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Gli scarti
NEL BOSCO IN MEZZO AI LUPI
Basta una domanda
Per caso, non ricordo neanche come ci arrivai, un giorno trovo su Internet un video. Era girato dall’associazione Four paws, che per due anni aveva filmato di nascosto gli allevamenti di bufale in Campania.1 Non potevo credere a quello che stavo vedendo. Era stata una rivelazione: perché non mi ero mai chiesta che fine fanno i maschi delle bufale?
Il video non ha audio. Si vedono vitelli morti lasciati nei recinti, altri morenti. In una scena un uomo prende il vitello per la coda e lo trascina a calci nella pala del trattore. La mamma segue il suo cucciolo a distanza, a dividerli c’è il recinto. Finché non lo portano via, il video non mostra dove.
Ero sconvolta. Mi metto in contatto con un gruppo di guardie zoofile campane del WWF, che mi danno come riferimento Piernazario. Prendiamo un appuntamento fuori dalla stazione di Paestum, in provincia di Salerno. Mi viene a prendere con una familiare un po’ scassata e piena di carte sparse sui sedili. «Non fare caso alla macchina» mi dice con la sua faccia naturalmente sorridente. «Oggi non c’è il sole, ma almeno non piove.» A pochi minuti dalla stazione incontriamo il tempio di Atena: «Quando piove diventa arancione, guarda, è il risultato dell’acqua con il travertino». L’arancione del tempio, il verde acceso dell’erba, il cielo grigio e pesante sulle nostre teste. E le bufale. «Sono vegetariano. Non si direbbe dalla pancia, eh? Essere vegetariano da queste parti non è facile. Però è da anni che lo sono, la mia famiglia ormai si è abituata.» Ci vuole pazienza. «Sono volontario di giorno, e di notte faccio l’architetto. Qui c’è tanto da fare. Guarda, questo è l’allevamento di cui ti parlavo.» Intercettiamo una Porsche che sta uscendo dal parcheggio. Piernazario abbassa il finestrino e fa cenno alla macchina di fermarsi: «Scusate, qui ci sta una giornalista che vuole capire il discorso dei bufalini. Potreste spiegarle gentilmente cosa fa il vostro consorzio?». «Mo’ non ho tempo.» «Solo un attimo. Voi cercate di recuperarli, ve li fate portare anche dagli altri allevamenti, non è così?» «Sì, sì. Abbiamo creato un piccolo mercato di élite della carne di bufalo. Non li ammazziamo, ma li cresciamo per poi farli diventare carne. È una carne molto saporita, ha un gusto forte, si è creata una nicchia, soprattutto al Nord, nei ristoranti di Milano.» Ci saluta, rialza il finestrino, «tiene da fare». «Quelli di Capaccio sono diffidenti» mi dice Piernazario. «Sarebbe pure un mio parente, ma i capaccesi sono fatti così.» Entriamo nel ristorante dell’allevamento, che ha il caseificio in loco. Ordiniamo il piatto degustazione: mozzarella di bufala, ricotta di bufala, bufala affumicata... Che piacere mangiare quel ben di Dio, una specie di orgasmo alimentare. Ma qual era il costo di quella bontà in termini di sofferenza animale, escluse le «nicchie»?
Avrei preferito non interrompere un tale godimento dei sensi con racconti di sangue e crudeltà. Ma ho il treno dopo poco, e non posso fare altrimenti. Gli parlo di alcune ricerche che avevo fatto dopo aver visto il video. A pochi chilometri da lì, meno di un anno prima, dodici vitellini erano stati trovati legati tra di loro e appesi a un albero. «Lasciati morire di stenti con la speranza che le carcasse sarebbero diventate cibo per gli animali selvatici.» Così diceva l’articolo di giornale.2 Che citava anche altri modi in cui venivano ammazzati i bufalini maschi: buttati nei fiumi con le zampe legate; soffocati nella stalla con la paglia ficcata in gola; sotterrati vivi; gettati nella fossa dei liquami. Piernazario mi conferma tutto, ma mi dice anche che le cose stanno cambiando: «Gli allevatori sanno che ora rischiano. La ASL ha deciso di prendere di petto la questione. Quando trovano una carcassa di bufalo, fanno il prelievo del DNA. Poi fanno il prelievo ai tori degli allevamenti vicini. Se corrispondono, l’allevatore rischia persino il carcere». E quel video che avevo visto? Davvero il fenomeno può dirsi risolto? «In zona non penso troverai molto. Ma a Caserta, invece, il problema c’è ancora. Però lì devi stare attenta: con quelli non si scherza.»
Sono bestie
Riprendo il treno, guardo dal finestrino. Non posso credere che dietro quei sapori unici si nasconda tanta crudeltà. Decido di andare in fondo alla questione, e sposto la mia attenzione sulla provincia di Caserta. Anche lì un video. Questa volta girato dal nucleo di polizia ambientale della capitaneria di porto di Napoli, nell’allevamento La Mariarosa, a Villaliterno, nel casertano. In un recinto si vedono diversi corpicini di vitelli di bufalo. Uno ha gli occhi serrati e la bocca spalancata, il cameraman sottolinea i dettagli con lo zoom. Chissà quante ore, quanti giorni, ci hanno messo per morire chiusi in quel recinto, insieme. La poliziotta alza la zampa di uno di loro: «È maschio». Poi indica quello in fondo: «Ha bisogno di un po’ di terapia!». È vivo. Il vivo fra i morti. Chissà da quanto tempo costretto a stare lì, a respirare l’odore di morte dei suoi compagni di recinto.
«Chi fa cose del genere agli animali è una bestia, non guarda in faccia a nessuno. Sono pericolosi!» Mio padre è furioso. Non vuole che prosegua la mia inchiesta. «Non giocare con quelle persone! Giochi con il fuoco!» Le sue parole mi hanno inquietato, lo ammetto. Decido allora di prendere più precauzioni. Scelgo l’albergo nel centro di Aversa, a trenta minuti circa dalle zone che dovrò bazzicare. Avevo cercato una persona del luogo che potesse accompagnarmi, ma senza fortuna. Con me ci sono comunque il mio operatore e il fonico, è già qualcosa. Partiamo, direzione Villaliterno. Davanti a noi una desolazione. Una statale, prostitute in pieno giorno, cumuli di rifiuti lungo tutta la strada, e dietro, a pascolare, le bufale. Un quadro squallido. Ci abbiamo messo un po’ a trovare l’allevamento, per arrivarci abbiamo dovuto chiedere aiuto a diversi allevamenti del posto. Finalmente lo troviamo. Un lungo cancello, un campanello. Suono. «Che volete?» «Cercavo Paolo Tonziello. È lei?» «No, non c’è.» «Ma è l’allevamento La Mariarosa, giusto?» «Sì, ma oggi non c’è.» Dal capannone dove ci sono gli animali si leva una voce, ma non capisco che dice. Il signore che è con me al cancello gli risponde: «Cercano a Tonziello!». «Arrivo!» risponde. «Scusi, ma quello è Paolo Tonziello?» «Sì.» «Ma non aveva detto che non c’era?» «Infatti, stava in coppa al trattore.»
Arriva un uomo che non supera i quarant’anni, e che mi accoglie con un sorriso e una bella stretta di mano. «Mi dica.» «Sto seguendo la questione dei bufalini maschi, e ho visto che il suo allevamento è stato sequestrato perché le avevano trovato un cimitero di bufalini. Li lasciavate morire di fame!» Fa un ghigno, e scuote la testa. «Non stavamo in allevamento, perché a mia mamma ci venne l’infarto. Avevamo lasciato da soli gli indiani, che fecero quel bordello.» «Adesso i bufalini maschi che fine fanno?» «Li mandiamo al macello. Li vuole vedere? Però loro non entrano.» Per «loro» intendeva l’operatore e il fonico. Lo seguo. Mi fa entrare nella sua stanzetta, un’immagine di Padre Pio appesa sopra la scrivania. Mi mostra le bolle che certificano il trasporto dei bufalini al macello. Mi fa nuovamente strada e mi porta davanti al recinto dei bufalini. Non capisco se è quello del filmato che avevo visto, dove si trovavano le carcasse. Ora ci sono quattro vitellini che sembrano in buone condizioni. D’altronde, non può fare altrimenti. Ha ancora l’allevamento sotto sequestro, e quindi sotto controllo. «Ma nella zona c’è ancora il problema dei bufalini» gli dico. «No, non c’è più il problema. Ora a venti giorni gli devi mettere la marca auricolare, e poi lo mandi al macello.»
La notte faccio molta fatica a prendere sonno. Ogni volta che vedo un’ombra nel corridoio mi immagino qualcuno che si ferma davanti alla mia stanza. Sono scossa. Mio padre aveva ragione: chi è in grado di fare cose del genere può essere capace di tutto. Però, per capire veramente se il problema dei bufalini era risolto come mi dicevano, ho bisogno di uno bravo. Una specie di segugio. Che venga da fuori, perché ho la netta sensazione che in zona prevalga la voglia di minimizzare il problema, o peggio di nasconderlo. Chiamo un mio amico animalista, esperto in investigazioni sugli allevamenti, e gli dico che voglio che perlustri le campagne del casertano. Il giorno dopo è sul posto. L’accordo è che condivida immediatamente la sua posizione su Whatsapp, qualora trovi un bufalino. Ci salutiamo alle dieci del mattino davanti all’albergo, ognuno con la sua macchina. Non mi piace immaginarlo da solo per le campagne, ma è uno che sa il fatto suo, e in caso di pericolo, nessuno meglio di lui saprebbe cavarsela. Alle due del pomeriggio ricevo la sua telefonata: «L’ho trovato. Ti mando la posizione.» Con l’operatore e il fonico mi fiondo nel luogo indicato, a trenta chilometri da dove ci troviamo. Dalla statale usciamo dove il cartello indica «Casal di Principe».
«I cosi»
L’animalista ci aspetta davanti a una pompa di benzina. Parcheggia la macchina e sale sulla nostra. Percorriamo un tratto di statale e giriamo in una stradina. Superiamo due allevamenti di bufale, cui segue un terreno incolto. «È lì.» «Che facciamo?» chiedo. «Dove lasciamo la macchina? Se la lasciamo in mezzo a questo sentiero potrebbero vederci e venirci incontro.» «Andiamo dritto, magari la possiamo lasciare dietro a quei cespugli.» Proseguiamo altri cinquanta metri, e incrociamo un capannone malconcio, con davanti delle coltivazioni trascurate. Sembra abbandonato, ma su un tronco d’albero tagliato ci sono pezzi di vetro e arnesi lasciati alla rinfusa. «Ragazzi, andiamo via da qui subito. Lasciamo la macchina in mezzo al sentiero, e quel che succede succede. Meglio però avere la macchina a portata di mano.» Torniamo indietro, e lasciamo l’auto in mezzo, in bella vista. Mi dirigo verso il punto in cui l’animalista aveva visto il bufalino. Mi avvicino: ci sono delle ossa. E c’è anche un pezzo di teschio. Mi fermo a guardare. L’animalista mi chiama, e mi indica un punto più avanti. Sta lì, coricato sul fianco, metà del corpo ricoperto di terra. Forse avevano provato a interrarlo.
Non tardano molto. Non sono passati neanche tre minuti che sul sentiero compare una Panda. Si ferma. Decido di andargli incontro. «Chi siete?» «Sono una giornalista, ho appena trovato un bufalino morto.» Apre la portiera della macchina, faccio un balzo. «Le faccio paura?» chiede, scendendo. «Un pochino!» rispondo, cercando di simulare un tono ironico. Il cuore mi batte forte. La strada principale è lontana, per arrivare lì avevamo fatto almeno tre minuti di macchina in mezzo al niente. «È il suo l’allevamento che c’è qui?» «Sì.» «Il bufalo sta proprio dietro al suo allevamento.» «Se li trova se li porta a casa? Sa quanto ci costano questi cosi?» Dice proprio così, «cosi». «Quanto?» «Mille euro l’anno. Non servono a un cacchio. Mica fanno il latte.»
Non mi sarei mai aspettata tanta franchezza. Non aveva ammesso di essere stato lui a buttare lì il vitellino, ma neanche aveva preso le distanze dall’accaduto. Anzi, lo giustificava. Stava giustificando quello che era a tutti gli effetti un reato. «Ma non le fa pena?» chiedo. «E lei non prova pena quando mangia la carne?» Si avvicina un uomo col trattore. «Che è successo?» «Abbiamo trovato un bufalino morto, lo vuole vedere?» gli chiedo, facendogli strada verso la carcassa. «È da molto che sta lì?» «È freschino» rispondo. Arriva, guarda la carcassa del bufalino: «È da un po’ che manco. Ora chiamo il carro funebre e lo faccio venire a togliere». «Il carro funebre?» chiedo, senza riuscire a trattenere un risolino. «Come si chiama?» «Forse voleva dire ditta di smaltimento.» «Quello. Cinque euro e lo faccio venire a togliere.» Ci raggiunge anche il primo allevatore. «Ha visto?» «Sarebbe stato meglio se se lo fossero mangiato le bestie selvatiche.» «Ma per legge sarebbe dovuto andare al macello!» rispondo. «E dobbiamo pagare pure il macello? Sa quanto ci costa? Venti, trenta euro.» Mi fermo un attimo. Questa aberrazione avviene per risparmiare trenta euro. Lui continua: «Ma la legge qua dove sta? Esiste la legge in Italia?». Provo a dirgli che i bufalini ammazzati in quel modo rappresentano un costo per la mozzarella di bufala, che non si può far morire così degli esseri viventi per risparmiare qualche euro, che tutto questo era disumano. «Lei è mai stata a vivere in un bosco in mezzo ai lupi? No? E allora vada a vivere un po’ insieme ai lupi.»
I numeri non tornano (anzi, sì!)
Era paradossale, ma mi sentivo sollevata. Dopo una sequela di non so, di spiegazioni sul fatto che il problema fosse risolto, avevo finalmente trovato il corpo del reato. Davvero tutto questo succedeva solo per risparmiare pochi euro?
La legge prescrive che il vitello non può essere allontanato dall’allevamento prima che siano passati diciassette giorni; questo per permettere al vitello di bere il latte della mamma e di far seccare il cordone ombelicale. Dopodiché, se è maschio e l’allevatore vuole disfarsene, basta chiamare una ditta specializzata che lo porta al macello. È vero, tutto questo ha un costo. E la natura è stata beffarda: nascono più maschi che femmine.3 Ogni vitellino consuma circa quattro litri di latte al giorno, per un totale approssimativo di cinquanta euro. Per immatricolare e registrare il vitellino nella banca dati nazionale servono altri cinque euro.4 Secondo l’allevatore con cui avevo parlato, per mandare il vitellino al macello bisogna pagare altri venti o trenta euro. Il totale è una media di ottanta euro. Un allevatore con duecento bufale deve mettere in conto che all’anno gli nasceranno oltre cento vitelli maschi. Senza considerare lo scherzo che ha fatto la natura, e ipotizzando quindi una parità di nati fra maschi e femmine, ogni allevatore dovrebbe sborsare ottomila euro l’anno per fronteggiare il costo della soppressione dei bufali maschi. Ma se si possono uccidere lo stesso, senza dover pagare un euro, chi glielo fa fare all’allevatore di buttare dei soldi per uno scarto di produzione?
Glielo farebbe fare la legge! Una volta che al bufalino viene messa la marca auricolare, la sua vita è tracciata, così come la morte. Vero, ma se l’allevatore aspetta un po’ prima di mettere la marca? A un mio infiltrato, un allevatore della provincia di Latina ha risposto così: «Se non gli hai ancora messo la marca auricolare, fai una buca e lo metti sotto. La marca auricolare andrebbe messa a venti giorni. Io aspetto: un mese, un mese e mezzo...». Così risolve anche il problema delle femmine! I cuccioli, infatti, si ammalano spesso, la maggior parte delle volte di diarrea. Così, se non guarisce e non è stata ancora registrata, sbarazzarsene è una passeggiata.
Gli episodi con cui mi ero confrontata erano singoli, o erano una prassi? Consulto l’Anagrafe zootecnica, una banca dati nazionale dove sono registrati tutti gli animali che vivono in Italia. E trovo un dato sconcertante: fra i bufali risulta che nascono più femmine dei maschi! E la differenza è notevole: 3150 per la Campania,5 e ben 27.522 per l’Italia!6 Cioè in Italia risultano 27.522 bufale nate femmine in più dei maschi! Tutte le testimonianze che avevo raccolto tornano. Il dato è scritto lì, nero su bianco. Il quadro è completo: per una parte di allevatori è una prassi non registrare i vitelli maschi, cosicché quelli più crudeli li ammazzano con le loro mani, risparmiando i costi del macello. Alcune stime parlano di settantamila bufalini maschi ammazzati così ogni anno.7 Il ministero della Salute, incaricato dei controlli, che dice? Che nel suo piano di controlli annuale non ha riscontrato «irregolarità rilevanti».8
Indice di conversione
Non è sempre stato così. I Romani mangiavano carne di bufalo;9 e alcune ricette sono state trovate nei libri gastronomici dei Borboni.10 A ragion veduta: la carne di bufalo ha una naturale ricchezza proteica, meno grassi, meno colesterolo, meno calorie e più ferro rispetto a quella degli altri bovini. E allora perché il bufalo, anziché mandarlo al macello a neanche venti giorni – quando va bene – e farlo diventare mangime di cani e gatti,11 non lo si fa crescere per destinarlo alle tavole degli italiani? Perché costa. Costa di più crescere un bufalo rispetto a un vitello normale. Innanzitutto il tempo: per raggiungere il peso di macellazione, il bufalo deve crescere fino a diciotto-ventiquattro mesi, mentre al vitellone ne bastano nove. E poi il mangime: il bufalo ha bisogno del doppio per crescere quanto il vitello. Questo significa che il suo indice di conversione è basso. O meglio: non efficiente. In più, i commercianti non ritengono la carne di bufalo un prodotto da promuovere, piuttosto da spacciare come carne bovina12 e rifilarla così al consumatore. Anche prima del sistema intensivo di allevamento, l’allevatore non aveva interesse a prendersi cura del maschio, e dopo avergli dato giusto il latte necessario al sostentamento, gli dava del fieno scadente e lo lasciava al pascolo dopo i sei mesi. Il bufalo arrivava al macello con uno spiccato odore di muschio, a causa dell’abitudine degli animali di cercare refrigerio nelle pozzanghere. Quando è stato abbandonato il pascolo, per i maschi è stata la condanna a morte: bisognava nutrire gli animali, che non potevano più andare a cercarsi l’erba da soli, e l’insilato e il fieno, che hanno un costo, risultavano molto più redditizi se dati alle bufale da latte anziché ai maschi da carne. Non c’era alcun ritorno economico. E i pochi allevatori che avevano cura di far crescere i bufali come si deve per trasformarli in carne di qualità venivano tagliati fuori dal mercato.13
Il paradiso (a tempo) dei bufalini
Sono tornata dove tutto era cominciato: all’allevamento dei bufali maschi. Fa parte del consorzio Alba, che ha riunito gli allevamenti specializzati in carne di bufalo. Insieme al maiale, il bufalo è il mio animale preferito. Mi fanno impazzire i suoi capelli ricci con la riga in mezzo, la sua aria fra il curioso e il menefreghista, la sua voglia di conoscerti e leccarti. Il regista Pietro Marcello gli ha persino dedicato un film, Bella e perduta, con Pulcinella che riesce a salvare il bufalo maschio più volte dal suo inesorabile destino.
Certo, la fine di quei bufali, come per qualunque animale da allevamento, è la morte per mano dell’uomo. Tuttavia essi hanno la possibilità di vivere fino a due anni, e di vivere in maniera dignitosa. E di passare da scarto di produzione al rango di prodotto di un mercato di élite. «Ogni prodotto della natura ha la sua collocazione economica» mi dice l’allevatore Contini, mentre mi mostra la bresaola di bufalo, il salame di bufalo, il bufalino cocktail. «Diverse squadre di calcio si riforniscono da noi. Abbiamo mandato la nostra carne anche al Milan.» Per ora resta un prodotto per pochi intenditori che hanno il portafoglio pieno. Non ci resta che sperare che il mercato scopra questo splendido animale, e gli conceda di vivere, almeno per un po’.
TRADIZIONI DURE A MORIRE
1.Libertà dalla sete, dalla fame e dalla cattiva nutrizione
2.Libertà di avere un ambiente fisico adeguato
3.Libertà dal dolore, dalle ferite e dalle malattie
4.Libertà di manifestare le caratteristiche comportamentali specie-specifiche
5.Libertà dalla paura e dal disagio
Le cinque libertà degli animali, Farm Animal Welfare Council del 1965
Salvato dal latte in polvere
Hai un allevamento di vacche da latte. Per mantenere dei ritmi di produzione efficienti, le tue mucche devono partorire una volta l’anno; così, quando sta finendo il latte del parto precedente, è già pronto quello del parto successivo. Se nasce femmina, puoi festeggiare: hai una futura mucca da latte. Ma se nasce maschio? Un tempo era solo un peso morto, e alcuni tuoi colleghi se ne disfacevano alla bell’e meglio, un po’ come per i bufalini. Dagli anni Cinquanta, però, le cose sono cambiate. E se non devi più fare il lavoro sporco per liberarti del vitello maschio, devi ringraziare l’invenzione del latte in polvere. O meglio, devi ringraziare l’abbondanza di latte, che è stata poi trasformata in polvere. Mi spiego. Nel periodo subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il progresso tecnologico e la politica europea di sostegno dei prezzi avevano spinto la produzione di latte a vette mai viste prima. Tanto era il latte sul mercato, che i consumatori non riuscivano a finirlo tutto. I produttori si sono chiesti: che fare di tutto questo latte? Semplice: lo diamo ai vitelli, sotto forma di latte in polvere, inventandoci così il mercato del vitello a carne bianca e promuovendolo come un prodotto pregiato per palati fini! Così hanno preso due piccioni con una fava: hanno ricollocato il latte in eccedenza, inventandosi una formula, quella in polvere, che avrebbe permesso al latte di valicare confini di spazio e tempo; e hanno trovato una collocazione sul mercato al vitello maschio.
Una separazione
Ci sono allevatori specializzati nella crescita di questi vitelli, ma è l’allevatore delle vacche che si occupa dell’aspetto forse peggiore di tutta la faccenda: separare il vitello dalla mucca. In genere il vitello viene separato dalla mamma immediatamente dopo il parto, o al massimo dopo qualche giorno. La prassi ha una serie di vantaggi: massimizza il guadagno economico, perché il latte va destinato il prima possibile al consumo umano; facilita il controllo dell’allevatore sull’alimentazione e sull’igiene del vitello; la mucca torna più velocemente al calore, condizione necessaria perché sia possibile procedere con la fecondazione in vista del parto successivo; riduce lo stress da separazione, che aumenta a seconda del tempo che mucca e vitello trascorrono insieme.14 Quando i due vengono separati, il cuore della mucca comincia a battere più velocemente, rumina di meno e dorme male.15 Un indicatore dello stress è anche l’aumento della vocalizzazione, che in natura servirebbe a riunire la mucca e il vitello. Appena i due vengono separati, la mucca muggisce alla ricerca del suo cucciolo. La mamma non potrà leccare il vitello, attività che trasmette al cucciolo benefici alla respirazione, alla circolazione, all’apparato immunitario e a quello digerente, con effetto immediato sulla riduzione degli attacchi di diarrea.
Alcuni allevatori, pochi per la verità, hanno deciso di far crescere il vitello con la mucca, e grazie a questo hanno registrato miglioramenti nella salute e nella produttività degli animali. Per le mucche, per esempio, poter allattare riduce il rischio del trattenimento della membrana del feto e di mastite di due volte e mezzo.16 Ma allora perché la stragrande maggioranza dei tuoi colleghi continua invece a separarli? Forse perché se si lascia il vitello con la mamma, c’è meno latte a disposizione per il consumo umano: se il vitello beve il venti per cento, all’uomo ne rimane l’ottanta.
Ho letto storie incredibili su mucche separate dai loro vitelli che scappano dall’allevamento per andarli a cercare. Blackie, una mucca del Devon, nel Regno Unito, si fece undici chilometri per raggiungere la fattoria alla quale era stato venduto suo figlio; il contadino del Caucaso Magomed ritrovò la sua mucca a cinquanta chilometri di distanza dall’allevamento, riunita con il suo vitello, che si trovava presso l’agricoltore di un paese vicino cui era stato ceduto.17 Ma sono storie, appunto. L’allevatore deve pensare al latte, e a disfarsi il prima possibile del vitello, che è solo un costo. Dovrà tenerlo in allevamento per quindici giorni, e poi potrà finalmente consegnarlo al collega che produce il vitello a carne bianca.
In isolamento
Per il bene del vitello, all’inizio l’allevatore dovrà tenerlo in una gabbietta singola. La legge parla di non più di otto settimane. Cinquantasei giorni. Il vitellino vivrà in isolamento tutto questo tempo. Lo so, l’idea non piace neanche a me, forse neanche all’allevatore, e ancora meno al vitellino. Ma non è che non vi sia una logica dietro questa scelta: in gruppo, il vitello ha un rischio maggiore di ammalarsi, l’allevatore farebbe più fatica a controllare se effettivamente sta mangiando, e maggiore movimento significherebbe maggiore dispendio di energia, e quindi più mangime per raggiungere il peso richiesto dal macello.18 Questo delle malattie, e quindi il contatto con gli altri animali, è un vero e proprio problema di cui è consapevole anche il legislatore, che però ha cercato un compromesso: i recinti individuali devono avere delle «pareti divisorie traforate», così i vitelli possono avere un contatto diretto fra loro, anche solo visivo.19 Per il Servizio di assistenza tecnica agli allevamenti (SATA), però, il fatto che gli animali si possano toccare fra loro è un «limite»: «se un vitello si ammala, facilmente si può ammalare tutta la fila». Anche gli allevatori sono consapevoli dei limiti di questo metodo: su cinquanta allevatori lombardi presi in esame, il 38 per cento di loro riteneva insufficienti le condizioni di aerazione e spaziosità in cui devono vivere i vitelli.20
Anche questo 38 per cento, però, non ha un incentivo reale a migliorare le condizioni in cui vivono i vitelli. I controlli sono pochissimi, e in diminuzione. Nel 2015 soltanto il 14 per cento degli allevamenti è stato controllato per il benessere animale, sei anni prima il 21 per cento. C’è stata quindi una diminuzione dei controlli. Le irregolarità riscontrate riguardano perlopiù la libertà di movimento degli animali e i loro recinti.21 Eppure, a differenza di quello che pensa la maggioranza degli allevatori, i vitelli allevati in box di gruppo crescono di più; lo stress da isolamento e da costrizione in uno spazio troppo piccolo, infatti, comporta un consumo di energia maggiore rispetto a quello consumato con il movimento nel box di gruppo. Gli effetti dello stress da isolamento sono evidenti: i vitelli leccano e mordono i secchi, le tettarelle e le sporgenze del recinto; nonché parti del loro corpo, come gli arti anteriori.22 Eppure, tutti questi dati non bastano a convincerli a cambiare il modo di allevare gli animali. Certe tradizioni sono dure a morire.
Bianca come il latte
Una buona fetta degli allevamenti di vitelli sono in soccida,23 spesso di proprietà della ditta che produce il mangime; metà dei vitelli in Europa beve il latte che viene dalla stessa azienda olandese leader nel settore.24 Anche perché tutto si basa su quello: senza il latte in polvere i vitelli non avrebbero la carne bianca. È una cosa contro natura. In pratica stai denutrendo i tuoi animali, forzandoli a mangiare una cosa che non dà loro le proprietà nutritive necessarie, e che in natura avrebbero abbandonato da tempo. Eppure sei anche consapevole che è solo grazie al latte in polvere che i tuoi vitelli non sono più uno scarto di produzione. E che solo così a questi animali è concesso di vivere per qualche mese.
La carne del vitello è bianca perché manca l’emoglobina, che manca a sua volta per carenza di ferro. La polverina magica che si dà al vitello, infatti, è composta da latte magro con integratori lipidici, vitaminici e minerali. Fino a poco tempo fa, ai vitelli veniva dato esclusivamente quello. Poi è intervenuta l’Europa, che ha imposto un quantitativo minimo di ferro, alimenti solidi e fibre.25 Purtroppo, però, non basta, e i vitelli restano nella condizione di monogastrici funzionali: il loro rumine, cioè, non si sviluppa. I vitelli non masticano mai o quasi mai. Le conseguenze dirette sono continue diarree, costipazione, meteorismo, cocibacellosi, salmonellosi,26 placche, ipercheratosi della mucosa ruminale, ulcere27 e aggregati di pelo nell’abomaso dell’animale.28
I vitelli avranno problemi anche all’apparato respiratorio, con serie possibilità che si ammalino di broncopolmonite e di altre forme influenzali. Le stereotipie comportamentali subentrano quando l’animale è frustrato in modo ripetuto o cronico. I più comuni sono le stereotipie orali, giochi effettuati con la lingua, che nascono dalla mancanza di attività importanti, come l’allattamento, il pascolare e la masticazione.29 I vitelli bevono la pipì, spinti dalla loro anemia, visto che contiene un po’ di ferro: anche questo è da annoverare fra i comportamenti anomali,30 e ci si può fare poco o nulla.
La regione Veneto ha finanziato un programma di ricerca per sperimentare nuovi piani alimentari per i vitelli a carne bianca.31 Il latte è stato sostituito da alimenti solidi a elevato contenuto proteico, come la soia o il pisello, più un alimento fibroso come la paglia. I risultati in termini di performance di crescita e di macellazione sono stati soddisfacenti. I vitelli crescevano anche di più rispetto a quelli che seguivano un regime alimentare normale. I ricercatori hanno osservato inoltre una riduzione delle stereotipie e del rifiuto dei pasti di latte, cosa che succede con i vitelli alimentati esclusivamente con pasti liquidi. La paglia è un vero e proprio agente di riduzione dello stress.32
Ma allora perché non possiamo aggiungere alla dieta dei vitelli un po’ di soia e un po’ di paglia? Ma come: non ricordate? Il vitello deve avere la carne bianca, così la vuole il mercato, altrimenti tornerà a essere uno scarto di produzione. Purtroppo con gli alimenti solidi gli animali ingeriscono più ferro, che si traduce in maggiore emoglobina nel sangue, che si traduce in un peggioramento del colore delle carcasse. Le carcasse dei vitelli che hanno mangiato soia hanno una minore luminosità e un indice del rosso più alto; la misurazione viene fatta dal valutatore del macello con il colorimetro portatile, non si scappa. Gli animali sono destinati a soffrire, e questa stessa condanna è il loro unico lasciapassare per poter vivere, seppure per soli sei mesi.
Una disgrazia
Non è esclusivamente colpa del mercato. Un altro studio, fatto su cinquanta allevamenti del bergamasco,33 mostra che la colpa è anche un po’ degli allevatori. Siamo onesti: i vitelli valgono poco, sicuramente a livello economico, ma anche nella considerazione dell’allevatore. Lo troverai anche scritto nelle riviste del settore: «molto spesso [...] capita di giudicare la nascita di un vitello maschio una disgrazia».34 Non esistono pratiche consolidate e pianificate, si improvvisa. Prima verranno alimentati i vitelli sani. Solo la metà degli allevatori bergamaschi metteva sempre l’acqua a disposizione dei vitelli. Alcuni utilizzano ancora la sonda esofagea per forzare la somministrazione del latte della mamma ai vitelli, con un rischio serio di danni alla laringe e all’epiglottide. Altri, anziché buttare il latte con l’antibiotico, o quello proveniente dalle mucche con la mastite, cioè con l’infezione alle mammelle, lo danno ai vitelli, aumentando così i rischi di batteri nell’apparato digerente.
Il vitello a carne bianca è il maschio della mucca da latte, la cui conformazione è basata sulla massimizzazione della produzione lattifera, e non ha quindi le forme e le qualità richieste dal mercato della carne.35
L’ allevatore è il primo a sapere che il consumatore non si fermerà neanche davanti al benessere animale per avere la sua carne bianca, ma può sperare nei cambiamenti delle esigenze produttive. Lo hanno detto a un convegno per specialisti: fino a che si è parlato di alimenti solidi solo per il bene dell’animale, questi erano un «semplice supporto». Ora, invece, stanno diventando un «autentico protagonista del programma di alimentazione» dei vitelli. E sapete perché? «Alla base di questo cambiamento c’è sicuramente la necessità di limitare il costo di alimentazione del vitello, soprattutto a fronte del prezzo della polvere di latte magro.»36 Ancora una volta non sono le leggi, e neanche i consumatori, ad aiutare il vitello. È il mercato del mangime a decidere per lui.
LO SCARTO DEGLI SCARTI
Triturato o gassato?
Sei lo scarto degli scarti. Più scarto di te non ce n’è. Non ti è concesso di superare il giorno di vita. La legge dice che non puoi essere ucciso oltre le 72 ore, ma tanto il processo industriale ti fa fuori prima. Hai una preferenza, fra uno e tre giorni? Io preferirei uno. Così non hai il tempo di farci la bocca. Il tuo peccato originario è di essere nato maschio di una razza in cui i maschi sono solo un’appendice, per nulla efficiente, delle femmine. Tu sei il pulcino maschio della gallina ovaiola.
Fino a poco tempo fa, quando compravo le uova al supermercato, a te non pensavo proprio. Ero tutta intenta a capire come avessero vissuto le galline: libere di razzolare o chiuse in un capannone? A terra oppure in gabbia? Se non trovavo il pacco che raggiungesse i miei standard, tornavo a casa senza uova. Poi ho scoperto la tua esistenza. E hai mandato a monte tutte le mie ricerche sulla vita della gallina; perché da qualunque allevamento io possa comprare le uova, il tuo destino sarà sempre lo stesso. L’idea della gallina maschio non mi aveva mai sfiorato. Eppure esisti. Eccome se esisti: a ogni gallina in circolazione corrisponde, più o meno, un suo simile maschio. Solo in Italia dovreste essere circa quaranta milioni.37 Nessuno si è mai preso la briga di contarvi, ma non prendertela.
Potrai morire in due modi. Gassato con l’anidride carbonica, che prima ti farà perdere coscienza e piano piano ti porterà alla morte; oppure con un «sistema meccanico che prevede la morte istantanea grazie alla velocità del processo»,38 come lo descrive Assoavi, l’associazione che raccoglie i produttori di uova. Più comunemente, è un trituratore.39 Per la direttiva europea che disciplina la materia si chiama «dispositivo munito di lame a rapida rotazione o protuberanze di spugna».40 Mi piacerebbe saperti consigliare in quale morte sperare, ma mi trovi un po’ spiazzata. Con il gas, ti batterai alla ricerca di aria fino alla fine. Con il trituratore, invece, potrebbe capitare che tu non muoia sul colpo, ma che rimanga gravemente ferito.41 Questo nonostante la direttiva europea dica chiaramente che il trituratore deve garantire «che tutti gli animali, anche se numerosi, vengano direttamente uccisi».42 Morirai successivamente, soffocato dai cadaveri dei tuoi compagni. Anche alcune femmine faranno la tua stessa fine. L’operaio, infatti, dovrà gettare le non idonee, quelle ferite o con difetti, insieme a te e ai tuoi consimili.43
Non pensare che i produttori lo facciano a cuor leggero: per Assoavi «allo stato attuale non esistono altre soluzioni, se non quella di sopprimere una parte di maschietti nel modo meno cruento possibile». Tutto fatto comunque nel rispetto del «benessere animale, [che] è un aspetto fondamentale e qualificante».44 Per sopprimerti il costo stimato è intorno ai0,02 centesimi di euro, «comprensivo di manodopera, ritiro, smaltimento e manutenzione ordinaria delle attrezzature impiegate».45 È strano che a te ci si rivolga in qualità di animale. Un trattamento di distruzione simile, infatti, sembra più adeguato a una «merce non remunerativa»,46 anziché a esseri viventi.
Non devi nascere
I pulcini maschi finiscono in una scatoletta di cibo per cani e gatti.47 Se li facessero crescere, potrebbero diventare un pezzo di carne destinato agli umani. Hanno cosce e petto più magri rispetto al classico pollo broiler, è vero, e richiedono più tempo per cuocere. Secondo i produttori sono «poco adatti ai tempi risicati della famiglia moderna».48 Ma sono buoni, e quando li fanno crescere diventano capponi, galletti livornesi o grangalli. Allora qual è il problema? Semplice: il loro indice di accrescimento. Crescono piano. Crescono così piano che ci mettono dai 70 ai 100 giorni per raggiungere il peso di macellazione,49 quando un pollo classico ne impiega meno di 40. Ciò significa che costano più o meno il doppio,50 perché l’allevatore deve comprare più mangime e deve tenerli per più tempo. Purtroppo non ci sono molte persone disposte a spendere un po’ di più per mangiarli, ma almeno, dei quaranta milioni51 che nascono ogni anno in Italia, uno su quattro riesce a sfuggire al destino del trituratore o del gas. Negli altri Paesi i pulcini maschi delle ovaiole fanno invece tutti la stessa fine.
Per i maschi non c’è scampo: nascono con un piumino di colore chiaro, mentre le femmine sono brune.52 L’operaio li vede passare sul rullo e li acchiappa. Ma veramente non c’è modo di fargli fare un’altra fine? O meglio, di non farli nascere proprio? In tanti stanno studiando il caso. Negli Stati Uniti, l’associazione che raccoglie quasi tutti i produttori di uova, si è impegnata ad abbandonare la pratica dell’uccisione a partire dal 2020.53
In Germania, invece, il parlamento ha bocciato la legge che avrebbe messo al bando il trituratore.54 Una decisione del genere avrebbe potuto far fallire l’intero comparto della produzione di uova! Però il governo ha deciso di impegnarsi e ha chiesto aiuto ai ricercatori.55 All’Università di Leipzig stanno lavorando a una soluzione che assomiglia all’aborto: si tratterebbe di estrarre del liquido dall’uovo di nove giorni, e verificarne il sesso attraverso un test genetico. Se è femmina si lascia incubare l’uovo fino ai 21 giorni; se è maschio, si distrugge. All’Università di Leuven, in Belgio, si sono focalizzati invece sul colore del piumaggio. Attraverso dei raggi infrarossi che illuminano l’uovo, si è raggiunto il 95 per cento di probabilità di capire se è maschio o femmina.56 Per Assoavi, però, questi metodi non sono ancora competitivi. L’estrazione del liquido dall’uovo, infatti, «potrebbe causare una mortalità embrionale difficilmente preventivabile», per non parlare dei «rischi di contaminazione; il sistema a raggi infrarossi, invece, «ha ancora un margine di errore troppo alto per renderlo applicabile su larga scala».57 Quindi da noi, per ora, non se ne parla proprio.
Una razza per tutti
Una terza soluzione ci sarebbe: creare una razza che permetta sia alla femmina che al maschio di avere uno sbocco commerciale. D’altronde, fino agli anni Cinquanta era così. Un’azienda tedesca, leader nel settore della genetica avicola, dopo cinque anni di sperimentazione, ha presentato la sua «gallina duale». La gallina femmina depone fino a 250 uova all’anno, mentre il maschio della gallina raggiunge il peso di macellazione a 56 giorni.58 Sono ottimi risultati. Tuttavia, ancora non bastano: la gallina duale non è efficiente quanto la gallina ovaiola, né quanto il pollo broiler. Bisognerà ancora attendere, ma anche il colosso Unilever, che usa qualcosa come 350 milioni di uova destinate a marchi di sua proprietà, come il gelato Ben & Jerry e la maionese Hellman, sta facendo pressione sugli incubatoi affinché fermino questa pratica. Ci sono ottime possibilità che questo accada: la tecnologia fa risparmiare. Con la demolizione delle uova dei maschi dodici giorni prima della schiusa, servirà metà dell’energia per riscaldare le uova rimanenti.59 Basta che lo capiscano anche quelli dell’industria delle uova, e il gioco è fatto.
Siamo noi i veri amanti degli animali
Io sono un cacciatore, un allevatore, un amante del circo... Le ho tutte! Guarda, questo è il mio cappotto in cashmere di cammello con astrakan in pecora karakul. Sono molto attento al benessere animale, perché è funzionale al benessere dell’uomo. Se l’animale non sta bene, la pelliccia è brutta. La vacca, se non mangia bene, latte non ne fa. Il maiale, se non mangia bene e non sta bene, carne non ne fa. Se, per ipotesi, smettessimo di mangiare carne, si estinguerebbero le vacche e i maiali! Siamo noi che preserviamo le specie, comprese le tigri del circo, perché mentre in natura sono minacciate, all’interno dei circhi e degli zoo non lo sono assolutamente. Noi siamo i difensori degli animali.
I miei visoni hanno le gabbie grandi più del doppio della dimensione richiesta per legge, sono gabbie lusso. Il benessere animale ripaga in termini di qualità del prodotto finale. La gabbia è quella che meglio di tutte garantisce il benessere animale. Questi animali, se andassero fuori in natura, creperebbero quasi tutti. Per diventare pelliccia impiega più o meno sette mesi di vita. Passa dal sonno alla morte senza sentire nulla, si usa il monossido di carbonio. Il mercato delle pellicce continua a essere in crescita. E del visone, come del maiale, non si butta via niente: il grasso di visone si usa in cosmetica, la carne per il biodiesel.
Il mio allevamento è tutto allarmato. Due anni fa sono entrati degli animalisti per fare delle foto, che poi hanno pubblicato su Internet. A un mio collega in provincia di Venezia hanno sgabbiato gli animali, ne hanno liberati cinquecento, per un danno di ventimila euro. Spesso gli animalisti non capiscono che danneggiando la produzione qui in Italia, dove c’è una grandissima attenzione per il benessere animale, non fanno altro che spostare la produzione in altri Paesi, tipo la Cina.
In salotto ho gli animali africani che ho cacciato: gnu, kudu e oryx. Sono a grandezza naturale. Ho anche le posate in corna di cervo e i lampadari fatti coi palchi dei daini. Il trofeo a cui tengo di più è un cervo che ho seguito per oltre un mese. L’ho scelto perché era il più bello, aveva un palco molto pesante, ma aperto e regolare. Dopo che sono finalmente riuscito a sparargli, l’animale, che era al bordo di una discesa, è andato giù per quasi due chilometri. Per tirarlo fuori dal bosco abbiamo dovuto lavorare come bestie. Orgogliosissimo, sono corso da mia moglie, che era in una boutique in centro città. Mi sono guardato un attimo, sporco di fango e di sangue, e mi sono detto: non posso andare dentro così smerdato. Così mi sono seduto su una panchina. È passato un signore e mi ha fatto l’elemosina, ma proprio in quel momento è uscita mia moglie e non sai quante me ne ha dette! La sera ce lo siamo mangiato, era anche buono. Anche se il più buono di tutti è il cinghiale.
Essere amanti degli animali ed essere animalisti sono due cose diverse. Amante degli animali lo sono anch’io, animalista no! Gli animalisti sono di due categorie: gli ingenui e i furbacchioni. Fra gli ingenui spero di poter annoverare anche te; i furbacchioni, invece, sono quelli che accusano me di sfruttare gli animali. In realtà gli animalisti li sfruttano molto più di me: ogni occasione è buona, infatti, per chiedere dei soldi! C’è una profonda analogia fra il movimento nazista e l’ideologia animalista. Durante il nazismo Göring ha abolito la sperimentazione animale, ma nei campi di sterminio la facevano sugli ebrei.
Associare la battaglia per i diritti civili a quella per gli animali è proprio una cazzata, perché l’animale non ha coscienza dei propri interessi. Gli animali chiusi in gabbia negli allevamenti intensivi soffrono? Chi dice che c’è sofferenza? Se qualcuno mi dimostra, con studi scientifici alla mano, che l’animale ha una coscienza che gli permette di desiderare qualcosa che nemmeno conosce, perché non l’ha neanche mai visto, a quel punto dico: avete ragione voi. Ma l’animale non ha coscienza del fatto che esiste un’altra realtà rispetto a quella in cui è nato. Il progresso l’uomo lo ha fatto anche modificando a proprio vantaggio la natura. L’impatto zero non esiste. Anche in questo momento stiamo uccidendo migliaia di microbi e batteri. È uno sterminio costante!
Se l’allevamento intensivo è fatto bene, anche quello è in sintonia con la natura. Ci sono degli animali che nascono, più natura di quella! Mi chiedi se la vita del maiale in allevamento è degna di essere vissuta? Il mio amico con cui vado a caccia fa un lavoro impiegatizio: si sveglia alle sette del mattino e torna a casa alle sette di sera, dopo essere stato tutta una giornata in ufficio. È vita questa?
Massimiliano Filippi, segretario di Federfauna