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Quando Fanny rivide Ludovic, non le sembrò più uno strano personaggio senza età né carattere, e tanto meno un orfano smarrito, ma un uomo al quale lei sentiva confusamente di appartenere. La cosa sconvolgente era la sua mancanza di sdegno, di rabbia e in generale di reazione quando qualcuno gli parlava in tono arrogante, con l’astio implacabile di chi ti ha fatto un grosso torto e per di più ce l’ha con te. La sua indulgenza – aveva già dimenticato tutto? – rendeva gli altri ancora più diffidenti. Fanny temeva di scoprire che quell’amnesia fosse dovuta in realtà a motivi meschini, materiali per esempio, e davanti a quell’ipotesi il fascino appena acquisito dal giovane svaniva all’istante.

Aveva deciso di pensarci su quella notte, eventualmente di partire la mattina dopo e in ogni caso di parlarne a lungo con Ludovic. Ma ebbe appena il tempo di sdraiarsi su quel letto di provincia – con la bottiglia di Evian troneggiante sul comodino a vegliare diligentemente su di lei come una governante – che già dormiva tranquilla. Con un’unica immagine sotto le palpebre abbassate: il viso di Ludovic che rideva vicinissimo al suo, i suoi occhi di un castano rossiccio luccicanti di felicità. Non capiva. Un tempo, dal primo momento che aveva posato lo sguardo su Quentin, con quella sua aria da inglese e la bocca carnosa, lo aveva amato e desiderato. Ludovic invece aveva suscitato in lei solo un senso di compassione e curiosità. Che cos’era successo?

Comunque sia, non sentì i sassolini lanciati dal suo spasimante contro le persiane di camera sua. Meglio così, forse.

Quando, la mattina dopo, entrò nella sala da pranzo e lo vide in piedi, girato verso la porta, con gli occhi e il sorriso del giorno prima, si stupì della sua aria impaziente e meravigliata. Si sentì assalire da una tale inaspettata tenerezza che le venne un groppo in gola; si fermò sulla soglia, notando di sfuggita che Marie-Laure stava mangiando delle fette biscottate dandole le spalle e quindi non poteva vedere la sua espressione. Era la prima volta che, nel mettersi a tavola, si sentiva in colpa verso la figlia e pronta a fare una scenata a Ludovic come se si fosse comportato in modo insolente o come se il giorno prima l’avesse violentata e messa incinta. Insomma, non riusciva a capacitarsi di essere stata così incosciente, di aver reso ancora più complicata una situazione già in partenza grottesca, considerati i protagonisti!

«Buongiorno» disse sorridendo ai presenti con quella cortesia che era per lei d’obbligo.

Ricevette in risposta diversi «Buongiorno», fra cui quello di Philippe, che non aveva visto, infagottato in una vestaglia un po’ lisa. Henri era già andato in fabbrica, e Ludovic sembrava perso nelle sue fantasticherie.

«Santo cielo, mamma, non vorrai rimetterti a lavorare come un’ossessa?»

Marie-Laure guardava i pantaloni di velluto e la camicetta di seta di Fanny con aria compiaciuta.

«Dovresti portare più spesso i pantaloni» aggiunse. «Con il tuo bel fisico ti fanno sembrare ancora più giovane. Sì, sì, sì…» insistette come se qualcuno l’avesse contraddetta.

E Fanny sorrise con franchezza.

«Credi…?»

Prese un’aria pensierosa e gettò uno sguardo tenero alla figlia dichiarando: «Tu invece, mia cara, fai bene a portare la gonna. Sei sempre stata graziosa con quel vitino sottile, le gonnelline a pieghe e le scarpe a punta…».

«Be’, devo cambiarmi lo stesso» disse Marie-Laure piccata, accennando al suo tailleur Chanel. «Tra un po’ vado a giocare a golf.»

Era dura per lei sentire Fanny ridicolizzare il suo completino, mentre Ludovic, che nonostante le sue volgari infedeltà di solito era pieno di ammirazione per le mises della moglie, ormai non toglieva più gli occhi di dosso a sua madre. Fanny quel giorno sembrava davvero giovanissima, e l’allusione a un’età che non dimostrava per niente non aveva sortito l’effetto sperato, ovvero farla notare. Si alzò.

Da quando era tornato suo marito, Marie-Laure passava spesso il pomeriggio al golf, dove aveva incontrato alcuni amici stranieri, «scampati per miracolo al Ritz» diceva lei, ai quali spiegava l’assenza di Ludovic accennando a una fantomatica «riabilitazione», termine vago ma inquietante, che legittimava al meglio quell’assenza in realtà fortemente desiderata. Spesso e volentieri sospirava pensando al suo corteggiatore, un americano pieno di soldi ma privo di prestigio. Dopo tre anni di semivedovanza senza infrazioni, non si sarebbe accontentata di un industriale del Minnesota. Di ritorno dal golf sarebbe rientrata alla Cressonnade, come ogni giorno avrebbe telefonato ai suoi amici, ma anche – sempre come ogni giorno – all’avvocato Perez e all’avvocato Seiné, i difensori futuri e presenti della sua eredità o della sua quota del patrimonio dei Cresson. Sarebbe anche andata a chiacchierare un’oretta con Philippe, con il quale da quando si era saputo qualcosa di più delle scappatelle dei due Cresson conversava spesso.

Quel giorno, davanti al terrazzo, li aspettava la cabriolet che Ludovic aveva ricevuto in regalo dal padre quando era tornato dalla convalescenza. Il giovane scese i gradini della scalinata d’ingresso su una sola gamba.

«Non dobbiamo dimenticarci i fiori per Marie-Laure!» gridò. «Ho detto a tutti che saremmo andati a fare spese.»

Sembrava molto soddisfatto della sua doppiezza. Che ci faceva Fanny con quel bambinone? Le aveva detto che l’amava alla follia, aveva fatto l’amore con lei, da anni era considerato un irresponsabile. Che voleva da lui? Non certo trattarlo dall’alto in basso. E d’altronde con quale diritto?

La stazione non era lontana. Le sarebbe bastato prendere il treno per evitare un comportamento o delle reazioni che rischiavano di metterla in ridicolo.

«Hai preso le chiavi?» chiese lui.

«Sì» rispose lei seccamente frugando nella borsa, dove le trovò.

Gliele lanciò e intanto aprì lo sportello dal lato del passeggero e si sedette. Ludovic in precedenza le aveva chiesto di guidare nel caso in cui… e Fanny aveva accettato il principio, per cui ora lui si chinò verso il finestrino con un viso contratto in un’espressione preoccupata. Ma lei non batté ciglio. Eppure gli ultimi quindici giorni avevano stabilito una consuetudine, ma non poteva sopportare che un uomo che diceva di amarla e che l’aveva posseduta le facesse l’occhiolino con aria ammiccante. Né soprattutto che si facesse trattare come un inetto davanti a lei da sua moglie, cedendole il volante per tutto il giorno. All’inizio lo aveva compatito, ma adesso compativa piuttosto se stessa. Lei, che aveva al suo fianco un uomo in fin dei conti privo di ogni responsabilità, lei che lavorava per vivere, che viveva senza il marito, e che aveva sacrificato le sue vacanze a questa famiglia di borghesi senza cuore.

«Che c’è?»

«Andiamo, per favore Ludovic, sono stanca. Mettiti al volante.»

Rovesciò la testa all’indietro e chiuse gli occhi.

Dopo un secondo di silenzio sentì Ludovic che si sedeva accanto a lei, metteva in moto la macchina, provava il motore e partiva lentamente e senza strappi. Lei rimase con gli occhi chiusi in segno di fiducia, ma soprattutto di stanchezza.

«Non trovo la leva del tergicristallo» disse una voce allegra e quasi esultante. «Non mi ricordo più dov’è…»

Lei alzò le palpebre, guardò per un attimo il suo schiavo dall’aria inquieta ma innocente, rivolto verso di lei, e con la mano sinistra azionò il tergicristallo.

«Non hai paura con me? Non osavo chiedertelo, ma mi sono esercitato di nascosto dopo il tuo arrivo.»

«Per niente» disse lei. «E perché dovrei?»

Richiuse gli occhi.

Ludovic guidò in silenzio fino a Tours, la città delle tentazioni, dove impersonò il ruolo dello schiavo in ogni negozio, spingendo il carrello, assistendo a ogni acquisto con un sguardo di approvazione. Era circondato da una folla di commesse sovreccitate dai racconti frammentari della signora Hamel sul suo incontro con il giovane Cresson. Il gentiluomo sospettato di follia sembrava pieno di premure verso la suocera, e la sua cortesia risultava tanto più ammirevole considerando quanto era insopportabile sua moglie.

Si trovavano all’interno di un grande magazzino e lei non riusciva a decidersi sull’acquisto di certe coppe di porcellana che voleva mettere su ogni tavolo, alla fine gli mostrò l’etichetta del prezzo.

«Che dici?»

«Be’» disse lui senza dare neanche un’occhiata «se hai carta bianca hai carta bianca. Che vuoi che importi» aggiunse tirandola per la manica verso l’uscita. «È per fare colpo sulla gente. Vedrai che poi, per le loro feste, sceglieranno le stesse.»

«Alle loro feste io non ci sarò» rispose Fanny ridendo, mentre lui la faceva entrare in macchina e si prodigava eseguendo i suoi ordini, mettendo tutto nel bagagliaio, dimostrando insomma di essere tutt’altro che un giovane annebbiato dai farmaci e dall’apatia o oppresso dai suoi cari.

Fanny era praticamente incastrata in quella scomoda macchina, quando lui, in mezzo alla strada, si sporse nella sua direzione e le posò, rapidamente e apertamente, le labbra sui capelli. Lei si tirò su sul sedile.

«Ma sei pazzo, Ludovic Cresson! Che dirà la gente?»

«Dirà quello che vuole. In ogni caso ce ne andremo di qui, no? Io non so niente del mondo. Sempre che ti piaccia viaggiare, naturalmente.»

Lei si lasciò ricadere sul sedile. In quel momento avrebbe dato qualunque cosa per avere a disposizione una camera d’albergo con porta e chiave, perfino in un posto che non le piaceva come Tours, in cui potersi rinchiudere per un po’, riprendere un’esistenza normale, per poi tornare a Parigi, alla sua Cressonnade personale di cento metri quadri. Ma insomma, si disse, che mi prende? Capirai il dramma! Sono venuta stupidamente a passare tre settimane in campagna, per dare una mano a mia figlia, che mi esaspera, ho fatto la stupidaggine di cedere alle avance di un ragazzo vittima dei suoi e questo dovrebbe diventare un grande amore condannato sul nascere?

Una volta, dopo la morte di Quentin, aveva passato la notte con un tizio che il giorno dopo, con la sua aria di trionfo e le sue vanterie, le aveva fatto provare una profonda vergogna. Che, più esattamente, aveva fatto provare una profonda vergogna alla sua concezione dell’amore, ispirata per sempre a quello per Quentin e inscindibile da una certa stima per l’altro. Aveva visto, attorno a sé, uomini di grande levatura comportarsi da villani con le mogli o le compagne, e donne magnifiche spiattellare senza ritegno, davanti all’autista, le prodezze dei loro amanti. All’epoca regnava sovrano un puritanesimo capovolto chiamato libertà, che lei aveva scoperto con sommo stupore, perché per tutta la vita, fino a quel momento, Quentin e il filtro della sua mentalità glielo avevano risparmiato. Ora era angosciata da un atroce timore: l’incapacità innata di amare combinata con la smania di vantarsi dei propri amori.

Fanny e Ludovic passarono il pomeriggio a scorrazzare per le strade di Tours, comprando tutto ciò che serviva, attenendosi a una lista scritta con grande serietà da Fanny tre giorni prima e che ora le sembrava tanto inopportuna quanto irrealistica. Intanto lei parlava del tempo, dei particolari della festa, dell’aspetto della gente di Tours, e lui le rispondeva sullo stesso tono, senza insistere. Quando si voltava a guardarlo, Fanny si trovava davanti un viso disfatto, interrogativo, convinto della propria colpevolezza. L’incapacità di capire quale fosse la colpa commessa lo ammutoliva, l’incomprensione, l’angoscia lo invecchiavano, lo imbruttivano perfino un po’. Non aveva più nulla del giovane amante inerme e appagato del giorno prima. Era di nuovo solitario, disperato e di colpo adulto, ma adulto come lo si diventa per il dolore, rintanandosi in un angolino della stanza, della vita, dando le spalle alle possibilità future; solo, sempre solo, era solo. Il giorno prima aveva creduto di poter sfuggire a quella solitudine, ma ormai le era così indissolubilmente legato da non essere più in grado di reagire.

Lui le piaceva, il che la spaventava. La bellezza della sua pelle, delle sue ampie palpebre abbassate, dei suoi occhi allungati e inquieti, la forma delle sue grandi mani sul volante, mani così robuste stranamente e che lei ora sapeva così abili e premurose… tutto quello che aveva scoperto il giorno prima oggi la induceva a distogliere lo sguardo, come nei più intensi momenti di passione per Quentin.

Più ci pensava, più si stupiva e si preoccupava. Sembrava impossibile sentirsi così intimi, così spontaneamente vicini a qualcuno fin dal primo abbraccio… Si erano incontrati su un terreno complementare, senza timore, senza curiosità e senza riserve. Impossibile non tirare in ballo il destino, anche se lei aveva una decina d’anni più di lui, anno più anno meno, anche se era uno scandalo, anche se non c’era niente di stabile, anche se tutte le abitudini e la vita di lei erano in contrasto con quella storia e con quelle due ore passate davanti al pianoforte.