l’allevatore è in un capannone. Aspettiamo un attimo.» Aspettiamo. I rumori degli animali squarciano l’attesa e la rendono ancora più inquietante. La luce rimane accesa. Tic tac, tic tac. «Andiamo» fa uno dei tre. Come andiamo? «Non possiamo restare qui nel mezzo, e se aspettiamo un altro po’ si fa troppo tardi, potrebbe arrivare l’operaio per la prima lattazione.» Ma potremmo trovarci davanti l’allevatore. «È un rischio che dobbiamo correre.» Si sporge verso il mio orecchio un altro: «Ci avviciniamo piano piano per vedere com’è la situazione. Se è troppo rischioso, torniamo indietro». Gli faccio cenno di sì col capo. Avanzo di fianco a lui, e senza che neanche me ne accorga, mi ritrovo alle spalle dell’allevamento. Gli altri due ci fanno cenno di avanzare. Via libera. Passiamo il capannone dove stanno le mucche, è illuminato a giorno. Vanno dritti verso la stalla delle capre. Scavalcano il recinto e fra animali che scappano di qua e di là, afferrano un capretto ciascuno.

A passo svelto torniamo verso il campo. I capretti cominciano a belare. Qualcuno potrebbe sentirli. Camminiamo ancora più veloci. Dei cani abbaiano in lontananza, forse perché hanno sentito i capretti. Cominciamo a correre, cercando di non spaventare troppo gli animali. Finalmente arriviamo alle macchine. I ragazzi tirano fuori delle cesoie per tagliare le marche auricolari dalle orecchie dei capretti. Li fermasse la polizia, ci metterebbero un attimo a capire che quegli animali sono stati presi da un allevamento. E i furti in zona sono frequenti. Chiudono i capretti nel loro furgoncino, e partono.

Liberi

Passa una settimana, e vengo ricontattata via email da uno dei ragazzi. «Guarda come sono felici quelli che erano destinati a essere solo degli scarti di produzione.» In allegato le foto dei capretti: i capretti su una roccia, i capretti in mezzo all’erba, i capretti che brucano, i capretti che ricevono delle coccole. I capretti ora vivono in un santuario, un posto dove si trovano animali, salvati, liberati, rubati, recuperati, da allevamenti o macelli. Vivranno fin quanto la natura glielo permetterà, e nessuno di loro dovrà produrre latte, o diventare un arrosticino o un prosciutto.