V

 

 

Tenni il giornale disteso sul tavolo e mi lessi e rilessi la stessa pagina perché non volevo guardare verso l'entrata. Entrava gente di continuo, e io non volevo essere uno di quelli che col muovere la testa su e giù tradiscono qualche folle aspettazione. Cosa abbiamo tanto da aspettare quando ci concediamo di essere siffattamente foderati di scetticismo? Vi era il solito assassinio sul giornale della sera, e qualche disputa parlamentare sul razionamento dei dolci; e lei adesso era in ritardo di cinque minuti. Ebbi la sfortuna che mi cogliesse mentre guardavo l'orologio. Sentii la sua voce dire: "Mi dispiace. Sono venuta coll'autobus e c'era molto traffico".

Io dissi: "Si fa più presto con la ferrovia sotterranea".

"Lo so, ma non volevo far presto."

Mi aveva spesso sconcertato con le sue verità. Al tempo in cui eravamo innamorati, cercavo di spingerla a dire più che la verità: che la nostra avventura non sarebbe mai finita, che un giorno ci saremmo sposati. Non l'avrei creduta, ma mi sarebbe piaciuto sentire quelle parole dalle sue labbra, forse soltanto per darmi la soddisfazione di respingerle io stesso. Ma non giocava mai a quel gioco di ingannare se stessa; e poi ad un tratto, inaspettatamente, mi faceva abbandonare ogni riserva con qualche osservazione di una tale dolcezza e vastità. Ricordo, una volta che ero rattristato della sua calma previsione che un giorno i nostri rapporti sarebbero finiti, di averle con incredula felicità sentito dire: "Io non ho mai e poi mai amato un uomo come amo te, e non lo farò mai più". Beh, non se n'era resa conto, pensai, ma anche lei aveva giocato lo stesso gioco di ingannare se stessi.

Si sedette accanto a me, e chiese un bicchiere di birra. "Ho riservato una tavola da Rule" dissi io.

"Non possiamo rimanere qui?"

"E' là che andavamo sempre."

"Sì."

Forse avevamo un'aria impacciata nel nostro atteggiamento, perché m'accorsi che avevamo attratto l'attenzione di un ometto seduto su un sofà non lontano. Cercai di fargli abbassare lo sguardo, ciò che fu facile. Aveva lunghi baffi e occhi di daino, e guardò affrettatamente altrove; il suo gomito urtò contro il gotto di birra e lo mandò a ruzzolare sul pavimento cosicché fu sopraffatto dall'imbarazzo. Allora me ne dispiacque, perché mi venne in mente che avrebbe potuto riconoscermi dalle mie fotografie; avrebbe benissimo potuto essere uno dei miei rari lettori. Aveva seduto accanto a sé un ragazzino; e che cosa crudele è mai umiliare un padre alla presenza del proprio figliolo. Il ragazzo arrossì fino a farsi scarlatto, quando il cameriere si precipitò avanti, e suo padre cominciò a scusarsi con non necessario calore.

Dissi a Sara: "Ma certo. Puoi far colazione dove vuoi".

"Sai, non ci sono mai più tornata."

"Beh, non era mai stato il tuo ristorante, vero?"

"Ci vai spesso tu?"

"Per me è comodo. Due o tre volte alla settimana."

Essa si alzò di scatto e disse: "Andiamo", e fu colta ad un tratto da un accesso di tosse. Sembrava una tosse troppo grande per quel suo corpicciuolo; la sua fronte si copriva di sudore nell'espellerlo.

"Segno brutto."

"Oh, non è nulla. Scusa."

"Un taxi?"

"Preferisco camminare."

Nel salire Maiden Lane, si trova sulla sinistra un'entratura e una grata che passammo senza dir verbo l'uno all'altra. Dopo la prima cena, quando l'avevo interrogata sulle abitudini di Enrico e lei si era accesa al mio interessamento, l'avevo baciata lì, piuttosto goffamente, in cammino per prendere la ferrovia sotterranea. Non so perché l'avessi fatto, amenoché non mi fosse tornata in mente quell'immagine nello specchio, perché non avevo nessuna intenzione di fare all'amore con lei; non avevo nessun'intenzione particolare nemmeno di rivederla. Era troppo bella per eccitarmi coll'idea di una sua accessibilità.

Quando ci sedemmo, uno dei vecchi camerieri mi disse: "E' moltissimo tempo che non siete stato qui, signore", e io mi augurai di non aver fatto quell'affermazione falsa.

"Oh" dissi "pranzo sopra questi giorni."

"E anche voi, signora, è molto tempo..."

"Quasi due anni" disse lei con quella precisione che a volte odiavo.

"Ma mi ricordo che era una birra doppia che vi facevate portare."

"Avete buona memoria, Alfred", e quello si fece raggiante dal piacere del ricordo. Sara aveva sempre posseduto il dono d'intendersela coi camerieri.

Il cibo interruppe la nostra sforzata conversazione su inezie, e soltanto quando il pasto fu terminato essa mi dette qualche idea del motivo che ce l'aveva condotta. "Volevo che tu facessi colazione con me" disse "volevo chiederti di Henry."

"Henry?" ripetei, cercando di tenere la delusione lontana dalla mia voce.

"Sono in pensiero per lui. Come l'hai trovato l'altra sera?"

"Non mi sono accorto di nulla di strano" dissi.

"Volevo chiederti... oh, so che hai tanto da fare... se tu non potessi andarlo a trovare ogni tanto. Credo che si senta solo."

"Con te?"

"Lo sai che non si è quasi mai veramente accorto di me. Da anni."

"Forse ha cominciato ad accorgersi di te da quando non sei in casa."

"Non esco molto" disse "in questi tempi" e la sua tosse interruppe opportunamente quello spunto di conversazione. Quando l'accesso fu passato, aveva avuto tempo di riflettere su quale scappatoia adottare, benché non fosse da lei eludere la verità. "Stai facendo un nuovo libro?" chiese. Era come se parlasse un estraneo, quel genere di estranei che si incontrano a un cocktail. Non si era valsa di un'osservazione consimile, neanche quella prima volta, bevendo lo sherry sudafricano.

"Naturalmente."

"Quel tuo ultimo non mi è piaciuto gran che."

"E' stato un vero tormento scriverlo proprio allora. La pace in vista..." E avrei potuto dire, altrettanto bene, la pace in fuga.

"Qualche volta ho avuto paura che tu tornassi a quella vecchia idea, quella che odiavo. Certi uomini lo avrebbero fatto."

"Mi ci vuole un anno per scrivere un libro. E' un lavoro troppo duro per una rivincita."

"Se tu sapessi quanto poco hai da rivendicare."

"Certo, scherzo. Abbiamo avuto delle belle ore insieme, siamo maturi, sapevamo che prima o poi doveva finire. Ora, vedi, ci possiamo incontrare come amici e parlare di Henry."

Pagai il conto ed uscimmo, e venticinque metri più giù per la strada vi era quel certo portone con quella grata. Mi fermai sul lastricato e dissi: "Suppongo che tu sia diretta allo Strand?".

"No, vado a Leicester Square."

"Io vado allo Strand." Essa si trovava dentro il portone e la strada era vuota. "Ti saluto qui. E' stato bello averti rivista."

"Sì."

"Chiamami ogni volta che sei libera."

Mi diressi verso di lei: sentii la grata sotto i miei piedi. "Sara" dissi. Voltò bruscamente la testa da parte, come a guardare se venisse qualcuno, per vedere se ci fosse tempo... ma quando tornò a voltarsi di nuovo, la tosse la sopraffece. Si piegò in due contro il portone e tossì e ritossì. I suoi occhi ne furono arrossati. Sembrava, nel suo mantello di pelliccia, un animaletto ridotto al muro.

"Scusami."

Io dissi con amarezza, come fossi stato derubato di qualcosa: "Bisogna pure curarla".

"Non è che tosse." Stese la mano e disse: "Arrivederci... Maurice". Il nome era come un insulto. Risposi: "Arrivederci", ma io non le presi la mano: me ne andai rapidamente senza guardarmi intorno, cercando di dare l'impressione di essere affaccendato e alleggerito dal poter andar via, e quando sentii ricominciare la tosse avrei voluto poter fischiare un'aria, qualcosa di spavaldo, azzardoso ed allegro; ma non ho orecchio per la musica.