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Un sole pallido e scintillante come quello di Austerlitz si levò sulla Turenna e attraversò la camera monacale di Ludovic, trasformando in un attimo i suoi lineamenti ristorati dal sonno, facendoli passare dalla serenità alla tristezza. Lui sbatté le palpebre e ripensò all’uomo che, ormai non c’erano dubbi, avrebbe per sempre ispirato alla moglie un senso di disgusto e di ripugnanza. Girò la testa sul cuscino con un vago gemito. Aprendo gli occhi, al posto del braccio vigoroso di un tempo, vide sbucare dalla manica del pigiama, da sempre troppo corta e destinata a restarlo in eterno, un polso con le ossa sporgenti da adolescente.

La solitudine, la paura, la delusione che lo affliggevano da quando era tornato, e di cui Marie-Laure gli aveva spiegato le ragioni, gli sembravano più crudeli delle smorte e interminabili giornate di prima. Del suo comportamento, del suo fisico e della repulsione che ora sapeva di suscitare, non poteva nemmeno accusare l’uomo che, così in fretta e al tempo stesso così lentamente, era diventato dietro le pesanti porte a vetri delle case di cura.

Ludovic non si era mai interessato abbastanza a se stesso – in realtà non ne aveva avuto il tempo – per pensare a uccidersi e porre fine a una vita che tutto sommato quasi non gli apparteneva. Non c’erano specchi nelle case di cura, giusto un riquadro di vetro per radersi, e anche quello solo se le infermiere erano convinte che il paziente avesse voglia di vivere. Ludovic si era potuto rivedere solo dopo due anni.

Quando l’ambulanza che lo riportava alla Cressonnade si era fermata davanti a una farmacia, aveva scorto nella vetrina il riflesso della faccia di un giovanotto febbricitante che non riconosceva. Arrivato alla Cressonnade, i «Come sei cambiato!» di Sandra e Marie-Laure, senza altri commenti, sulle prime non l’avevano colpito più di tanto. L’aria soddisfatta di Martin invece – «Il signore è più in forma dell’ultima volta» – l’aveva fatto ridere: Martin l’aveva visto quand’era in coma, quando già gli era stata impartita l’estrema unzione!

Sandra, con una certa severità, aveva subodorato in quel sacramento una possibile truffa, visto che il consenso era stato letteralmente estorto da un prete fanatico a un ateo che si trovava tra la vita e la morte. In realtà rimproverava al figliastro di aver dato prova di una certa ipocrisia, ma di questo avrebbe parlato solo in seguito. Non aveva osato dire niente per paura della reazione spropositata di suo marito, che, pur avendo modi piuttosto rispettosi, in certi momenti era capace di gesti inqualificabili e brutali.

All’inizio della loro relazione, per esempio, per farla stare zitta, era capitato che le desse dei colpetti sulla spalla, colpetti che, se lei si permetteva di continuare, diventavano vere e proprie pacche, veri schiaffoni tra le scapole, che le facevano fare un balzo in avanti. Oppure la stringeva così forte da soffocarla. E ora il timore di quelle strette così energiche le faceva passare la voglia di esporre la sua teoria su Ludovic e la sua recente doppiezza. Una volta che ci aveva provato, infatti, Henri Cresson l’aveva stretta a sé come un bestione geloso, sussurrandole all’orecchio: «Avresti trovato più decoroso che morisse?», anche se ovviamente non era quello che lei intendeva.

Ma a volte neppure gli uomini più intelligenti sono in grado di capire le sottigliezze di certi scrupoli. Nemmeno Marie-Laure, nonostante fosse una donna, aveva capito il punto di vista della suocera.

Era presto, relativamente presto, per gli abitanti della Cressonnade, «ma il padrone di casa era uscito all’alba» disse Sandra, con il suo solito tono di stupore misto a compatimento, agli altri già svegli e riuniti in sala da pranzo (dove per una volta aveva trovato il coraggio di scendere anche lei).

«Non gli basta uscire alle otto di mattina per andare in ufficio» si scaldò sempre di più «è scappato via alle sei. E quando gli ho chiesto perché così presto, mi ha dato una risposta stranissima… Forse non ho capito bene…»

Rise con un’aria tra l’imbarazzato e l’ammiccante, che attirò lo sguardo di tutti i presenti.

«Dicci un po’, possiamo aiutarti a capire» sentenziò Philippe. «Siamo abbastanza abituati al linguaggio malizioso di tuo marito.»

«Mi ha risposto, testuali parole: “Tesoro, stattene tranquilla tra le vecchie piume dei tuoi cuscini e, mi raccomando, non ti muovere per nessun motivo prima che io sia tornato!”.»

Philippe, Ludovic e Marie-Laure scoppiarono a ridere. Sandra si unì a loro al punto da far rovesciare lo sgabello a tre piedi su cui si era appollaiata, uno sgabello rivestito di tessuto, ininfiammabile, immacchiabile, inossidabile, indistruttibile ma insostituibile, insomma, in una parola, inacquistabile. Non poté far altro che lasciarsi cadere con una certa grazia sul pouf marocchino che era più vicino a lei.

Puntò il dito verso Martin, il maggiordomo.

«Dovremmo assolutamente rispedire questo coso alla fabbrica che l’ha prodotto, in Svezia o ovunque si trovi» disse con severità per darsi un tono.

«La fabbrica è fallita sessant’anni fa» borbottò Philippe «mi dispiace. Volevo regalarti una poltrona da giardino dello stesso designer, di nome Checker, ma purtroppo ormai sono introvabili, esaurite.»

«Ah, le cose belle e originali non sono più di moda» si lamentò sua sorella, prendendo un’altra fetta di torta, visto che la sua era scivolata sotto lo «zebù», uno strano animale che loro chiamavano impropriamente così e di cui avevano conservato scheletro, pelle e testa grazie a riparazioni tanto frequenti quanto onerose.

Quell’essere mostruoso, e del resto ignoto anche nei musei più insoliti, aveva sempre spaventato i bambini e gli animali e inorridito gli adulti. Nel corso degli anni qualche cane temerario ne aveva strappato interi pezzi, oltretutto erano caduti buona parte del pelo e tutte le scaglie, per cui ora non si capiva più cosa fosse, ma sicuramente era l’animale più grande e più brutto della Terra a partire dal Giurassico. Lo zebù troneggiava in salotto, con l’enorme coda attorcigliata intorno alla copia del sarcofago di Tutankhamon e la testa che sfiorava l’armadio gotico un tempo appartenuto a un inquisitore. Qualunque cosa fosse, quella carcassa non era bella a vedersi. Ma la famiglia non ci faceva più caso, solo gli estranei si spaventavano ancora, perché certo era enorme, doveva essere stato un gigante nel suo genere (senza per questo essere, come sosteneva Sandra, il rivale vincente dei presuntuosi dinosauri).

Henri Cresson in effetti si era svegliato molto presto, perché aveva dormito male. Il round tra Marie-Laure e Ludovic della sera precedente, a cui aveva assistito nascosto dietro il platano, gli aveva rovinato il sonno. Non era mai stato quel che si può dire un genitore premuroso, ma si era comunque abituato all’idea che suo figlio fosse felice, e ora vedeva invece che era incapace di ridiventarlo. Proprio lì, sotto il suo tetto, era in corso un combattimento impari e grottesco, in cui la vittima designata era Ludovic, che era sangue del suo sangue e di cui lui si sentiva responsabile. Henri Cresson si era quindi svegliato di cattivo umore, un cattivo umore che si trasformò in vera e propria rabbia contro se stesso, contro il mondo, contro gli altri, contro qualsiasi cosa che, fatta eccezione per la fiducia completa, la fiducia totale della sua prima moglie, potesse nascere tra gli esseri umani, spingendoli ad accoppiarsi, a vivere insieme come animali da (triste) compagnia.

Qualcuno avrebbe potuto dire che Henri Cresson era sempre di cattivo umore o sempre sull’orlo di una crisi di nervi, ma non era vero: per lui ogni volta c’era una buona ragione. Un affare andato male, qualcuno che gli teneva testa, una donna che lo infastidiva o qualcosa che lo contrariava. Insomma, quel giorno aveva da fare. Ma che cosa precisamente?

Ah sì: parlare di quel cretino totale di Ludovic con una prostituta professionista. Salì in auto, si ricordò che era difficile parcheggiare nella strada di questa persona, poi si convinse che un posto lo avrebbe trovato. E infatti lo trovò.

La signora Hamel era arrivata all’appuntamento con grande anticipo, ma lui questo non poteva saperlo. Aveva avuto il tempo di dare una spolverata al bancone, aveva liberato due sgabelli e li aveva separati dagli altri, come se quei semplici oggetti di legno fatti per sedersi potessero essere dei testimoni indesiderati. Aveva anche tirato fuori una bottiglia di whisky, una di pastis, una di Perrier e una di Coca-Cola. Non si poteva mai sapere: gli uomini cambiavano di continuo, e i loro gusti diventavano sempre più strani.

Henri Cresson entrò con un’andatura disinvolta, attraversò il piccolo ingresso come fosse un posto familiare e, arrivato di fronte alla signora Hamel, le prese la punta delle dita e si chinò a baciargliele. Quel gesto la faceva impazzire, così almeno gli sembrava di ricordare. Forse quella galanteria corrispondeva alla sua idea di gentlemen.

Si sedette sullo sgabello accanto a lei, sollevò una mano esitando fra le quattro bottiglie e alla fine si alzò, si ritrovò sulla punta dei piedi perché, forse ancora non si è capito, era di media statura e aveva le gambe un po’ corte. Insomma, saltò giù da quel trespolo, andò a prendere una bottiglia di vodka e tornò al bancone, dove si risedette con lo stesso sforzo e poggiando trionfalmente il suo trofeo.

La signora Hamel non si limitò a lasciarlo fare: si prodigò ad assisterlo correndo a destra e a manca, andò a prendere del ghiaccio, la soda, o forse preferiva un’acqua tonica? Alla fine si mise a sedere, si versò anche lei una vodka e bevvero come vecchi amici, anzi come due che non si conoscono, o che si sono persi di vista, il che era appunto il loro caso.

«Sempre bella» disse Henri Cresson con una voce dura, perché non sopportava i complimenti, né quelli che faceva né tanto meno quelli che riceveva.

«Oh, sta scherzando» rispose lei. «È sempre così galante, ma lo so che sta scherzando.»

«Non scherzo mai sulle cose serie» rispose lui sorridendo.

E mandò giù un sorso di vodka, dal momento che, tutt’a un tratto, la richiesta che stava per formulare gli sembrava difficile o assurda, in ogni caso troppo bella o troppo interessante per quella donna truccata da maestrina. La signora Hamel si rese subito conto che la conversazione non sarebbe stata facile e buttò lì qualche banalità utile, come sapeva bene, a rompere il ghiaccio: Come stava? Perché non si faceva più vedere? Era contento di come gli andavano gli affari? Tutti parlavano di lui e dei suoi successi… Perfino a Parigi, a quanto pareva. Davvero voleva darsi alla politica? Lui non rispose, tranne che sull’ultimo punto, che commentò con un gesto della mano, aperta in direzione del pavimento.

«La politica. Mai! Tutte cazzate, sono solo cazzate!»

Lei annuì.

«Be’…» disse lui, battendo con il palmo della mano sul bancone, «non voglio farle perdere tempo. Ecco il mio problema: lei sa che mio figlio, il mio unico figlio, Ludovic, ha avuto un grave incidente?»

«Ma sì, certo, certo…»

«Bene. E sa anche che dopo ha fatto il giro di tutta una serie di ridicole case di cura, dove gli hanno solo fatto sprecare il suo tempo, i miei soldi e un’infinità di quelle inutili medicine che gli prescrivevano i suoi psi… psichiatri. Lo sa vero? Ovvio. Hai voglia a essere discreto…»

Ridacchiò di nuovo. La signora Hamel, chissà perché, era un po’ in imbarazzo. Aveva pensato a tutto, eccetto che volesse parlarle di suo figlio. Era molto strano.

«Sì, in realtà in giro non si sente parlare molto di suo figlio. O meglio se ne parla, ma solo per dire sciocchezze. Non si sa granché, non circolano più molte notizie su di lui.»

«Sì, sì» fece lui. «Ma l’ha visto?»

«Certo che no, non si fa mica vedere. Il giardiniere del municipio l’ha incrociato per caso un giorno che è venuto a consegnare qualcosa da voi. L’ha trovato bene da lontano, un po’ dimagrito, ma non gli ha parlato. Non è una buona strategia questa. Il suo Ludovic deve uscire, deve farsi vedere, deve far capire a tutti che non è…»

Si interruppe e alzò le spalle.

«Che non è pazzo?» continuò Henri Cresson. «No, non è pazzo, anche ammettendo che lo sia mai stato. In realtà era semplicemente intontito per colpa di quegli imbecilli. Tra poco riprenderà a lavorare, ma tutta questa storia l’ha lasciato stordito, capisce? Passare due anni imbottito di calmanti di ogni tipo stenderebbe chiunque.»

«Ci credo» concordò la signora Hamel, pronta ad attaccare con una storia edificante, che lui bloccò sul nascere con un cenno della mano.

Lei si rimise ad ascoltare tutta attenta.

«Non ha avuto neanche una donna per due anni. Come tutti i Cresson ha un temperamento diciamo… piuttosto esuberante, e insomma lo hanno tenuto lontano dalle donne per due anni interi, il che non gli ha fatto certo bene.»

«Ma la moglie è andata immediatamente lì a occuparsi di lui! È una ragazza deliziosa, siete fortunati, ed è bella per di più e…»

Lui la fermò.

«No. Cioè, carina è carina, ma per il resto è una vera stronza, una donna ambiziosa, insomma per niente adatta a un ragazzo ingenuo, gentile e premuroso come lui. Non ne verrà mai fuori» disse con una punta di rimpianto. «Insomma, comunque stiano le cose, lei gli vuole far credere che non è possibile per una donna tornare con un uomo che è stato pazzo. E quindi lo respinge, si rifiuta di andare a letto con lui.»

La signora Hamel ebbe un sobbalzo che per poco non la fece cadere dallo sgabello. Quella frase «si rifiuta di andare a letto con lui» era la cosa più orribile che avesse mai sentito, considerata la sua professione.

«Ma è una cosa… è una cosa diabolica! E poi è illegale, lo sa? Lei può pretendere…»

L’espressione di Henri Cresson gli fece capire che lui non poteva pretendere proprio niente, se non di essere ascoltato.

«Che pensa di fare?»

«Per il momento vorrei solo fargli riprendere un po’ di fiducia su questo punto. Mi dispiace che non l’abbia visto. È tornato più bello di prima, ancora più affascinante. Era un bel ragazzo, si ricorda?»

«Ah certo!» rispose lei annuendo. «Era un bel ragazzo, allegro, che piaceva molto alle donne, e in più era simpatico a tutte. Suo figlio era un bravissimo ragazzo, non vedo proprio come una medicina avrebbe potuto trasformarlo in un… in un bruto.»

«Nemmeno io. Una delle sue ragazze dovrebbe… fargli riprendere un po’ di fiducia. Pensa sia possibile?»

«Ma certo!» lo rassicurò la signora Hamel, che in realtà era improvvisamente turbata dalla reputazione equivoca, strana e perfino inquietante di Ludovic Cresson.

«Vediamo, non è facilissimo. Mi lasci pensare, chi?… Chi?… Chi?» Intanto le balenavano davanti agli occhi dei corpi, delle facce. No, troppo giovane o troppo stupida…

«Ovviamente non deve essere una sciocca o una nevrotica» disse per l’appunto Henri Cresson. «Ci vuole una donna, una brava donna a cui piacciono i ragazzi, che sappia occuparsene, soprattutto in queste circostanze. Siamo intesi?»

«Un attimo, un attimo… Mi è venuta in mente una donna molto bella, che lei non conosce, è appena arrivata da Parigi, anzi per l’esattezza da Clichy, ed è una che non ha paura di niente.»

«Guardi che per mio figlio non c’è bisogno di una specie di eroina!» si innervosì Henri, dando un’altra manata sul bancone. «Ha solo bisogno di fare di nuovo esperienza della vita. Insomma, aiutiamolo. Dopodiché, tutto andrà meglio. Per lui e per noi.»

«Che situazione impossibile! Anche per quella poverina di sua moglie.»

«Bah, lei non sa niente, e del resto quando mai sa qualcosa? Lui sì, invece, perché quella stronza di sua moglie glielo ha detto chiaro e tondo e ora pensa di essere diventato ripugnante. Cosa che non è affatto vera. Anzi, facciamo così, glielo porto dopo pranzo.»

«Ma via, signor Cresson, scherza? Io mi fido ciecamente di lei! Il giovanotto…»

Lui batté di nuovo la mano sul bancone.

«Proprio per questo! Voglio che lo veda. Così, o penserà che sono un incosciente o mi darà ragione. Ci vediamo alle due e mezzo.»

E, senza aspettare nemmeno un secondo, si girò e si avviò verso l’uscita. La signora Hamel, un po’ accaldata e in agitazione per quell’incarico così complicato, prese carta e penna e cominciò a scrivere dei nomi che sembravano caderle dalla penna come le mele da un albero in primavera.

Era mezzogiorno e mezzo o forse l’una. Henri Cresson avrebbe potuto benissimo tornare a casa per pranzo e trascinarsi dietro il figlio, ma ci pensò un po’ su: già cenare con i suoi famigliari era una cosa che lo sfiniva, lo contrariava e gli faceva venire il nervoso, figuriamoci due pasti. Si fermò lungo la strada in una trattoria che conosceva e mangiò un’ottima andouillette, un piatto che a sua moglie non piaceva. Doveva comunque telefonare a casa per evitare che Ludovic dopo pranzo se la svignasse e non si facesse trovare al suo arrivo.

Chiamò e gli rispose Martin che aveva quella voce da uomo assennato tipica di quando aveva fatto qualche sciocchezza, circostanza in cui, con una faccia più imperturbabile che mai, assomigliava al signor Spock, il personaggio di quel telefilm di fantascienza che lui e Ludovic adoravano. In realtà l’unico personaggio del mondo della finzione che conoscevano e che per giunta piaceva a entrambi.

«I signori e le signore sono…» attaccò il maggiordomo in tono lamentoso e freddo.

«Non ti ho chiesto dove sono, ti ho chiesto di passarmi uno di loro. Anzi no, lascia stare. Di’ a Ludovic che vengo a prenderlo dopo pranzo.»

«Il signore verrà a prendere il signore dopo pranzo? Benissimo, glielo riferirò, signore.»

«Tutto a posto, Martin?»

«Certo, signore, grazie.»

Henri riattaccò in fretta e furia. Di sicuro alla Cressonnade c’era qualche dramma domestico in corso e si congratulò con se stesso per il suo istinto, che lo aveva tenuto alla larga da loro almeno per un’ora. «Comodamente seduto su una poltrona inglese con il cane ai tuoi piedi, una bella bottiglia di scotch e il caminetto acceso» sentiva dire a volte: che fantasie da stupidi nullafacenti.

Per tornare alla sua levataccia e al suo arrivo troppo in anticipo nella fabbrica ancora deserta, il malessere che lo aveva tenuto sveglio non era ancora scomparso. Le varie stramberie, già quella era la parola giusta, con cui aveva occupato la mattina non l’avevano per niente distratto. Sotto il suo tetto si stava consumando, a sua insaputa, un’oscura lotta di cui lui non sapeva assolutamente niente: primo fatto sgradevole. Secondo, il rapporto di forza era completamente sbilanciato: uno dei due contendenti era fragile, l’altro feroce, e siccome il primo era anche il più gentile e dolce, la situazione era irrimediabile. Infine, terzo punto, la ciliegina sulla torta era che la vittima era sangue del suo sangue, il suo congiunto più prossimo: il suo unico figlio.

La personalità di Ludovic, così come lo percepiva adesso, un ragazzo lunare che tutti potevano offendere e nessuno difendere, non aveva alcuna protezione se non quei tre anni di silenzio. Certo, neanche lui aveva voluto né vedere né sentire le crudeli cattiverie, l’atteggiamento ridicolo e, ai suoi occhi, grottesco di Marie-Laure. Certo, da quando aveva scoperto che lei si rifiutava di dividere il letto con il marito, che da più di un mese gli diceva di no, che Ludovic sopportava quei no, che mortificava la propria virilità, Henri vedeva le cose in un modo diverso. Perché, insomma, già da diverse sere lei diceva le frasi più spietate a un uomo che amava le donne, e Dio solo sa se Ludovic le amava, sicuramente molto più di lui, di Henri, perché in quel suo amore c’era sempre tenerezza, premura, delicatezza. Forse aveva assistito al momento peggiore, la sera prima, protetto da quel provvidenziale platano, quando aveva visto da lontano quelle due facce, una delle quali era devastata dalla vergogna, dalla paura e dall’incapacità di accettare che le cose non potessero più sistemarsi, quando aveva sentito le parole tremende di quella stronza. Una stronza con un visino grazioso che, puntato contro suo figlio, si era trasformato in una faccia da assassina, la faccia di una donna ormai pronta a tutto.

Ora capiva come alcuni ragazzi potessero crollare o diventare dei deboli di fronte a quella specie con la quale erano costretti a fare figli e a costruire la loro vita. Certo, Henri, di suo, non aveva paura di niente, nemmeno di quel genere di creature che forse, tutto sommato, gli sarebbero pure piaciute, ed era consapevole di quella brutalità innata in lui, del suo istinto di sopravvivenza, di piacere e di supremazia, ancora più inesorabile del desiderio di distruzione. Ma in quel caso aveva assistito alla prova generale di quella che forse sarebbe stata la fine di una vita che avrebbe potuto essere felice e che fino a un certo momento lo era anche stata, perché, lui lo sapeva bene, a Ludovic non mancava la vocazione alla felicità. Ma per adesso suo figlio era sotto choc: a volte aveva l’aria di un angelo o di un fantasma. Doveva assolutamente ritrovare la fiducia in se stesso, doveva far abbassare la cresta a quella gorgone dai dolci lineamenti e dagli abiti impeccabili, a quella moglie così elegante d’aspetto e così volgare d’animo, a quella donna senza cuore.

In altri tempi Henri Cresson aveva letto tutto Balzac – a vent’anni forse? – e nei momenti più caotici e agitati della sua vita aveva spesso preso a modello quei romanzi in cui gli uomini sono sentimentali e, per i suoi gusti, un po’ troppo deboli: un universo di abbandono e di catastrofe interiore fatto di vittime o di persone senza scrupoli, di squallidi arrivisti o di imbecilli pieni di soldi. Ah, no! No! Ludovic non era né uno di quei cinici puerili né un arrivista senza scrupoli. Un uomo normale non si serviva delle donne per fare fortuna. E se Henri tollerava una cosa simile da quel povero Philippe, era solo perché il cognato faceva parte della sua famiglia acquisita, non aveva un soldo in tasca, e per Henri la povertà era da considerarsi alla stregua di una malattia spaventosa e degna di compassione come il fuoco di Sant’Antonio o la poliomielite.

Nel suo ufficio, perso nelle sue elucubrazioni, spezzò tre o quattro matite, strappò dei fogli e ne fece degli aeroplanini, che andarono ad annunciare al piano inferiore, dove stavano le sue segretarie, che quel giorno non bisognava assolutamente contrariarlo. Gli aeroplanini di carta che, lanciati dal primo piano, volteggiavano in aria davanti alle finestre del pianterreno, erano come un segnale d’allarme per tutto il personale.

Sylvia Hamel era nata a Tours sessantotto anni prima. Per dieci anni si era dedicata ai viaggi e alla sua istruzione ed era tornata in Francia dopo aver fatto fortuna o comunque dopo aver trovato il modo e i mezzi per soddisfare ogni suo capriccio. Il che non era difficile in una città in cui godeva di un’ottima fama e in cui, durante la sua lunga assenza, si era premurata di lasciar circolare notizie sulle sue fortune, sulle sue occupazioni meritorie, anzi onoratissime, e sui suoi successi in vari campi. Era una delle cose che aveva imparato: non bisogna mai farsi dimenticare né screditare dagli altri. La lontananza rovina la reputazione di chiunque, il che è particolarmente vero nel caso della gente di provincia, per la quale non abitare nella propria città significa che non è più possibile viverci o che non ci si vuole più stare, segno, quest’ultimo, di un momentaneo smarrimento.

Da dieci anni, insomma da quando era tornata, la signora Hamel, viso rotondo, capelli bianchi, lieve sovrappeso, eleganza provinciale un po’ troppo vistosa, proprietaria di un palazzetto in cui di tanto in tanto ospitava donne sfortunate, picchiate dai mariti o sconfitte dalla esistenza, ricopriva i ruoli più disparati in quell’onorata cittadina. Teneva sotto di sé un esercito di donne di mondo, be’ diciamo di provincia, floride e piacenti che, «ammalate» di carità come lo si può essere di vaiolo o di colera, offrivano, su sua indicazione, visite a domicilio un po’ ovunque. La signora Hamel si trovava quindi ad avere due ruoli in fondo non troppo diversi, visto che curava i corpi degli uomini e l’anima delle donne. E, con grande naturalezza, aveva preso in mano le vere redini della città, l’unica che contava ai suoi occhi, sebbene avesse abitato a Lione, Miami, Detroit e infine a Orléans, ultima tappa del suo giro nell’universo mondo. Non si sapeva quanti matrimoni e relazioni avesse contratto in quei dieci anni, si sapeva, però, che aveva legami strettissimi con cerchie influenti e che chiunque avesse osato infastidirla avrebbe commesso un grave errore.

Ma tra la chiesa di Saint-Julien, di cui dirigeva il coro, le finanze e il parroco, un ometto dalla mente del tutto offuscata che lei, chissà perché, proteggeva, e tutti gli enti caritatevoli, tra cui alcuni ai limiti della legalità, di cui si occupava, il potere non le mancava mai. Ai rischi e ai problemi, Sylvia Hamel reagiva sempre con la sua consueta imperturbabilità e con il suo sorriso benevolo che riservava ai ricchi e talvolta, ma solo quando stava per dar loro il colpo di grazia o per comprarli, anche ai poveri.

Henri Cresson era stato a lungo un cliente fedele delle squillo che lei gli mandava seguendo un ordine decrescente sul piano estetico o tecnico. Poi il suo matrimonio con Sandra Lebaille gli aveva fatto interrompere quella relazione un po’ troppo compromettente e indirizzare i suoi bollenti ardori verso la capitale o certi alberghetti situati a metà strada. Ormai era lì che incontrava le belle ragazze del posto. Almeno con loro si mostrava gentile, cortese, e si sentiva appagato.

Quando arrivò alla Cressonnade per prendere Ludovic, la sua famigliola stava gustando il dolce sul terrazzo. Con suo sommo stupore, Henri Cresson trovò quella tavolata, i begli alberi del parco e l’odore del cioccolato davvero deliziosi. Senza scendere dall’auto, lanciò un’occhiata a ognuno dei presenti. Sandra, una donna grassa e ormai ridicola; quel parassita di suo fratello Philippe, un vero babbeo; Marie-Laure, una stronzetta priva di allegria, di sensualità e di cuore. L’ultimo su cui si posò il suo sguardo e a cui fece segno di seguirlo era decisamente meno turpe. Forse un po’ distante, un po’ sfuggente, troppo fragile per sua moglie e troppo ingenuo… Non che lui, Henri, amasse l’ingenuità, che ai suoi occhi, quando non era una posa, era indice di idiozia.

«Ma dove ve ne andate, voi due?» esclamò allora Sandra.

Quella voce rauca e irritata sorprese entrambi. Ludovic chiuse precipitosamente lo sportello dell’auto. Henri biascicò frasi confuse, accelerò per scappare e rallentò solo una volta arrivato sulla piccola strada provinciale, che recentemente era stata rimpiazzata da uno stradone maestoso, quasi parallelo a quella, che grazie a innumerevoli quanto inutili rotonde, collegava ogni punto della città. Lui, però, in cuor suo, preferiva la vecchia cara strada che, con i suoi dieci chilometri in più, evitava rotonde, semafori e deviazioni, insomma tutti gli ultimi ritrovati del progresso.

Guardandola con gli occhi di un passeggero, Ludovic Cresson si accorse di quanto quella strada fosse bucolica e desueta. Non era più frequentata dalle macchine. I segnali chilometrici, con la calotta rossa e le lettere mezzo cancellate dalla pioggia, sembravano vere e proprie pietre miliari. Gli alberi gialli e verdi, che non erano più stati potati, davano un’impressione di bonario e nostalgico pericolo. E la stessa impressione la davano i pannelli pubblicitari di latta, che ormai erano attaccati solo a uno dei due pali e su cui, solo piegando la testa, si riusciva a leggere: «La taverna delle lumache – 300 metri», «Qui si mangia e si beve», o «L’allegra brigata», quando poi nel silenzio della campagna non si sentiva più nemmeno l’eco di una parola o di una risata.

In realtà era una strada sconfitta, battuta dalla sua recente rivale che si trovava a pochi chilometri di distanza, e di cui, di tanto in tanto, si distingueva il ronzio, una strada da non mostrare a dei figli pieni di fiducia nel progresso, nella velocità e nell’anonimato. Nessuno di loro, infatti, si sarebbe ricordato dell’«Allegra brigata», dal momento che, come Henri Cresson, non ci avrebbe mai messo piede.

Ludovic non diceva niente. Suo padre accelerò ancora di più finché, subito dopo una curva, non scorsero dei poliziotti che parevano usciti da un’altra epoca. Erano in tre o quattro, fumavano e si girarono al loro passaggio.

«Dove andiamo?» buttò lì Ludovic con la voce conciliante e dolce di chi è già d’accordo.

Se gli dicessi che stiamo andando a piantare piselli in un villaggio equatoriale per tre mesi, direbbe di sì, pensò Henri. Ma considerando che a pochi padri darebbe fastidio l’arrendevolezza dei propri figli, si innervosì per la sua stessa reazione.

«Ti ricordi la signora Hamel?» chiese, ma con tono affermativo.

«Ma certo» disse Ludovic con slancio, prima di rabbuiarsi in volto, cosa che rinsaldò la convinzione del padre di star facendo la cosa giusta.

«L’ho incontrata al ristorante e ci ha invitati a prendere un bicchierino di grappa da lei. Vuole farmi vedere il nuovo campionario. Pare sia fantastico. Allora ho pensato: se Ludovic, che se ne sta sempre rintanato alla Cressonnade, non ha niente da fare, visto che ancora non ha ripreso a guidare, forse gli piacerebbe… Niente a che vedere con la solita routine coniugale, ovviamente, siamo d’accordo su questo, no?» Henri Cresson scoppiò in una grassa risata, che voleva essere allusiva, complice, bonaria, e che invece non gli si addiceva proprio.

La signora Hamel li aspettava con due bellissime ragazze, truccate come di sera, che sembravano entusiaste di quel genere di incontri.

La progressiva ritirata prima di suo padre e di una delle ragazze, poi della stessa signora Hamel, lasciò Ludovic a tu per tu con l’altra giovane donna nel salottino – che peraltro ricordava quello di un dentista – dove regnava una penombra quasi inquietante. Una penombra che spinse la bella creatura ad avvicinarsi pericolosamente a Cresson figlio. Tremando come una foglia, il giovane sentiva tornare in sé sensazioni così lontane ormai che finì per comportarsi più come un soldataccio che come un amante raffinato. Alla fine Alma, si chiamava così, gli chiese se voleva tornare il giorno dopo, ma a casa sua, dove sarebbero stati più tranquilli. Ludovic rispose: «Sì, sì, certo!» con un entusiasmo che lei trovò delizioso.

Henri Cresson, tutto contento per la delicatezza di cui aveva dato prova, aspettava il figlio davanti alla casa e, appena lo vide uscire, lo tirò per una manica, dopo avergli dato un colpetto sulla spalla quasi a congratularsi con lui, dimenticando che il ragazzo aveva già trentacinque anni.

«Mi raccomando, bocca cucita» gli disse. «Quell’arpia ci sta con il fiato sul collo…»

«Non credo proprio che Marie-Laure abbia il minimo dubbio sulla mia fedeltà» rispose pensieroso ma allegro Ludovic.

«Be’, si sbaglia. Caroline, la nuova ragazza della signora Hamel, era dispiaciutissima che tu le avessi preferito Alma. Sai una cosa, ragazzo mio? Sei sempre stato un bell’uomo ma dopo i… i tuoi ricoveri a destra e a manca sei ancora meglio di prima. Hai un’aria, come dire, più… interessante.»

Su quell’ultimo punto, con l’aria di due giovanotti scaltri e sicuri di sé, si scambiarono un sorriso fiducioso e perfino trionfante, come mai prima di allora avevano avuto occasione e neppure la vaga idea di fare.

Al ritorno si fermarono, lungo la strada, al caffè Au Carrefour, dove si scolarono una bottiglia di J&B. Poi Ludovic salutò suo padre davanti al cancello della Cressonnade ed entrò, facendo dei balzi come un ragazzo un po’ ritardato, abbracciando di tanto in tanto il tronco di un albero e saltando le palizzate delle aiuole come se stesse facendo la corsa a ostacoli. Quindi sparì in camera sua e lanciò alla sua immagine riflessa nello specchio un sorriso complice che, se avesse trovato le parole, avrebbe definito libidinoso.