3.
«C’è da chiedersi se ci stesse del tutto con la testa», insinuò Estelle.
Dopo un’esitazione, Gauthier si strinse nelle spalle.
«Se il suo notaio dichiara che le cose stanno così, non c’è niente da dire. Era una donna irragionevole, eccentrica e monomaniacale, ma non soffriva di una malattia mentale vera e propria, né di demenza o Alzheimer. No, credo solo che non mi volesse bene perché non ho mai condiviso le sue idee. Le sue manie di grandezza, la sua ossessione per il passato, la sua fissazione per la villa nel bosco e i nostri antenati… tutte queste cose non m’interessavano.»
«Ebbene, non te l’ha perdonato! Al contrario, Anne ha saputo farsi apprezzare, è stata intelligente.»
Perplesso, Gauthier osservò la moglie senza rispondere. Non pensava che la loro figlia avesse coccolato Ariane al solo scopo di diventare la sua erede.
«Anne è sempre stata un po’ estrosa», le ricordò. «Suppongo che l’originalità di Ariane la divertisse. In fondo, questa storia del testamento non ha nulla di sorprendente, diciamo che tra di loro si sono trovate.»
«Se tu la prendi così, va benissimo», sospirò Estelle. «Per quanto mi riguarda, sono un po’ delusa. Di tutta la famiglia, Anne e Paul sono probabilmente quelli che hanno meno bisogno di soldi!»
«Noi ne abbiamo bisogno?» si stupì lui.
Era stati parsimoniosi e previdenti, pertanto, adesso che erano arrivati all’età della pensione, non mancava loro niente. L’appartamento in cui vivevano era stato preso in considerazione sin dall’inizio per la loro «terza età». Vent’anni prima, l’avevano acquistato facendo un mutuo, mentre erano andati in affitto tutte le volte che avevano occupato gli alloggi di servizio forniti dalle diverse scuole primarie che Gauthier aveva diretto. Situato in una bella posizione a Biarritz, sopra il porto dei pescatori, e composto da quattro locali, era un’abitazione accogliente che avevano dovuto solo ritinteggiare quando ci si erano finalmente stabiliti. Gauthier si rallegrava tutti i giorni di quell’investimento intelligente che permetteva loro di avere un tetto e di pensare serenamente al futuro. Lily e Anne erano sposate con uomini dall’ottimo stipendio, Valère e Suki se la cavavano, e Jérôme proseguiva nei suoi viaggi senza chiedere niente a nessuno: insomma, la famiglia stava bene.
«Anne non ricaverà una grossa cifra da quella casa», le fece notare, «è davvero una stamberga invendibile.»
In realtà, non era addolorato per la decisione di Ariane, dato che non erano mai stati intimi. Avendo scarsa considerazione l’uno dell’altra, non avevano cercato di coltivare una finta relazione fraterna. Che al termine della sua esistenza Ariane avesse preferito lasciare i suoi beni alla nipote non era per nulla sorprendente. Ma, apparentemente, Estelle l’aveva presa male. Aveva sperato nell’eredità? No, sua moglie non era venale, Gauthier lo sapeva. Eppure, da quando Anne aveva telefonato, non aveva fatto che brontolare.
«Se avessi ereditato tu», riprese, «non avremmo buttato quei soldi dalla finestra e, dopo di noi, ciascuno dei nostri quattro figli avrebbe ricevuto ciascuno la sua parte. Non ti sembra più giusto?»
«Non c’è giustizia nella scelta del proprio erede! Comunque, non mi va di parlarne tutto il giorno. Vado a comprare il pane e il giornale.»
Continuare a discutere di quell’eredità lo metteva a disagio. Estelle avrebbe finito per instillargli il dubbio, il che sarebbe stato increscioso. Gauthier era sicuro di essere una persona equa, rigorosa, che amava ciascuno dei suoi figli senza fare preferenze. La fortuna era capitata ad Anne? Meglio per lei! Dopotutto, era la sola ad aver trovato simpatica sua zia Ariane, a passare del tempo con lei. Tutto andava per il meglio e non era il caso di dilungarsi oltremodo.
Come sempre dopo la partenza della loro segretaria, Paul e Julien, il suo socio, si attardavano qualche minuto per fare un rapido bilancio della mattinata. Alcuni dei loro clienti preferivano l’uno o l’altro, ma quando tornavano a casa si poteva chiamare indifferentemente entrambi. La domenica, assicuravano il turno di guardia a rotazione, facendo inoltrare al loro domicilio le chiamate della linea professionale; in settimana, ciascuno si prendeva un giorno libero a propria scelta. Andavano d’accordo e si stimavano reciprocamente dall’epoca degli studi, il che facilitava la loro collaborazione e garantiva un buon ambiente di lavoro.
All’inizio, all’apertura della clinica, si erano trovati con poco da fare, aspettando con ansia che suonasse il campanello di ingresso in sala d’attesa, adesso invece erano quasi oberati. Intorno a Castets, per buona parte delle Landes, c’erano solo villaggi e la gente veniva da lontano per consultarli.
«Ho esitato con il vecchio Roméo, il gatto», spiegò Julien, «ma gli ho dato un’altra possibilità. Anche se è allo stremo, non soffre, meglio che si spenga serenamente. Secondo il computer, è il decano dei nostri pazienti, ha vent’anni!»
Anche se nel dirlo aveva sorriso, Paul capì che il collega era a disagio. Julien detestava l’eutanasia e la praticava malvolentieri. Quando doveva fare un’iniezione letale a un cane o un gatto, stava male, si lamentava che non era il suo mestiere e che non aveva studiato per quello. Per quanto Paul lo facesse ragionare, ricordandogli che abbreviare le sofferenze di un animale condannato era un atto caritatevole, Julien si lasciava prendere dall’emozione e si sentiva in colpa.
«In più, con Roméo sarà terribile, la sua padrona gli è talmente attaccata che verserà un mare di lacrime, non voglio nemmeno immaginarlo!»
«Non prenderò il tuo posto», l’avvisò gentilmente Paul. «Se lo facessi tutte le volte, diventerei “l’assassino” ufficiale della clinica e non ci tengo.»
«Lo so.»
Si scambiarono uno sguardo complice, poi, dandogli una pacca sulle spalle, Paul chiese all’amico: «Vieni a pranzo?»
Divorziato da sei mesi, Julien faceva ancora fatica a tornare a casa. Sua moglie se n’era andata portandosi via i figli, due gemelli di sette anni, e anche quasi tutti i mobili. La ragione ufficiale del suo allontanamento era che non sopportava più l’isolamento della campagna, che sognava una grande città e desiderava stabilirsi a Bordeaux per ritrovare lavoro, amici e vita sociale. La verità era più prosaica, difatti aveva conosciuto un commerciante di cui si era innamorata e aveva deciso di seguirlo. Dopo una separazione burrascosa, durante la quale Paul aveva giocato spesso il ruolo di mediatore, c’era mancato poco che Julien abbandonasse tutto. Ma, al contrario di sua moglie, lui adorava la regione ed era rimasto.
«No, non voglio disturbare Anne, andrò al Coco a mangiare un’insalata o un panino.»
«Su, non farti pregare, vieni. Tanto tra un po’ passerai tutte le pause pranzo in spiaggia!»
Julien adorava nuotare, tuffarsi o fare surf, e non appena la temperatura lo permetteva, si precipitava in riva all’oceano, a Saint-Girons, Moliets o Vieux-Boucau.
«Allora ci fermiamo a comprare dei fiori», accettò, seguendo Paul.
Quando arrivarono, Anne aggiunse volentieri un posto a tavola, facendo finta di protestare per i fiori mentre metteva i tulipani in un vaso.
«Sai che hai a che fare con una ricca ereditiera?» scherzò Paul. «Sua zia ha lasciato tutto a lei, fino all’ultimo cucchiaino da tè. »
«Ariane? È la tua occasione!»
«Mi voleva bene», sospirò Anne. «Ma il suo testamento non soddisfa tutti. Mia sorella sostiene che l’ho “manovrata” astutamente e mia madre ha già iniziato a chiedermi che cosa ne farò di “tutto” quel denaro.»
«Le gioie della famiglia! E quel bestione fa parte dell’eredità?»
Julien indicò Goliath che, sdraiato sotto la scrivania di Anne, ormai diventata la sua cuccia, li osservava senza muoversi.
«È bello, vero?» sottolineò Anne con un certo orgoglio. «Ovviamente nessuno lo voleva. Troppo impegnativo, troppo caro da mantenere, troppo grande…»
«Risulta un po’ sproporzionato in casa vostra», ironizzò Julien. «Ma potremmo mettere un annuncio in clinica.»
«No, è fuori discussione, mi ci sono affezionata, lui resta con me.»
Il tono perentorio che aveva usato tradì la sua esasperazione. In quegli ultimi giorni le avevano inflitto troppe riflessioni su Goliath e il testamento.
«È un cane buono», prese tempo Paul. «Sta cominciando ad ambientarsi e Anne lo porta fuori tutti i giorni per fargli fare esercizio.»
«Ho risolto il problema delle passeggiate», dichiarò lei, invitandoli a sedersi a tavola. «Dato che ho diverse cose da smistare nella casa nel bosco, ci trascorrerò i pomeriggi con Goliath.»
«La metterai in vendita?» domandò Julien candidamente.
«Non vedo cos’altro si possa fare», rispose Paul.
Gli occhi bassi sul piatto, Anne si chiese perché il marito rispondesse al suo posto.
«Per il momento bisogna svuotarla di tutti gli effetti personali di Ariane», mormorò. «Poi vedrò.»
Cominciò a mangiare, evitando lo sguardo di Paul. Da quando erano sposati, condividevano tutto, denaro, decisioni, progetti, ed era la prima volta che Anne lo escludeva. Rendendosi conto del silenzio imbarazzato, rialzò la testa.
«Forse potremmo affittarla in attesa che il mercato immobiliare si riprenda», suggerì in tono distaccato.
«Nell’attesa che crolli, piuttosto!» replicò Paul. «A chi pensi di affittare un posto simile?»
«Non lo so… A un artista famoso in cerca di solitudine?»
«Continua a sognare!»
«D’estate si affitta tutto a peso d’oro. La casa di Ariane si trova a soli tre chilometri dall’oceano, e sarebbe perfetta per una famiglia numerosa desiderosa di trascorrere delle vacanze tranquille.»
«Al massimo, riusciremo ad affittarla tre mesi all’anno, mentre dovremo sobbarcarci i lavori di ristrutturazione, i problemi e le tasse!»
Julien intervenne, sentendo salire la tensione tra Anne e Paul.
«Prima di tutto, fatela vedere a degli agenti immobiliari, loro sapranno consigliarvi.»
Paul annuì, accettando il suggerimento, e Anne abbozzò un sorriso.
«Ottima idea. Conosci qualcuno?»
«Prova a Dax, Biarritz, o anche a Mont-de-Marsan. Ma scegli delle grosse agenzie abituate a trattare immobili un po’ particolari. Dopo che mia moglie e i miei figli se ne sono andati, quando non sapevo se partire o restare, avevo fatto valutare la casa da un tizio del posto che non mi aveva per niente convinto. D’altronde, penso sempre a venderla e a comprarmi qualcos’altro per cancellare tutti quei maledetti ricordi!»
Si fermò di colpo, scosse la testa, poi si scusò.
«Ho finito per parlarvi dei miei problemi personali…»
«Non preoccuparti», mormorò Anne. «Sei a casa di amici, puoi dire quello che vuoi.»
Si alzò per andare a prendere il formaggio, un po’ contrariata per essere così suscettibile non appena si accennava a villa Nogaro. Ma non aveva avuto il tempo di decidere niente, né di riflettere davvero su quell’eredità, e si rifiutava di farsi tormentare. Se avesse venduto, che cosa ne avrebbe fatto della somma ottenuta? L’avrebbe messa da parte per Léo? Avrebbe condiviso qualcosa con sua sorella e i suoi fratelli? Non era di certo ciò che aveva sperato Ariane, Anne lo sapeva perfettamente, tuttavia non era obbligata a rispettare delle volontà ipotetiche.
Dopo aver portato in tavola un assortimento di formaggi di capra, si rivolse a Julien.
«Hai ragione, mi rivolgerò a un bravo agente immobiliare!»
Aveva parlato al singolare, senza includere Paul nella sua iniziativa, e si sentì egoista.
«Sei d’accordo?» gli chiese, posando la mano sulla spalla del marito.
«Naturalmente.»
Le prese la punta delle dita, che strinse con affetto.
«Consultane diversi finché resterai sul posto a fare l’inventario di tutto.»
Senza lasciarle la mano, diede un’occhiata all’orologio.
«Dobbiamo sbrigarci, sono già le due e l’agenda degli appuntamenti di questo pomeriggio è piena. Caffè per tutti?»
Spinse indietro la sedia un po’ troppo in fretta, e il gesto fece ringhiare Goliath.
«Niente panico, ragazzone!» disse al cane in tono rassicurante.
Anne lo osservò mentre preparava tre espressi. Quell’uomo non era solo suo marito e il padre di Léo, era anche il suo amante e amico. Pertanto, non doveva sentirsi inquieta o a disagio, qualsiasi cosa fosse successa, Paul sarebbe stato dalla sua parte.
Suki e Valère avevano lavorato tutto il giorno per un matrimonio. La mattina, Suki aveva lasciato il negozio al volante del suo furgoncino, carico di fiori, per andare ad addobbare prima la chiesa, poi la sala del ricevimento, e al ritorno aveva confezionato un bellissimo bouquet per la sposa. Valère glielo aveva messo in mano prima di iniziare il reportage fotografico delle nozze.
Alle otto di sera, si erano ritrovati entrambi al negozio, stanchi ma contenti. I matrimoni rendevano bene e dovevano trovare assolutamente il modo di farne di più.
«Con un evento come questo a settimana, non avremmo più problemi», constatò Suki, svuotando la cassa.
«Non sono in tanti a sposarsi, mia cara!»
Lei lo raggiunse vicino alla saracinesca, lo prese per la vita e gli posò la guancia sul petto.
«Eppure, il matrimonio è qualcosa di meraviglioso», bisbigliò con voce affettuosa.
Essendo alta solo un metro e cinquanta, gli arrivava a malapena alle spalle. Valère abbassò la testa per baciarla sui capelli, quei lunghi capelli neri, lisci e lucidi, che adorava.
«Se soltanto potessimo farci un po’ più di pubblicità, ci faremmo conoscere più in fretta. Per il passaparola ci vuole troppo tempo. Ci servirebbe un annuncio pubblicitario settimanale sui giornali locali, un sito Internet più d’impatto… Sei così brava che bisogna farlo sapere in giro!»
Suki scoppiò nella sua risatina acuta, cristallina.
«La gente parla, Valère. Ricevo complimenti in continuazione.»
«Vorrei comunque che procedesse tutto più velocemente.»
Valère stava pensando a tutte le fatture, ai conti di fine mese saldati per un soffio. Ed era pienamente consapevole che, con il suo lavoro di fotografo, si guadagnava a malapena da vivere. Sul bancone, accanto ai rotoli di nastro che Suki usava per decorare i bouquet, aveva messo ben in vista un mucchietto di biglietti da visita. Ne aveva lasciati anche nelle due boutique di abiti da sposa, ma forse avrebbe dovuto distribuirli anche in tutti i ristoranti di Dax, dai parrucchieri, nei negozi di piatti e di articoli da regalo. Se non l’aveva ancora fatto era perché non voleva ritrovarsi rinchiuso in quella nicchia di mercato dei servizi fotografici matrimoniali e di battesimo. Perché allora non fare il giro dei reparti maternità e proporre di fotografare i neonati? Dov’erano finite le sue ambizioni artistiche, le sue illusioni? Certo, prima di conoscere Suki, aveva spesso trascurato la sua carriera, troppo impegnato a correre dietro alle ragazze e a divertirsi, ma, in ogni caso, nel suo mestiere c’erano tanti aspiranti e pochi eletti. Eletti di cui non faceva parte.
«Sei un sognatore», bisbigliò Suki.
«Ho cominciato a pensare che forse ho sbagliato strada, che ho fatto la scelta sbagliata. Quando ero giovane, avrei dovuto prendere esempio da Paul e fare degli studi più seri. Non veterinaria, naturalmente, non ero uno sgobbone e non avrei mai potuto fare il concorso, ma qualche cosa di meno inconsistente, di meno fantasioso e più sicuro.»
«Ma fare il fotografo è un lavoro serio! E poi tu hai del talento.»
«Non serve a niente se non riesco a farlo fruttare. Nel frattempo, vorrei che tu avessi successo. Bisogna far venire qui la gente perché veda tutto questo…»
Indicò, con un ampio movimento del braccio, il negozio che Suki aveva arredato con la stessa squisita delicatezza delle sue composizioni floreali.
«Sto tornando all’idea di aprire un pub», insistette Valère, «e credo di avere una soluzione.»
Suki l’ascoltò con attenzione, come sempre, già pronta a dargli ragione.
«La banca non ci farà credito, ma forse Anne potrebbe prestarci dei soldi. Ha appena ricevuto una bella eredità, dopo che avrà venduto la casa, avrà un po’ di liquidità a disposizione, di cui non avrà di certo un bisogno immediato. Se le…»
«Valère!»
La fronte aggrottata, Suki lo fissava con i suoi scuri occhi a mandorla.
«Tu non le chiederai niente», scandì in tono piccato.
«Perché? Sono suo fratello, si fida di me e accetterà sicuramente di darci una mano.»
«Contrarre debiti con la famiglia è una pessima idea. Crea problemi.»
«Ma no, dai! Anne non è una persona meschina, inoltre apprezza tantissimo il tuo lavoro. Sarà interessata a investire nella tua attività, credimi.»
«Non se ne parla neanche. Mi vergognerei a chiederle dei soldi in prestito. Nel mio Paese, non ci si comporta così.»
Nata in Giappone, Suki l’aveva lasciato all’età di dieci anni, tuttavia rispettava numerosi precetti che le erano stati inculcati dai suoi genitori.
«Non fare la bambina, Suki. In questo momento abbiamo bisogno di una mano, e Anne sarà d’accordo, vedrai.»
«Non ci penso proprio», dichiarò lei.
«Come sei testarda! Smettila con questo stupido orgoglio.»
«Si tratta di dignità. E mi rattrista constatare che ancora prima che tua sorella abbia ricevuto l’eredità, tu pensi già a estorcergliene una parte.»
Quando Suki si arrabbiava, parlava con una tale freddezza da renderle il viso inespressivo. Valère rimase sorpreso e deluso dalla sua reazione, convinto com’era di aver trovato una soluzione alle loro difficoltà. La parola «estorcere» l’aveva punto sul vivo, ma amava troppo Suki per provocarla ulteriormente e, soprattutto, la conosceva a sufficienza per sapere che non avrebbe ceduto. Insomma, non quel giorno. Forse, presentandole le cose in modo diverso, avrebbe ottenuto il suo appoggio. Per esempio, se la proposta fosse arrivata da Anne.
«D’accordo», sospirò.
Diede un giro di chiave alla saracinesca, spense le luci e uscirono dalla porta sul retro del negozio che dava sul cortile. Aver sposato una donna asiatica così ostinata spesso non facilitava le cose, ma Valère era molto innamorato di sua moglie e molto infelice di non poterla aiutare di più. Lei lavorava dodici ore al giorno, e nei rari istanti di libertà andava da un medico all’altro per riuscire a restare incinta. Valère doveva vegliare su di lei, persino suo malgrado. Si ripromise di sistemare la faccenda con sua sorella prima di riparlarne a Suki.
«Se cenassimo al ristorante anziché rientrare?» le suggerì. «La giornata è stata favolosa, abbiamo il diritto di festeggiare!»
Nonostante tutti i suoi sforzi per comportarsi in modo ragionevole, gli piaceva uscire e divertirsi. Per tutta risposta, Suki gli rivolse il suo sorriso più affascinante, sedotta dalla prospettiva di prendersi una pausa.
«Ma non andremo a dormire tardi», precisò lei. «Promesso?»
Dormire accanto a lei era quello che più gli piaceva, perciò annuì allegramente.
Anche se non aveva ritrovato la sua padrona, Goliath era sembrato pazzo di gioia nel tornare alla villa nel bosco. Non appena sceso dall’auto, era partito a tutta velocità come un cavallo lasciato libero in un prato in un giorno di primavera. Anne aveva deciso di permettergli di allontanarsi, certa che, una volta stanco di correre e di fiutare ovunque, sarebbe tornato.
Approfittando del tempo mite, aprì un po’ le finestre per arieggiare la casa, poi fece un rapido giro del pianterreno. Da dove cominciare? Dopo un paio di minuti di esitazione, si munì di un rotolo di grossi sacchi della spazzatura e decise di salire al piano superiore. Per prima cosa, avrebbe fatto una cernita dei vestiti da donare o da gettare. Ariane aveva mantenuto una certa eleganza fino alla fine della sua vita e il suo ridotto guardaroba era di buona qualità. Per più di un’ora, Anne piegò cappotti, impermeabili, cardigan e camicie. Poi scartò le scarpe, la biancheria e due cappelli da pioggia usati, mise da parte i foulard, i guanti e le borsette. Proprio in fondo all’armadio, scoprì, all’interno di due custodie, due tailleur completamente fuori moda ma firmati da due grandi stilisti. Di certo risalivano all’epoca lussuosa dei suoi matrimoni, in cui spendeva senza pensarci su. Con una stretta al cuore, Anne trovò anche una giacca di pelliccia che doveva essere stata meravigliosa ma che sembrava infestata dalle tarme.
D’un tratto, il rumore di un motore la interruppe, ricordandole che aveva convocato un agente immobiliare. Scavalcando i sacchi della spazzatura, si precipitò giù. Come previsto, il visitatore era rimasto in auto, poco desideroso di affrontare Goliath, che gli stava girando intorno. Sfoggiando l’espressione più affabile che poté, si diresse verso la portiera dal finestrino abbassato.
«Anne Bartas? Buongiorno, sono dell’Agence des Landes. Aveva preso appuntamento con uno dei miei agenti, ma ero nei paraggi ed essendo curioso di natura…»
Con prudenza, l’uomo le tese una mano.
«Hugues Cazeneuve. Posso uscire dall’auto senza che la Bestia del Gévaudan* mi divori?»
«Sicuro.»
Non ne era del tutto certa, ma insomma, se Ariane era stata capace di farsi obbedire dal cane, poteva riuscirci anche lei.
«Goliath, stai giù», gli ordinò, per ogni evenienza.
«Magnifica… All’inizio doveva essere magnifica!»
«E adesso è brutta?»
«No, solo tenuta male. Niente di grave. Quant’è la superficie totale della tenuta?»
«Sono quattro ettari di bosco. La casa si trova proprio al centro.»
«È una proprietà di famiglia?»
«Ehm… Sì, esatto, ma è una storia complicata, che a lei non interesserà sicuramente. Di fatto, l’ho appena ereditata e non credo di riuscire a tenerla.»
«Altri eredi?»
«No. Se mai dovessimo aprire una trattativa, lei avrebbe a che fare solo con me.»
«Ha un’idea del prezzo che vorrebbe chiedere?»
«Dovrà dirmelo lei. Venga, gliela faccio vedere.»
«Fantastico!» esclamò l’uomo, ridendo. «Di solito sono io a pronunciare quella frase perché sono io a fare da guida. Cioè, non faccio più molte visite, lascio che a occuparsene siano i miei agenti, ma preferisco essere io a valutare le proprietà quando sono un po’… fuori dal comune. A dire il vero, le informazioni che ci ha dato per telefono hanno risvegliato la mia curiosità. Non ci sono molte grandi proprietà in vendita così vicine al litorale.»
Era un tipo simpatico e affascinante, senz’altro per deformazione professionale, e sapeva subito mettere l’interlocutore a proprio agio. Il completo leggero, di ottimo taglio, la camicia bianca senza cravatta e i mocassini gli conferivano un’eleganza informale. Il sorriso franco, il viso aperto e gli occhi azzurri contribuivano a farne un uomo piuttosto seducente, ma Anne era interessata unicamente alla sua opinione di esperto immobiliare. Lo precedette all’interno della casa, che visitarono insieme.
«Bene!» disse l’agente quando furono di ritorno nell’atrio. «Ora che mi sono fatto una prima impressione, rifarò il giro prendendo delle misure, se per lei non è un problema. Sarà una cosa rapida, mi sono portato il telemetro laser.»
Anne lo lasciò solo perché potesse spostarsi come preferiva. Finora, non aveva espresso alcun commento a parte l’osservazione iniziale su come fosse stata «tenuta male». Mentre lo aspettava, Anne si chiese che cosa avesse voglia di sentire. Che l’esperto fissasse un buon prezzo di partenza per la messa in vendita? O, al contrario, che sostenesse che non era il periodo ideale per mettere quel genere di prodotto sul mercato, che d’altronde quella casa era decisamente invendibile?
Andò in cucina a preparare del caffè dato che non aveva nient’altro da offrire all’agente immobiliare. Goliath era nel suo solito posto, quello che occupava quando c’era Ariane, sdraiato vicino all’armadietto delle bottiglie.
«E tu, hai voglia di vendere?»
Le orecchie dritte, il cane la fissava con intensità e lei si chinò ad accarezzarlo.
«No, lo so che non vuoi…»
Aprì una delle credenze e osservò con attenzione la pila di stoviglie. Come nel guardaroba, c’era qualche bel pezzo di altri tempi, cinque bicchieri in cristallo di Boemia, una caraffa Lalique, i resti di uno splendido servizio in porcellana, un servizio di posate in argento massiccio quasi completo.
«Non muoverti, Goliath», intimò al cane sentendo i passi di Hugues Cazeneuve.
«Eccomi, ho finito», annunciò l’agente sulla soglia della stanza. «Posso entrare?»
«Si accomodi. Non la mangerà. Caffè?»
«Volentieri.»
Si sedette di fronte a lei, sempre sorridendo, senza immaginare fino a che punto Anne trovasse strano vederlo al posto di Ariane. In quella cucina, Anne non aveva mai avuto altro interlocutore che sua zia.
«Be’, è una gran bella grana quella che si è ritrovata tra le mani!» cominciò lui. «Il tetto terrà ancora qualche anno, ma non si può dire che sia in buono stato. All’interno, le pareti non vedono una mano di pittura da un bel pezzo e, soprattutto, gli impianti elettrico e idraulico avrebbero bisogno di essere messi a norma. Tutto questo costa, e un eventuale acquirente ne terrà certamente conto. Quello più problematico è l’aspetto ambientale. E di questi tempi… Nessuna coibentazione, né doppi vetri, una caldaia a gasolio obsoleta corredata da una stufa a legna: questo tipo di lavori scoraggerà più di uno.»
«Sì, ne sono consapevole», ammise Anne con calma.
Si rifiutava di lasciarsi impressionare da quella constatazione. Tutto ciò che l’agente aveva detto era per lei un dato di fatto. Certo, la villa era vecchia, in cattivo stato, non a norma, tuttavia possedeva altri punti di forza.
«Che la casa sia troppo grande non è uno svantaggio», aggiunse l’uomo, come se volesse rimediare. «Ci sono dei veri appassionati. Si potrebbe pensare di trasformarla in un bed and breakfast, va di moda. Oppure nella residenza estiva per una famiglia numerosa. È un mercato limitato, però esiste. Gente ricca e alla ricerca di qualcosa di unico potrebbe amare un posto come questo, investendo molto in una ristrutturazione però plasmandola secondo il proprio gusto.»
«Ma dove trovare clienti di questo tipo?»
«Io posso farlo! Perché ho un vantaggio rispetto ai miei concorrenti, dispongo di diverse agenzie. Una a Dax, quella che ha contattato lei, una a Biarritz e una a Bayonne. Il mio raggio d’azione è ampio!»
Si mise a ridere, ma si bloccò subito vedendo che Anne non lo imitava.
«Mi dica una cifra», gli chiese soltanto.
Era quello che voleva sapere perché tutti le avrebbero fatto quella domanda.
«Prima dovrei rifletterci su un po’.»
«No, subito. Mi dia una fascia di prezzo, se preferisce, ma ho bisogno di farmi un’idea.»
Senz’altro divertito dalla sua testardaggine, l’agente le rivolse un sorriso disarmante.
«D’accordo… A voler essere ottimisti, fra i trecentocinquanta e i quattrocentomila euro. Forse di più, ma ci vorrà del tempo. Se invece ha fretta, gliela vendo per trecentomila prima dell’estate. Con i quattro ettari tutt’intorno e la spiaggia a cinque minuti, rimane una proprietà di enorme valore da queste parti.»
Durante il breve silenzio che scese tra di loro, Goliath si alzò, si stiracchiò e lasciò la cucina. Anne lo seguì con lo sguardo, sempre pensierosa.
«Ora le chiederò di affidarmi l’incarico in esclusiva della vendita», riprese Hugues, dopo qualche istante, «almeno per tre mesi. Sono disposto a darmi parecchio da fare per trovare un acquirente e non voglio avere dei colleghi tra i piedi né accorgermi che ho lavorato per niente. Una casa si brucia subito sul mercato se viene vista da troppe persone.»
«Ho bisogno di pensarci», dichiarò Anne, alzandosi.
L’uomo la fissò con aria sorpresa, poi fece una smorfia.
«Che cosa si aspettava? È delusa dal prezzo?»
«No… Ma questa eredità è una cosa molto recente e… Mi conceda quarantott’ore, la richiamerò.»
Probabilmente Hugues credeva che lei avesse già contattato altre agenzie perché annuì, rigido. Il tempo di riaccompagnarlo all’auto, e si era ripreso, ritrovando il suo sorriso affascinante.
«Ci rivedremo, ne sono certo!» pronosticò in tono allegro.
Anne ne dubitava, ma giudicò opportuno non dirlo. La cifra che le aveva comunicato le sembrava enorme, tuttavia Ariane doveva averne avuto un’idea precisa perché aveva lasciato denaro a sufficienza per permettere a sua nipote di pagare la tassa di successione senza essere obbligata a vendere. E questo imponeva ad Anne di fare una scelta.
Il pomeriggio volgeva al termine, le ombre degli alberi si allungavano a dismisura. Grazie a Goliath, Anne non era per nulla angosciata, non si sentiva sola. Avrebbe volentieri finito di smistare gli abiti di Ariane prima di passare all’inventario dello studio, ma doveva tornare a casa, altrimenti Paul si sarebbe di nuovo preoccupato. Prima di andare, aprì la porta che portava in cantina. Non ci era mai scesa e provava una vaga curiosità per quell’unica parte della casa che non conosceva. La luce lungo gli scalini di pietra era tenue come negli altri locali, Anne tenne una mano appoggiata alla parete lungo la discesa piuttosto ripida. In basso, si ritrovò in un grande ambiente sormontato da una volta, con qualche ripiano impolverato, sui quali erano allineate una cinquantina di bottiglie ricoperte di ragnatele. Dunque era qui che Ariane veniva a prendere quei vini straordinari che serviva durante le rare cene alle quali aveva invitato lei e Paul. Da dove venivano quelle bottiglie così costose? Erano sopravvissute a uno dei suoi matrimoni e l’avevano seguita fin lì?
Anne rimase sovrappensiero per qualche istante, poi risalì senza toccare nulla.
«Goliath, ce ne andiamo! Torneremo domani, e dopodomani, e per tanti altri giorni ancora…»
Quella casa l’aveva conquistata e non ne capiva il motivo. Era il piacere di esserne la proprietaria? Prima di partire, diede un’ultima occhiata alla facciata, cercando di guardarla con gli occhi di Hugues Cazeneuve. Era una gran bella villa.
Esasperata dalle domande del marito, Lily alzò gli occhi al cielo.
«Forse non te ne rendi conto, ma il costo della vita è aumentato!»
«Il 20 di tutti i mesi hai bisogno di un extra», le fece notare.
«Le ragazze non sono più delle bambine, costano di più. Gli abiti alla moda, il parrucchiere, il trucco, le uscite, i dvd, la paghetta, e tutto il resto.»
«Basta! Basta!» protestò Éric ridendo. «Che cosa succederà quando andranno alle superiori? Va bene, aumenterò il bonifico, okay?»
Ogni mese lui le versava una somma che avrebbe dovuto coprire le spese della famiglia. Ma Lily era una spendacciona di natura e non aveva mai soldi a sufficienza. Éric non ci badava troppo perché guadagnava bene, tuttavia si rifiutava di aprire un conto comune per evitare le brutte sorprese e i litigi che ne sarebbero certamente scaturiti.
«Qualche volta ho la sensazione di essere una tua dipendente», dichiarò lei in tono acido. «Mi versi uno stipendio, e a forza di insistere, me lo aumenti… Fare la casalinga non valorizza di certo!»
Éric conosceva a memoria quelle recriminazioni, ma non cedeva. Lei lo aveva minacciato più volte che si sarebbe trovata un lavoro, eppure sapeva che sua moglie non ne aveva nessuna voglia e che la sua situazione le andava benissimo. Poteva darsi che crescere le loro figlie e dedicarsi alla casa fosse un’attività a tempo pieno, ma non è che lui non facesse nulla tutto il giorno nel suo studio dentistico.
«Mia sorella è proprio fortunata», aggiunse Lily. «Adesso non avrà più bisogno di chiedere l’elemosina a Paul!»
Quel commento suscitò una certa perplessità in Éric. Anne non aveva bisogno di «chiedere l’elemosina», il suo lavoro di commercialista le procurava delle entrate.
«Anche a me sarebbe piaciuto ereditare. Ma per questo, sarei dovuta andare a prendere il tè con i pasticcini a casa di zia Ariane. Grazie tante! Non sono venale fino a questo punto.»
«Non credo che Anne lo sia», replicò lui, un po’ più seccamente di quanto avrebbe voluto.
Non era la prima volta che Lily ne parlava. Sembrava avesse digerito male il testamento della zia Ariane, come tutta la famiglia Nogaro, d’altronde. Éric invece se ne fregava e avrebbe apprezzato che sua moglie facesse altrettanto.
«Con quell’aria da santarellina, Anne sa fare bene i suoi interessi. È la mia sorella minore, la conosco, le piace sognare, ma ha i piedi ben piantati a terra. Non ci credo neanche per un secondo che le interessassero le storie dei resinatori che Ariane le raccontava.»
«Non dire sciocchezze», sospirò il marito. «Parliamo della storia di tutte le Landes, e anche dei vostri antenati. Capisco che Anne…»
«L’ingenuità maschile!» tuonò Lily. «Se solo avessi immaginato che cosa mi avrebbe procurato, avrei fatto anch’io quella messinscena: “Parlamene ancora, cara zia Ariane…”»
S’interruppe perché Éric la stava fissando senza la minima indulgenza.
«Non ti facevo così meschina. A te quella donna non piaceva, perciò trovi incredibile che tua sorella abbia potuto provare un qualche affetto per lei.»
«Non piaceva a nessuno, nemmeno a mio padre! Deve pur esserci un motivo, no?»
Stavolta arrabbiata sul serio, Lily lasciò il salotto a grandi passi, sbattendo la porta con violenza. Un minuto dopo, Éric la sentì chiamare le figlie in tono furioso, reclamando il loro aiuto per preparare la cena. Ma che cosa le stava succedendo? Non le mancava niente, com’era possibile che l’eredità della sorella la gettasse in quello stato? Certo, lui si era dimostrato un po’ troppo drastico, le aveva persino rivolto delle parole un po’ dure, ma non era il loro primo litigio. Quei piccoli battibecchi erano privi di conseguenze, facevano parte della loro vita di coppia e non impediva loro di andare d’accordo. Più o meno… Éric era molto legato a Lily. Stava forse attraversando la crisi dei quarant’anni? Forse il testamento era solo il pretesto per lasciar venir alla luce un malessere latente. Poteva aiutarla a sentirsi meglio? Quando la sera rientrava dal lavoro, desiderava solo un po’ di pace. La pace di una casa tranquilla. Era chiedere troppo?
Per coprire le urla di una litigata tra le sue figlie, proveniente dalla cucina, afferrò il telecomando e, non appena trovò un telegiornale, alzò il volume.
Paul riprese fiato, le braccia spalancate. Con la testa di Anne appoggiata alla spalla, non aveva nessuna voglia di muoversi. Stavano benissimo così, sdraiati uno di fianco all’altra, privi di energie, con quella sensazione di spossatezza appagante che seguiva l’amore. Deglutì due volte, la bocca secca, prima di parlare.
«È stato… wow!» mormorò.
La sentì ridere silenziosamente contro di lui. Era sempre allegra, dopo. Allegra e affamata.
«Vado a prepararmi qualcosa da mangiare», dichiarò lei. «Vuoi qualcosa anche tu?»
«Sì.»
Il genere di picnic notturno che si regalavano durante la settimana, da innamorati, approfittando dell’assenza di Léo. Anne raccolse la camicia di Paul, indossandola prima di uscire, cosa che lo fece sorridere. Allegra, affamata e pudica! Udì il rumore della doccia, seguito da quello della porta della cucina. In quella piccola casa si sentiva tutto. Avevano privilegiato troppo la coibentazione esterna a discapito dello spessore delle pareti divisorie.
«Il signore è servito!» annunciò Anne, tornando con un vassoio.
Aveva portato un bicchiere di Tursan, da cui bevvero a turno, così come una vaschetta di pâté d’anatra che ricordava loro le serate trascorse sulla spiaggia durante la loro giovinezza. All’epoca, Paul era già molto innamorato di Anne, e tredici anni di matrimonio non avevano affievolito i suoi sentimenti.
«Che cosa hai deciso di fare con quell’agente immobiliare? Pensi di affidargli l’esclusiva?»
Anne gli aveva raccontato della visita di Hugues Cazeneuve, ma non sembrava molto entusiasta nonostante la cifra – una vera sorpresa! – annunciata.
«Non lo so. Non sono ancora sicura di voler…»
«Fanne venire degli altri se questo non t’ispira fiducia.»
«È sicuramente competente! Dirige tre agenzie ed è certo di trovare un acquirente. Ma… ecco, pensavo che forse non dovremmo vendere.»
Apparentemente sollevata di aver detto quello che pensava, abbozzò un sorriso imbarazzato.
«Non venderla?» ripeté lui, stupito. «E che cosa dovremmo farne?»
«Potremmo rifletterci.»
«Riflettere su cosa?»
«Non ti ci vedresti a vivere laggiù?»
Il suo tono speranzoso sconcertò Paul. Sua moglie ci stava pensando sul serio?
«No, per niente», rispose in tono categorico. «Non sono molto attaccato alla nostra casa, che è un po’ piccola, te lo concedo, ma è molto confortevole e non ci costa quasi nulla. Se hai voglia di cambiare, perché no? Tuttavia villa Nogaro non mi pare una scelta saggia.»
«Non l’ho scelta io, Paul, mi è piovuta dal cielo. E, anche se può sembrarti strano, si sta benissimo laggiù. Quando andavo a trovare Ariane, provavo già questa sensazione di serenità, di completezza.»
«Stai scherzando? Io ricordo certe cene a casa sua davvero…»
Esitò sulla parola. «Sinistre?» Non proprio. C’era la bizzarra personalità di Ariane, i piatti spaiati, le candele nei grandi candelabri che creavano un’atmosfera d’antan, un po’ irreale ma non sgradevole. Non si era mai preso il tempo di esaminare nei particolari l’interno della casa, sempre sprofondata nella penombra, tuttavia ne apprezzava i dintorni, la strada attraverso la pineta e l’arrivo incantato nella radura. Un luogo forse seducente, ma decisamente inabitabile.
«Cara, che ti succede?» le domandò, tendendole una mano.
«Mi abbandono ai sogni», ammise lei con amarezza, come se lui la obbligasse a rinunciare a tutte le sue illusioni.
«Ma qual è il tuo sogno? Legarci una simile palla al piede?»
«Ascolta, Paul, io non ho mai avuto qualcosa che fosse completamente… mio. In famiglia abbiamo sempre vissuto ammucchiati gli uni sugli altri, perché eravamo in sei in alloggi di servizio senz’anima in cui non ci sentivamo davvero a casa e che non ci disturbavamo ad arredare. Non ero infelice, per niente, ma fantasticavo su tutte le grandi case che vedevo. A quindici anni, qualche volta mi regalavo una di quelle riviste carissime, su carta patinata, con dimore straordinarie. Durante i miei studi a Pau, ho vissuto in un minuscolo monolocale, abbandonando tutti i miei sogni. Quando tu e io abbiamo costruito questa casa, abbiamo fatto i conti con i mezzi che avevamo a disposizione all’epoca, avevi appena aperto la clinica veterinaria e aspettavo Léo, non potevamo fare follie. Ma oggi le cose vanno bene, e sono molto tentata dall’idea di permettermi un colpo di testa. L’occasione fa l’uomo ladro perché non mi aspettavo di ereditare la casa nel bosco, non lo speravo nemmeno. In realtà, non ci pensavo proprio, perché la logica voleva che fosse papà a ereditarla e a sbarazzarsene subito. Ma è andata diversamente, e vedo una porta aprirsi su un altro orizzonte. Perciò, sì, ho ricominciato a sognare. Se non lo confessassi a te, con chi altri dovrei parlarne? Sai benissimo che nella mia famiglia mi darebbero della pazza. Anche tu?»
«No. Finché sei consapevole che è un sogno impossibile da realizzare.»
«Perché? La casa mi appartiene, è reale.»
Paul si trattenne dal rispondere perché adesso era di pessimo umore. La sua vita gli andava bene così com’era, non desiderava rivoluzionarla, tuttavia aveva capito che Anne non era soddisfatta. Aveva ammesso che casa loro non le piaceva poi così tanto e non se n’era reso conto fino ad allora. Persino conoscendo il suo estro, il suo bisogno di evadere dai sentieri battuti e il suo gusto per l’avventura, non capiva perché volesse fare qualcosa di così stravagante.
«Ciò che è reale», finì con il replicare, «sono anche tutti i costi inerenti a una casa di quelle dimensioni. Non ho voglia di ritrovarmi di nuovo con dei debiti sulle spalle.»
«Hai solo trentotto anni, Paul! Ti sei rassegnato a non tentare niente di nuovo fino alla pensione? Invecchieremo e moriremo qui?»
Invece di ribattere a quelle domande, scelse un’altra direzione da cui attaccare per dissuaderla dal suo assurdo progetto.
«Ti ricordi che tuo padre, all’età che ha oggi Léo, si annoiava a morte in quella casa?»
«Ma non ha niente a che vedere con la situazione attuale! Léo ha un computer e tutti i mezzi di comunicazione immaginabili. Appena possibile, ovunque abiteremo, avrà uno scooter. E ti rammento che Léo adora nuotare e fare surf, potrebbe raggiungere la spiaggia in bicicletta. Inoltre, ama la natura, i grandi spazi, e avrebbe il posto per ricevere tutti i suoi amici durante il weekend. Perciò, non usare la scusa di Léo come uno spauracchio, di’ piuttosto che non vuoi spostarti. E comunque, non avresti tanta strada da fare per raggiungere la clinica, è a meno di venti chilometri.»
«Farli quattro volte al giorno è parecchio!»
Paul lottava, perché d’un tratto la scopriva molto più determinata che all’inizio della loro discussione.
«Anne, torna sulla terra», la supplicò in tono pressante. «Non ti rendi conto della voragine finanziaria che sarebbe.»
«Ma anche un buon investimento. Vendendo qui, potremmo fare dei lavori là. Non tutti insieme, poco alla volta. Alla fine, avremmo una proprietà splendida!»
Anne cominciava a entusiasmarsi troppo, a crederci davvero. Per la prima volta, Paul si sentì escluso dalla vita di sua moglie, dalle sue aspirazioni, dal suo futuro, quando invece avevano condiviso tutto felicemente dal giorno del loro matrimonio. Spaventato da una tale divergenza tra di loro, fece lo sbaglio di impuntarsi.
«In ogni caso, sarà senza di me», dichiarò.
Si accorse troppo tardi che quello che aveva appena detto non era soltanto un rifiuto, appariva decisamente come un ricatto. Anne gettò sul vassoio il crostino con il pâté, si alzò e uscì senza una parola. Sconfortato, guardò la porta chiudersi – Anne non l’aveva nemmeno sbattuta – e si rese conto che la questione restava in sospeso. Non avevano risolto il problema, non avevano finito di affrontarlo.
Prese il bicchiere di Tursan e lo svuotò in un sorso. Lui sempre così calmo, così moderato, perché si era lasciato sfuggire quel «senza di me» tanto definitivo?
«Perché non voglio andarci», borbottò a denti stretti.
Non avrebbe nemmeno voluto risentirne parlare, ma, conoscendo Anne, non si faceva illusioni. Fino a quel momento, avevano vissuto in modo molto assennato, molto convenzionale, e senza dubbio sua moglie aveva dovuto sforzarsi per adeguarsi a quello stile di vita. Nel corso degli anni, si era più o meno adattata ai desideri di Paul, ma adesso l’opportunità offerta dalla sua eredità le faceva venir voglia di evadere. Come avrebbe fatto a convincerla che ciò che lei considerava «un’avventura» era in realtà un’enorme sciocchezza? E se non ci fosse riuscito, che cosa sarebbe successo? Che cos’altro aveva da proporle? Quale via di mezzo li avrebbe messi d’accordo?
Sedendosi sul bordo del letto, si mise in ascolto, ma la casa era silenziosa. Anne stava lavorando sui suoi libri contabili per non dover tornare a dormire accanto a lui? Si era accorto che aveva raddoppiato il suo impegno, mettendosi davanti al computer già all’alba, dopo aver preso il caffè: in questo modo poteva trascorrere tutti i pomeriggi a casa di Ariane. Cioè, a casa sua ormai.
Si alzò, s’infilò i boxer. Fare il broncio non serviva a niente, ma nemmeno riprendere a discutere. Non subito, se non altro. Si avvicinò alla finestra, mettendosi le mani a lato degli occhi per guardare fuori. Un quadrato di luce si stagliava sul piccolo prato, proveniente dal soggiorno. A parte quello, ovviamente, non c’era nient’altro da vedere, a Castets la vita notturna era inesistente.
Con un sospiro rassegnato, andò alla porta, l’aprì senza far rumore. Anne non era seduta davanti al computer a lavorare, ma era inginocchiata sotto la scrivania intenta ad accarezzare la testa di Goliath.
«Cane fortunato…»
Anne si voltò e gli sorrise.
«Gli sto promettendo mari e monti», disse, in tono enigmatico.
Paul rimase immobile, domandandosi se si trattasse di una frase innocua o di una minaccia.
* La Bestia del Gévaudan era un criptide – un animale la cui esistenza è sostenuta da tradizioni e leggende – che ha terrorizzato le contrade del Gévaudan (oggi Lozère) tra il 1764 e il 1767. [N.d.T.]