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Il terrazzo della Cressonnade, incorniciato da quattro platani e provvisto di sei panchine verde scuro, era maestoso. L’edificio un tempo probabilmente era una bella e antica casa di provincia, ora non era più bella e nemmeno antica. Impreziosita in tempi recenti da minareti, scale a cielo aperto e balconi di ferro battuto, metteva insieme due secoli di un cattivo gusto costosissimo, che snaturava il sole, gli alberi, il grigio della ghiaia e il verde circostante. La scalinata d’ingresso, formata da tre gradini grigi e squadrati, era fiancheggiata da una balaustra in stile medievale, che era forse il non plus ultra della mostruosità.

Ma le due persone sedute su una panchina, lì di fronte, ognuna a un’estremità, non sembravano curarsene. Spesso la bruttezza è più facile da guardare della bellezza o dell’armonia, che ammiriamo e su cui vigiliamo continuamente. In ogni caso Ludovic e sua moglie Marie-Laure sembravano del tutto indifferenti a quella cacofonia architettonica. Inoltre non guardavano la casa, né si guardavano l’un l’altra, ma si limitavano a fissarsi le punte dei piedi. Ora, indipendentemente dalla bellezza delle loro scarpe, le persone che non alzano lo sguardo né su un volto né su un paesaggio hanno senz’altro qualcosa che non va.

«Non hai freddo?»

Marie-Laure Cresson si era girata verso suo marito con aria interrogativa. Con un viso grazioso, due vivaci occhi dai riflessi violetti, una bocca leggermente compunta e un naso perfetto, aveva sedotto molti uomini prima di sposarsi, in modo piuttosto precipitoso del resto, con un bel giovane vigoroso e sano di nome Ludovic Cresson, un po’ playboy e un po’ sempliciotto, conteso tra tutte le ragazze del XVI arrondissement per il suo patrimonio e il suo buon carattere. Benché notoriamente andasse pazzo per le donne, Ludovic Cresson sarebbe stato un marito fedele, su questo non c’era alcun dubbio. Purtroppo però tutte le sue buone qualità, fatta eccezione per i soldi, si sarebbero trasformate in difetti agli occhi di Marie-Laure. Sofisticata, poco istruita, ma con una parvenza di cultura ottenuta grazie a un misto di letture di testi in voga, di tabù e di scorciatoie varie, si era costruita nel suo ambiente la reputazione di un’intelligenza pronta e perfettamente alla moda. Voleva essere padrona della propria esistenza, e quindi di quella degli altri, voleva «vivere la sua vita», come diceva lei. Ma non sapeva cosa fosse la vita né cosa volesse veramente, lusso a parte. In realtà desiderava solo essere accontentata in ogni suo capriccio. Avrebbe saputo ostentare appieno il valore dei suoi gioielli e il patrimonio, quale che fosse, di Henri Cresson, il padre di Ludovic (soprannominato nella sua cara Turenna natale il «Rapace avvoltoio»).

Non spiegheremo – perché sono ovvie – le ragioni per le quali «La Cressonnade» – ossia la vecchia fabbrica e i vecchi muri della casa – si chiamasse così. Sarebbe, invece, ben più complicato, e più noioso ancora, spiegare perché i Cresson avessero fatto fortuna proprio con il commercio del crescione, dei ceci e di altri ortaggi che oggi inviavano ai quattro angoli del mondo. Questo argomento decisamente poco interessante richiederebbe, almeno all’autore, più immaginazione che memoria.

«Hai freddo? Vuoi il mio maglione?»

La voce dell’uomo che sedeva accanto a Marie-Laure suonava naturale, gentile e dolce, eppure, considerata la futilità della domanda, tradiva un eccesso di apprensione e vulnerabilità. La giovane donna sbatté le ciglia e girò la testa dall’altra parte, mostrando una specie di vago disprezzo per il maglione del marito (a cui aveva dato una rapida occhiata).

«No, grazie, vado dentro, è più pratico. E dovresti venire anche tu. Non è il caso di beccarsi una bronchite, proprio ora.»

Si alzò e s’incamminò con passo tranquillo verso la casa, facendo scricchiolare la ghiaia sotto le scarpe all’ultima moda. Anche in campagna, anche quando era da sola, Marie-Laure era sempre elegante e up to date.

Suo marito la guardò con un misto di ammirazione… e di diffidenza.

Va detto che Ludovic Cresson era stato appena dimesso dall’ultima di una serie di cliniche, dove era stato ricoverato in seguito a un terribile incidente d’auto, così catastrofico, così traumatico, che nessun medico, nessuna innamorata avrebbero mai potuto sperare che sopravvivesse.

Con Marie-Laure alla guida, la piccola auto sportiva che lui le aveva regalato per il compleanno si era incastrata in un camion in sosta e il posto del passeggero era stato letteralmente trapassato dalle lame d’acciaio che il camion trasportava. La testa di Ludovic era uscita miracolosamente illesa da quell’ammasso di lamiere, almeno dal punto di vista estetico, e se Marie-Laure non aveva subìto alcun danno né al viso né al corpo, quello di Ludovic invece era stato dilaniato in più punti. Era entrato in coma e i medici avevano previsto che in capo a uno, massimo due giorni, se ne sarebbe andato all’altro mondo.

Solo che, protetti da quella specie di fortezza naturale (che era il suo corpo), i polmoni, le spalle, il collo e tutti gli organi che conferivano a quel giovanotto ingenuo un’ottima salute esterna e interna si erano dimostrati ben più scaltri e combattivi di quanto si potesse immaginare. Mentre già si pensava al funerale e alla musica per la cerimonia, mentre Marie-Laure si preparava a indossare i panni della vedova sobria ed elegante (molto semplice e con un inutile cerotto sulla tempia), mentre Henri Cresson, furibondo nel veder fallire uno dei suoi progetti, prendeva a calci qualsiasi cosa gli capitasse a tiro e insultava i suoi dipendenti, mentre sua moglie Sandra, la matrigna di Ludovic, ostentava la sua solita ed esasperante alterigia di malata spesso costretta a letto, Ludovic aveva lottato. E dopo otto giorni, nello stupore generale, era uscito dal coma.

Si sa, alcuni medici tengono di più alle loro diagnosi che ai pazienti. Ludovic fece saltare i nervi a tutti i luminari che Henri Cresson aveva fatto venire (più che altro per abitudine) da Parigi e da altri posti. L’estrema facilità con cui era praticamente risuscitato li infastidì a tal punto che finirono per trovargli qualcosa di serio alla testa. Tanto bastò, insieme al suo silenzio, perché decidessero di tenerlo sotto osservazione, e poi di trasferirlo in una clinica specializzata. Aveva la mente offuscata, per cui sembrò poco ricettivo e perfino ritardato; e la perfetta condizione fisica, la salute di cui godeva il suo corpo non facevano che rafforzare quell’impressione.

Per due anni Ludovic, senza proferir parola e senza protestare, passò da una clinica all’altra, da un ospedale psichiatrico all’altro, fu perfino spedito in America con un jet, letteralmente legato su una barella. Ogni mese la sua famigliola andava a trovarlo, lo guardava dormire – o «sorridere come un idiota», come dicevano tra loro – e poi andava via in tutta fretta. «Non posso sopportare questo spettacolo» gemeva Marie-Laure, senza neppure fingere di trattenere una falsa lacrima, dal momento che nessuno in quella macchina ne versava una.

In realtà sì, un’eccezione ci fu quando la madre di Marie-Laure, la fascinosa Fanny Crawley, rimasta da poco vedova ma che al contrario di tutti loro il marito lo piangeva davvero, andò a trovare il genero, che fra l’altro prima non aveva mai apprezzato troppo. L’atteggiamento da gradasso e la faciloneria di Ludovic aveva infastidito una quantità di donne leggermente ipersensibili, ma d’altro canto era piaciuto a molte, moltissime donne dall’inscalfibile buonumore. Fanny Crawley aveva quindi rivisto quel ragazzo che considerava un playboy, disteso su una poltrona, con i polsi e le caviglie legati, incredibilmente dimagrito, ma anche incredibilmente ringiovanito, con un’aria inerme e vulnerabile, del tutto incapace di rifiutare gli psicofarmaci che gli iniettavano in vena dalla mattina alla sera… E allora aveva pianto. Aveva pianto così tanto da incuriosire Henri Cresson e indurlo a concederle una conversazione seria a quattr’occhi.

Per una fortuita e felice combinazione, Henri Cresson aveva parlato al direttore della clinica, forse la più costosa di tutta la Francia, sicuramente la più inutile. Il primario aveva sentenziato in tono perentorio che suo figlio non sarebbe guarito mai e poi mai. Come sempre le certezze degli altri suscitavano il dubbio e la rabbia in Henri Cresson, uomo geniale negli affari ma assai inesperto in fatto di sentimenti (dal momento che non ne provava alcuno, o meglio ne aveva provati solo per la prima moglie, la madre di Ludovic, morta di parto). Con sua grande sorpresa, aveva visto questa donna ancora giovane, bella ed elegante, che sapeva inconsolabile per la morte del marito, piangere per un genero che non le stava neanche simpatico e sostenere con convinzione che era il momento di porre fine a quel supplizio. Quindi era tornato dal medico e l’aveva trattato talmente male che quello aveva ritenuto impossibile, nonostante i guadagni astronomici, tenere in clinica un paziente la cui famiglia dimostrava di non avere alcuna stima di lui.

Un mese dopo Ludovic era arrivato alla Cressonnade, dove era apparso perfettamente normale, anche perché nel frattempo aveva buttato nel cestino una dopo l’altra tutte le boccette delle medicine. Aveva un’aria mite, un po’ distante, un po’ inquieta, e si era dato alla corsa. Passava le giornate a correre nell’immenso parco della villa, a correre come un bambino a cui è stato restituito l’uso delle gambe, cercando forse di riconquistare l’aspetto di un uomo adulto. Era fuori discussione – ma del resto era sempre stato fuori discussione – farlo lavorare nella fabbrica di suo padre: il patrimonio di quest’ultimo sarebbe bastato, anche se non fosse riuscito a trovare un lavoro abbastanza irrilevante da non impedirgli di condurre una vita ai quattro angoli dell’Europa (cosa che in realtà Marie-Laure contava di fare con o senza di lui).

Il ritorno di Ludovic fu una vera catastrofe per lei. Era stata una vedova impeccabile, ma ritrovarsi a fare la «moglie di un mentecatto», come diceva parlando con i suoi intimi (persone con cui condivideva un’intensa vita sociale), era un’altra cosa. Marie-Laure cominciò a odiare quel ragazzo che fino a quel momento aveva sopportato e forse perfino vagamente amato.

Anche se, a dire il vero, si era stancata abbastanza presto della foga, della passione e del grande amore che Ludovic nutriva per lei. Sì, perché Ludovic amava appassionatamente le donne, amava romanticamente l’amore, forse l’unica arte che praticava con perizia e attenzione. Era focoso e dolce, in una parola adorabile, e tutte le puttane di Parigi (numerosissime), che lo conoscevano da prima, lo amavano ancora teneramente.

Grazie alle cure del dottore del paese, vero e proprio feudo di Henri Cresson, Ludovic si riprese alla grande. Il medico, peraltro modesto, aveva dichiarato fin dal momento dell’incidente che il paziente era a pezzi, affaticato, distrutto, ma di certo non pazzo. E in effetti nessuno notava in lui il minimo segno di nevrastenia o di disturbi funzionali o psicologici. Solo che sembrava impermeabile a ogni sollecitazione e totalmente disinteressato al suo futuro: aspettava qualcosa di cui aveva paura. Ma cosa? Chi? Nessuno del resto se lo chiedeva davvero perché nessuno, in quella casa, pensava ad altri che a se stesso.

Raggiunta quella ridicola scalinata e poggiata una mano stanca sulla balaustra, Marie-Laure fu costretta a saltare d’un balzo i tre gradini, perché un bolide guidato da una mano poco esperta aveva frenato proprio davanti ai suoi piedi, facendo schizzare la ghiaia. Se alla guida ci fosse stato un altro, e non suo suocero, avrebbe protestato o urlato. Da qualche tempo Henri Cresson aveva deciso che il suo autista stava diventando troppo vecchio e che era venuto il momento per lui di rimettersi a guidare: una vera catastrofe per i vicini e una fonte di terrore per gli animali e per i vari conoscenti che incrociava lungo la strada.

«Cristo santo, papà» disse Marie-Laure con voce fredda «ma che fine ha fatto il suo autista?»

«Appendicite… riposo» rispose tutto allegro Henri Cresson scendendo dalla macchina «appendicite…»

«Ma sarà la quarta appendicite quest’anno…»

«Sì, ma lui è contentissimo. Con tutti i sussidi sociali, oltre allo stipendio, se ne sta beato senza fare un bel niente dalla mattina alla sera e resta a letto quando deve, perché ha una paura incredibile della polizia, delle compagnie di assicurazione e di chissà cos’altro.»

«Ma è lei che dovrebbe aver paura.»

«Paura? E di che? Prego, prego, entra pure, cara nuora.»

Marie-Laure non sopportava di essere chiamata «cara nuora», ma Henri non perdeva occasione di farlo, nonostante i rimproveri di sua moglie, l’imponente Sandra, che intanto era riuscita ad arrivare sui gradini della scalinata per accogliere premurosamente il marito, mentre di solito restava rinchiusa in camera da letto.

Sandra Cresson, nata Lebaille, aveva un unico scrupolo: il senso del dovere. Vicina da sempre, per proprietà e per patrimonio, a Henri Cresson, aveva sposato quel vedovo che tutti dicevano triste solo per paura di restare zitella. Si era figurata moglie di un industriale appena un po’ rude e invece si era ritrovata a vivere con un toro scatenato a cui, con suo enorme rammarico, la vita mondana non interessava affatto. Aveva sperato di dare grandi ricevimenti nelle immense stanze della Cressonnade, mentre in realtà doveva limitarsi a evitare i fulminei andirivieni di suo marito in quell’orribile salotto. Sebbene, prima che Sandra diventasse la padrona, le altre donne della casa avevano avuto tutto il tempo di esercitare il proprio potere.

I due fratelli di Henri Cresson erano morti nella guerra del ’39-’40 («Che coglioni» diceva tutto allegro Henri. «Quelli del ’14-’18 sono eroi, ma quelli del ’39-’40!»), le loro vedove avevano levato le tende poco dopo, terrorizzate dal cognato, che peraltro le copriva d’oro purché se ne andassero e lo lasciassero in pace. Ma avevano avuto il tempo di arredare le sale da ricevimento e qualche camera da letto, il che aveva trasformato quella casa, già strana di suo, in un obbrobrio inimmaginabile: tra i caminetti marocchini di una, il gusto spagnoleggiante dell’altra e quei punti esclamativi di marmo piazzati qua e là da Sandra (che aveva sviluppato una smodata passione per l’arte greca), nessuno avrebbe mai osato fotografare quel salotto!

Sandra, dal canto suo, aveva scovato in paese uno scultore, fino a quel momento addetto alle statue funerarie del cimitero, che lei aveva improvvisamente lanciato nella vita artistica e lontana della Grecia e di Roma. Lo aveva incaricato di riprodurre, in varie misure e attenendosi alle sue istruzioni, la Venere di Milo e la Nike di Samotracia, opere che aveva piazzato nell’immenso salotto, alla stregua di plateali gesti di sfida o protesta. Più simile a una statua che a un essere umano, paffuta, massiccia e imperturbabile in qualunque circostanza, Sandra Cresson sarebbe potuta rimanere con le sue statue dalla mattina alla sera, tanto poco si distingueva da loro, fatta eccezione per i vestiti.

«Guarda chi si vede… mia moglie, ora siamo proprio al completo!» esclamò Henri, quasi strappandosi di dosso una sciarpa inguardabile.

«Non capisco di che cosa si stupisce» ribatté Marie-Laure.

«Non mi stupisco perché ci siete, sia tu che lei» disse Henri con fermezza «ma perché io sono ancora vivo in mezzo a due donne così, così… come dire, così energiche, sì, energiche è la parola giusta…»

«E non lo è anche lei?» La voce di Marie-Laure, a forza di voler essere sarcastica, era diventata stridula.

Lasciandosi alle spalle le due donne visibilmente innervosite, Henri si diresse a passo svelto verso l’orribile salotto riuscendo a evitare per un pelo un borsone da viaggio, abbandonato lungo il percorso, al quale nel passare tirò un calcio.

«Ma che cos’è?»

«È di mio fratello. Pensa un po’, caro, mio fratello Philippe è venuto a stare qualche giorno con noi.»

«Ah, bene, c’è il nostro caro Philippe.»

I numerosi difetti di Henri Cresson erano piuttosto assenze di qualità: non era cattivo, ma non pensava mai a essere buono; non era avaro, ma non pensava mai a essere generoso; ed era del tutto indifferente al giudizio altrui. In realtà era piuttosto ospitale di natura, e la presenza di un uomo, di un vero uomo, visto che suo figlio gli sembrava al momento un angelo o un fantasma, lo rincuorava un po’.

«Il nostro caro Philippe… Da quant’è che non lo vediamo? Ah sì, da tre settimane… Spero che stia bene e che non abbia problemi “di cuore”.»

Aveva messo «di cuore» tra virgolette e, dopo una fragorosa risata, entrò nel salotto lasciando le due donne esasperate.

Aveva sposato Sandra poco dopo la morte della moglie, di cui era notoriamente molto innamorato, di cui non aveva mai parlato con nessuno e della cui scomparsa non aveva mai tentato di consolarsi. Aveva «onorato» Sandra, nel senso coniugale del termine, per quindici giorni, in seguito l’aveva un po’ dimenticata e ora le rendeva onore episodicamente. Sandra, di salute cagionevole, era sollevata dalla sporadicità di quegli incontri.

Naturalmente, in quell’angolo sperduto della Turenna, non si era fatto mancare le donne, sicché Sandra aveva saputo fin dall’inizio delle scappatelle di suo marito. Ma stranamente, nonostante fossero frequenti e sempre piuttosto tumultuose, Henri Cresson non aveva mai sfogato con sua moglie quelle sue smanie improvvise. «Saliva a Parigi», come dicevano in quel caso, e ritornava fresco come una rosa e senza dire una parola. Era il minimo, pensava, nei confronti di una donna che non poteva onorare a dovere.

Era anche l’unica forma di rapporto che aveva con suo figlio. Quando Ludovic era «salito a Parigi», per frequentare la HEC, la prestigiosa scuola di studi superiori commerciali, come gli avevano suggerito benché non avesse speranze di riuscire, la sua totale inesperienza con le donne era dovuta soprattutto all’isolamento e agli anni passati chiuso in collegio insieme ad altri poveri ragazzi di campagna. Ebbene, questa totale inesperienza in materia aveva un po’ turbato suo padre, soprattutto quando, in capo a due mesi, aveva ricevuto il conto del fioraio per spedizioni fatte un po’ ovunque, cosa che lo aveva gettato nel panico. Ludovic, nella sua ingenuità, era capacissimo di prendersi una cotta per una ragazza di Parigi e metterla incinta o combinare chissà che altro. Allora il padre era andato a Parigi e aveva scoperto con suo sommo stupore che tutti quei mazzi di fiori e quelle premure erano destinati alle varie prostitute che concedevano i propri favori a suo figlio. Sollevato ma al tempo stesso preoccupato, stavolta per la salute mentale del suo unico figlio, Henri gli aveva spiegato che non si faceva così. Poi a pranzo si era chiesto che cosa ci fosse di male, in fondo, e perché mai suo figlio non avrebbe dovuto mandare fiori a delle donne che gli si erano concesse invece di spedirli a delle ragazzine di buona famiglia che lo respingevano.

«Oh, fa’ come vuoi» aveva decretato alla fine.

Tutto contento, il rampollo continuò quindi con i suoi gesti galanti. Solo in seguito, quando conobbe Marie-Laure, diventò triste: innamorato e triste, più attento alla vita di un’altra persona che alla propria; meno triste per il fatto di non condividere la vita con il suo amore.

Marie-Laure quell’amore non lo apprezzava più di tanto se non come nutrimento dell’ego. Eppure i suoi genitori, Quentin e Fanny Crawley, si erano sempre amati ed erano sempre stati un perfetto esempio di intimità, passione e tenerezza senza ombre. Ma Marie-Laure, a quanto pareva, li disprezzava proprio per questo. E loro istintivamente sembravano quasi evitarla o addirittura averne paura.

Quando Quentin morì in un incidente aereo, Fanny Crawley cadde in uno stato di profonda prostrazione. Scomparve alla vista di tutti, il suo corpo non aveva più una faccia, la sua voce non aveva più un’ombra di gioia, per lei la vita non esisteva più. Costretta a lavorare per mancanza di denaro, fu assunta, grazie all’intervento di alcuni amici, in una casa di moda, in cui a poco a poco, con la sua naturale dolcezza, la sua cortesia e le sue premure, riuscì a garantirsi di che vivere per provvedere a sé e alla figlia. Ma per Marie-Laure non era abbastanza, e di conseguenza Ludovic diventò interessante.

Se lui non mise in relazione i due avvenimenti – la morte dell’uno e l’interesse dell’altra – fu solo perché non volle farlo; anche se Fanny si girò dall’altra parte quando le chiese la mano della figlia; anche se i suoi amici cambiarono subito discorso e gli fecero gli auguri come si fanno a una persona che va all’estero, in Africa, per esempio, a fare il servizio militare. Una persona che prima o poi si sveglierà e si pentirà di quella decisione. Tutte queste cose lui le notò, ma senza rifletterci troppo, perché era pazzo d’amore. E in quel momento Marie-Laure fu abbastanza intelligente, o scaltra, da non lasciarselo sfuggire, da tenerselo stretto ed evitare che un’altra ragazza, un’altra donna mettesse le mani sul dolce, vulnerabile, ricco e nullafacente Ludovic Cresson. Poco amato fin dalla nascita, vissuto lontano dalle donne per tutta la giovinezza, era proprio il genere d’uomo da conquistare senza difficoltà; sognava l’amore come un ridicolo Tristano ottocentesco.

Ma questo romantico abbandono che lo rendeva affascinante agli occhi di molti dei suoi amici gli procurò il disprezzo totale e definitivo di Marie-Laure. La vita era una guerra senza quartiere. Uno dei due doveva prendere le redini e quel qualcuno sarebbe stata lei, lei e soltanto lei. L’amore fisico la disgustava, la annoiava e le faceva paura, anche se Ludovic, che era un amante magnifico, si dava da fare con passione, pazienza e dolcezza, lui che sognava di formare con Marie-Laure una coppia simile a quella dei genitori di lei, una coppia capace di sostegno reciproco, una coppia divisa in due come la mela di Platone, ma nel contempo unita.