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Per le scale risuonò un passo ritmato, un gradino, toc, due gradini, toc toc, il pianerottolo, toc toc toc toc, un ragazzino, si sarebbe detto, e intanto si sentiva fischiettare (un motivetto allegro, una canzone di Fred Astaire). Due piani più giù, il ragazzino aveva preso una trentina d’anni. Era Philippe Lebaille, il seducente fratello di Sandra che, dopo una lunga carriera di seduttore e scroccone, capitava sempre più spesso a casa di suo cognato Henri, un Philippe che aveva sempre odiato la campagna ma che da ben cinque anni si guardava bene dal dirlo.
Era un bell’uomo, o almeno lo era stato e non se ne dimenticava mai (con orgoglio o con rimpianto, a seconda dei giorni). Alto, magro, scattante e virile, di recente aveva avuto la fortuna che i baffetti alla Errol Flynn si fossero diradati da soli, il che gli aveva evitato di diventare una specie di brutta copia di un attore fuori moda, ma gli era rimasto il tic di accarezzarseli con noncuranza, anche ora che non li aveva più. A ventidue anni, bello, ricco, beneducato e ambizioso, Philippe Lebaille sembrava lanciato in tutti gli ambienti in cui un uomo del genere poteva essere introdotto dalle sciocche donne del jet-set che seduceva. Aveva dilapidato l’eredità senza mai dividerla con altri, aveva conquistato le donne senza mai amarle, per anni era stato invitato ovunque senza mai vedere nient’altro che palme, grandi alberghi e piste da sci. Da cinque anni a questa parte ripercorreva alla rovescia il suo periplo sentimentale, arrivava come un dono, così almeno credeva lui, ma poi ripartiva quasi subito come per scappare da un brutto ricordo. In ogni caso ora era lì, patetico e sorridente, e posava per un fotografo immaginario, come nella foto che lo seguiva di casa in casa, di specchio in specchio, e che lo ritraeva a Hollywood, tutto impettito fra John Wayne e Marlene Dietrich. Quel ritratto era forse il suo bene più prezioso, a parte qualche orologio d’oro e una collezione di foulard indiani molto lisi ma comunque magnifici.
«In famiglia! Finalmente con la mia famiglia!» esclamò raggiungendo Sandra e Ludovic.
Rivolse uno sguardo affettuoso e al tempo stesso circospetto a quest’ultimo. La follia del nipote non lo disturbava più di tanto, ma per lui era un fatto assodato, visto che lo aveva detto sua sorella, la padrona di casa.
«Ludovic, ma stai benone!» esclamò tra il contento e lo stupito.
Ludovic sorrise con aria stanca.
«Grazie» disse.
«Che piacere vederti!»
Girandosi verso il fratello, Sandra esclamò a sua volta con un fil di voce: «Come sei bello!».
La bellezza di Philippe era il suo unico capitale, anche se a ogni visita appariva un po’ meno sfolgorante, perciò Sandra non poteva fare a meno di menzionarla di continuo.
«Ah, eccoti finalmente!» aggiunse nel vedere Marie-Laure che scendeva le scale con grazia, con addosso lo stesso abito del pomeriggio, a cui, per la sera, aveva applicato una spilla che Ludovic non ricordava di aver comprato, anche se in realtà la sua mente non si soffermò più di tanto su questo dettaglio.
Philippe gettò uno sguardo al gioiello di Marie-Laure, poi a Ludovic, e visto che i due sembravano assolutamente indifferenti, si limitò a sorridere.
L’arrivo di Henri Cresson gettò la casa nello scompiglio.
«Sandra, cara, ti secca se ceniamo prima? Perché sono stanco e ho fame, e poi devo assolutamente vedere un dibattito in televisione tra un tizio del sindacato e uno del padronato. Se ne diranno di cotte e di crude, secondo me» disse con il tono sarcastico che prendeva ogni volta che parlava di politica.
«Certo, certo, è tutto pronto. Sediamoci a tavola, Martha sta per arrivare.»
Il caos che regnava nel salotto non aveva mai disturbato il padrone di casa, anche se non era certo il tipo da mettersi a fare lo slalom tra gli oggetti sparpagliati qui e là per raggiungere la sua meta. Così aveva preteso che venisse liberato per lui una sorta di corridoio, un sentiero vuoto che arrivava al suo studio dall’altro lato del salotto, lungo il quale non doveva trovare alcuna persona e alcun ostacolo; qualunque oggetto rimasto in giro veniva scaraventato via con un calcio violento e poteva anche succedere che un piccolo pouf marocchino andasse a finire su una cassapanca gotica.
Alla fine del percorso c’era la sala da pranzo, il salotto con il televisore di Henri. In pratica, su una specie di pedana c’era un tavolo con la tovaglia e cinque coperti, e intorno cinque sedie di pelle, una delle quali poteva essere girata con le spalle al caminetto, in modo da permettere la visione di un televisore evidentemente personale che era lì a due metri, incassato in una portafinestra. Ruotando la sedia dall’altra parte, Henri Cresson poteva invece rivolgersi verso la famiglia per la cena. Dopo cena si levava la tovaglia e sulla tavola venivano rimessi il fax e tutti gli altri oggetti indispensabili a un uomo d’affari, sia pur di provincia.
Henri si incamminò con passo deciso, percorse in tutta fretta gli otto metri che lo separavano dal suo piccolo «salotto-studio», lanciò la borsa su una sedia messa lì appositamente per quello scopo e si sedette sulla sua. La sala da pranzo l’aveva pensata e progettata lui così. Henri Cresson aveva i due uomini di fronte e le donne ai lati. A fine pasto avrebbe dovuto solo ruotare la sedia per godersi la sua televisione in santa pace, momento che visibilmente aspettava con ansia. Ovviamente il programma che sceglieva non era mai quello che interessava agli altri. Gli stava molto a cuore quell’isolamento mentale, che lo metteva al riparo dalle loro stupidaggini, già inevitabili a cena. Cene durante le quali il patriarca Cresson certe volte si diceva, con calma e prendendola con filosofia, che aveva un figlio probabilmente squilibrato, una nuora snob e stupida, una moglie brutta e idiota e un cognato cretino e scroccone! Un bel quartetto che si accollava in blocco senza fare una piega, anche se ogni tanto era colto da incontrollabili e imprevedibili crisi di rabbia.
Tutti presero posto alla svelta – senza dimenticare il bon ton, soprattutto Marie-Laure che sfoggiava la nuova spilla a cui il suocero non fece neanche caso. Appena seduta, Sandra cominciò il suo numero di brava mogliettina da film americano di serie B: «Dio mio, povero caro, devi essere proprio cotto! Vi rendete conto che significa per un uomo passare tutta la giornata con dei rivali agguerritissimi e poi tornare a casa da una famiglia come la nostra? Deve essere uno choc tremendo! Ci credo che sei stanco».
Rivolse un sorriso affettuoso al marito che, senza togliere gli occhi dal piatto in cui finalmente gli era stato servito l’immancabile potage, si limitò a farfugliare: «Sandra, cara, non sono mica feroci rivali quelli con cui passo la giornata, sono una banda di deficienti sfaticati. Niente di quello che ti immagini tu. Poi sì, effettivamente, avere una casa dove andarsi a riposare dopo tutti quei numeri è una gran cosa».
Marie-Laure approvò con un gridolino acuto e un’espressione bamboleggiante.
«Ma dai, Sandra, è quello che chiamano il riposo del guerriero» disse come a volerle muovere un lieve rimprovero malizioso, che fece abbassare lo sguardo a Philippe a cui veniva da ridere, arrossire di piacere Sandra – che non rimpianse di essere uscita dalla sua camera per unirsi agli altri – e che, come al solito, lasciò del tutto indifferente Ludovic.
Leggermente impallidita in volto, Marie-Laure sostenne senza battere ciglio lo sguardo del suocero, improvvisamente freddo.
«Sapete chi ho incontrato l’altro giorno per strada?» esclamò quindi Sandra, che sentiva aria di burrasca ma non riusciva a capire il perché. «Ho incontrato la regina di Francia!»
Ci fu un momento di silenzio e, con un’aria angosciata, perché la follia di Sandra sarebbe stata veramente intollerabile per lui, Henri le chiese di ripetere.
«Un giorno per strada a Tours ho visto la regina di Francia. La signora de Boyau era una Valois, lo sapete. A un certo punto sono arrivati i Borbone che hanno preso tutti i titoli e li hanno distribuiti un po’ a casaccio. La signora de Boyau discendeva in linea diretta dal conte…, non mi ricordo più il nome, che sarebbe arrivato al trono molto presto. Quindi la vera erede e sposa di Francia, se non ci fosse stata la storia dei Borbone…»
Si era fatta tutta rossa e si agitava senza riuscire a ritrovare il filo del discorso.
«Vabbè, a parte la furbizia dei Borbone, ci dev’essere stato anche dell’altro, non pensi?» disse Philippe ridacchiando. «Lo so che sai fare la riverenza alla regina, ti sei allenata quando eri ragazza, ma sono sicuro che ci sono stati altri ostacoli.»
«Meno male!» concluse Henri masticando un pezzo di pane, stufo marcio di quella famiglia. «Certo che ci sono stati altri ostacoli. Ma ve l’immaginate questa donnetta, la signora de… come l’hai chiamata? Come l’hai chiamata, Sandra? Insomma, questa donnetta così brutta che si vede lontano un miglio! E tu vorresti imporla a tutti i francesi che hanno un televisore?»
«Be’, sai com’è…» rispose Sandra, alzando le spalle, «tutto è talmente casuale. Perché l’attuale contessa di Parigi sì e lei no? Sarebbe stato divertente se la regina di Francia fosse stata una della nostra cerchia.»
«L’ostacolo è stata la Rivoluzione francese» intervenne Ludovic.
Di fronte agli sguardi esterrefatti degli altri quattro, si interruppe e, sollevando la mano quasi a volersi difendere, precisò: «Dicevo così, tanto per dire…».
Seguì un silenzio imbarazzante, inframmezzato da vari tentativi, tutti falliti, di far ripartire la conversazione.
«E tu, hai fatto una passeggiata?» chiese Henri Cresson al figlio, che trasalì.
«Sì, papà, sono arrivato fino agli stagni. Gli stagni di Carouve, ti ricordi? È stato fantastico.»
«In pratica non si fa vedere per tutto il giorno» commentò Sandra alzando le spalle. E ad alta voce aggiunse: «Non ha né cervello né memoria né niente».
«Sempre meglio che andare a sbronzarsi a Tours con dei coglioni» replicò Henri Cresson, rivolgendo un sorrisetto a suo figlio, che purtroppo non lo vide e ripiombò nella sua solita svagatezza, finché non sentì pronunciare il proprio nome.
«Invece tu sarai rimasta tutto il giorno a letto a telefonare o a fare la brava donna di casa» ringhiò Henri a sua moglie. «Ludovic con le sue passeggiate è l’unico che fa qualcosa in questa casa.»
«Ma ho paura che abbia già visto ogni centimetro quadrato delle sue proprietà» disse Philippe. «Non capisco che ci va a fare, a meno che una bella pastorella non lo aspetti da qualche parte…»
«Non ci sono più pastorelle» sibilò Henri Cresson con cattiveria. «E poi in quel caso non sarebbe il solo a passeggiare. E tu, Marie-Laure, perché non vai a passeggio con lui? Non lo accompagni mai.»
«Sì, lo ammetto, non mi piace passeggiare.»
«Da quando è tornato, un mese fa, non sei andata con lui nemmeno una volta?» le domandò Henri.
«Un mese e mezzo, ieri» ammise con franchezza Marie-Laure. «Sono partita da Parigi il 7 luglio ed ero già andata via dalle Alpi Marittime per raggiungervi. Quindi per l’esattezza sono quarantasette giorni.»
La sua voce aspra dava di quei quarantasette giorni un’immagine decisamente pesante e per niente gradevole. Un silenzio pieno di imbarazzo piombò sulla tavolata e ancora una volta fu Sandra, da padrona di casa scaltra, a romperlo.
«Ora che ci penso» disse «dobbiamo assolutamente spedire gli inviti per il ballo, il ballo per il ritorno del figliol prodigo, non ve lo dimenticate! Avevamo detto fine settembre, vi ricordate? Avevamo perfino deciso la data e me ne sono dimenticata. Dio santo! Ma dove ho la testa?» aggiunse, abbandonando per un attimo il suo abituale bel portamento che le imponeva di stare a testa alta.
Da sempre la nuova signora Cresson era convinta che il suo portamento regale bastasse ad assicurarle prestigio ed eleganza. «La cosa più importante per una donna» aveva l’abitudine di ripetere (ormai sempre più spesso perché non le restava molto altro di cui vantarsi, a parte i venti chili che aveva messo su) «è camminare a testa alta, è la dignità, un qualcosa che non si deteriora e che incute rispetto a tutti. È un’arma e al tempo stesso una difesa, date retta a me.»
Henri, che non ne poteva più di quei discorsi, un giorno le aveva fatto notare che l’importante non è tanto come uno tiene la testa ma piuttosto il suo contenuto.
«Che senso ha» aveva aggiunto «ostinarsi a tenere ben sollevato un guscio vuoto?»
«Henri, puoi dire quello che vuoi, il modo in cui tiene il collo, le spalle e la nuca rivelano la buona educazione e la dignità di una donna» aveva ribattuto Sandra.
Lui aveva risposto scrollando le spalle taurine: «Ognuno tiene alto quello che può».
«Domani ci mettiamo all’opera, vero Marie-Laure? Dobbiamo scrivere trecento inviti… non so se vi rendete conto!»
«Non dimenticate le pastorelle» scherzò Philippe. «Bisogna invitare anche loro!»
Con i suoi modi gioviali cercava di essere spiritoso, ma l’atmosfera non era delle più allegre.
«E credi che lui le inviterebbe se ce ne fossero?» chiese Marie-Laure sarcastica. «Comunque, finché non le affoga nello stagno, non ci lamentiamo…»
E assunse un’aria di infinita sopportazione.
Dal giorno dell’incidente i Cresson avevano preso l’abitudine di non chiamare Ludovic per nome, perché per loro il vero Ludovic era morto. Quindi lo chiamavano «lui» e, anche quando c’era, ne parlavano come se non fosse presente. Ludovic, dal canto suo, aveva sempre lo sguardo perso sui campi che vedeva dalla finestra.
Henri Cresson guardò Marie-Laure e le disse all’improvviso con voce monotona: «Mia cara Marie-Laure, tu che sei sempre così precisa, puoi dirmi che ore sono?».
«Quasi le otto e venti» rispose lei senza neanche alzare lo sguardo verso il suocero.
«Grazie mille» aggiunse Henri Cresson. «Scusatemi, ma devo proprio seguire il dibattito, non me lo voglio perdere a nessun costo. Grazie e a dopo.»
Si girò senza troppi complimenti, dando le spalle agli altri, che rimasero con il cucchiaino in mano davanti al dolce, prese il telecomando e accese il televisore. Dopo un breve momento di confusione, seguito dalle previsioni del tempo, venne annunciata la trasmissione che aspettava.
Visto che i suoi famigliari avevano un altro televisore, a metà strada tra il salottino marocchino e quello finlandese, si sedettero sul divanetto cinese e lo accesero. Non avevano molta scelta tra i programmi, come del resto tutti i francesi, e l’unica vera possibilità era un appassionante telefilm americano buono per tutti i palati, l’ultimo di dieci episodi di cui ormai conoscevano ogni dettaglio. A dire il vero, Philippe era interessato quanto le due donne alle avventure sentimentali di quei brillanti uomini d’affari alle prese con mogli insopportabili e ambiziose e figli degenerati. Ludovic aveva già visto un episodio, ma si era addormentato quasi subito con grande disappunto dei presenti. Si sedette lo stesso su un sofà e guardò quella scatola nera fingendo di seguire. Dopo dieci minuti di pubblicità e i titoli di testa con in sottofondo una bella musica drammatica, tutti furono presi dalla storia.
Henri Cresson, dal canto suo, guardava i sindacalisti nemici giurati del padronato e li ascoltava sbadigliando già un po’. Il telefilm aveva un lieto fine, grazie al cielo, perché fino a quel momento la Francia intera aveva pianto guardandolo. Le scene più commoventi avevano fatto venire gli occhi rossi alle due donne. Philippe, invece, si era trattenuto davanti al cognato che altrimenti lo avrebbe preso in giro per almeno due settimane. Con aria indifferente fece una strizzatina d’occhio a Ludovic, che aveva seguito buono buono l’episodio con la sua solita espressione beata; solo la musica della sigla finale sembrò riportarlo alla realtà.
Sullo schermo di Henri i due leader si stavano salutando: con l’avvicinarsi delle elezioni, i politici non si perdevano in sottigliezze, per cui nessuno dei due si era dato troppo da fare per apparire particolarmente raffinato. La fine del dibattito lo fece sussultare; allora si girò verso gli esseri umani che purtroppo era costretto a frequentare già da troppo tempo: «Hanno detto un mare di cazzate. Due imbecilli! Ah, povera Francia!» aggiunse non senza un certo compiacimento, perché il giorno precedente aveva fatto un colpaccio in Borsa di cui si era potuto rallegrare solo con il suo segretario, un tipo strisciante nel senso letterale del termine.
Non doveva nemmeno annunciare quel successo in famiglia. Così si alzò di scatto e riprese: «Comunque non si può dire che le loro discussioni abbiano disturbato il vostro melodramma americano!» disse dimostrando di avere una bella faccia tosta, dal momento che i borbottii del suo stomaco si erano sentiti in tutti e quattro i salotti. E aggiunse: «Be’, buona serata».
Sempre di scatto si tirò su le bretelle che aveva abbassato per stare comodo, diede un calcio a una statuina khmer trovata sul suo passaggio, che schizzò su un cuscino marocchino e poi scomparve per fare un giretto nel parco, pare.
In effetti, fuori l’aria era mite in quella serata quasi autunnale. Ludovic forse l’avrebbe seguito se gli altri telespettatori non avessero deciso di mettersi a discutere delle loro reazioni, dei turbamenti e dell’attaccamento che avevano nei confronti dei tre protagonisti della serie.
Dopo uno scambio di sensibili e geniali commenti su quel meraviglioso telefilm (solo gli americani sapevano coniugare questo tipo di storie con uno straordinario livello di perizia tecnica) e dopo gli apprezzamenti per la larghezza di vedute, la generosità e l’intelligenza dei personaggi, Sandra tentò di ripetere l’ultima frase che aveva sentito: «Yes, my dear Mrs Scott, lei lo amava, ma non al punto da morire per amore, perché l’amore a volte può ferire a morte e poi finire». Quella battuta, pronunciata dalla balia nera della protagonista, la ripeté con l’accento dei cari vecchi schiavi dall’aria florida che spesso comparivano nei film d’epoca, accento che stonava terribilmente in bocca alla proprietaria della Cressonnade.
Quel tono bonario e l’accento del Sud fecero scoppiare Philippe in una risata irrefrenabile, al punto che fu costretto a rintanarsi nella sua camera. Le due donne continuarono a discutere su come si sarebbero comportate («Sì, sì, diciamo la verità») in alcune scene. Sandra, nel vedere i piedi del figliastro che spuntavano da un divano – forse messicano, o beduino, chissà –, gli fece una domanda in cui si avvertiva un pizzico di compassione: «E a te Ludovic, a te è piaciuto?».
«Non ho seguito tutto» confessò lui «ma i dialoghi che ho sentito all’inizio mi sono sembrati un po’… pesanti.»
«Che potevamo aspettarci da lui!» disse Marie-Laure a un pubblico deluso. «In tutta la sua vita, Ludovic avrà visto al massimo quattro o cinque film, letto forse una decina di libri e ammirato uno o due quadri.»
Ludovic, sempre con il sorriso sulle labbra e senza minimamente curarsi del tono sprezzante delle due donne, fece notare con calma che lui leggeva, che aveva sempre amato la poesia e, di fronte alla loro espressione scettica, all’improvviso si mise a declamare:
I tuoi occhi ove nulla si rivela,
di dolce né d’amaro
sono freddi gioielli ove fuso
è con il ferro l’oro.
«Anche con la poesia dimostri di provare rancore per le donne» commentò Marie-Laure. «Povero Verlaine!»
«Credo sia Baudelaire» la corresse lui con dolcezza, cosa che fece innervosire ulteriormente Marie-Laure, per una volta più imbarazzata che trionfante.
«Domani va’ a controllare sull’enciclopedia» rispose con una risatina.
Poi prese sottobraccio la suocera (assolutamente incapace di risolvere la querelle letteraria) che, stanca e languida, si appoggiò a lei per salire le scale. Così si avviarono su a braccetto, impettite come capre, Marie-Laure con il mento proteso in avanti per la stizza, che come al solito la rendeva ancora più energica.
Martin, il maggiordomo, aveva già spento con cura le luci della stanza e il televisore. Nel salotto restava soltanto l’orribile luminescenza delle luci della scala. In mezzo a tante epoche disparate, ma accomunate dalla stessa, autentica bruttezza, quella nota elettrica era quasi rassicurante. Henri Cresson da buon borghese non badava a spese e da tempo non toccava un interruttore. Ogni tanto faceva sostituire le lampadine da 40 watt, utilizzate da Sandra, con altre da 200, perché l’illuminazione debole di sua moglie lo deprimeva. Aveva addirittura proibito espressamente l’uso di lampadine con una potenza inferiore agli 80 watt.
Sandra sapeva benissimo, come del resto anche Henri, che lasciare accese le luci e il televisore o altre follie del genere poteva costare molto caro, ma non era certo possibile salire le scale al buio, anche perché una clinica sarebbe costata molto di più di una lampadina. Così gridò a Ludovic che era rimasto da solo in salotto: «Non ti dimenticare di spegnere la luce delle scale, mi raccomando!».
Ultima parolina affettuosa e tenera di una matrigna amorevole.
La camera da letto di Ludovic e Marie-Laure era la stanza degli sposini o, in quel momento, dei coniugi infortunati. Era una grande stanza che si trovava al capo opposto della casa e che dava sulle colline, da cui una piccola scala portava a una specie di studiolo con un divano-letto dove gli sposini potevano riposarsi o leggere un po’ tra un’effusione amorosa e l’altra.
Ovviamente tutti credevano che Ludovic, il redivivo miracolato, l’ex minorato della famiglia, trascorresse lunghe notti di passione con sua moglie, ma per il momento la brandina, la pianta e i pochi libri che costituivano l’arredamento di quello studiolo gli facevano molta più compagnia.
La grande portafinestra di quello studiolo, che dava sul terrazzo, era aperta. Ludovic entrò, si spogliò rapidamente e si infilò un pigiama piuttosto buffo, che sarebbe stato più adatto a un neonato, ma a cui ormai aveva fatto l’abitudine, o almeno così sembrava. Dopo aver acceso le due piccole lampade sui comodini, cominciò a salire le scale che collegavano i due ambienti.
«Marie-Laure? Marie-Laure?» chiamò con voce dolce.
Sua moglie aprì la porta bruscamente. «Che vuoi?»
La voce risuonò nelle scale, attraversò la portafinestra che era rimasta aperta, arrivò fuori, e a quel punto la vaga ombra dello scandalo indusse Marie-Laure ad abbassare il tono. Continuò quindi in un sibilo, trattenendo le parole in tono ancora più aggressivo: «Che vuoi? Che vuoi ancora?».
«Mi sarebbe piaciuto stare un po’ con te» disse Ludovic lentamente e nel modo più gentile possibile. «Vorrei tanto che stessimo di nuovo insieme.»
«Mai! Te l’ho detto, mai!»
E tacque.
Marie-Laure era scesa di un gradino e ora tendeva verso di lui una faccia stravolta dalla rabbia e dal rancore, una faccia che sembrava non avere età. Con indosso un lungo abito-kimono, dalle cui ampie maniche spuntavano due mani ossute con le unghie laccate che stringevano disperatamente le due piccole balaustre ai lati della scala, quasi a volersi impedire di strozzarlo, tutt’a un tratto ricordava, in modo suggestivo ma inquietante, uno di quegli enormi pipistrelli che si vedono allo zoo e che fanno paura ai bambini.
Ludovic indietreggiò e istintivamente si aggrappò anche lui alla piccola balaustra di legno. In quella posizione sembravano due acerrimi nemici che vogliono uccidersi più che due amanti presi da una schermaglia amorosa.
O almeno così apparivano a Henri Cresson che, nascosto dal platano a cui si appoggiava, ora vedeva di faccia sua nuora e suo figlio che soccombeva. A soli dieci metri da loro Henri Cresson guardava e ascoltava tutto quello che veniva fuori da quella portafinestra illuminata: immagini e parole che lo lasciavano apparentemente impassibile.
«Sono guarito» ribatté piano Ludovic. «Ti amo e sono guarito.»
«Ascoltami, non volevo dirtelo in modo così brutale, ma la tua insistenza tutte le sere mi costringe a farlo: tu non sei guarito, non guarirai mai! Io, che ogni volta che venivamo a trovarti, ti ho visto con la camicia di forza, che ti ho visto strisciare, mordere, sbavare, ridere come un idiota insieme agli altri pazzi come te, come posso dimenticarmelo? Era orribile! Pensi veramente che potrei dormire con una belva selvatica e feroce? Non potrò mai stringerti tra le braccia, insomma rifletti… Nessuna donna potrebbe farlo. Quello sguardo vuoto, le braccia ciondoloni, era disgustoso! Lo capisci? Lo capisci ora?»
Henri Cresson, che dalla sua postazione poteva vedere solo la faccia alterata di sua nuora e le spalle sempre più curve di Ludovic, aveva assunto una strana espressione: quella di una furibonda maschera di legno simile a certi idoli di isole lontane.
«Non sono mai stato feroce» disse Ludovic. «Ero solo intontito.»
«Ah sì? E come lo sai? Ludovic, voglio il divorzio. Ti prego, il prima possibile, dopo la festa! Buona notte.»
Fece dietrofront, salì i pochi scalini, inciampando contro l’ultimo, e rientrò in camera a testa bassa, il che tolse un po’ di drammaticità alla scena.
Ludovic si girò lentamente, scese le scale e andò a stendersi sul suo letto. Aveva la stessa espressione di suo padre, indifferente e distante, completamente inespressiva ma senza un briciolo di crudeltà: quando si accese una sigaretta con un vecchio cerino dalla fiammella tremolante, lo fece con mano ferma e senza alcuna difficoltà.