E misi il primo piede esattamente a cavallo fra due lastre. Mi disinteressai del secondo e invece chiusi con molta concentrazione l'ascensore. Prima i due sportelli interni, poi la porta metallica che accompagnai delicatamente fino a quando non sentii lo scatto della chiusura.

Rimasi appoggiato di spalle al muro del pianerottolo forse per dieci minuti.

Tenevo la borsa davanti a me, con tutte e due le mani, le braccia tese. Ogni tanto la facevo dondolare. Guardavo da qualche parte con gli occhi socchiusi e, credo, un sorriso vago sulle labbra.

Quando il tempo giusto fu trascorso mi scostai dal muro. Mi ricordai di avere incontrato il ragionier Strisciuglio, un anno prima e pensai di bussare alla sua porta. Per raccontargli come era andata a finire.

Ma non lo feci. Rientrai nell'ascensore, che nel frattempo nessuno aveva chiamato, e andai via.

Era ora di tornare a casa.



Quando ero bambino e mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo lo sceriffo. Il mio idolo era Gary Cooper in Mezzogiorno di Fuoco. Quando mi dicevano che in Italia non esistono gli sceriffi, ma tutt'al più i poliziotti, rispondevo con prontezza. Sarei stato un poliziotto sceriffo. Ero un bambino duttile e volevo dare la caccia ai cattivi, in un modo o nell'altro. Poi, avrò avuto otto o nove anni, assistetti all'arresto di uno scippatore per strada. In realtà non so se fosse uno scippatore o un borseggiatore o che altro genere di piccolo delinquente. I miei ricordi sono piuttosto sfuocati. Diventano nitidi solo su una breve sequenza.

Sono con mio padre e camminiamo per strada. Uno scoppio di grida alle nostre spalle e poi un ragazzo magro che ci passa di lato correndo, mi sembra, come un fulmine. Mio padre mi tira a sé, giusto in tempo per evitare che un uomo, che arriva subito dopo mi travolga, correndo anche lui. L'uomo ha un maglione nero e grida mentre corre. Grida in dialetto. Grida al ragazzo di fermarsi che altrimenti lo uccide. Il ragazzo non si ferma spontaneamente, ma forse una ventina di metri dopo urta contro un signore. Cade. L'uomo con il maglione nero gli è addosso e intanto ne sta arrivando un altro, più lento e più grosso. Io sfuggo al controllo di mio padre e mi avvicino. L'uomo con il maglione nero colpisce il ragazzo, che da vicino sembra poco più che un bambino. Lo colpisce con pugni sulla testa e quando quello cerca di ripararsi gli toglie le mani e poi lo colpisce di nuovo. Figghi di puttan. Vaffammoc'a I murt d' mam't. Fuse' fuse', figgh db'cchin. E giù un altro pugno diritto sulla testa, con le nocche.

Il ragazzo grida basta, basta. Anche lui in dialetto. Poi smette di gridare e piange.

Io guardo la scena, ipnotizzato. Sento disgusto fisico e un senso di vergogna per quello che vedo. Ma non riesco a distogliere lo sguardo.

Adesso arriva l'altro, il grosso, che ha un'aria pacioccona ed io penso che interviene, e fa finire quello schifo. Lui smette di correre a cinque, sei metri dal ragazzo, che adesso è raggomitolato per terra. Copre quello spazio camminando e ansimando. Quando è proprio sopra al ragazzo prende fiato, e gli da un calcio nella pancia. Uno solo, fortissimo. Il ragazzo smette anche di piangere e apre la bocca e rimane così, senza riuscire a respirare. Mio padre, che fino a quel momento è rimasto impietrito anche lui, fa il gesto di intervenire, dice qualcosa. È l'unico fra tutta la gente intorno. Quello con il maglione nero gli dice di farsi i cazzi suoi. "Polizia!" abbaia. Però subito dopo smettono tutti e due di picchiare. Il grosso solleva il ragazzo prendendolo per il giubbotto, da dietro e lo fa mettere in ginocchio. Mani dietro la schiena, manette, mentre lo tiene per i capelli. Questo è il ricordo più osceno di tutta la sequenza: un ragazzino legato in balia di due uomini. Mio padre mi tira via e la scena va in dissolvenza. Da allora smisi di dire che volevo fare lo sceriffo.

Quell'episodio mi era tornato in mente qualche volta, negli anni.

Qualche volta mi ero detto che avevo fatto l'avvocato per una specie di reazione al disgusto di quella scena. Qualche volta, in qualche momento di esaltazione, ci avevo anche creduto.

La verità però era un'altra. Avevo fatto l'avvocato per puro caso, perché non avevo trovato di meglio o perché non ero stato capace di cercarlo. Il che, ovviamente, era la stessa cosa.

Mi ero iscritto a giurisprudenza perché pensavo di guadagnare tempo, visto che non avevo le idee troppo chiare. Dopo la laurea avevo pensato di guadagnare altro tempo andando a parcheggiarmi in uno studio legale, in attesa di chiarirmi le idee.

Per alcuni anni, dopo, avevo pensato che facevo l'avvocato in attesa di chiarirmi le idee. Poi avevo smesso di pensarlo, perché il tempo passava e avevo paura di dovere trarre qualche conseguenza, dal fatto di chiarirmi le idee. A poco a poco avevo anestetizzato le mie emozioni, i miei desideri, i miei ricordi, tutto. Anno dopo anno. Fino a quando Sara mi aveva messo alla porta. Allora il coperchio era saltato e dalla pentola erano venute fuori molte cose che non immaginavo e che non avrei voluto vedere. Che nessuno vorrebbe vedere.

Ogni uomo ha dei ricordi che racconterebbe solo agli amici. Ha anche cose nella mente che non rivelerebbe neanche agli amici, ma solo a se stesso, e in segreto.

Ma ci sono altre cose che un uomo ha paura di rivelare persino a se stesso, e ogni uomo perbene ha un certo numero di cose del genere accantonate nella mente. Dostojevskij. Memorie del sottosuolo. Non è bene quando quelle cose accantonate vengono fuori. Tutte insieme.

Facevo tutte queste riflessioni, ed altre, in studio mentre sbrigavo cartacce di ordinaria amministrazione. Controllavo scadenze, scrivevo atti semplici e soprattutto preparavo note spese. Dovevo, visto che con la difesa di Abdou non mi sarei arricchito. L'aria era fresca, grazie al condizionatore mentre fuori faceva caldo, definitivamente.

Finii verso le sette. La mia stanza era esposta a nord e avevo una grande finestra alla sinistra della scrivania. Guardai fuori e feci caso al sole sulla terrazza del palazzo di fronte e poi prestai attenzione al ronzio leggero del condizionatore e poi alla musica che proveniva ovattata dall'appartamento di sotto.

Questa consapevolezza era inusuale per me e mi fece sentire bene. Pensai che avevo voglia di una sigaretta, ma non come al solito. Volevo fare le cose con calma. Presi il pacchetto appoggiato sulla scrivania e lo tenni in mano per qualche secondo. Ne feci uscire una battendo con due dita sul lato opposto a quello dell'apertura e la tirai fuori direttamente con le labbra. Pensai alle volte infinite in cui avevo fatto come un automa quella sequenza di gesti.

Pensai che adesso riuscivo a pensare al vuoto senza essere sopraffatto dalla vertigine. Riuscivo a non distogliere lo sguardo. Sentii una specie di brivido per tutto il corpo e, insieme, esaltazione e tristezza. Ebbi l'immagine di una nave che esce dal porto per un lungo viaggio. Accesi la sigaretta con un fiammifero svedese e sentii l'urto del fumo nei polmoni mentre irrompeva un'altra sequenza di ricordi. Ma non mi facevano paura adesso. Potrei raccontare esattamente quello che pensai ad ogni singola boccata, da quella sigaretta.

Furono undici. Quando schiacciai il mozzicone nel vasetto di vetro che usavo come posacenere pensai che dopo la fine del processo avevo una cosa da fare.

Una cosa importante.



Il venerdì mattina dopo essere passato dal tribunale per una udienza preliminare andai in carcere da Abdou. Il suo interrogatorio era per il lunedì successivo e dovevamo prepararci.

L'agente di custodia della matricola mi fece entrare nella saletta e, con quello che mi parve un sorriso cattivo, chiuse la porta. Il caldo era soffocante, più di quanto mi aspettassi. Tolsi la giacca, allentai la cravatta, sbottonai il colletto della camicia e infine decisi che non ero un detenuto, che non era scritto da nessuna parte che dovessi rimanere chiuso a boccheggiare e così aprii la porta. L'agente nel corridoio mi guardò in modo ostile, sembrò sul punto di dire qualcosa ma poi rinunciò.

Mi appoggiai allo stipite della porta, fra la stanza e il corridoio. Tirai fuori una sigaretta ma non la accesi. Troppo caldo anche per quello.

Sentivo la camicia attaccata sulla schiena per il sudore e nel cervello fece irruzione un pensiero direttamente dai recessi dell'infanzia. Ci vorrebbe del borotalco, pensai.

Quando eravamo bambini e avevamo sudato, ci mettevano il borotalco. Se protestavi, perché pensavi di essere ormai troppo grande per il borotalco, ti veniva detto che avresti potuto prendere la pleurite. Se chiedevi cos'era la pleurite ti veniva detto che era una brutta malattia. Il tono con cui lo dicevano ti faceva passare la voglia di rifare la domanda.

Mentre pensavo a questo mi resi conto che era la seconda volta in due giorni che mi tornavano in mente cose dell'infanzia. Era strano perché io non pensavo mai all'infanzia. Non mi ricordavo quasi niente. Quando era capitato che qualcuno, qualcuna, mi chiedesse come era stata la mia infanzia avevo risposto a caso. Qualche volta avevo detto che avevo avuto una infanzia felice. Qualche volta avevo detto che ero stato un bambino triste. Qualche volta, quando volevo fare colpo, avevo risposto che ero stato un bambino strano. Mi dava un alone di fascino, pensavo. Noi tipi speciali spesso siamo stati bambini strani, era sottinteso.

In realtà non mi ricordavo quasi niente della mia infanzia e non avevo voglia di pensarci. Qualche volta mi ero concentrato per ricordare e mi era venuta tristezza. Allora avevo lasciato perdere. La tristezza non mi piaceva, preferivo evitarla.

Adesso guardavo stupito questi pezzi di ricordi che saltavano fuori da chissà dove. Mi davano una leggera malinconia e un senso di stupore, e di curiosità. Ma non tristezza, quella che prima mi aveva fatto distogliere lo sguardo.

Pensavo a quest'altro cambiamento e mi venne un brivido fortissimo che si diffondeva dalla schiena fino alla radice dei capelli sulla nuca, e sulle braccia. Anche se faceva caldo. La accesi, quella sigaretta.

Vidi arrivare Abdou da lontano nel lungo corridoio.

Mi venne incontro e mi diede la mano, facendo anche un movimento del capo che mi parve un leggero inchino. Mi venne naturale rispondere nello stesso modo e poi mi sentii in imbarazzo.

Aveva un giornale con sé e si fece di lato per farmi entrare nella saletta.

Ci sedemmo, evitando tutti e due la poltrona sfondata, che era sempre lì. Abdou mi porse il giornale, con una specie di sorriso.

«Cos'è?». Chiesi.

«Parla di te, avvocato». Il tono di voce era diverso.

Presi il giornale. Era di due giorni prima. Parlava dell'udienza del martedì precedente e c'era anche una mia foto. Non l'avevo letto né visto: da un anno non compravo i giornali.


VACILLA IL TESTE CHIAVE NEL PROCESSO PER LA MORTE DEL PICCOLO FRANCESCO


Drammatica udienza ieri nel processo a carico del senegalese Abdou Thiam per il sequestro e l'omicidio del piccolo Francesco Rubino. Hanno deposto alcuni dei testi fondamentali per l'accusa fra i quali Antonio Renna, proprietario di un bar a Capitolo, la contrada balneare di Monopoli dove si verificò la sparizione del bambino.

Il Renna aveva riferito, nel corso delle indagini preliminari, di avere visto l'imputato passare davanti al suo bar, vicinissimo al luogo della sparizione del bambino, pochi minuti prima della sparizione stessa. Interrogato in aula dal pubblico ministero il teste ha confermato quelle dichiarazioni, ostentando grande sicurezza.

Il colpo di scena vi è stato nel corso dello spettacolare controesame condotto dal difensore del senegalese, avvocato Guido Guerrieri. Dopo aver proposto una serie di domande apparentemente innocue ma dalle cui risposte è emerso un chiaro atteggiamento di ostilità del Renna nei confronti degli immigrati extracomunitari, l'avvocato Guerrieri ha mostrato al teste una serie di fotografie di uomini di colore, chiedendogli se vi fosse qualcuno che lui conosceva.

Il barista di Capitolo ha detto di no ed è stato in quel momento che il difensore ha calato il suo asso: ben due di quelle foto rappresentavano infatti l'imputato Abdou Thiam. Proprio la persona che il testimone Renna aveva dichiarato, con grande sicurezza, di conoscere e di avere visto passare davanti al suo bar quel tragico pomeriggio. Le foto sono state acquisite dalla corte come prove documentali.

Il pubblico ministero Cervellati ha accusato il colpo ed è stato costretto a riesaminare il testimone per chiarire nuovamente i dettagli della sua deposizione. Il testimone ha chiarito di non avere più visto l'imputato dall'anno precedente, epoca dei fatti, di essere certo delle sue dichiarazioni e di non avere riconosciuto l'imputato in fotografia per il tempo trascorso e per la cattiva stampa delle foto. Si trattava in effetti di fotocopie a colori con una resa non perfetta.

Il riesame condotto dal pubblico ministero ha in qualche modo riparato i danni ma è innegabile che nel corso di questa udienza l'avvocato Guerrieri abbia segnato qualche punto a suo favore, in un processo sicuramente molto difficile per la difesa.

Prima del barista erano stati interrogati il medico legale e il maresciallo Lorusso, l'investigatore che ha condotto le indagini. Anche l'esame del maresciallo ha conosciuto momenti di tensione quando la difesa ha adombrato mancanze e negligenze investigative, soprattutto nel corso della perquisizione effettuata presso l'abitazione del senegalese.

Si prosegue questa mattina con i genitori e i nonni del bambino. Per lunedì prossimo è fissato l'interrogatorio dell'imputato e poi, salvo eventuali nuove richieste di prova, si passerà alla discussione.


Lessi l'articolo due volte. Spettacolare controesame. Non riuscivo a reprimere il compiacimento infantile che mi dava leggere quelle parole e guardare quella mia foto sul giornale. Era accaduto qualche altra volta, per altri processi, che si facesse il mio nome e che venisse anche pubblicata una mia foto. In questo caso però era diverso. Ero io il protagonista dell'articolo.

Quando mi avevano fatto quella foto ? Non era recentissima, forse un paio di anni fa, ma non ricordavo in quale occasione. Stavo abbastanza bene anche se, insomma, dal vivo sono meglio, pensai.

Dopo qualche secondo di queste riflessioni mi sentii un idiota, posai il giornale sul tavolino e mi rivolsi ad Abdou.

Mi guardava. Dalla sua espressione si capiva che adesso era convinto che ce l'avremmo fatta. Aveva letto il giornale e adesso pensava che forse era stato fortunato e che era nelle mani dell'avvocato giusto. Mi chiesi se era il caso di disilluderlo e dirgli che nonostante a quell'udienza le cose fossero andate bene, le probabilità erano ancora ampiamente contro di noi. Mi risposi che non c'era nessun motivo per farlo. Allora feci solo un cenno di assenso col capo, scrollando leggermente le spalle. Poteva significare tutto.

«Va bene Abdou. Adesso dobbiamo preoccuparci della prossima udienza. Per il tuo interrogatorio».

Lui fece di sì con il capo e non disse niente. Era attento ma non doveva dire nulla. Toccava a me parlare.

«Adesso ti dirò come funziona la cosa, e ti dirò come devi comportarti. Se qualcosa di quello che dico non è chiaro, per piacere interrompimi e dimmelo subito».

Ancora sì con il capo, con decisione.

«Ti interrogherà per primo il pubblico ministero. Quando ti fa le domande, guardalo in faccia. Con attenzione, non con aria di sfida. Non rispondere se non ha finito la domanda. Quando ha finito girati verso i giudici e parla a loro. Non ti mettere mai a discutere con il pubblico ministero. Chiaro?».

«Quando parla il pubblico ministero guardo lui, quando parlo io guardo i giudici».

«OK. Ovviamente la stessa cosa vale quando le domande te le fa l'avvocato della parte civile, o anche quando te le faccio io. Devi far capire ai giudici che ascolti le domande e rispondi alle domande. Chiaro?».

«Sì».

«Aspetta che le domande siano finite, per rispondere. Soprattutto quando te le faccio io. Non deve sembrare che stiamo recitando, con tutte le battute a memoria. Capisci che voglio dire?».

«Non deve sembrare un teatro fra noi due».

«OK. Non sederti sul bordo della sedia. Siediti in fondo. Così.», gli feci vedere, «ma non ti sedere così». Gli feci vedere ancora. Uno che si siede ben comodo, quasi stravaccato, gambe accavallate eccetera.

«È chiara l'idea, sì? Non devi dare l'impressione di uno che stia per scappare, sedendoti sul bordo della sedia, ma non devi dare nemmeno l'impressione di essere rilassato. Si discute della tua vita, del fatto che tu possa rimanere in carcere per moltissimi anni e quindi non puoi essere rilassato. Se sembri rilassato vuol dire che stai facendo finta e loro se ne accorgeranno. Magari solo inconsapevolmente ma se ne accorgeranno. Mi segui?».

«Sì».

«Quando non capisci una domanda, o anche solo se non sei sicuro di averla capita, non cercare di rispondere. Chiunque ti abbia fatto la domanda, chiedi che venga ripetuta».

«Va bene».

«Allora, prima di andare avanti vuoi ripetermi quello che abbiamo detto finora?».

«Devo guardare in faccia chi mi fa le domande. Quando la domanda è finita mi giro, guardo la corte e rispondo. Se non capisco la domanda devo dire di ripetere, prego. Devo sedermi così».

Si sedette come gli avevo detto. Io sorrisi e feci sì con la testa. Non aveva bisogno che le cose gli fossero ripetute.

A quel punto tirai fuori dalla borsa la copia del suo interrogatorio davanti al pubblico ministero, e altre carte. Chiarito come doveva comportarsi, dovevamo parlare di cosa avrebbe dovuto dire, di come avrebbe dovuto spiegare le cose che aveva già detto e delle richieste di prove integrative che avrei dovuto formulare dopo il suo interrogatorio.

Rimasi in carcere fino alle tre, con il caldo che diventava sempre più insopportabile. Quando ci stringemmo la mano, al momento di andare via, pensai che avevamo fatto tutto quello che si poteva.

Passai da casa, feci una doccia, misi dei pantaloni leggerissimi e una polo. Poi mi preparai un'insalata, mangiai, fumai un paio di sigarette bevendo caffè americano shakerato, in poltrona. Verso le quattro e mezza uscii per andare in studio. Provai a citofonare a Margherita, ma non era in casa. Ci rimasi un po' male ma pensai che l'avrei chiamata più tardi, dopo avere finito di lavorare.

In studio ricevetti qualche cliente, passò a trovarmi il mio commercialista, sbrigai la corrispondenza e alla fine dissi a Maria Teresa che per quel giorno poteva andarsene prima. Abbassai gli occhi su un foglio che avevo sulla scrivania. Quando li rialzai lei era ancora là. La guardai con un leggero sorriso interrogativo. Non era una bella ragazza, ma aveva begli occhi azzurri, intelligenti e ironici. Lavorava con me da quattro anni e nel frattempo cercava di laurearsi in giurisprudenza. Voleva fare il magistrato.

«C'è qualcosa?», dissi mantenendo quel sorriso interrogativo. Lei, sembrava cercasse le parole.

«Volevo dirle che sono contenta... sono contenta che lei stia meglio. Sono stata molto... molto preoccupata».

Rimasi in silenzio, stupito. Da quando ci conoscevamo non avevamo mai nemmeno accennato a questioni personali. Dopo quattro anni non sapevo chi fosse realmente quella ragazza, se avesse un fidanzato, cosa pensava, eccetera.

Semplicemente non mi aspettavo che dicesse una cosa del genere, anche se sapevo benissimo che si era accorta di quello che mi era capitato. Fu lei a parlare di nuovo.

«Avrei voluto fare qualcosa per aiutarla, quando stava così male, ma lei era così distante. Ero preoccupata, pensavo che sarebbe finita male».

«Male?».

«Sì, non si metta a ridere. Pensavo a quelle persone che si suicidano e che poi gli amici e i conoscenti dicono che erano depresse, da un po' di tempo erano così cambiate e cose del genere...».

«Pensava che mi potessi suicidare?».

«Sì. Poi da qualche mese le cose hanno cominciato ad andare meglio e sono stata contenta. Adesso vanno molto meglio e volevo dirglielo, che sono contenta».

Non sapevo cosa rispondere. Mi venivano alla bocca solo delle banalità e non volevo dire delle banalità. Ci passano vicini interi mondi e non ce ne accorgiamo. Ero turbato.

«Grazie», dissi soltanto. Poi però, subito dopo mi alzai, feci il giro della scrivania e le diedi un bacio sulla guancia. Arrossì, un poco.

«Allora... ci vediamo lunedì».

«Lunedì. Grazie, Maria Teresa».



Dovevo finire la mia preparazione per l'interrogatorio di Abdou e dovevo chiarire alcune questioni tecniche per le mie richieste di prova integrativa.

Così rimasi a lavorare fin dopo le otto, poi chiusi tutto e uscii. Fuori c'era ancora luce e si era alzata una leggera brezza. Si stava bene ed io mi sentii euforico. Avevo fatto il mio dovere, era estate ed era venerdì. Per la prima volta dopo tanto tempo ebbi la sensazione del fine settimana, e fu una bella sensazione. Volevo fare qualcosa per festeggiarmi.

Provai a chiamare Margherita sul cellulare, ma era staccato o non prendeva. Provai a chiamarla dal citofono ma non era in casa. Ci rimasi un po' male, ma solo un poco.

Pensai a quello che mi sarebbe andato di fare e trovai subito la risposta.

Allora salii a casa, feci un piccolo bagaglio, presi qualche libro, montai in macchina e partii verso sud. Andavo al mare.

Arrivai a Santa Maria di Leuca verso le undici e presi una stanza in una piccola pensione proprio sul mare. Andai a cena e poi feci una lunga passeggiata, su e giù per il lungomare, sedendomi ogni tanto su una panchina a fumare una sigaretta, guardando la gente, godendomi il fresco della notte. Verso l'una e mezza andai a letto. Mi addormentai di botto, per svegliarmi alle nove del sabato. Pensai che non ricordavo da quanto tempo non dormivo in quel modo. Forse a vent'anni o poco dopo.

Quei due giorni furono bagni, sole, mangiare, leggere, dormire e guardare la gente. Pensare, quasi niente. Guardavo la gente sulla spiaggia, nei ristoranti, per le strade del paese, la sera. Passai ore a guardare la gente, senza preoccuparmi che gli altri guardassero me e potessero giudicarmi, in qualche modo. In spiaggia, il sabato mattina feci amicizia con una signora leccese sui sessantacinque anni, alquanto grassa con un costume a fiori celesti; fortunatamente intero. Era simpatica e mi raccontò di suo marito morto da tre anni, e del fatto che lei era stata molto male per cinque o sei mesi e pensava che la sua vita fosse finita perché si erano sposati quando lei aveva ventidue anni e non era mai stata con un altro uomo. Poi aveva cominciato a pensare che forse la sua vita non era finita e che c'erano alcune cose che aveva sempre voluto fare ma, insomma, per un motivo o per l'altro le aveva sempre rimandate.

Allora aveva frequentato un corso di origami, che appunto era una di quelle cose che aveva sempre voluto fare, perché quando lei era piccola sua nonna le faceva dei giocattoli bellissimi piegando, ritagliando e colorando la carta. La nonna le prometteva che le avrebbe insegnato quando fosse diventata più grande. Ma quando lei aveva sette anni la nonna era morta e non aveva più potuto insegnarle. Allora aveva imparato l'origami ed era diventata molto brava, mi fece vedere piegando davanti a me un pinguino, una foca e anche una renna, e le era venuta voglia di fare altre cose e si era messa a farle. Per esempio venirsene al mare da sola, o viaggiare, tanto per fortuna non aveva problemi di soldi e via discorrendo. E sai giovanotto, quando hai tante cose da fare non hai il tempo di pensare che la tua vita è finita, o quanto ti resta e che morirai eccetera. Tanto morirai comunque e quindi... Mentre mi diceva queste cose si preoccupava del fatto che potessi scottarmi e mi passava un flacone di protettivo, pretendendo che lo mettessi. E io lo misi e feci bene perché il sole picchiava e mi sarei scottato sicuramente passando tutta la giornata al mare.

Volle sapere di me e mi sorpresi a raccontarle i fatti miei, cosa che non avevo fatto con nessuno. A parte lo psichiatra barbuto e con scarso successo. Lei ascoltò senza dire niente e anche questo mi piacque.

La sera dopo aver mangiato andai in una specie di piano bar e rimasi ad ascoltare musica fino a tardi. Feci amicizia con il cameriere che era uno studente di fisica che lavorava il fine settimana per guadagnare qualche soldo.

Mi disse che c'erano due ragazze a un tavolo poco distante, immerso nel buio, che gli avevano chiesto chi fossi. Lo studente di fisica mi disse che erano carine e se volevo, lui avrebbe potuto portare un messaggio. Lo disse in modo simpatico, senza volgarità. Gli dissi che grazie, no, magari un'altra volta e lui mi guardò un poco stupito. Quando andai via gli lasciai la mancia. Forse pensò che mi piacevano gli uomini, ma non me ne importava niente.

Anche quella notte dormii come un sasso e mi svegliai riposato e allegro. Passai la domenica sulla spiaggia leggendo, buttandomi in acqua e ungendomi con il protettivo che la signora dell'origami mi aveva lasciato.

Alle sette, con il sole ancora tiepido feci l'ultima doccia, passai dalla pensione a riprendere il bagaglio e ripartii verso Bari.

Ero a pochi chilometri da casa quando dal telefonino, sprofondato nel borsone, venne il suono di ricezione di un messaggio. Ero incuriosito perché era da un sacco di tempo che non ricevevo messaggi. Allora mi fermai ad una stazione di servizio, tirai fuori il telefonino e feci qualche sforzo per ricordarmi come si faceva a leggere i messaggi, che non lo facevo da tanto tempo, appunto. Dopo un poco ci riuscii. Il messaggio diceva così:


Spiegare sarebbe troppo lungo adesso. Così non cercare di capire. Ma avevo bisogno di dirti, adesso, che averti incontrato è stata una delle cose più belle che mi siano mai capitate. M.


Rimasi instupidito qualche secondo a guardare quelle parole e poi ripartii verso casa. Dopo qualche minuto mi venne di spegnere l'aria condizionata e abbassare i finestrini. Si stava alzando il maestrale che spazzava via l'aria umida.

Non sapevo se era quel vento a darmi i brividi sulla pelle calda per il sole, mentre rientravo con i finestrini abbassati. Le casse diffondevano la voce di Rod Stewart che cantava I don't wanna talk about it e io pensavo alle parole di quel messaggio e a molte altre cose ancora.

Non lo so se era il vento a darmi quei brividi sulla pelle.



L'udienza cominciò con quasi un'ora di ritardo, per ragioni sconosciute. Ebbi il sospetto che prima dell'ingresso in aula ci fosse stata qualche discussione animata in camera di consiglio, perché i giudici, sia i togati sia i popolari, entrarono e si disposero ai loro posti con facce tese. Faceva eccezione solo la signora belloccia alla sinistra del presidente. Lei aveva sempre la stessa aria di sussiego e di finta concentrazione. Quella che con ammirevole fissità aveva mantenuto per tutte le udienze. L'atteggiamento che evidentemente considerava comme il faut per un giudice popolare in corte di assise.

Pensai che se non mi sbagliavo e c'era stata discussione, questa aveva avuto per protagonisti soprattutto il presidente e il giudice a latere. Lo pensai guardando il modo in cui si erano seduti. Il presidente era ostentatamente girato, addirittura con sedia spostata, dalla parte opposta al suo giudice.

Quest'ultimo guardava fisso in avanti e puliva gli occhiali in modo nervoso e quasi ossessivo. Non avrebbero scambiato una sola parola per tutta l'udienza.

Pensai che non erano le condizioni ideali per una udienza così importante.

Pensai anche, in modo del tutto irrazionale, che il presidente aveva già deciso di condannare Abdou. Questa sensazione mi accompagnò in modo opprimente per tutta la mattina.

Margherita non era venuta, ma nemmeno mi ero aspettato che lo facesse. Non so dire in base a che ragionamento ero convinto che non l'avrei vista, quella mattina. In realtà non so nemmeno se ci fu un ragionamento. Certo è che non mi aspettavo di vederla, qualche ora dopo quel messaggio.

Abdou venne fatto uscire dalla gabbia, senza manette e gli fu fatto prendere posto nella sedia destinata ai testimoni. Alle sue spalle, a mezzo metro di distanza, due agenti di custodia.

Il presidente gli chiese innanzitutto se confermava di non avere bisogno di un interprete. Abdou fece di sì con il capo e Zavoianni disse che non poteva limitarsi a fare cenni e doveva dire sì o no, parlando vicino al microfono.

Abdou disse che andava bene e che no, non aveva bisogno di nessun interprete.

Capiva.

Subito dopo il presidente gli chiese se intendeva sottoporsi all'esame e Abdou rispose di sì, parlando vicino al microfono, con voce ferma. A quel punto ebbe la parola il pubblico ministero.



«Allora Thiam, per prima cosa: lei conosceva il piccolo Rubino Francesco?».

« Sì».

«Ma quando lei è stato interrogato ha detto di non conoscerlo, ricorda?».

Si cominciava subito. Scattai in piedi per la prima opposizione.

«Opposizione presidente. Questa domanda è inammissibile. Se il pubblico ministero intende contestare all'imputato il contenuto di sue precedenti dichiarazioni lo faccia dicendo a quale verbale fa riferimento e dando lettura testuale delle dichiarazioni che intende contestare».

Il presidente stava per dire qualcosa ma Cervellati lo precedette.

«Faccio riferimento al verbale di interrogatorio dinanzi al pubblico ministero in data 11 agosto 1999. Faccio la lettura ai fini della contestazione così la difesa non avrà di che lamentarsi. Dunque... lei ha detto testualmente in questo interrogatorio che...».

«Opposizione presidente. L'accusa non può affermare che il mio cliente ha riferito testualmente quando procede ad una contestazione da un verbale in forma riassuntiva, come è quello in questione. Nell'interrogatorio che il pubblico ministero ha citato, che è il primo e l'unico cui il signor Thiam è stato sottoposto, non fu utilizzata stenotipia e non fu utilizzata alcuna forma di registrazione».

Non era una vera opposizione, ma mi serviva a comunicare subito ai giudici una informazione importante: la prima volta, e, di fatto, l'unica, che Abdou era stato interrogato non c'erano registratori, non c'erano videoregistratori, non c'erano stenotipisti.

Il presidente rigettò l'opposizione e mi disse che non gli piaceva il modo in cui avevamo cominciato. Mi sarebbe piaciuto replicare a tono ma non lo feci.

Dissi solo «grazie presidente» e Cervellati riprese.

«Allora leggo la dichiarazione: non conosco nessun Rubino Francesco; questo nome non mi dice niente».

«Posso spiegare ? Io conoscevo il bambino con il nome Ciccio. Lo chiamavo così. In spiaggia tutti lo chiamavano così. Quando ho sentito: Rubino Francesco non ho capito che era Ciccio. Il piccolo per me era Ciccio».

«Nel corso di quell'interrogatorio però, a un certo punto, ha ammesso di conoscere il bambino, è vero ?».

«Sì, quando ho visto la fotografia».

«Intende dire: quando le è stato contestato il ritrovamento, a casa sua, di una foto del bambino?».

«Quando mi avete fatto vedere la foto... sì, quella che avevo a casa».

«Quindi è esatto dire che lei ha ammesso di conoscere il bambino solo quando si è reso conto che avevamo trovato quella fotografia...».

Stava esagerando.

«Opposizione. Questa non è una domanda. Il pubblico ministero cerca di trarre conclusioni e non lo può fare in questa sede».

A malincuore il presidente dovette darmi ragione.

«Pubblico ministero, si limiti alle domande. Le conclusioni nella requisitoria».

Cervellati riprese il suo esame ma si stava evidentemente innervosendo, e non solo con me.

«Allora Thiam, lei è in grado di riferire dov'era il pomeriggio del 5 agosto 1999?»

«Sì».

«Dica».

«Tornavo da Napoli in macchina».

«Cos'era andato a fare a Napoli?».

«A comprare merce da vendere sulle spiagge».

«Ho una contestazione, dallo stesso verbale che ho indicato prima. Leggo testualmente: Il pomeriggio del 5 agosto credo di essere andato a Napoli... Sono andato a trovare dei connazionali dei quali però non so indicare i nomi. Ci siamo visti, come altre volte, nei paraggi della stazione centrale. Non so fornire utili indicazioni per individuare questi miei connazionali e non so indicare qualcuno che potrebbe confermare che quel giorno sono stato a Napoli.

«Ha capito Thiam? Quando lei fu interrogato, nell'agosto dell'anno scorso, disse di essere stato a Napoli, ma non parlò di acquisti di merce eccetera. Disse solo che era andato a trovare dei suoi connazionali, dei quali peraltro non sapeva indicare le generalità. Cosa può dire sul punto?».

«Sono andato a comprare la merce. E sono andato a comprare anche hashish. Non ho detto queste cose perché non volevo mettere in mezzo quelli che mi avevano venduto la merce e l'hashish. E non volevo mettere in mezzo il mio amico che teneva a casa sua la mia merce e l'hashish».

«Chi è questo suo amico?».

«Non voglio dirlo».

«Va bene. Questo servirà a valutare l'attendibilità della sua storia. Cosa doveva farne dell'hashish?».

«Lo compravamo in gruppo con altri amici africani, per fumarlo insieme».

«Che quantitativo di hashish aveva acquistato, lei?».

«Mezzo chilo».

«E lei pensa che crediamo a questa storia? Che crediamo al fatto che per non far risultare una detenzione di hashish e di merce con marchi contraffatti lei non si è difeso da una accusa di omicidio?».

«Non so se credete a questa storia. Io però quando sono stato interrogato ero molto confuso. Non capivo bene cosa stava succedendo e non mi sentivo di tirare in mezzo persone che non c'entravano. Non sapevo cosa fare. Se avevo avuto un

avvocato forse potevo...».

«Durante l'interrogatorio lei aveva un avvocato!»

Cervellati alzò la voce: stava davvero perdendo la calma. Non era necessario il mio intervento.

«Avevo un avvocato d'ufficio. Non ho parlato con lui, prima dell'interrogatorio e poi non l'ho visto più. Se mi chiedete come è fatto non sono capace di dirlo».

«Va bene» disse Cervellati cercando di dominarsi e rivolgendosi alla corte «io non devo discutere con l'imputato. Senta Thiam, lei dice di essere andato a Napoli quel giorno. Ci descriva dettagliatamente come si è svolta la sua giornata».

«Quel giorno che sono andato a Napoli?».

«Sì».

«Sono partito la mattina presto, verso le sei. Sono arrivato a Napoli verso le nove. Sono andato in un magazzino dalle parti del carcere, a Poggioreale dove prendo la merce, e ho caricato la macchina. Poi sono andato veramente vicino alla stazione dove c'erano miei amici che avevano il fumo, l'hashish e l'ho comprato. Avevo i soldi che avevamo raccolto a Bari...».

«Che bisogno aveva di andarlo a comprare a Napoli, l'hashish? A Bari non se ne trova?».

«A Bari si trova, ma si trova soprattutto l'erba, la marijuana, che viene dall'Albania. Però io dovevo andare a Napoli per la merce. A Napoli ci stanno questi amici che hanno la roba molto buona e che mi fanno un prezzo buono, quanto la pagano loro».

«Che prezzo le fanno questi suoi amici spacciatori?».

«Mezzo chilo, un milione».

«E lei poi la spacciava a Bari».

«No. Io non spacciavo. Compravamo in società e poi dividevamo per fumarla noi».

«A che ora è rientrato da Napoli?».

«Pomeriggio. Non so l'ora precisa. Quando ho scaricato dal mio amico c'era ancora sole».

«Naturalmente, lei lo ha già detto, non vuole dirci il nome di questo amico».

«Non posso».

«C'è qualcuno che può confermare questa storia che ci ha raccontato oggi, qui?».

«Un testimone?».

«Sì, un testimone».

«No, non posso chiamare nessuno. Poi io sono in carcere da quasi un anno, non so nemmeno se le persone di Napoli, o anche il mio amico di Bari, sono ancora in Italia».

«Va bene. Quindi dobbiamo stare solo alla sua parola. Comunque lei può escludere di essere andato a Monopoli, a Capitolo, quel pomeriggio».

«No».

«Non può escluderlo?».

«Non sono andato. Quando ho finito di scaricare sono rimasto a Bari. Era tardi e non trovavo più nessuno sulle spiagge».

«Lei dice di non essere andato a Monopoli quel pomeriggio. È in grado di spiegare allora per quale motivo il signor Renna, il proprietario del bar Maracaibo, dichiari di averla vista passare davanti al suo bar proprio quel pomeriggio, attorno alle 18.00 ? Lei ritiene che il signor Renna non abbia detto la verità? Le risulta che Renna abbia qualche motivo di ostilità nei suoi confronti ?».

«Non so. Io credo che lui si sbaglia. Forse fa confusione del giorno. Forse ha visto uno che mi somiglia. Non so. Io non sono andato a Capitolo quel giorno».

«Non mi ha detto se ritiene che Renna abbia motivi di ostilità nei suoi confronti».

«Non capisco. Cosa vuol dire ostilità?».

«Secondo lei Renna la accusa falsamente perché vuol farle del male? Ce l'ha con lei?».

Stavo per fare opposizione ma Abdou rispose prima, e rispose bene.

«Io non ho detto così. Non ho detto che mi accusa falsamente. Io so che si sbaglia, ma questa è una cosa diversa. Accusare falsamente è quando uno sa che sta dicendo una cosa che non è vera. Lui dice una cosa che non è vera ma penso che lui crede che è vera».

«Lei, nei giorni successivi al 5 agosto, ha portato a lavare la sua macchina?».

«Sì, dopo il viaggio a Napoli. Ho portato a lavare la macchina in quei giorni».

«Perché?».

«Perché era sporca».

Mi parve di cogliere un accenno di sorriso sulle labbra di alcuni dei giudici.

Rimasero sicuramente seri il presidente, il giudice a latere, la signora belloccia che sembrava imbalsamata e l'anziano con l'aria di ufficiale in pensione. Io rimasi molto serio. Anche Cervellati, che proseguì il suo esame per alcuni minuti ancora, chiedendo ad Abdou della fotografia con il bambino e di poche altre cose.

La parte civile fece qualche domanda, per mostrare di esserci e poi il presidente mi disse che potevo procedere.

«Signor Thiam, può dirci che lavoro faceva in Senegal?».

«Sono un maestro di scuola elementare».

«Quante lingue parla?».

«Parlo il wolof, la mia lingua, italiano, francese e inglese».

«Perché è venuto nel nostro paese?».

«Perché nel mio paese non riuscivo a vedere il futuro».

«Lei è un clandestino?».

«No, ho il permesso di soggiorno e anche la licenza per venditore ambulante. Però vendevo anche cose false. Questa era la cosa illegale che facevo».

«Da quanto tempo conosceva il piccolo Francesco, Ciccio?».

«Lo ho conosciuto l'estate scorsa... no, voglio dire l'estate prima... nel 1998».

«Perché aveva quella foto del bambino?».

«Me la regalò lui... io e il bambino eravamo amici. Spesso parlavamo...».

«Quando le è stata regalata?».

«L'estate scorsa, a luglio. Il bambino disse che se partivo per tornare in Africa potevo portarmi quella foto per ricordo. Io gli dissi che non dovevo tornare in Africa ma lui me la diede lo stesso».

«Quando è stata fatta la foto?».

«Il giorno stesso che me l'ha data. C'era il nonno del bambino che aveva una macchina polaroid e faceva le fotografie. Il bambino ne ha presa una e me l'ha data».

«Adesso vorrei passare ad altro. Io vedo che lei parla molto bene l'italiano. Vorrei chiederle una cosa allora. Può dirci cosa significa la frase: "rinuncio espressamente ad ogni termine a difesa?"»

«Non so cosa significa questa frase».

«È strano signor Thiam, è una frase che lei sembra aver pronunciato nel suo interrogatorio davanti al pubblico ministero. Vuole leggere?».

Mi avvicinai ad Abdou mostrandogli la mia copia del verbale. Mi aspettavo che il pubblico ministero obiettasse qualcosa, ma rimase al suo posto, senza dire niente.

Abdou guardò il verbale, come gli avevo detto di fare il venerdì scorso, in carcere. Poi scosse la testa.

«Non lo so, cosa significa».

«Mi scusi signor Thiam, lei non ha detto che rinunciava ai termini per la comparizione e per l'interrogatorio?».

«Non lo so cosa sono questi termini».

«Va bene, forse non se lo ricorda, perché lei questo verbale lo ha firmato».

Dovevo fermarmi a quel punto. Il messaggio, mi pareva, era arrivato dove doveva arrivare. Il verbale dell'interrogatorio di Abdou era stato redatto con una certa disinvoltura e adesso anche la corte lo sapeva. Potevo cambiare argomento e passare al punto decisivo.

«Lei ha detto che il 5 agosto è andato a Napoli e che non ci sono testimoni che possano confermare questa circostanza. È esatto?».

«Sì».

«Lei ha un telefono cellulare?».

«Ce l'avevo. Quando mi hanno arrestato mi hanno fatto il sequestro anche di quello».

«Certo, risulta dal verbale che è nel fascicolo. Quando lei andò a Napoli aveva questo cellulare con sé?».

«Sì».

«Ricorda se quel giorno ha fatto o ricevuto delle telefonate?».

«Credo di sì. Non mi ricordo con precisione ma credo di sì».

«Può dirci qual era il numero di questo telefono cellulare?».

«Sì. Il numero era 03397134964».

«Ho finito presidente, grazie».



Il pubblico ministero non aveva ulteriori domande e chiese l'acquisizione del verbale utilizzato per le contestazioni. Io non feci obbiezioni. Il presidente disse che dopo una pausa di mezz'ora avremmo dovuto formulare le eventuali richieste di prova integrativa. La corte avrebbe deciso se accoglierle o meno e poi avremmo concordato il calendario successivo.

Pensai che avevo serio bisogno di un caffè e di una sigaretta.

Al bar del tribunale c'erano dei tavolini in stile tavola calda anni 70. Presi al banco il mio caffè e andai a sedermi ad uno di quei tavolini, da solo e con l'intenzione di passare mezz'ora senza pensare a niente e senza parlare con nessuno.

Accesi la sigaretta e rimasi a guardare la gente che entrava e usciva dal bar. Tranquillo.

Ero lì quando arrivò una signora abbronzata, elegante, con gioielli e l'aria di chi passa molto del suo tempo fra palestre e saloni di bellezza. Si stava dirigendo verso il banco quando mi vide e si fermò. Guardava nella mia direzione con un principio di sorriso sulle labbra e con l'aria di chi si aspetta qualche segno di risposta. Mi guardai a destra e a sinistra, per verificare che si stesse rivolgendo proprio a me. Dietro non potevo, perché ero a ridosso del muro. Comunque ai tavolini c'ero solo io e quindi stava guardando proprio me.

Visto il mio comportamento, si avvicinò di più. La sua espressione adesso era leggermente cambiata. Immagino pensasse che o ero fortemente miope o fortemente rincoglionito.

«Non mi riconosci?», disse finalmente.

Allungai leggermente il collo verso di lei, e un sorriso stolido mi si disegnava sulla faccia mentre cercavo qualcosa da dire. Poi la riconobbi.

Quindici anni prima, o forse di più. Mi ero appena laureato. Non riuscivo a ricordare cosa faceva all'epoca ma, certo, era molto diversa. Forse si stava laureando in medicina, o forse la confondevo con qualcun'altra.

Eravamo usciti insieme per due mesi, o poco meno. Era più grande di me, forse di cinque anni. Allora adesso doveva avere più o meno quarantaquattro anni. Come si chiamava? Non mi ricordavo come si chiamava.

«Magda. Sono Magda. Che fai non mi riconosci?».

Magda. Eravamo usciti per due mesi, quindici anni fa.

E che facevamo ? Di cosa parlavamo ?

«Magda. Scusami. Non metto gli occhiali per vanità e faccio queste figure. Sono un po' miope. Come stai?».

«Sto bene. E tu?».

Seguì una conversazione assurda. Non mi ricordavo quasi niente di lei e così fui cauto, per evitare altre figuracce. Mi disse che era in tribunale per lavoro. Da come lo disse sembrava scontato che io sapessi qual era il suo lavoro. Io invece non ne avevo la minima idea e mentre continuava a parlare, di separazioni, di vita da single, di vacanze, di come dovessimo per forza vederci, una sera, con una serie di persone i cui nomi non mi dicevano niente, mi sentivo trascinato in un vortice surreale.

Mi sentii meglio solo quando ci salutammo, abbracciandoci e baciandoci.

Ciao Magda. Quando ci incontreremo di nuovo troverò il coraggio di chiederti di cosa abbiamo parlato, quasi ogni sera, per due mesi, quindici anni fa.

Il presidente chiese al pubblico ministero e all'avvocato della parte civile se avessero da fare richieste di prove integrative. Tutti e due risposero di no.

Allora si rivolse a me e mi fece la stessa domanda. Mi alzai e prima di parlare aggiustai la toga che come al solito mi scivolava sulle spalle.

«Sì presidente. Abbiamo delle richieste ai sensi dell'articolo 507 del codice di rito. La corte ha sentito poco fa l'interrogatorio dell'imputato. Questi ha riferito di essere intestatario di una utenza telefonica cellulare. La circostanza peraltro emergeva già dagli atti in vostro possesso, perché nel fascicolo del dibattimento è inserito, fra gli altri, il verbale di sequestro del telefono cellulare in questione, e della relativa scheda. Quella appunto cui si riferisce il numero 03397134964 di pertinenza dell'imputato. L'imputato ha riferito di avere portato con sé, in quel viaggio a Napoli, il suddetto telefono cellulare e, probabilmente, di avere fatto e ricevuto telefonate in quell'occasione. Voi sapete certo meglio di me che l'utilizzazione di un telefono cellulare lascia una traccia che è conservata su supporto magnetico dal gestore, in questo caso la Telecom. È possibile acquisire tabulati da cui risultano i numeri in entrata e in uscita, l'orario, la durata delle telefonate e, soprattutto, la zona in cui l'utilizzatore del telefono si trovava al momento della chiamata.

«Tanto premesso credo di non dover spiegare ulteriormente la rilevanza che può avere l'acquisizione presso la Telecom Italia dei tabulati relativi all'utenza cellulare 03397134964, per il giorno 5 agosto 1999. È vero che non abbiamo nessun testimone che possa confermare l'alibi dell'imputato. Le risultanze dei tabulati però possono essere ben più che una testimonianza d'alibi. La localizzazione del telefono collegata, in termini di certezza ad un orario preciso può fornire un elemento risolutivo al processo. In conclusione dunque vi chiedo, a norma dell'art. 507 del codice di procedura penale di emettere un decreto di acquisizione dei tabulati relativi al traffico telefonico dell'utenza cellulare 03397134964, per il giorno 5 agosto 1999. Credo di non dovere aggiungere altro. Grazie».

Il presidente mi guardò ancora per qualche secondo dopo che ebbi finito di parlare. Poi stava per voltarsi verso il giudice a latere quando dovette ricordarsi che avevano litigato un paio d'ore prima. Almeno io ero convinto che, per qualche motivo, avessero litigato. Certo è che Zavoianni si stava girando verso il giudice e si fermò a metà. In modo così brusco che dovette darsi un contegno, appoggiando la testa su una mano, con aria pensosa. Si era mosso come il personaggio di una farsa e rimase per qualche secondo innaturalmente immobile. Poi si rivolse al pubblico ministero.

«Ci sono osservazioni su questa richiesta della difesa, pubblico ministero?».

«Presidente, io ho molti dubbi non dico sulla assoluta necessità, ma anche solo sulla rilevanza della prova richiesta dalla difesa. I dubbi possono essere riassunti in poche parole: chi ci dice che il 5 agosto 99 il telefono cellulare era nella disponibilità del Thiam? Il telefono è stato trovato nella sua disponibilità al momento della perquisizione, è vero. Ma questo significa poco.

«La perquisizione è di qualche giorno dopo e noi sappiamo che in certi ambienti, per esempio quello degli spacciatori, al quale l'imputato ci ha appena detto di essere vicino, se non addirittura interno, vi è l'usanza dello scambio degli apparecchi cellulari, come delle armi e quant'altro. In mancanza di prova sulla disponibilità del telefono da parte del Thiam alla data del sequestro del bambino, la prova richiesta è priva di rilievo. Devo poi aggiungere una considerazione di natura più strettamente processuale. L'articolo 507 consente l'assunzione di nuovi mezzi di prova solo laddove la loro necessità sia emersa nel corso del dibattimento. In questo caso la prova ben poteva essere richiesta nella fase introduttiva, ma la difesa non lo ha fatto, per negligenza o per altre ragioni che non conosciamo. In ogni caso la richiesta è tardiva e anche sotto questo profilo deve essere respinta».

«La parte civile ha osservazioni?», disse ancora il presidente.

«Ci riportiamo alle considerazioni già svolte dal pubblico ministero».

«Presidente» dissi io «mi consente una brevissima replica alle osservazioni del pubblico ministero?».

«Come lei sa bene, avvocato, non sono ammesse repliche in questa fase».

«Presidente...».

«Avvocato, non una parola di più. Glielo ripeto: non una parola di più».

Così dicendo si alzò per andare in camera di consiglio. Ad uno ad uno si alzarono i giudici popolari per seguirlo. Il giudice a latere rimase seduto.

Ebbi l'impressione che serrasse le labbra per un attimo. Poi si alzò anche lui e si diresse, per ultimo, in camera di consiglio.

Aspettammo a lungo. Di solito decisioni come quella, su richieste di prove integrative, vengono prese direttamente in udienza o dopo una camera di consiglio di qualche minuto. Quel giorno invece no. Passavano le ore senza che succedesse niente. Scambiavo chiacchiere con il cancelliere che mi diceva di non capire il perché di quel ritardo. Rispondevo che anch'io non riuscivo a capire, ma non era vero. Stavano così a lungo in camera di consiglio perché, di fatto, la corte si era spaccata fra quelli che avevano già deciso di condannare Abdou e quelli che volevano capire meglio. Se vincevano i primi e se la mia richiesta di acquisire quei tabulati veniva respinta, potevo tranquillamente risparmiarmi la fatica di discutere la causa. Abdou era già spacciato. Eravamo ancora in gioco solo se vincevano gli altri.

Dalla gabbia Abdou mi chiese cosa stesse succedendo ed io gli mentii, dicendo che quella attesa era del tutto normale.

Mi venne di chiamare Margherita, ma non lo feci.

Senza una ragione che fossi in grado di identificare, mi venne in mente un proverbio turco, antico, che diceva più o meno così: Prima di amare, impara a camminare sulla neve senza lasciare impronte. Perché mi veniva in mente quel proverbio?

Mi sentivo solo e, cazzo, mi stava venendo da piangere. Dopo mesi, proprio in quel momento, e in quel posto. No. Per piacere, no.

Andai verso l'uscita dell'aula, per evitare di dare spettacolo, just in case, e per accendere un'altra sigaretta. L'avevo già messa fra le labbra quando i miei pensieri furono lacerati dal suono provvidenziale della campanella.

Tornai al mio posto, misi la toga, e mi accorsi di avere ancora la sigaretta appesa ad un angolo della bocca quando i giudici erano già rientrati, si erano seduti e il presidente cominciava a leggere l'ordinanza.

Abbassai lo sguardo sul mio banco e socchiusi gli occhi, sfuocando le carte che avevo davanti. Ascoltai.

«La corte di assise di Bari, pronunciandosi sulla richiesta di assunzione di nuovi mezzi di prova formulata dalla difesa dell'imputato Thiam Abdou, osserva quanto segue.

La difesa dell'imputato richiede, a norma dell'art. 507 del codice di procedura penale, l'acquisizione dei tabulati relativi al traffico telefonico dell'utenza cellulare 03397134964 per il giorno 5 agosto 1999, sul duplice presupposto che la necessità di tale acquisizione sia emersa nel corso dell'istruttoria dibattimentale (in particolare: nel corso dell'esame dell'imputato) e che comunque la detta acquisizione sia assolutamente necessaria al fine di accertare la verità.

Il pubblico ministero si oppone sostenendo la non rilevanza (o comunque la non assoluta necessità) e la tardività della richiesta.

Effettivamente, come ha osservato il pubblico ministero, la richiesta poteva bene essere avanzata in sede di esposizione introduttiva, perché gli elementi per formularla erano già in quella fase nella disponibilità della difesa.

La richiesta è dunque da considerare tecnicamente tardiva».

Il presidente fece una pausa, o così mi parve. Io rimasi con gli occhi socchiusi e lo sguardo abbassato. Qualche secondo dopo mi sarei accorto che avevo trattenuto il respiro.

«Sotto altro profilo, però..». Però. Avevano accolto.

«Sotto altro profilo, però occorre rilevare, in coerenza con la giurisprudenza della corte di cassazione, che il giudice di merito è tenuto a non trascurare che il fine primario del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità. In tale prospettiva non sono accettabili metodologie o scelte processuali che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico, necessario per conseguire una giusta decisione.

Tanto premesso occorre evidenziare che la prova richiesta e da intendersi come potenzialmente decisiva. Dall'acquisizione dei tabulati potrebbe infatti emergere una vera e propria prova di alibi, laddove risultasse una localizzazione dell'imputato, incompatibile con l'ipotesi della sua responsabilità per i fatti oggetto di imputazione.

Per questi motivi la corte di assise di Bari ordina l'acquisizione dei tabulati relativi al traffico telefonico dell'utenza 03397134964 per il giorno 5 agosto 1999, dalle ore 6.00 alle ore 24.00.

Dispone altresì l'audizione del responsabile della sede Telecom di Bari, o di altro dipendente della medesima società espressamente delegato, per illustrare in udienza il preciso significato dei tabulati.

Delega la sezione di polizia giudiziaria in sede, assegnando il termine di giorni 5 per l'esecuzione.

Rinvia per l'assunzione della prova e per la discussione all'udienza del 3 luglio.

L'udienza è tolta».



Riaprii gli occhi e sollevai lo sguardo quando la corte era già uscita dall'aula.

Mancava una settimana alla fine. In un modo o nell'altro.

In quella settimana ci furono giorni stranamente normali. Lavorai normalmente, feci le mie normali udienze, ricevetti clienti, incassai qualche parcella, il che non era male, e tutto il resto.

Non mi occupai del processo di Abdou. Dovevo aspettare l'arrivo dei tabulati perché dal risultato di quell'accertamento dipendeva l'impostazione che avrei dato alla mia arringa. Fino a quel momento era inutile che riguardassi carte o cominciassi a preparare la discussione.

Giovedì pomeriggio Margherita mi chiamò sul cellulare. Dopo il messaggio di domenica sera non ci eravamo sentiti. Non l'avevo chiamata, né avevo provato a citofonarle. Non so per ché. Qualcosa mi aveva trattenuto.

Avevo voglia di uscire a bere qualcosa, dopo cena? Sì, ne avevo voglia. Le citofonavo o bussavo a casa sua ? Ah, usciva prima e potevamo vederci direttamente da qualche parte, sul tardi. Andava bene per me su via Venezia, davanti al Fortino, verso le dieci e mezza ? Andava bene. A dopo allora.

Aveva un tono di voce un po' strano, e mi diede un leggero senso di inquietudine.

Il pomeriggio passò lentamente, da quel momento. Diventai distratto e guardai spesso l'orologio.

Me ne andai dallo studio verso le otto, a casa feci una doccia, mi cambiai e uscii molto prima dell'appuntamento. Feci passare il tempo, a fatica e verso le dieci mi avviai dalle parti del Fortino.

Camminavo in salita lungo via Venezia, fra la gente. Era piena, come sempre a quell'ora d'estate.

Soprattutto gruppi di ragazzi. Mandavano un odore misto di deodorante, di latte solare e di gomma da masticare alla clorofilla. Qualche famiglia della città vecchia. Qualche cinquantenne abbronzato con ragazza ventenne in una nuvola di profumo. Miei coetanei, pochissimi. Chissà perché, mi chiesi tanto per macinare un pensiero.

Arrivai al Fortino con almeno dieci minuti d'anticipo, ma mi sentivo meglio perché il tempo era passato. Appoggiato di spalle sul muro accesi una sigaretta e mi guardai attorno, in attesa. Arrivò attorno alle undici meno venti.

«Scusami. È stata una giornata pesante. In una settimana pesante. E fermiamoci alla settimana».

«Che è successo?».

«Camminiamo, vuoi?».

Ci dirigemmo verso nord, sempre su via Venezia. Man mano che ci allontanavamo dalla zona del Fortino la gente si diradava. Gruppi più piccoli, coppie, qualche camminatore solitario, qualche poliziotto in divisa, a sorvegliare. Camminammo senza parlare, fin quando arrivammo all'altezza della basilica di San Nicola. Un tipo con un cane corso ci passò vicino e il bestione si inchiodò per annusare le gambe di Margherita. Lei pure si fermò, allungò la mano e accarezzò il cane sulla testa. Il padrone era stupito che la belva si lasciasse toccare in quel modo, da una estranea. Era la prima volta che succedeva, ci disse. La signora aveva un cane? No, non l'aveva. Lo aveva avuto, ma era morto tanti anni fa.

Il cane ed il padrone andarono via e noi ci sedemmo sul muretto che si affaccia sul lato destro di San Nicola.

«Come ti è andata in questi giorni? Il processo?», disse.

«Bene, spero. Lunedì prossimo potremmo concludere. E a te come va?».

Cauto.

Lasciò passare qualche secondo e poi parlò come se non le avessi fatto nessuna domanda.

«Nei posti dove ti insegnano a smettere di bere ti spiegano anche come resistere al rischio delle ricadute. Nel primo anno successivo al trattamento le ricadute sono tantissime e anche dopo è frequente ricascarci. Era una cosa che ci ripetevano in continuazione. Ci saranno dei momenti difficili, dicevano, in cui vi sentirete tristi, avrete una terribile nostalgia del passato o paura del futuro. In quei momenti avrete voglia di bere. Una voglia che vi sembrerà invincibile, che vi sommergerà come un'ondata. Invece non è invincibile. Sembra che lo sia perché siete più deboli, in quel momento. Ma, appunto, è come un'onda. Un'onda, in mare vi sommerge solo per qualche secondo, anche se quando siete sotto vi sembra un'eternità. Ne venite fuori facilmente, se non vi lasciate prendere dal panico. Allora, dicevano, ricordatevi che basta restare calmi, in quei momenti. Non lasciatevi prendere dal panico, ricordatevi che in breve metterete la testa fuori dall'acqua perché l'onda sarà passata. Quando siete colpiti dall'impulso irresistibile a bere, fate qualcosa per lasciare passare i secondi, o i minuti che dura la crisi. Flessioni, due chilometri di corsa, mangiate un frutto, chiamate un amico. Qualsiasi cosa faccia passare il tempo senza pensare».

Io stavo in silenzio, e avevo paura di quello che avrei sentito dopo.

«A me è capitato diverse volte, come a tutti. L'aikido mi ha aiutato. Quando arrivava l'ondata, mettevo il kimono e ripetevo le tecniche, cercando di concentrarmi solo su quello che stavo facendo. Funzionava. Quando finivo l'allenamento mi ero dimenticata della voglia di bere.

«Con il tempo questi momenti si sono fatti sempre più rari. Erano almeno due anni che non mi capitavano».

Accesi la sigaretta che tenevo fra le dita da qualche minuto. Margherita continuò a parlare, senza cambiare tono, guardando in un posto indefinito davanti a lei.

«C'è una persona, da quasi tre anni. Non abita a Bari e forse è per questo che ha funzionato così a lungo. Ci vediamo nei fine settimana: o viene lui o lo raggiungo io. Lo scorso fine settimana è venuto lui. Gli avevo già parlato di te. Così, in modo normale e sulle prime non aveva avuto problemi. O non me lo aveva detto».

Si girò leggermente verso di me, mi prese la sigaretta e ne fumò una buona parte prima di restituirmela.

«Comunque, non so come, il discorso è ritornato sabato scorso. Cioè, più che di discorso si è trattato di una scenata di gelosia. Ora devi sapere che lui non è una persona gelosa. È esattamente l'opposto. Per cui sono rimasta allibita e ho reagito male. Molto male. Eravamo stati insieme, insomma avevamo fatto l'amore...».

Mi sentii trafiggere. Subito dopo nebbia fitta nel cervello per non so quanto tempo. Fino a quando riuscii di nuovo a capire cosa stava dicendo.

«... e poi gli ho detto che non mi sarei mai aspettata discorsi del genere, da lui. Che era una delusione e così via. Lui mi ha risposto che ero un'ipocrita. Dicendo che tu eri solo un amico mentivo. Non a lui, a me stessa e per questo ero veramente ipocrita. E che reagivo con quella violenza proprio perché sapevo che aveva ragione. La discussione è durata buona parte della notte. La mattina lui ha detto che andava via. Che dovevo chiarirmi le idee cercando di essere onesta, con lui e con me stessa. Poi potevamo risentirci e riparlarne. Lui è andato via ed io sono rimasta lì, seduta sul letto, con il cervello pieno di frastuono. Incapace di pensare. Le ore sono passate in modo allucinante e naturalmente mi è venuta voglia di bere. Una voglia pazzesca, come non mi era mai venuta da quando ho smesso. Ho provato a mettere il kimono e ad allenarmi, ma in realtà non ne avevo nessuna voglia. Avevo voglia di bere invece e di sentirmi bene, di fare sparire quel frastuono dal cervello, di fare sparire la responsabilità e il dovere e gli sforzi, tutto. Cazzo.

«Allora sono scesa, ho preso la macchina e sono andata a Poggiofranco. Sai che c'è quel bar grande sempre aperto, non mi ricordo mai come si chiama, dove hanno anche vini e liquori?».

Sapevo qual era il bar e feci sì con la testa. Avevo la bocca secca, la lingua attaccata al palato.

Sono entrata e ho chiesto una bottiglia di Jim Beam che era il mio preferito. A quel punto mi sentivo calma. Mortalmente calma. Sono tornata a casa, ho preso un bicchiere grande, e sono andata in terrazza. Mi sono seduta al tavolo, ho rotto il sigillo della bottiglia, hai presente quel bello schiocco, quando apri una bottiglia nuova ?, e mi sono versata tre dita di bourbon, per cominciare. L'ho fatto lentamente, guardando il liquido che scendeva nel bicchiere, i riflessi, il colore. Poi ho avvicinato il bicchiere al naso e ho respirato a lungo.

«Sono rimasta molto tempo davanti a quel bicchiere, con i pensieri che giravano attorno a se stessi. Sei una cattiva ragazza. Lo sei sempre stata. Non ci si può ribellare al proprio destino. È inutile. Diverse volte ho alzato il bicchiere per bere, l'ho guardato e poi l'ho poggiato di nuovo sul tavolo. Tanto ero sicura che avrei bevuto e allora potevo prendermela molto calma.

«È diventato buio ed ero sempre lì, con questo bicchiere di bourbon. Ho pensato che mi andava di riempirlo di più. L'ho poggiato sul tavolo, ho preso la bottiglia e ho versato, molto lentamente, ancora. Il bicchiere si è riempito fino alla metà, due terzi, fino all'orlo. Ed io ho continuato a versare. Pianissimo il liquido ha cominciato a traboccare e io lo guardavo, scendere sulle pareti esterne del bicchiere e poi spandersi sul tavolo e poi gocciolare per terra.

«Quando la bottiglia si è svuotata l'ho poggiata sul tavolo. Ho preso il bicchiere con due dita e l'ho inclinato lentamente, senza sollevarlo. Così ha cominciato a svuotarsi. Anche questo molto lentamente. Man mano che si svuotava lo inclinavo di più. Alla fine l'ho rovesciato».

Mi passai le mani sulla faccia respirando, finalmente. Mi accorsi anche del dolore alle mascelle.

«A quel punto mi sono alzata, ho preso secchio e stracci e ho pulito tutto. Ho messo gli stracci e la bottiglia vuota in un sacchetto, sono scesa in strada e ho buttato tutto in un cassone della spazzatura. Avevo voglia di chiamarti, ma non mi sembrava una cosa giusta. Dovevo finire di sbrigarmela da sola, ho pensato. Allora almeno ti ho mandato quel messaggio».

Smise di parlare così, quasi bruscamente. Rimanemmo a lungo in silenzio, seduti su quel muro. Io avevo domande che mi bruciavano. Riguardavano lui, naturalmente. Cosa era successo dopo quella sera ? Oggi, dove era stata ? Si erano rivisti, parlati e così via ?

Non ne feci nessuna. Non fu facile, ma non feci nessuna domanda. Per tutto il tempo che rimanemmo seduti e dopo, quando attraversammo la città fino al nostro palazzo. Fino a quando fu il momento di salutarci, davanti alla porta di casa sua. Allora fu lei a parlare.

«Cosa pensi di me, dopo le cose che ti ho detto?».

«Quello che pensavo prima. È solo un po' più complicato».

«Vuoi entrare?».

Pensai qualche secondo prima di rispondere. «No, stasera no. Ma non fraintendere, è solo che...».

Mi interruppe parlando in fretta. A disagio. «Non fraintendo. Hai ragione. Non dovevo nemmeno dirtelo. Hai detto che lunedì il processo finisce?».

«È probabile. Dipende da un ultimo accertamento ordinato dalla corte. Se alcuni documenti arrivano in tempo, allora dovremmo chiudere lunedì».

«Ma tu parlerai la mattina?».

«No, non credo. Quasi sicuramente il pomeriggio».

«Allora quasi sicuramente riesco a venire. Voglio esserci quando parli».

«Anch'io vorrei che ci fossi».

«Allora... buonanotte. E grazie».

«Buonanotte». Ero già per le scale.

«Guido...».

«Sì?».

«Sono andata da lui, dopo. Gli ho detto che aveva ragione. Sull'ipocrisia, la mia, e tutto il resto».

Fece una breve pausa e parlò ancora. C'era una fragilità sconosciuta nella sua voce. «Ho fatto bene?».

Socchiusi gli occhi e respirai profondamente, sentendo un nodo che si scioglieva alla bocca dello stomaco. Le dissi che sì, aveva fatto bene.



I tabulati arrivarono puntualmente, il quinto giorno dall'udienza in cui ne era stata ordinata l'acquisizione. Me lo disse il maresciallo dei carabinieri che aveva eseguito il provvedimento della corte. Era un mio amico e gli avevo telefonato per sapere se quelle carte erano arrivate. Disse che erano arrivate e allora andai in tribunale per esaminarle.

Era sabato, primo di luglio. Il palazzo di giustizia era deserto e l'atmosfera vagamente surreale.

La porta della cancelleria della corte d'assise era chiusa. Aprii e dentro non c'era nessuno, ma almeno l'aria condizionata funzionava. Così entrai, richiusi la porta e aspettai che qualcuno ritornasse e mi facesse consultare i tabulati.

Dopo un quarto d'ora finalmente entrò un impiegato piccolo di statura, sulla sessantina, che non conoscevo. Mi guardò con aria assente e mi chiese se avessi bisogno di qualcosa. Avevo bisogno di qualcosa e glielo dissi. Lui sembrò riflettere qualche istante e poi fece sì col capo, in modo pensoso.

La ricerca delle carte fu una operazione laboriosa e alquanto snervante ma in un modo o nell'altro, alla fine l'omino riuscì a trovarle.

Dai tabulati veniva fuori che Abdou aveva sicuramente detto la verità, sul viaggio a Napoli. La prima telefonata era delle 9,18. Era una chiamata in uscita dal telefono di Abdou, era diretta a un numero di Napoli ed era durata 2 minuti e 14 secondi. All'ora di quella telefonata Abdou era già a Napoli, o nelle immediate vicinanze. Seguivano altre quattro telefonate, a numeri di Napoli e a telefoni cellulari, in cui la localizzazione era sempre Napoli. L'ultima era delle 12,46. Poi non succedeva niente per oltre quattro ore. Alle 16,52 Abdou riceveva una telefonata da un telefono cellulare. In quel momento la localizzazione era su Bari città. La successiva telefonata era delle 21,10. Era una chiamata in uscita dal telefono di Abdou ad un altro cellulare. La localizzazione era ancora Bari. Poi più niente.

Mi fermai a riflettere sul risultato di quell'accertamento. Certamente non era risolutivo e non chiudeva il processo. C'era un tempo vuoto di oltre quattro ore, e proprio al centro di quelle quattro ore si era verificata la scomparsa del bambino. Quello che risultava dai tabulati non consentiva di escludere che Abdou, tornato da Napoli, avesse proseguito per Monopoli, fosse arrivato a Capitolo, avesse preso il bambino, avesse fatto chissà cosa d'altro, eccetera, eccetera.

Mi alzai per andare via e mi accorsi che l'omino era seduto dall'altro lato della cancelleria, con il mento appoggiato alle mani, i gomiti sulla scrivania e lo sguardo perduto da qualche parte.

Gli augurai buona giornata. Lui girò la testa, mi guardò come se avessi detto qualcosa di strano e poi, mentre si voltava di nuovo fece una specie di cenno col capo. Impossibile capire se aveva risposto al saluto o se era rimasto altrove e dialogava con qualche fantasma.

Fuori l'aria era rovente. Era mezzogiorno di sabato primo luglio e mi accingevo a chiudermi in studio per preparare la discussione del processo.

Mi aspettava un lungo fine settimana.



L'udienza cominciò puntuale alle nove e trenta. La corte prese atto dell'arrivo dei tabulati e concordammo tutti che non erano necessarie le spiegazioni di un tecnico, sul significato dei dati. Ai nostri fini, quello che si leggeva sui tabulati era chiaro a sufficienza. L'ingegnere della Telecom che si era presentato in udienza per deporre fu ringraziato e gli fu detto che poteva andare.

Subito dopo il presidente esaurì le ultime formalità del dibattimento e diede la parola al pubblico ministero. Erano le nove e quaranta minuti.

Cervellati si alzò spingendo indietro la sedia e appoggiandosi al tavolo. Si aggiustò la toga sulle spalle, diede uno sguardo agli appunti e poi sollevò il capo rivolgendosi al presidente.

«Signor presidente, signor giudice a latere, signori giudici popolari. Oggi siete chiamati a giudicare di un crimine orribile. Una giovane vita, una giovanissima vita recisa brutalmente, per effetto di una abiezione di cui non riusciamo a vedere la causa e la misura. Gli effetti di questa abiezione purtroppo sono irrimediabili. Nessuno potrà restituire questo bambino all'affetto dei suoi genitori. Non io, non voi, nessuno.

«Voi però avete un potere grande e importante, di cui spero farete buon uso. Di cui sono sicuro farete buon uso».

Pensai: adesso dirà che hanno il potere, e insieme il dovere, di fare giustizia. Di impedire che l'autore di un crimine così nefando possa andare via indisturbato, magari per qualche cavillo eccetera eccetera.

«Voi avete il potere di fare giustizia. E questo è un potere impegnativo, perché porta con sé il dovere di rendere giustizia. Alla famiglia della piccola vittima, innanzi tutto. Ma poi a tutti noi che, come cittadini, attendiamo una risposta quando accadono fatti così tremendi».

Era una delle sue frasi preferite, in corte di assise. Era convinto di impressionare i giudici popolari, credo. Comunque continuò su questi toni e io in breve cominciai a distrarmi.

Sentivo la sua voce come un rumore di fondo. Ogni tanto seguivo il discorso per qualche minuto e poi tornavo a divagare per conto mio.

Parlò di quello che era successo nel corso del dibattimento, lesse con voce monotona lunghi pezzi dei verbali e spiegò per quali motivi le prove di accusa erano da ritenere pienamente attendibili, nessuna esclusa.

Una delle requisitorie più noiose che avessi mai sentito, pensai mentre sfogliavo il fascicolo che avevo davanti, tanto per fare qualcosa.

Ad un certo punto arrivò a parlare della testimonianza del barista, che era il cuore del processo.

Rilesse le dichiarazioni di Renna, ma non le risposte alle mie domande, e le commentò. Mi sforzai di ascoltare con attenzione.

«Allora dobbiamo chiederci, dovete chiedervi: che ragioni aveva il testimone Renna di accusare falsamente l'odierno imputato? Perché la questione, invero, è molto semplice e l'alternativa netta. Una ipotesi è che il teste Renna menta, ponendo le condizioni per la condanna di un innocente all'ergastolo. Perché lui sa benissimo quali sono le conseguenze della sua deposizione, e cionondimeno insiste, anche dopo le difficoltà che abbiamo visto in occasione del controesame. Se mente, accusando di fatto un innocente per un reato da ergastolo, deve avere una ragione. Una ostilità personale anzi un odio feroce e abietto, perché solo un simile odio potrebbe spiegare una azione così aberrante.

«Esiste prova, o anche solo il sospetto di questo odio distruttivo da parte del Renna nei confronti dell'imputato? Naturalmente no.

«L'altra ipotesi è che il teste invece dica la verità. E se non esiste nessun elemento per dire che il teste mente, dobbiamo riconoscere che, certo con imprecisioni, con errori, con naturali momenti di confusione, egli dice la verità. Le conseguenze sull'esito del presente processo sono evidenti. Perché non dimenticate che l'imputato nega di essere stato a Monopoli, a Capitolo quel pomeriggio. E se lui nega quando invece in quei posti c'è stato, e noi possiamo affermarlo serenamente perché ce lo dice un teste che non ha nessun motivo per mentire, la spiegazione è una sola ed è tristemente sotto gli occhi di tutti».

Questo concetto lo annotai, perché aveva un senso e bisognava confutarlo esplicitamente.

Cervellati proseguì e, seguendo l'ordine cronologico del dibattimento, arrivò a parlare dei tabulati.

Disse quello che mi aspettavo. L'accertamento richiesto dalla difesa non solo non aveva provato l'innocenza dell'imputato, ma forniva, al contrario, ulteriori spunti per sostenere l'accusa. Perché quel buco di quasi cinque ore, senza telefonate, in cui probabilmente l'apparecchio era stato spento, costituiva un dato indiziario da valorizzare.

Era verosimile, altamente verosimile, disse, che l'imputato, arrivato a Bari da Napoli, avesse proseguito per Capitolo avendo già una idea del da farsi. O magari in preda ad un raptus. Era probabile che avesse spento il cellulare, per non essere disturbato nella sua nefanda azione. E questo spiegava, meglio di ogni altra ipotesi, l'assenza di telefonate dalle diciassette fin dopo le ventuno.

Anche su questa parte della requisitoria presi appunti. Era un argomento insidioso che poteva suggestionare i giudici.

Seguì una ricostruzione ipotetica di come Abdou poteva avere realizzato la fase esecutiva del suo piano, sfruttando in modo subdolo e abietto la fiducia del bambino.

Quello che era accaduto dopo il sequestro poteva essere facilmente ipotizzato. Il bambino, resosi conto di quello che stava accadendo, aveva tentato di resistere al tentativo di violenza. Magari aveva tentato di fuggire, e questo aveva innescato la reazione letale dell'imputato. Probabilmente non erano state trovate tracce di abuso sessuale perché la situazione era precipitata prima che tale abuso, che certamente era l'obiettivo cui l'imputato mirava, fosse consumato.

In conclusione il pubblico ministero spiegò i motivi per cui la sola pena adeguata a quel reato fosse quella del carcere a vita. Era la parte più convincente della requisitoria perché effettivamente, l'ergastolo sarebbe stata la giusta pena per l'autore di un fatto del genere.

Mentre pensavo questo, Cervellati concludeva con la formula rituale della richiesta di condanna.

«Per i motivi fin qui enunciati dunque, vi chiedo di affermare la penale responsabilità dell'imputato per tutti i reati che gli sono ascritti e di condannarlo pertanto alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per mesi sei, applicando altresì la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici».

Feci un respiro profondo, guardai l'orologio e mi resi conto che erano passate quasi due ore.

Il presidente disse che avremmo fatto una breve pausa prima di dare la parola alla parte civile. Poi ci sarebbe stata una sospensione di un'ora per il pranzo e alla ripresa avrei parlato io. Dopo le eventuali repliche la corte si sarebbe ritirata in camera di consiglio. L'aula si svuotò ed anche io mi alzai per andare a fumare, mentre rimaneva solo Cotugno, che metteva a punto gli ultimi dettagli della sua arringa.

Fuori, una giornalista che non avevo mai visto prima mi chiese cosa ne pensavo della richiesta del pubblico ministero.

Ne pensavo che raramente avevo sentito domande così idiote. Ebbi l'impulso di esprimere questo concetto, ma naturalmente non lo feci. Non dissi nulla, alzai le spalle, scossi la testa e allargai leggermente le mani, con le palme rivolte verso l'alto. Mi allontanai tirando fuori il pacchetto delle sigarette mentre la ragazza mi guardava un po' interdetta.

Ero abbastanza tranquillo. Non avevo voglia di riguardare i miei appunti. Non avevo voglia di fare più niente fino al momento in cui sarebbe toccato a me di parlare. E comunque non ne sentivo il bisogno.

Era una sensazione nuova, per me. Ero sempre arrivato con l'affanno agli appuntamenti importanti, di lavoro, di studio o di altro. Mi ero sempre ridotto all'ultimo momento, all'ultima notte, all'ultimo ripasso e, dopo, avevo sempre avuto l'impressione di avere rubato qualcosa e di averla fatta franca. Ero riuscito a fregare il mondo ancora una volta. Ancora una volta non erano riusciti a scoprirmi ma dentro di me sapevo di essere un impostore. Prima o poi qualcuno se ne sarebbe accorto. Sicuro.

Quella mattina mi sentivo bene. Sapevo di avere fatto tutto quello che potevo.

Avevo paura, ma era una paura sana, non la paura di essere scoperto e che tutti si accorgessero che ero fasullo. Avevo paura di perdere il processo, avevo paura che Abdou fosse condannato, ma non avevo paura di perdere la dignità. Non mi sentivo un impostore.

Cotugno parlò per poco più di un'ora, usò molti avverbi e molti aggettivi e riuscì a non dire assolutamente nulla.

Nella pausa del pranzo salii al sesto piano, al consiglio dell'ordine. Avevo bisogno di un vocabolario per controllare un'idea che mi era venuta mentre parlava il pubblico ministero. Trovai l'impiegata che stava chiudendo tutto e stava per andare via ma riuscii a convincerla che era un caso di emergenza. Mi fece entrare in biblioteca dove feci rapidamente il mio controllo e presi qualche appunto. Poi ringraziai, salutai e andai via.

A quel punto avrei voluto fare due passi ma, fuori, il caldo era insopportabile.

Allora andai al bar del tribunale, ordinai un frullato e un cornetto, mi sedetti a un tavolino e feci passare il tempo.

Quando fu l'ora mi alzai, tornai in aula, tolsi la giacca e indossai la toga. Quasi contemporaneamente suonò la campanella e si aprì la porta della camera di consiglio. I giudici entrarono ad uno ad uno e io li guardavo stando in piedi, con le braccia incrociate, bilanciato sulla gamba sinistra. Si sedettero tutti e mi sedetti anche io. C'era silenzio.

«La parola alla difesa dell'imputato», disse seccamente il presidente.

Mi stavo alzando quando notai gli sguardi di alcuni fra i giudici che si dirigevano in un punto immediatamente alle mie spalle. Sentii qualcuno che mi stringeva delicatamente il braccio sinistro subito sopra il gomito. Mi girai e vidi Margherita. Aveva un leggero affanno e piccole gocce sul labbro superiore.

Fece balenare un sorriso, non disse niente e si sedette alla mia destra.

Prima che cominciassi a parlare passò qualche secondo.

«Signori giudici, come vi ha già detto il pubblico ministero, questo processo riguarda il più orribile ed innaturale dei crimini. La morte violenta di un bambino con il suo strascico di dolore incomprensibile, senza misura, per i genitori di quel bambino.

«Se la nostra difesa, in qualche modo, involontariamente, ha mancato di rispetto a quel dolore, chiedo scusa».

Il presidente mi guardò senza simpatia. Pensava che quel modo di cominciare fosse solo un espediente per accattivarmi i giudici popolari. Ero sicuro che la pensasse così ed ebbi voglia di dirgli che lo sapevo, e che non me ne importava niente.

«Qualcuno potrebbe pensare che questo sia solo un modo, alquanto miserabile, per catturare la simpatia dei giudici. Quantomeno dei giudici popolari. Non sarebbe un pensiero assurdo perché, spesso, noi avvocati facciamo di queste cose. E comunque: ognuno è libero di pensarla come crede. Anche perché i processi non si discutono e non si decidono in base alla simpatia o all'antipatia dell'avvocato o del pubblico ministero. Per fortuna. I processi si decidono, permettetemi la banalità, in base alle prove. Se ci sono si condanna. Se mancano o anche se sono solo insufficienti o contraddittorie, si assolve.

E allora dobbiamo chiederci in base a quali criteri possiamo affermare che le prove in un processo sono sufficienti, e consentono di condannare, o sono insufficienti o contraddittorie, e impongono allora di assolvere. Per ragionare di questi temi possiamo prendere spunto sicuramente dalla impostazione che ci ha proposto la pubblica accusa.

«Il pubblico ministero ha detto, mi sono annotato testualmente la frase, ha detto: è dunque altamente verosimile che l'imputato sia giunto a Bari da Napoli, abbia proseguito per Monopoli, in preda ad un raptus o avendo già da prima elaborato nei dettagli il suo proposito criminoso, sia giunto a Capitolo, magari abbia spento il cellulare per agire indisturbato e abbia rapito il bambino... eccetera. Da questa alta verosimiglianza il pubblico ministero desume un argomento importante, se non decisivo, per sostenere la responsabilità dell'imputato e per chiedere che gli venga applicato l'ergastolo.

«Allora, per verificare la consistenza e l'attendibilità dell'argomentazione dell'accusa, dobbiamo verificare cosa significa verosimiglianza».

Feci una pausa, presi dal banco il foglietto che avevo annotato poco prima in biblioteca e lessi.

«"Verosimile", dice il vocabolario della lingua italiana Zingarelli, "è quello che sembra vero e che, quindi, è credibile". Sembra vero e quindi è credibile. Sempre nello Zingarelli leggiamo la definizione di vero. "Vero è ciò che si è effettivamente verificato, che è pienamente conforme alla realtà oggettiva". Alla voce vero troviamo, fra le altre, la locuzione: "sembrare vero". Lo Zingarelli spiega che questa espressione, sembrare vero, si usa a proposito di cosa artificiale che imita perfettamente la realtà. Ciò che sembra vero è qualcosa di artificiale, che imita la realtà.

«Ricordate la definizione di verosimile? La parola usata dal pubblico ministero? Verosimile è ciò che sembra vero, e ciò che sembra vero è qualcosa che imita la realtà, ma che ad essa non corrisponde. È, in sostanza, qualcosa di diverso dalla realtà. Usando l'espressione: verosimile, il rappresentante dell'accusa ammette implicitamente ed inconsciamente di non potere usare l'espressione: vero. Vedete bene come nelle stesse pieghe del discorso dell'accusa si celi la sua irrimediabile debolezza».

A questo punto, come mi aspettavo, Cervellati si innervosì e protestò con il presidente. Era inaccettabile che alla difesa si consentisse di ridicolizzare l'ufficio del pubblico ministero con argomenti sofistici di bassa lega. Il presidente non gradì l'interruzione e ricordò al pubblico ministero che la difesa poteva dire quello che voleva, con la sola esclusione delle offese personali. Non gli sembrava che fosse quello il caso. Cervellati cercò di aggiungere qualcosa ma il presidente gli disse, bruscamente questa volta, che avrebbe fatto i suoi commenti sulla mia arringa, se riteneva, al momento delle repliche. Era tutto e non avrebbe tollerato ulteriori interruzioni. Si rivolse a me e mi disse di andare avanti.

Ringraziai, evitai accuratamente di fare qualsiasi accenno all'interruzione e ripresi a parlare.

«Ciò che abbiamo detto brevemente sul significato di queste parole chiave, vero e verosimile, ci offre dunque una interessante prospettiva di lettura degli argomenti del pubblico ministero e delle premesse psicologiche di tali argomenti. Il processo però non si fa sulla interpretazione in chiave psicologica di quello che dice il pubblico ministero. E il processo non si fa nemmeno analizzando quello che ha detto il pubblico ministero per verificare se il suo ragionamento è giusto o sbagliato. Perché il pubblico ministero potrebbe avere fatto un ragionamento sbagliato e ciononostante potrebbe essere giunto a conclusioni giuste. Cioè potrebbe essere giusto pronunciare una sentenza di condanna. Nonostante il ragionamento sbagliato del pubblico ministero e in base ad un diverso, più corretto percorso argomentativo».

Cervellati si alzò, poggiò la toga sulla sedia e uscì ostentatamente dall'aula.

Io non mostrai di essermene accorto.

«Dunque non basta individuare le eventuali carenze dell'argomentazione del pubblico ministero. Occorre verificare se gli elementi di prova raccolti consentano o meno di formulare un giudizio di verità. Noi non vogliamo sottrarci a questo compito. Ma prima di affrontarlo lasciatemi ripetere un concetto.

È un concetto che vorrei teneste a mente durante tutta questa discussione e, soprattutto, quando sarete in camera di consiglio. Per condannare voi non potrete dire che una certa versione dei fatti, una certa ipotesi ricostruttiva dei fatti è verosimile, o anche molto verosimile. Dovrete dire che questa ricostruzione è vera. Se potrete farlo, allora è giusto che condanniate. All'ergastolo.

«L'ipotesi ricostruttiva proposta dall'accusa, in questo processo è la seguente: Thiam Abdou, il giorno 5 agosto 1999, ha sequestrato il minore Rubino Francesco, cagionandone successivamente la morte per soffocamento. Possiamo dire, in base alle prove raccolte, che questa ipotesi ricostruttiva è vera? Cioè possiamo dire che si tratta di una corretta descrizione di come si sono veramente svolti i fatti storici e non di una semplice congettura su come potrebbero essersi svolti?».

Mi fermai come se avessi perso il filo. Rivolsi lo sguardo verso il basso e mi sfiorai la fronte con indice e medio della mano destra. Dopo qualche istante rialzai lo sguardo verso i giudici, rimanendo senza parlare ancora per qualche secondo. C'era silenzio e tutti mi guardavano, in attesa.

«Esaminiamo insieme queste prove. E in particolare esaminiamo le dichiarazioni del testimone Renna, proprietario del bar Maracaibo. Per evitare ogni equivoco voglio dire subito che sono d'accordo con il pubblico ministero, sul fatto che questo testimone dice la verità. O per essere più precisi: questo testimone non dice bugie».

Feci un'altra breve pausa per dar loro il tempo di chiedersi dove volevo arrivare.

«Perché la bugia è una asserzione consapevolmente contraria alla verità ed io sono convinto che il signor Renna non abbia fatto asserzioni consapevolmente contrarie alla verità. Raccontando di avere visto Abdou Thiam passare davanti al suo bar, proprio quel pomeriggio, a quell'ora, il signor Renna ritiene di raccontare la verità. E infatti egli non avrebbe nessun motivo di accusare falsamente l'imputato. Certo, dal suo esame è emerso che egli non ha, come dire, particolare simpatia per gli ambulanti extracomunitari che gravitano nella zona di Capitolo e nei paraggi del suo bar.

«Voglio rileggervi un piccolo passaggio del controesame. Si sta parlando di extracomunitari, che il signor Renna chiama negri. Il difensore chiede se queste persone disturbino l'attività commerciale del Renna. Il testimone risponde. "Disturbano, disturbano, e come che disturbano". " "Va beh scusi, se disturbano perché lei non chiama i vigili o i carabinieri?". "Perché non li chiamo? Io li chiamo, ma tu li hai visti mai a venire?".

«Insomma, il signor Renna, ce lo dice lui stesso, non gradisce la presenza, a Capitolo e vicino al suo bar, degli ambulanti extracomunitari. Vorrebbe che le forze dell'ordine intervenissero per fare un po' d'ordine, ma questo non accade.

Lui è un po' risentito.

Tutto questo, sia chiaro, non significa che ci abbia raccontato deliberatamente cose non vere a proposito del signor Abdou Thiam.

Ma, prescindendo dalla sua simpatia, o antipatia, per i negri, e dal suo bisogno insoddisfatto che le forze dell'ordine facciano qualcosa, contro questi negri, il Renna ha detto cose oggettivamente vere? Possiamo affermare al di là di ogni dubbio ragionevole che la versione fornita da questo testimone corrisponde alla verità storica dei fatti di cui ci occupiamo ?

Un elemento di dubbio è desumibile dal piccolo esperimento delle fotografie, che voi ricorderete. Renna non riconosce in fotografia, in due fotografie, voi le avete agli atti e potete direttamente verificare se si tratti di riproduzioni fedeli, l'imputato. Lo stesso presente in aula e, soprattutto, lo stesso che lui dice di conoscere bene e di avere visto passare davanti al suo bar, quel pomeriggio di agosto.

«Questo significa che Renna si è inventato tutto, cioè che dice bugie? No, certamente. Il fatto che i negri non gli siano simpatici e che abbia vistosamente fallito il riconoscimento fotografico non significa che ci abbia consapevolmente mentito. Quando lui dice di ricordare che quel pomeriggio Abdou Thiam passò davanti al suo bar, senza borse, a passo svelto e in direzione sud, il testimone Renna dice la verità. Nel senso che lui effettivamente ricorda questa sequenza di fatti e la colloca in quel pomeriggio. Dunque per essere più precisi, lui racconta quella che crede essere la verità. La cosa assai interessante, e questo ci introduce in un campo affascinante, che è quello del funzionamento della memoria, è che Renna crede che quella sia la verità, perché ricorda quei fatti, anche se essi non si sono verificati. Non nei termini del suo racconto».

Pausa. Avevo bisogno che questi concetti si depositassero nella mente dei giudici, soprattutto dei giudici popolari. Feci finta di frugare fra gli appunti e lasciai passare una decina di secondi. Il tempo che si chiedessero cosa sarebbe venuto dopo.

«Adesso voglio raccontarvi di un esperimento scientifico sul funzionamento della memoria e sul meccanismo di produzione dei ricordi. Una équipe di psicologi americani, credo dell'università di Harvard, voleva verificare l'attendibilità dei ricordi infantili. A dei bambini di nove, dieci anni fu raccontato, dai loro fratelli maggiori che erano stati istruiti per fare ciò, che all'età di quattro o cinque anni erano sfuggiti ad un tentativo di rapimento. Gli fu detto che, trovandosi al supermercato con la mamma ed in un momento di distrazione di quest'ultima, uno sconosciuto li aveva presi per mano e si era diretto verso l'uscita. La mamma si era accorta dell'accaduto, si era messa a gridare e aveva messo in fuga il malintenzionato.

«L'episodio in realtà non era mai accaduto ma, dopo pochi mesi dal racconto i bambini non solo credevano di ricordarlo, in realtà ed in un certo senso: lo ricordavano, ma nel riferirlo aggiungevano addirittura ulteriori dettagli, che non erano presenti nella versione originaria. Questi bambini mentivano? Vale a dire: dicevano cose false, consapevoli di farlo? Certamente no. Questi bambini raccontavano cose realmente accadute ? Certamente no.

«È un dato acquisito, e uno degli oggetti di studio più importanti della moderna psicologia giuridica, che tanto i bambini, quanto gli adulti commettono errori sulla fonte dei loro ricordi e sono convinti di ricordare contesti, dati, particolari che sono stati invece suggeriti da altri. Deliberatamente, come nel caso dell'esperimento che vi ho raccontato. O involontariamente come in molte situazioni della vita quotidiana e anche, a volte, durante le indagini.

«Sulla base di queste considerazioni possiamo dare una risposta a quella domanda posta dal pubblico ministero nel corso della sua requisitoria, a proposito dell'attendibilità del testimone Renna. Il pubblico ministero si è chiesto e soprattutto vi ha chiesto: che ragioni aveva il testimone Renna per mentire e quindi accusare falsamente Abdou Thiam? Possiamo rispondere tranquillamente a quella domanda: nessuna ragione. E infatti Renna non ha mentito. Fra il mentire, cioè dire consapevolmente cose false, e dire la verità cioè riferire i fatti in modo conforme al loro effettivo svolgimento, esiste una terza possibilità. Una possibilità che il pubblico ministero non ha considerato, ma che voi dovrete considerare molto attentamente.

«Quella del teste che riferisce una certa versione dei fatti nella erronea convinzione che essa sia vera. Si tratta di quella che potremmo definire la falsa testimonianza inconsapevole».

Sembravano interessati. Anche il presidente e il giudice popolare con la faccia da ufficiale in pensione. I due che, ne ero convinto, avevano già deciso di votare per la condanna.

«Ci sono molti modi di costruire un falso testimone inconsapevole. Alcuni sono deliberati, come nel caso dell'esperimento con i bambini, di cui vi ho parlato. Altri sono involontari e, spesso, sono ispirati dalle migliori intenzioni. Come in questo caso. Cerchiamo di intenderci cercando di ricostruire quello che è successo nell'indagine che ha portato alla incriminazione di Abdou Thiam e, quindi, a questo processo. Scompare un bambino e, due giorni dopo, ne viene ritrovato il corpo senza vita. È un fatto sconvolgente e coloro i quali hanno il compito delle indagini, carabinieri e pubblico ministero, sentono in modo urgente, pressante il dovere di scoprire i colpevoli. Vi è un'ansia sacrosanta di dare una risposta alla domanda di giustizia generata da un fatto così orribile.

«Interrogando i familiari del bambino, ed altre persone che lo conoscevano bene, i carabinieri scoprono questa specie di amicizia che legava il bambino a questo ambulante di colore. È un fatto strano, atipico, che genera sospetti. E genera l'idea che forse si è sulla pista giusta. Forse è possibile dare risposta a quella domanda di giustizia e placare quell'ansia. L'indagine non si muove più nel buio, ma ha un possibile sospetto ed una ipotesi di soluzione. Questo moltiplica gli sforzi, alla ricerca di conferme per questa ipotesi di soluzione.

«Quando il testimone Renna viene sentito per la prima volta, dai carabinieri, la situazione è questa. Gli investigatori sono comprensibilmente eccitati dalla possibilità di risolvere il caso e si rendono conto che le dichiarazioni di questo teste potrebbero costituire un passaggio decisivo. È in questa fase che si verifica la costruzione del falso testimone inconsapevole.

«Attenzione. Vi prego, attenzione. Non sto affatto dicendo che vi sia stato un deliberato inquinamento delle indagini. E tanto meno sto parlando di grottesche ipotesi di complotti orditi dagli investigatori ai danni dell'imputato. La questione è, contemporaneamente, più semplice e più complessa e per spiegare quello che intendo dire prenderò a prestito una famosa frase di Albert Einstein.

«La frase, se non ricordo male, suona più o meno così: è la teoria che determina ciò che osserviamo. Cosa significa? Significa che se abbiamo una teoria, una teoria che ci piace,

che ci soddisfa, che ci sembra buona, tendiamo ad esaminare i fatti attraverso quella teoria. Piuttosto che osservare obbiettivamente tutti i dati disponibili, cerchiamo solo conferme a quella teoria. La nostra stessa percezione è fortemente influenzata, determinata dalla teoria che abbiamo scelto. Appunto, come diceva Einstein, che parlava di scienza, la teoria determina ciò che riusciamo ad osservare. In altri termini: vediamo, sentiamo, percepiamo quello che conferma la nostra teoria e, semplicemente, tralasciamo tutto il resto. C'è un detto cinese che esprime in forma diversa lo stesso concetto. Dicono i cinesi: due terzi di quello che vediamo, è dietro i nostri occhi.

«Tutti noi abbiamo fatto qualche esperienza di come la nostra stessa percezione sia determinata da ciò, che per le più varie ragioni è nella nostra testa o, come direbbero i cinesi, "dietro i nostri occhi". Avete mai comprato una nuova macchina e improvvisamente, mentre la guidate ne notate decine dello stesso tipo, sulle strade ? Dove erano prima?

«Filtri percettivi, li chiamano gli psicologi. Parafrasando Einstein, che suppongo si starà rivoltando nella tomba per questa mia intrusione, potremmo dire: è l'ipotesi investigativa che determina quello che gli inquirenti osservano. Ma non solo. Determina quello che cercano, determina il modo in cui agiscono con i testimoni, determina le domande che fanno. Determina il modo in cui scrivono i verbali. Senza che tutto questo abbia in alcun modo a che fare con la malafede.

«Lasciatemelo ripetere. Tutto quello di cui sto parlando può produrre errori nelle indagini, e il processo serve per correggerli, ma non ha niente a che fare con la malafede. Semmai, in un caso come questo, ci troviamo di fronte ad un eccesso di buona fede.

«Dunque torniamo a quello che stavamo dicendo qualche minuto fa. Gli investigatori vogliono risolvere questo caso orribile. Vogliono farlo per le migliori ragioni e con le migliori intenzioni. Vogliono farlo per ansia di giustizia. Vogliono farlo presto, perché l'autore di un fatto così orribile rimanga libero, e in grado di nuocere ancora, per il minor tempo possibile. In questo stato d'animo scoprono una pista e individuano un possibile sospetto. Attenzione. Non fantasie o ipotesi pretestuose. Era una buona pista e gli elementi di sospetto a carico di Abdou Thiam erano plausibili. Sulla base di questa buona pista gli inquirenti si lanciano alla caccia di quello che considerano il probabile colpevole.

«Da quel momento in poi i carabinieri ed il pubblico ministero hanno una teoria che, come ci insegna Einstein, determinerà quello che osserveranno, come agiranno con i testimoni, cosa chiederanno loro, come e addirittura cosa verbalizzeranno. In perfetta buona fede e per ansia di giustizia.

«Voi capite adesso il perché di quelle domande del difensore al maresciallo dei carabinieri, sulle modalità di verbalizzazione. Perché se io verbalizzo in forma integrale, cioè con la registrazione, la stenotipia eccetera, non esiste il problema di capire cosa è successo durante l'audizione. È tutto registrato, domande, risposte, pause, tutto, e basta rileggersi la trascrizione o anche ascoltare la registrazione. Se l'investigatore ha influenzato involontariamente il testimone, è possibile verificarlo semplicemente leggendo. E poi ognuno fa le sue valutazioni.

«Se il verbale è riassuntivo, questo controllo è impossibile. E se il verbale riassuntivo riguarda proprio il primo contatto fra gli investigatori e il teste, il rischio di inquinamenti involontari delle dichiarazioni e degli stessi ricordi del testimone, è altissimo.

«Volete un piccolo esempio di come questo può accadere? Io sono l'investigatore e mi trovo davanti a quello che potrebbe essere un teste importante, forse un teste decisivo. Ho dei fortissimi sospetti su un soggetto, Abdou Thiam. Chiedo al teste: conosci Abdou Thiam? Il nome non mi dice niente, se mi fate vedere qualche foto. Ecco la foto, lo conosci? Sì, sì. È uno di quei negri che si fermano spesso davanti al bar. Che danno un sacco di fastidio. Lo hai visto passare davanti al bar il giorno della scomparsa del bambino? Pausa del testimone, che ci pensa su. Gli investigatori sentono di essere vicini alla soluzione.

Pensaci bene, il pomeriggio della scomparsa del bambino. È una settimana fa. Mi sembra di sì. Sì, deve essere passato. Mi sembra che era proprio lui.

«A questo punto il maresciallo detta a verbale, perché vuole fissare per iscritto, prima che il testimone cambi idea. Il che purtroppo succede spesso. Detta a verbale, all'appuntato che scrive al computer. Detta a verbale e usa il suo linguaggio burocratico, non le espressioni usate dal testimone».

Presi dalle mie carte la copia del primo verbale di Renna e lessi.

«Nel verbale di cui stiamo parlando si trovano espressioni del tipo: "sono coadiuvato, nella conduzione del prefato esercizio commerciale..." eccetera. Ovviamente non sono espressioni del teste Renna. Ovviamente non sappiamo quali domande siano state rivolte al Renna. Non lo sappiamo perché viene utilizzata la burocratica, comoda formula: a domanda risponde. Quale domanda? Quali domande sono state rivolte al testimone. Sono domande che lo hanno influenzato ? Sono domande che hanno suggerito le risposte ? Sono domande che hanno costruito, involontariamente, un ricordo ?

«Non ci vuole la malafede. Basta avere una teoria da confermare, il nostro cervello fa tutto da solo, percependo, rielaborando, verbalizzando in modo da adattare i fatti alla teoria. Creando, anzi direi: assemblando il falso ricordo. Dico falso non perché il Renna abbia inventato qualcosa o i carabinieri gli abbiano dolosamente suggerito una storia falsa da raccontare. Semplicemente nel corso della prima audizione i ricordi del Renna sono stati riprogrammati alla luce della teoria investigativa che era stata scelta e per la quale non si cercavano verifiche obbiettive, ma solo conferme. Sono stati riprogrammati e come ciò sia avvenuto in concreto non lo potremo sapere mai più. Perché l'interrogatorio di questo signore non è stato registrato ed è stato solo verbalizzato. Nel modo che abbiamo visto.

«Volete sapere quanto è possibile influenzare la risposta di un testimone e addirittura modificare il suo ricordo, semplicemente porgendo la domanda in un modo o in un altro? Lasciate che vi racconti di un'altra ricerca, italiana questa volta. A tre gruppi di studenti di psicologia, non bambini, non sprovveduti, ma studenti di psicologia che sapevano di essere sottoposti ad un test scientifico, fu mostrato un filmato. In questo filmato si vedeva una signora che usciva da un supermercato con un carrello; alle spalle della signora si avvicinava un giovane che afferrava una borsetta posta sul carrello e poi scappava. Ai tre gruppi di studenti, con domande diverse, fu chiesto di raccontare cosa avevano visto. Al primo gruppo fu posta questa domanda: "il ladro ha urtato la signora?". Al secondo gruppo: "in che modo l'aggressore ha spinto la signora?". Agli studenti del terzo gruppo fu semplicemente chiesto di raccontare cosa avevano visto. Inutile dire che nel filmato non c'era nessun urto e nessuna spinta. Io credo che voi abbiate già intuito quale fu il risultato dell'esperimento. Fra gli studenti del terzo gruppo, quello cui era stato chiesto semplicemente di raccontare i fatti, solo il 10%, o poco più parlò di un urto o comunque di un contatto fisico fra vittima e aggressore. Fra gli studenti del primo gruppo solo il 20% parlò di un urto. Fra gli studenti del secondo gruppo, quello cui era stata posta la domanda più fortemente suggestiva, ci fu quasi un 70% di risposte in cui si parlava dell'inesistente urto. Come nel caso dell'esperimento dei bambini poi, tutti quelli che parlavano dell'urto arricchivano il racconto di particolari sulle modalità, la violenza, la direzione di questo inesistente urto.

«Bisogna aggiungere altro? Dobbiamo sprecare altre parole per spiegare quanto il modo di condurre un interrogatorio può influire non solo sulle risposte, ma sulla stessa ricostruzione dei ricordi dell'interrogato? Non credo.

«Abbiamo compreso quanto sia vitale sapere quali domande, e in che sequenza, e con che ritmo, e con che tono, siano state poste ad un testimone, nella sua deposizione più importante, cioè la prima. In questo caso questa informazione vitale ci viene negata, perché nel verbale dei carabinieri c'è semplicemente scritto: a domanda risponde. A domanda risponde. Quale domanda? Quali domande?».

Alzai un poco la voce. Non faceva parte delle mie abitudini, ma i giudici cominciavano ad essere stanchi e invece mi stavo avvicinando al punto cruciale. Dovevo tenerli svegli.

«Abbiamo detto che se non sappiamo qual è la domanda non possiamo dire se la risposta è genuina o è stata influenzata, o addirittura manipolata. Non lo potremo dire mai più perché di quell'esame, di quel primo esame del teste Renna, ci resta solo questo succinto verbale riassuntivo. Possiamo solo fare delle congetture. Ma nel farle non possiamo trascurare un fatto. Che si è verificato davanti ai nostri occhi, in udienza, in questo processo. E quel fatto è il controesame di Renna. Nel corso del quale abbiamo appreso una serie di cose molto importanti per valutare l'attendibilità di questo teste. Che non significa: valutare se il teste mente o dice la sua soggettiva verità. Significa verificare qual è il grado di rispondenza del suo racconto al reale svolgimento dei fatti.

«Sintetizzo queste cose. Al signor Renna non piacciono gli extracomunitari e vorrebbe che le forze dell'ordine si occupassero di loro. Il signor Renna non conosce poi così bene Abdou Thiam se, avendo sottomano ben due sue fotografie, e trovandosi nella stessa aula di udienza, non riesce a riconoscerlo. Il signor Renna, infine e conseguentemente, non è molto fisionomista e non gli risulta facile distinguere fra un cittadino extracomunitario ed un altro. Dal suo punto di vista sono tutti negri, per adoperare testualmente la sua risposta ad una domanda del difensore».

Stavo per lanciare uno degli attacchi decisivi, e allora mi fermai di nuovo e lasciai ai giudici almeno una ventina di secondi. Dovevano chiedersi per quale motivo avessi smesso di parlare e darmi tutta l'attenzione di cui erano capaci, dopo tante ore di udienza. Ripresi con un tono di voce più alto. Doveva essere chiaro che eravamo arrivati al punto.

«E sulle dichiarazioni di questo signore, su queste dichiarazioni di origine incerta, per tutto quello che abbiamo detto a proposito del primo verbale davanti ai carabinieri, il pubblico ministero chiede che voi applichiate la pena del carcere a vita.

«Ricordate che per applicare non l'ergastolo, ma anche un solo giorno di carcere voi non dovete utilizzare i criteri della verosimiglianza, non dovete utilizzare i criteri della probabilità. Ammesso che in questo caso e con riferimento al contenuto della deposizione di Renna si possa parlare di verosimiglianza o di probabilità. Voi dovete applicare i criteri della certezza.

«Certezza! Si può parlare di certezza nella ricostruzione di un fatto, quando ogni altra ipotesi alternativa è implausibile e quindi va respinta. È questo il caso? È implausibile pensare, per esempio, che il Renna abbia visto qualcun altro, non Abdou Thiam, quel pomeriggio, visto che per lui i negri sono tutti uguali? È implausibile pensare che, in qualche modo, questo testimone si sia sbagliato? Questo testimone che, badate, fallisce clamorosamente, sotto i vostri occhi il riconoscimento fotografico. Non può essersi sbagliato? Potete affidare serenamente tutta la vostra decisione, e tutta la vita di un uomo sulle dichiarazioni di un soggetto la cui fallibilità si è manifestata sotto i vostri occhi?».

Pausa. Sette, otto secondi.

«E attenzione. Anche se, contro ogni evidenza, voleste ritenere che il racconto di Renna è attendibile, questo non significherebbe la prova della responsabilità dell'imputato. Perché gli altri indizi a suo carico sono poco più che carta straccia».

Passai ad esaminare le dichiarazioni dei due senegalesi, i risultati della perquisizione e tutti gli altri elementi di prova.

Parlai dei tabulati. Anche a voler accettare che si parlasse di verosimiglianza, dissi, la ricostruzione del pubblico ministero comunque non reggeva. Anzi era quasi grottesca. Il pubblico ministero diceva che l'imputato era rientrato da Napoli in preda a un raptus e si era diretto a Capitolo con la folle determinazione di sequestrare, violentare, uccidere il piccolo Francesco?

Era pazzo, allora. Perché solo la pazzia poteva giustificare un comportamento così assurdo. E allora perché non era stato sottoposto a nessuna perizia psichiatrica? Se per spiegare i suoi comportamenti era necessario rinviare alla malattia mentale, allora questa malattia andava accertata. Diversamente quel riferimento rimaneva solo un tentativo di suggestionare la corte.

Dissi tutte queste cose ma senza parlare troppo. I giudici erano stanchi e io ero convinto che al momento di decidere avrebbero discusso soprattutto della testimonianza di Renna.

Allora, come si dice, mi avviai a concludere. Concludere dal punto in cui si è cominciato dà l'idea del senso compiuto e rende più forte una argomentazione. Credo.

«Verosimiglianza o verità, signori giudici. Probabilità o certezza. La scelta non dovrebbe essere difficile. Invece lo è. Perché se da un lato c'è la percezione, noi tutti la condividiamo, ne sono certo, che questo processo non ha fornito nessuna risposta, dall'altro lato c'è il senso di sgomento che deriva dall'idea che un crimine orrendo possa rimanere impunito, senza un autore. È un'idea insopportabile ed è un'idea che porta con sé un rischio gravissimo».

In quel momento rientrò in aula Cervellati. Si sedette al suo posto e appoggiò la testa alla mano destra, usandola come una specie di barriera. Fra me e lui. Lo sguardo era ostentatamente diretto in un punto dell'aula, in alto a sinistra. Dove non c'era nulla.

Era la posizione più simile al darmi le spalle che fosse fisicamente consentita dalla disposizione dei banchi, paralleli, e delle sedie.

Pensai che era uno stronzo e andai avanti.

«Il rischio è quello di cercare di liberarci da questa angoscia trovando non il colpevole, ma un colpevole. Uno qualunque. Uno che ha avuto la sfortuna di rimanere impigliato nel processo. Senza, avere, fatto, niente. Lasciatemelo ripetere: senza, avere, fatto, niente.

«Qualcuno potrebbe non condividere il tono categorico della mia affermazione. Mi sta bene. È legittimo avere dubbi. Io sono il difensore e, per molti motivi, sono convinto dell'innocenza del mio assistito. Voi avete il diritto di non condividere questa certezza. Avete diritto ai vostri dubbi. Avete il diritto di pensare che Abdou Thiam potrebbe essere colpevole, nonostante quello che dice il suo avvocato. Potrebbe essere colpevole. Nonostante l'assurdità della ricostruzione proposta dalla pubblica accusa, avete diritto di pensare che l'imputato potrebbe essere colpevole.

« Potrebbe. Modo condizionale. Le sentenze però non si scrivono, non si possono scrivere, al modo condizionale. Si scrivono all'indicativo, affermando certezze. Certezze. Potete fare affermazioni di certezza ? Potete dire che certamente il teste Renna non si è sbagliato ? Potete dire che alla fine di questo processo non esiste un dubbio ragionevole? Se potete dire tutto questo, allora condannate Abdou Thiam».

Avevo alzato la voce e mi resi conto che non stavo recitando, questa volta.

«Condannatelo all'ergastolo, e a niente di meno. Se potete dire che non esiste nemmeno un dubbio, se siete assolutamente certi, voi dovete condannare quest'uomo a rimanere in carcere per sempre. Dovete avere il coraggio di farlo. Molto coraggio».

Per un tempo indefinito rimase tutto sospeso. Fino a quando non sentii di nuovo la mia voce. Bassa ora, e incrinata.

«Se però non avete questa certezza, allora vi serve ancora più coraggio. Per non soffocare i vostri dubbi nel nome della giustizia sommaria, e quindi per assolvere, ci vorrà un enorme coraggio. Sono sicuro che lo avrete. Grazie di avermi ascoltato».

Mi sedetti e non mi rendevo conto di avere veramente finito. Alle mie spalle, dai banchi del pubblico un fruscio di voci. Io stavo con le labbra strette e la testa leggermente china, fissando ottusamente un punto del banco, alla mia sinistra, fra le venature del legno.

Sentii parlare il presidente e mi sembrava che la voce provenisse da un altro posto. Domandò al pubblico ministero ed alla parte civile se ci fossero repliche. Dissero di no.

Allora chiese ad Abdou se voleva fare una dichiarazione conclusiva, prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio. Come prevede il codice. Il fruscio cessò e ci fu qualche secondo di silenzio. Poi la voce di Abdou nel microfono inserito fra le sbarre della gabbia. Era bassa ma ferma.

«Voglio dire solo una cosa. Voglio ringraziare il mio avvocato perché ha creduto che sono innocente. Voglio dirgli che ha fatto bene, perché è vero».

Il presidente fece un cenno impercettibile con il capo. «La corte si ritira», disse.

Si alzò, e gli altri giudici fecero lo stesso, quasi contemporaneamente .

Anche io mi alzai, in modo meccanico. Li guardai scomparire ad uno ad uno dietro la porta della camera di consiglio e solo in quel momento mi girai verso Margherita.

«Quanto tempo ho parlato?».

«Due ore e mezza, più o meno».

Guardai l'orologio. Erano le sei meno un quarto. A me sembrava di aver parlato per non più di quaranta minuti.

Per un po' rimanemmo in piedi, in silenzio. Poi mi chiese perché non mi toglievo la toga. Io la tolsi e l'appoggiai sul banco, mentre lei mi guardava con l'espressione di chi vuol dire qualcosa e cerca il modo, o le parole.

«Io non sono molto brava a fare i complimenti. In realtà non mi è mai piaciuto, e credo anche di sapere perché. Comunque questo non importa, ora. Quello che volevo dire è che... insomma che è stato straordinario ascoltarti. Avrei voglia di darti un bacio, ma credo che non sia il caso, al momento».

Io non dissi niente, perché ero a corto di parole e poi avevo una specie di nodo alla gola.

Un giornalista si avvicinò e mi fece i complimenti. Poi un altro e poi anche la ragazza che durante la pausa mi aveva chiesto il commento sulle richieste del pubblico ministero. Mi sentii in colpa per non essere stato gentile con lei, prima.

Mentre i giornalisti mi dicevano altre cose che non sentivo Margherita mi toccò delicatamente per la manica della giacca.

«Sto scappando. In bocca al lupo». Sollevò il pugno destro all'altezza della fronte e fece un brevissimo inchino col capo.

Poi si girò, andò via ed io mi sentii solo.

Il primo processo che feci da solo, poco dopo aver superato gli esami da procuratore legale, riguardava una serie di truffe. L'imputato era un omaccione simpatico, con i baffi neri e il naso pieno di capillari rotti. Credo non fosse astemio.

Il pubblico ministero fece una requisitoria brevissima e chiese la condanna a due anni di reclusione. Io feci una lunga arringa. Il pretore annuiva quando parlavo e questo mi dava fiducia. I miei argomenti mi sembravano stringenti e inevitabilmente persuasivi.

Quando finii di parlare ero convinto che di lì a poco il mio cliente sarebbe stato assolto.

Il pretore rimase in camera di consiglio una ventina di minuti e quando venne fuori condannò esattamente alla pena richiesta dal pubblico ministero. Due anni di carcere senza la sospensione condizionale, visto che il mio cliente era un recidivo.

La notte seguente non dormii e per molti giorni dopo mi domandai cosa avessi sbagliato. Mi sentivo umiliato, mi convinsi che il giudice, per qualche motivo sconosciuto ce l'aveva con me, e persi fiducia nella giustizia.

Non mi passò nemmeno per la testa la spiegazione più ovvia della faccenda: il mio cliente era colpevole e il giudice aveva fatto bene a condannarlo. Questa fu una brillante intuizione che ebbi solo molto tempo dopo.

Da quell'esperienza comunque imparai a trattare i miei processi con il dovuto distacco. Senza appassionarmi e soprattutto senza nutrire aspettative.

Appassionarsi e nutrire aspettative sono due cose pericolose. Ci si può fare male, o anche molto male. Non solo nei processi.

Mentre l'aula si svuotava pensavo a questo. Pensavo che avevo fatto bene il mio lavoro. Avevo fatto tutto quello che era possibile. Adesso dovevo disinteressarmi del risultato. Dovevo andare via, in studio o a fare un giro, o a casa. Quando la corte fosse stata pronta il cancelliere mi avrebbe chiamato sul cellulare, si era fatto dare il numero prima di andare via lui stesso, e io sarei tornato per ascoltare la lettura della sentenza.

È la prassi in processi di questo genere, quando si prevede che i giudici rimangano in camera di consiglio per molte ore o anche per giorni. Quando sono pronti chiamano il cancelliere e dicono a che ora usciranno dalla camera di consiglio per leggere la sentenza. Il cancelliere a sua volta chiama il pubblico ministero, gli avvocati e all'ora stabilita sono tutti lì, per l'atto finale.

Dunque, stando alla prassi sarei dovuto andare via. Invece rimasi e dopo essermi guardato un po' intorno nell'aula deserta mi accostai alla gabbia. Abdou si alzò dalla panca per venirmi incontro.

Appoggiai le mani alle sbarre e lui fece un cenno di saluto col capo abbozzando un sorriso. Lo stesso feci io, prima di parlare.

«Sei riuscito a seguire il discorso?».

«Sì».

«Allora?».

Non rispose subito. Come altre volte, ebbi l'impressione che si concentrasse per non sbagliare le parole.

«Io ho una domanda, avvocato».

«Dimmi».

«Perché hai fatto tutto questo?».

Se non l'avesse fatta lui, prima o poi avrei dovuto farmela io, quella domanda.

Stavo cercando una risposta e mi resi conto che non avevo voglia di parlare attraverso le sbarre. Che consentissero ad Abdou di uscire e chiacchierare in aula, neanche a parlarne.

Contro ogni regolamento. Allora chiesi al capo scorta se potevo entrare io nella gabbia.

Mi guardò con l'aria di chi non è sicuro di aver sentito bene. Poi guardò i suoi uomini, alzò le spalle in un gesto di chi rinuncia a capire e diede ordine all'agente che aveva le chiavi di aprire la gabbia e di lasciarmi entrare.

Mi sedetti sulla panca, vicino ad Abdou e avvertii un assurdo senso di sollievo sentendo lo scatto del chiavistello che richiudeva la cancellata.

Stavo per offrirgli una sigaretta quando tirò fuori un pacchetto e volle che ne prendessi una delle sue. Diana rosse. Le Marlboro dei carcerati.

La presi e dopo averne fumata mezza gli dissi che non l'avevo una risposta, per la domanda che mi aveva fatto.

Dissi che pensavo fosse per un buon motivo, ma non sapevo esattamente qual era, quel motivo.

Abdou fece sì col capo, come se la risposta lo avesse soddisfatto.

«Ho paura», disse poi.

«Anch'io».

Fu così che cominciammo a parlare. Parlammo di molte cose e fumammo ancora le sue sigarette. A un certo punto ci venne voglia di bere e io chiamai il bar con il mio portatile, per ordinare. Dieci minuti dopo arrivò il ragazzo, con il vassoio, e fece passare attraverso le sbarre due bicchieri di the freddo. Pagò Abdou.

Poi bevemmo, sotto gli sguardi perplessi degli agenti.

Verso le otto gli dissi che andavo a fare due passi per sgranchirmi le gambe.

Non avevo voglia di tornare a casa o in studio. O andare in centro a passeggiare fra la gente e i negozi. Così mi avventurai nei dintorni del tribunale, in direzione del cimitero. Fra case popolari dalle quali veniva odore di cibo un po' sfatto, botteghe squallide, e strade dalle quali non ricordavo di essere mai passato, in trentanove anni di vita a Bari.

Camminai a lungo, senza meta e senza pensare a niente. Mi sembrava di essere altrove e i posti erano così brutti da emanare uno strano, squallido fascino.

Si era fatto buio e mi ero completamente distratto quando mi accorsi della vibrazione nella tasca posteriore dei pantaloni.

Tirai fuori il cellulare e dall'altra parte sentii la voce del cancelliere. Era un po' agitato.

Aveva già chiamato una volta e non rispondeva nessuno? Non avevo sentito, mi dispiaceva. Erano pronti già da dieci minuti? Arrivavo subito. Subito, subito.

Pochi minuti.

Mi guardai attorno e ci misi un po' per rendermi conto di dov'ero. Niente affatto vicino. Dovevo correre e lo feci.

Entrai in aula una decina di minuti dopo, sforzandomi di respirare con il naso e non con la bocca, sentendo la camicia bagnata di sudore che si attaccava alla schiena, cercando di darmi un contegno.

C'erano già tutti, pronti ai loro posti. Parte civile, pubblico ministero, cancelliere, giornalisti e, nonostante l'orario, anche pubblico. Notai che c'erano anche alcuni africani, che non avevo mai visto alle altre udienze.

Appena mi vide, il cancelliere scomparve dietro la porta della camera di consiglio. Andava ad avvertire la corte che ero finalmente arrivato.

Mi gettai la toga sulle spalle e guardai l'orologio. Le nove e cinquantacinque minuti.

Il cancelliere tornò al suo posto e poi, in rapida successione la campanella suonò e i giudici uscirono.

Il presidente raggiunse rapidamente il suo posto, con l'aria di chi vuole sbrigare in fretta una incombenza sgradevole. Guardò prima a destra e poi a sinistra. Si assicurava che i componenti della corte fossero tutti al loro posto. Mise gli occhiali per leggere la sentenza.

Abbassai lo sguardo, socchiusi gli occhi e ascoltai i battiti del mio cuore.

Forti e veloci.

«In nome del popolo italiano, la corte di assise di Bari, letto l'articolo 530 capoverso del codice di procedura penale....»

Sentii una scarica per tutto il corpo e poi le gambe deboli. Assolto. L'articolo 530 del codice di procedura penale si intitola: Sentenza di assoluzione.



«... assolve Thiam Abdou dalle imputazioni a lui ascritte per non aver commesso il fatto. Letto l'art. 300 del codice di procedura penale dichiara la cessazione di efficacia della misura cautelare della custodia in carcere attualmente in corso a carico dell'imputato e dispone l'immediata rimessione in libertà del predetto se non detenuto per altra causa. L'udienza è tolta».

È difficile spiegare cosa si prova in un momento del genere. Perché in realtà è difficile capirlo.

Io rimasi lì dov'ero, guardando in direzione dei banchi della corte, vuoti.

Tutto intorno voci concitate, qualcuno mi toccava sulla spalla e qualcuno invece mi afferrava la mano e me la stringeva. Mi chiesi che ci facesse tanta gente in un'aula di corte di assise, il nove di luglio, alle dieci di sera.

Non lo so quanto tempo rimasi immobile.

Fino a quando non distinsi, fra le voci, quella di Abdou. Tolsi la toga e andai alla gabbia. In teoria avrebbero dovuto liberarlo immediatamente. In pratica però era necessario che lo riportassero in carcere per sbrigare tutte le formalità. Comunque era ancora lì dentro.

Ci trovammo faccia a faccia, molto vicini, le sbarre in mezzo. Aveva gli occhi lucidi, le mascelle serrate e un tremito agli angoli della bocca.

La mia faccia non era molto diversa, credo.

Ci stringemmo le mani a lungo, attraverso le sbarre. Non nel modo tradizionale, delle presentazioni e degli uomini d'affari ma agganciando i pollici, le braccia piegate.

Disse solo alcune parole, nella sua lingua. Non avevo bisogno di un interprete per capire cosa significavano.



Lasciai a Margherita un messaggio sulla segreteria telefonica del cellulare, la sera stessa della sentenza, ma riuscimmo a incontrarci solo il pomeriggio del giorno dopo.

Passò dal mio studio, scesi e andammo a sederci in un bar. Del processo parlammo solo un poco. Io non ne avevo voglia, lei lo capì e smise quasi subito di farmi domande. Eravamo tutti e due in una specie di strano, leggero imbarazzo.

Quando arrivammo di nuovo sotto il mio studio feci uno sforzo per dirle quello che avevo in mente.

«Avrei voglia di invitarti a cena fuori. Per piacere non dire di no, anche se non è un granché, come invito. Sono fuori esercizio».

Lei mi guardò come se le venisse da ridere, ma rimase in silenzio.

«Allora?», feci dopo qualche secondo.

«Effettivamente come invito faceva un po' schifo, ma voglio premiare la buona volontà».

«Vuol dire che accetti?».

«Vuol dire che accetto. Stasera?».

«Stasera no. Domani, per piacere».

Mi guardò con aria perplessa, socchiudendo gli occhi e dovetti dire per forza qualcos'altro.

«Devo fare una cosa, stasera. Una cosa importante. Non posso rinviarla. Non posso portarti fuori se non la faccio, prima».

Mi guardò ancora, per qualche secondo, con la stessa aria perplessa. Poi annuì e disse che andava bene.

«A domani allora».

«A domani».



Tornai a casa da studio, feci la doccia, misi dei calzoncini e mi preparai un frullato. Gironzolai un po' avanti e indietro per le stanze del mio appartamento. Ogni tanto mi fermavo a guardare il telefono. Lo studiavo a distanza.

Dopo un po' mi sedetti in poltrona. Il telefono era davanti a me e se allungavo il braccio potevo prendere la cornetta. Invece rimasi semplicemente a guardarlo, l'apparecchio.

Non bisogna avere fretta, pensai.

Del resto per telefonare bisogna prima di tutto ripetere mentalmente il numero. Il numero. 080.. .5219... Dunque: 080...52198... No. 52196... No.

Non riuscivo a ricordarmelo. Assurdo. Non erano passati due anni e non mi ricordavo. Eppure qualche mese prima lo avevo fatto, a memoria. Quindi, per essere precisi: erano passati pochi mesi, e non mi ricordavo.

Va bene, inutile tormentarsi. Capita.

Cercai il nome di Sara sull'elenco del telefono, ma non c'era.

Rimasi qualche istante senza sapere cosa fare. Poi l'intuizione arrivò e cercai il mio nome sull'elenco. C'era. Voglio dire al vecchio indirizzo. Dove abitavo adesso il telefono era intestato alla padrona di casa.

Guardai ancora per un poco il telefono senza toccarlo, ma sapevo che il tempo stava scadendo.

Spero che risponda lei. Se risponde il signore dell'altra volta che dico? Buonasera sono l'ex marito, cioè no, il marito separato. Sì, ha capito bene, proprio quello stronzo. Vorrei parlare con Sara, per piacere. Signore, non sia così rude. Mi spacca la faccia se riprovo a telefonare ? Stia attento a come parla, io ho fatto pugilato. Ah, lei è maestro di karaté full contact. Beh, dicevo così per dire.

Feci il numero schiacciando i tasti, in fretta e senza pensare. Era l'unico modo.

Dopo tre squilli rispose lei.

Non sembrava stupita di sentirmi. Anzi sembrava le facesse piacere. Stava bene, sì. Anche io stavo bene. Sì, ero sicuro, stavo benissimo. No, solo le sembravo un po' strano. Vederci stasera? Cioè fra un paio d'ore, dopo un paio di anni? Mi faceva i complimenti perché ero ancora capace di stupirla, e non era facile.

Ero contento di questo fatto, ero contento davvero, e allora, a parte questo, potevamo vederci ? A cena, o dopo per bere qualcosa. Bene. Voleva che passassi a prenderla o la cosa poteva creare qualche imbarazzo ? Risata. OK, passavo a prenderla alle dieci. Che facevo, citofonavo o si faceva trovare giù? No, sai nel caso al citofono... Altra risata. Va bene, citofonavo. A dopo, ciao. Ciao.

Mi vestii in fretta, e uscii in fretta. I negozi chiudevano alle otto.

Mi sbrigai, e alle otto e mezza ero di nuovo a casa. Dovevo far passare il tempo fino alle dieci. Lessi un poco. Lo zen e il tiro con l'arco. Ma non era la lettura adatta. Allora pensai di ascoltare un po' di musica. Stavo per mettere Rimmel, che mi sembrava adeguato, ma poi considerai che anche in solitudine bisogna evitare i toni patetici. Era meglio uscire subito.

Mi cambiai, tanto per far passare ancora qualche minuto e poi scesi con quel sacchetto in mano.

Girai per le strade fino alle dieci in punto quando citofonai a casa di Sara.

Rispose lei, in un modo che mi era familiare. Scendo.

Scese e mi diede un bacio sulla guancia, e anche io le diedi un bacio sulla guancia. Se fece caso al sacchetto, non lo diede a vedere. Andammo a prendere la macchina ed io guidai fino ad un ristorante sul mare, vicino a Polignano.

Non dicemmo molte parole quando eravamo in macchina e non ne dicemmo molte durante la cena.

Lei aspettava che io dicessi perché avevo voluto vederla. Io aspettavo di finire di mangiare, perché bisogna avere pazienza e fare ogni cosa al momento giusto. Mi sembrava di avere capito questa cosa, insieme ad alcune altre. Allora mangiammo in due una grossa aragosta, condita con olio e limone. Bevemmo vino bianco freddo. Ogni tanto ci guardavamo, dicevamo qualcosa senza importanza e poi riprendevamo a mangiare. Ogni tanto lei mi guardava con aria lievemente interrogativa.

Quando finimmo di mangiare pagai e le chiesi se le andava di fare due passi. Le andava.

Mentre camminavamo cominciai a parlare.

«Ho passato un periodo molto... particolare. Mi sono capitate diverse cose...».

Feci una pausa. Non era stato un grande avvio. Anzi faceva decisamente schifo. Lei non disse niente. Aspettava. Camminavamo guardando avanti, fra le barche di un porticciolo.

«Ricordi che dicevi che i conti prima o poi si pagano?».

«Mi ricordo. E tu dicevi che saresti scappato via prima. Se volevano, potevano farti causa».

Sorrisi. Dicevo proprio così. Se volevano potevano farmi causa. Mi aspettai che Sara dicesse che ero sempre stato molto bravo a scappare via senza pagare. Ne avrebbe avuto tutte le ragioni, ma non lo fece. E io ripresi a parlare.

«Fra le varie cose che mi sono capitate c'è che non sono riuscito a scappare più veloce come prima. Allora mi hanno preso e mi hanno fatto pagare quasi tutti gli arretrati. Non è stato molto divertente».

Mi sedetti su una barca, vicinissimo all'acqua. Lei si sedette sulla barca vicina, di fronte a me. In breve ero arrivato alla parte più difficile e non trovavo le parole.

«E insomma, in tutto questo a un certo punto mi sono reso conto che... insomma se stavo pagando i conti ce n'era uno che per forza non potevo lasciare sospeso».

Mi guardava con la testa leggermente inclinata di lato, gli occhi diritti nei miei. Sentii il bisogno di una sigaretta, l'accesi e prima di ricominciare a parlare aspettai la botta del fumo nei polmoni.

Poi con le parole che mi venivano, dissi tutto quello che le dovevo. Lei ascoltò senza interrompere mai e anche quando ebbi finito aspettò a parlare. Per essere certa che avessi veramente finito. Non ero sicurissimo, per via dell'oscurità, ma mi sembrava che avesse gli occhi lucidi. I miei lo erano, e non avevo bisogno di luce per saperlo. Quando parlò, seppi di avere fatto la cosa giusta, quella sera.

«Oggi mi hai restituito ogni giorno, ogni singolo minuto che siamo stati insieme. Per tante volte, prima che ci lasciassimo, e poi dopo ho pensato che con te avevo buttato quasi dieci anni della mia vita. Poi mi ribellavo a questa idea e la scacciavo. E poi tornava di nuovo. Sembrava non finisse mai, questa angoscia. Stasera mi hai liberato. Mi hai restituito i ricordi».

Aveva una specie di sorriso, adesso.

Anche io cercai di sorridere, ma invece mi venne da piangere. Feci un po' di sforzi per trattenermi e poi pensai che non me ne importava niente, di trattenermi. Così gli occhi mi si riempirono di lacrime e poi quelle lacrime uscirono tutte, in silenzio.

Lei mi lasciò finire e poi mi passò due dita, delicatamente, sotto gli occhi.

Allora le diedi il mio regalo. Era un orologio, da uomo, col cinturino di cuoio e la cassa grande. Uguale a quello che io avevo molti anni prima. Lei me lo rubava perché le piaceva molto. Poi, in un viaggio, lo persi e lei ci rimase male. Molto più di me. Tante volte avevo pensato che volevo regalargliene uno uguale e non lo avevo mai fatto. Come non avevo fatto tante altre cose.

Lei lo mise senza dire nulla e poi fu ora di tornare a casa.

Fermai la macchina a qualche decina di metri dal suo portone, dove c'era un posto libero. Spensi il motore e mi voltai verso di lei, ma non sapevo cosa fare. Sara invece lo sapeva. Mi abbracciò con forza, quasi con violenza appoggiando il mento sulla mia spalla, e la testa contro la mia testa. Rimase così qualche secondo e poi si staccò. «Grazie», sussurrò prima di aprire lo sportello e andare via.

«Grazie a te», sussurrai io nella macchina vuota, mentre lei spariva nel portone.



Quella notte non dormii. Non provai nemmeno a mettermi a letto. Mi misi a sedere sul balcone, e ascoltai i rumori della strada. Accesi quattro o cinque sigarette, ma non le fumai quasi per niente. Lasciavo che si consumassero lentamente, tenendole fra l'indice e il medio, mentre guardavo le finestre e i balconi di fronte e le antenne sui tetti, e il cielo.

Poco prima dell'alba si alzò il maestrale e già alle prime folate mi diede i brividi.

Dicono che duri tre giorni, o sette e così pensai che per tre giorni o sette non avrebbe fatto caldo. Non troppo almeno.

Mi era sempre piaciuto il maestrale estivo perché spazzava l'aria, cacciava l'afa e faceva sentire più liberi. Mi parve giusto che arrivasse proprio quella mattina.

Pensai ai conti che si chiudono e alle cose che cominciano. Pensai che avevo paura ma che, per la prima volta, non volevo sfuggirla o nasconderla, quella paura. E mi sembrava una cosa tremenda, e bellissima.

Guardavo la luce che si faceva strada nel cielo e guardavo le nuvole grigie così strane e fuori posto nel mese di luglio.

Fra poco mi sarei alzato e sarei andato a camminare per le strade ancora deserte. Mi sarei seduto ad un tavolo all'aperto, in un bar sul lungomare e avrei preso un cappuccino. Avrei guardato le strade che si trasformavano man mano che il giorno avanzava. Avrei preso un altro cappuccino e fumato una sigaretta e poi, quando fosse stato proprio giorno, sarei tornato a casa. Avrei dormito, avrei letto, sarei andato al mare, avrei fatto passare la giornata facendo solo quello che mi andava di fare.

Avrei aspettato che venisse sera e solo allora avrei chiamato Margherita. Non sapevo che cosa le avrei detto, ma ero sicuro che avrei trovato le parole.

Pensai a tutte queste cose e ad altre, seduto su quel balcone.

Pensai che non avrei scambiato quel momento.

Con niente, in tutto il mondo.