XIX.

Priscilla tornò a casa profondamente costernata. Finora tutti i suoi pretendenti l’avevano avvicinata con le dovute cerimonie, timidamente, tramite il padre; e noi sappiamo bene come non fossero mai riusciti ad avvicinarsi granché. Ma eccone uno che, se da sano era piuttosto timido, in circostanze che avrebbero reso mansueti i più era decisamente temerario. Le aveva fatto la proposta di matrimonio abbigliato in una veste da camera di flanella azzurra, e Priscilla avvertiva che lui non avrebbe potuto umiliarsi oltre. “Deve avere un animo grande” continuava a ripetersi durante il tragitto verso casa, “sì, davvero grande”. E le sembrava inutile asciugarsi le lacrime perché tanto ne sgorgavano sempre di nuove.

Era addolorata per Tussie e per sua madre. Oh, cosa aveva combinato? Sentiva di aver fatto qualcosa di male, ma come, se non semplicemente esistendo? Di sicuro non poteva fare a meno di esistere. Ma senza dubbio aveva reso infelici due anime buone: una lo era già; l’altra non poteva immaginare quanto lo sarebbe stata tra poco. Avrebbe dovuto saperlo, considerarlo, prevederlo. Tra tutte le persone della terra, lei più di ogni altra avrebbe dovuto andarci cauta con i giovanotti che la credevano della loro stessa classe. Sì sentì piena di rimorso e tristezza. Sapeva bene di non potere fare a meno di esistere, ma in qualche oscuro anfratto della mente, un anfratto che lei non si dava mai pena di rischiarare con la luce di un’attenta autocritica, sapeva bene che non sarebbe dovuta esistere a Symford. Era solo perché si trovava lì, fuori dal suo ambiente, in un luogo in cui non aveva alcun diritto di abitare, che si erano verificate quelle scene strazianti con i giovanotti del posto.

A Fritzing, poi, non sarebbero sfuggiti i suoi occhi rossi, e avrebbe voluto sapere cosa fosse successo; possibile le toccasse già raccontargli, dopo solo due giorni e per la seconda volta, di un giovane che del tutto involontariamente lei aveva portato alla sventura? Chissà se Fritzing si sarebbe arrabbiato. Non riusciva mai a prevederlo. Chissà se, mosso dall’unico pensiero del rispetto a lei dovuto in quanto altezza granducale, lo avrebbe considerato un insulto e avrebbe sfidato a duello anche Tussie?

La visione del povero Tussie debole, febbricitante, sprofondato tra i cuscini e avvolto nella flanella, diventato oggetto di sanguinari messaggi di sfida da parte di Fritzing, ebbe l’effetto di far sgorgare lacrime ancor più copiose. In quel momento sentiva che Fritzing la metteva a dura prova. La caricava del peso di volerle a tutti i costi togliere ogni peso. La caricava del peso di ridondanti raccomandazioni su quanto priva di pesi lei avrebbe dovuto essere.

Era ammirevole, altruista, devoto; lei però pensava che a volte si arrivava a essere addirittura troppo ammirevoli, troppo altruisti, troppo devoti. In breve, la mente di Priscilla era in subbuglio, e l’unico raggio di luce che riusciva a vedere – un raggio molto fioco – era che, se non altro per il momento, Tussie era contento. L’atteggiamento di sua madre, invece, era doloroso e angosciante. Ora aveva smesso di rivolgersi a lei con tutti quei «Mia cara» e le altre gentilezze. Era rimasta sulle scale a guardarla piangere chiusa in un silenzio spietato, e solo alla fine, con voce altrettanto spietata, aveva detto: «Tutto questo è molto crudele».

Priscilla si sentiva sopraffatta dalle difficoltà della vita. Il mondo era troppo per lei, decisamente troppo. All’entrata del villaggio, mandò indietro la carrozza degli Shuttleworth e andò a sedersi per un po’ al capezzale di Mrs Jones per lasciare che il rossore agli occhi si attenuasse prima di tornare da Fritzing. Mrs Jones fu così felice di vederla, così prodiga di lodi per la sua bontà e altruismo che subito e per l’ennesima volta Priscilla provò vergogna di sé e di ogni sua azione.

«Ma io non sono altruista, e neppure buona» disse nel sistemare il copriletto dell’anziana donna.

Mrs Jones se ne uscì in una risatina sommessa. «Tesoro bello» fu il suo unico commento.

«Non penso di essere bella, e so di non essere un tesoro» rispose Priscilla piuttosto infastidita.

«Oh, se lo siete» mormorò Mrs Jones in tono conciliante.

Priscilla capì che era inutile stare a discutere, perciò prese la Bibbia che era sempre sul comodino e cominciò a leggere a voce alta. Continuò a leggere finché entrambe si furono calmate. Mrs Jones era piombata in un sonno evidentemente saporito, lei si sentiva riappacificata. Poi smise di leggere e rimase per qualche tempo con la Bibbia aperta in grembo a osservare la vecchia, sentendosi l’animo colmo di parole serene e consolatorie, chiedendosi come ci si sentiva quando si era così vicini alla morte. Pensò che non fosse troppo brutto scivolare via tranquillamente nella stanza soleggiata, senza suoni a infrangere la pace se non il ticchettio dell’orologio che batteva gli ultimi minuti e all’esterno i passi occasionali di un viandante ancora indaffarato a vivere.

Che meraviglia avere chiuso con tutto quanto, lasciarsi tutto alle spalle, tutto già sistemato, vissuto, sopportato. Le gioie travolgenti, così come le sofferenze, tutte finite; i dolori brucianti e le felicità, tutte vissute; ora, finalmente, la sera, il sonno. Nei pochi giorni da che la conosceva, Priscilla aveva capito che la vecchia si avvicinava sempre più alla fine. Giaceva sul cuscino, talmente minuta e leggera da non schiacciarlo nemmeno, e la sua ora sembrava davvero imminente. E com’era gentile la morte a cancellare i segni di quella che doveva essere stata un’esistenza squallida, iniziata molti anni addietro con i consueti grossolani piaceri e le egoistiche speranze; com’era gentile a lasciare che alla fine lo spirito splendesse dolce e radioso.

Sopra la mensola del camino c’era una fotografia di Mrs Jones assieme al marito, scattata in occasione delle nozze d’argento; doveva avere avuto attorno ai quarantacinque anni; com’era gentile la morte, pensò Priscilla, facendo correre lo sguardo dall’immagine alla figura sul letto. Fece un sospiro leggero e si alzò. La vita le si presentava davanti come una scala infinita sui cui ripidi gradini, uno dopo l’altro, avrebbe dovuto arrampicarsi; e con qualsiasi tempo, sempre più flagellata, sempre più coperta di vesciche a ogni piolo. Guardò mesta la figura nel letto, e fece un altro lieve sospiro. Poi scivolò fuori dalla stanza e chiuse la porta senza far rumore.

Camminò verso casa assorta nei suoi pensieri. Mentre risaliva la collina, all’improvviso Fritzing emerse dal cottage per lasciarsi andare a una serie di movimenti così bizzarri e complicati da farle pensare a una danza disperata sulla porta di casa. Lo guardò sbalordita e affrettò il passo. Fritzing faceva strani gesti, la faccia era pallida e aveva i capelli così ritti sulla testa da sembrare uno spazzolone.

«Ma cosa diamine...» esordì una stupefatta Priscilla non appena fu abbastanza vicina.

«Vostra altezza, sono stato derubato» gridò Fritzing. Gridava talmente che avrebbe potuto sentirlo tutta Symford.

«Derubato?» ripeté Priscilla. «E di cosa?»

«Di tutto il mio denaro. Tutto quello che avevo... che avevamo per vivere».

«Sciocchezze, Fritzi» rispose Priscilla; ma impallidì un po’. «Non stiamo qui fuori» aggiunse. Lo condusse in casa e chiuse la porta che dava sulla via.

Lui l’avrebbe lasciata aperta e avrebbe gridato la propria disgrazia ai quattro venti, incurante di qualunque altra cosa sotto il cielo tranne la propria sventura. Concitato, aprì il cassetto dello scrittoio. «Li avevo lasciati qui dentro, in questo portafoglio, che ora è vuoto. Ieri c’erano. Ieri sera erano ancora qui. E adesso sono spariti. Devono essere stati dei furfanti venuti da fuori. O forse, ben più ignobile, furfanti dall’interno. Sto pensando a una capace di qualunque cosa... Annalise...»

«Fritzi, sono stata io a prendere una banconota da cinque sterline dal cassetto ieri sera, se è quella che ti manca».

«Voi, vostra altezza?»

«Per pagare la ragazza a giornata. Tu non c’eri. E non sono riuscita a trovare niente di più piccolo».

«Gott sei Dank! Gott sei Dank!» esclamò Fritzing per la gioia scivolando nel tedesco. «Oh, dovevate dirmelo subito. Mi avreste risparmiato una terribile angoscia. Avete il resto?»

«Perché, non l’ha portato?»

«Portato?»

«Ieri sera le ho dato la banconota da cambiare. Stamattina avrebbe dovuto portare il resto. Non è venuta?»

Fritzing la fissò esterrefatto. Poi sparì in cucina, per tornare un istante dopo. «Non si è vista» annunciò con voce nuovamente straziata.

«Forse se n’è dimenticata».

«Vostra altezza, come avete potuto...»

«Ecco, ora cominci a sgridarmi».

«No, no, ma come avete potuto fidarvi...»

«Fritzing, vedo che stai davvero per sgridarmi, e io sono parecchio stanca. Che altro ha preso? Hai parlato di tutti i soldi...»

Afferrò il cappello. «Nient’altro, nient’altro. Vado a cercare la ragazza». E con una manata se lo calò fin quasi sugli occhi, come faceva sempre nei momenti di grande agitazione.

“Quante storie” pensò stancamente Priscilla. E aggiunse: «La ragazza di oggi ti dirà dove abita. Si vede che se ne è dimenticata, o non è ancora riuscita a cambiare». E lo lasciò per entrare nella sua parte di casa.

Oh, come la metteva a dura prova Fritzi. Doveva proprio fare tante storie, far volare parole tanto grosse per cinque sterline? Anche se la ragazza le avesse perse e avesse paura di venire a dirlo, non era poi così grave; o per lo meno non al punto da sconvolgere la loro pace domestica. Come era sciocco agitarsi in quel modo, blaterare di essere stato derubato di tutto. Temette che la mente di Fritzing, una mente ampia e illuminata, la cui apertura e serenità lei da sempre osservava ammirata, si stesse rattrappendo, fino a raggiungere dimensioni perfettamente adeguate a quelle di Creeper Cottage. Salì al piano superiore stanca e sconfortata, si allungò sul divano e chiese ad Annalise di lavarle la faccia.

«Vostra altezza granducale ha pianto» disse Annalise passando la spugna lungo le curve del viso con sorprendente abilità, considerato che svolgeva quell’operazione da soli dieci giorni.

Priscilla aprì gli occhi per guardarla sorpresa, poiché fino ad allora Annalise non aveva mai osato dire qualcosa senza essere prima interpellata. Annalise cominciò a lavarle gli occhi, obbligandola a chiuderli. Allora Priscilla aprì la bocca per dirle ciò che pensava di lei. Rapida, la spugna di Annalise scese e gliela chiuse.

«Vostra altezza granducale» disse Annalise pulendole la bocca con una meticolosità e un quantitativo di acqua tali da far pensare che non venisse lavata da mesi, «solo ieri mi diceva che piangere è uno spreco di tempo schreckliche, terribile. Perciò, se vostra altezza granducale lo sa e piange ugualmente, si può dedurre l’esistenza di un motivo che renda il piangere inevitabile».

«Ti dispiace...» cominciò Priscilla, ma fu subito interrotta dalla spugna.

«Vostra altezza granducale è infelice. Non c’è da stupirsi. Fidatevi di una servitrice fedele, pronta a versare il proprio sangue per vostra altezza granducale, e ditele se non è vero che Herr Geheimrath vi ha circuito, allontanandovi dalla vostra casa e dal vostro Grossherzoglicher Herr Papa».

«Ti dispiace...»

Di nuovo la spugna, sollecita.

«Mi sanguina il cuore al pensiero delle sofferenze, delle paure, dell’ansia che il vostro Herr Papa patisce in questo momento. Non oso neanche immaginarmele. Giorno e notte, dato che di notte resto a letto sveglia, mi chiedo che razza di incantesimo Herr Geheimrath abbia gettato su vostra altezza granducale...»

«Ti dispiace...»

Calò di nuovo la spugna; questa volta, però, Priscilla afferrò la mano della ragazza e tenendola a distanza tornò in posizione seduta. «Sei impazzita?» chiese, guardando Annalise come se la vedesse per la prima volta.

Annalise lasciò cadere la spugna e giunse le mani. «No, non impazzita, solo molto, molto devota» rispose.

«No, impazzita. Dammi l’asciugamano».

Priscilla era talmente arrabbiata che non osò aggiungere altro. Se avesse detto anche solo una piccola parte di quello che voleva dire, tra lei e Annalise sarebbe tutto finito; così si asciugò la faccia da sola in silenzio, rifiutandosi di lasciarsi toccare. «Puoi andare» disse indicando la porta con lo sguardo, la faccia sbiancata dalla collera ma anche, bisogna ammettere, molto pulita; poi, rimasta sola, si lasciò cadere di nuovo sul divano e affondò il viso nel cuscino. Come osava Annalise? Come osava? continuava a chiedersi, livida e infuriata. E lei, come aveva potuto non pensare, non prevedere che sarebbe stata tenuta in scacco da qualunque domestica avessero deciso di portarsi dietro? Non c’era davvero limite a quello che la ragazza avrebbe potuto dire o fare? Come avrebbe potuto sopportarne la vicinanza, la velata impertinenza? Sprofondò ancor più la faccia nel cuscino, cercando invano di cancellare tra quelle piume il mondo esterno e Annalise, ma anche lì non trovò pace, perché all’improvviso un gran rumore di porte che si aprivano e chiudevano e un trapestio di piedi penetrò l’imbottitura, e ben forte e vicina – a Creeper Cottage tutti i rumori erano ben forti e vicini – le arrivò la voce di Fritzing che ordinava ad Annalise di chiedere a sua altezza granducale di scendere.

“No, non scendo” si disse Priscilla. “Quella povera Emma avrà perso la banconota, e ora lui farà il diavolo a quattro. No, non scendo”.

Poi udì Annalise bussare alla porta, ma non rispose. Annalise bussò di nuovo. Priscilla non rispose; girò solo la testa e si finse addormentata.

La cameriera bussò per la terza volta. «Herr Geheimrath desidera parlare a vostra altezza granducale» annunciò fuori dalla porta; poi la aprì e sbirciò dentro. «Sua altezza granducale sta dormendo» disse a Fritzing ai piedi delle scale. Come sempre, nel rivolgergli la parola puntava il naso in aria.

«E allora svegliala! Svegliala!» strepitò Fritzing.

“Che sia successo davvero qualcosa?” pensò lieta Annalise. Corse di nuovo alla porta di Priscilla con gli occhi che brillavano. Oh, qualunque cosa, qualunque cosa, piuttosto che quella vita.

Priscilla udì l’ordine di Fritzing e si tirò immediatamente a sedere, sbalordita di tale mancanza di riguardo per il suo riposo, un fatto senza precedenti. Sentì il cuore galopparle in petto; fu colta dal timore che Kunitz le fosse alle calcagna. Balzò in piedi e corse fuori.

Fritzing era ai piedi delle scale.

«Scendete, vostra altezza, ho urgenza di parlarvi» disse.

«Cos’è successo?» chiese Priscilla scendendo la ripida scaletta alla massima velocità consentita senza inciampare.

“Odiosa lingua inglese” pensò Annalise, per la quale l’abitudine della principessa e di Fritzing di parlare in inglese tra loro era costante motivo di contrarietà.

Fritzing condusse Priscilla in salotto e si chiuse la porta alle spalle. Poi appoggiò le mani sul tavolo per controllarsi e la guardò col viso fremente. Priscilla lo osservò spaventata. Che il granduca fosse dietro l’angolo? Magari proprio tra le tombe, lì fuori dalla finestra?

«Che c’è?» chiese con voce flebile.

«Le cinque sterline hanno preso il volo, mia signora».

«Oh, Fritzing, adesso stai diventando proprio assurdo con queste dannate cinque sterline!» esclamò Priscilla in uno scoppio di collera.

«Era tutto quello che avevamo».

«Tutto quello...?»

«Non ci è rimasto neppure un centesimo».

«Ma... non capisco».

Allora lui glielo fece capire. Prese carta e matita, i conti dei fornitori e tutti i suoi calcoli, e glielo fece capire. Gli tremavano le mani, ma le mostrò ogni cosa, passando in rassegna tutte le spese sostenute da quando erano partiti da Kunitz. Erano in un vicolo cieco, intrappolati, e ogni sforzo per nasconderlo, per fingere che non fosse un vicolo cieco, gli sembrava ormai pura follia. Tutti i suoi sforzi, ora lo capiva, erano stati pura follia: fin dall’inizio avrebbe dovuto dirle chiaro e tondo come stavano le cose; solo così non sarebbero arrivati a quel punto. «Avete avuto la sfortuna di scegliervi uno sciocco come protettore in quest’avventura» fu il suo amaro commento, e allontanò da sé le carte come se non ne sopportasse la vista.

Priscilla era esterrefatta. Per la prima volta vedeva in tutta chiarezza gli aspetti spietati dell’esistenza. Per la prima volta apriva gli occhi sulla gravità, la difficoltà, l’inesorabilità delle questioni di denaro, non appena si rimaneva senza. Le sembrava incredibile che proprio lei – che aveva elargito a piene mani, che era stata felice di elargire, che pensava al denaro, le rare volte in cui ci pensava, come a qualcosa da donare, qualcosa di sporco finché non veniva elargito agli altri, ma che, nel momento in cui veniva elargito, diventava glorificato e potente ai fini del bene – ora ne fosse priva, e incapace di pensare a una sola persona che potesse prestargliene.

Non ne serviva molto, giusto quel poco per arrivare alla prossima settimana, o a quella successiva, quando fosse arrivato il denaro da casa; tuttavia anche quel poco, quel quasi niente, se paragonato a ciò che aveva distribuito a piene mani nel villaggio, era irraggiungibile, quasi fosse una fortuna. «Non... non possiamo chiedere un prestito?» chiese infine.

«Sì, vostra altezza, possiamo e dobbiamo. In serata andrò a Symford Hall a chiedere un prestito ad Augustus».

«No» esclamò Priscilla con tale slancio e risolutezza che Fritzing sussultò.

«No?» ripeté stupito. «Ma è la persona perfetta a cui chiederlo. Anzi, la nostra unica speranza. Deve aiutarci, e lo farà».

«No» ripeté Priscilla sempre più decisa.

«Dico, vostra altezza» disse Fritzing scrollando le spalle, «non vorremo permettere a questi capricci femminili – non li ho mai capiti e mai li capirò – di guidarci persino nei momenti di grave crisi? Di condurci al disastro? Abbiamo tre alternative. Permettetemi di elencarvele. La prima, tornare a Kunitz...»

«Oh» rabbrividì Priscilla facendosi piccina come per schivare un colpo in arrivo.

«La seconda, finire in prigione per debiti dopo un breve periodo di fame e altre penose sofferenze...»

«Oh?» rabbrividì di nuovo Priscilla, questa volta quasi formulando una domanda venata di terrore.

«La terza, chiedere un prestito ad Augustus».

«No» disse Priscilla con rinnovata determinazione.

«Augustus è ricco. E disponibile. Mi gioco l’anima che è disponibile».

«No, non glielo chiederai. È troppo malato» disse Priscilla.

«Ebbene allora» rintuzzò Fritzing con uno scatto esasperato, «dato che non potete permettervi di andare in prigione, non ci rimane che Kunitz. Come i cani delle scritture, torneremo...»

«Perché non chiedere un prestito al parroco?» lo interruppe Priscilla. «Sarebbe felice di aiutare qualcuno in difficoltà».

«Al parroco? Cosa? Al padre del giovanotto che ha insultato vostra altezza granducale e che mi ripropongo di uccidere in duello non appena avrò un attimo di tempo? Signora, vi sono abissi di ignominia in cui persino un uomo disperato si rifiuta di scendere».

Con la punta della matita, Priscilla faceva dei buchetti nella tovaglia. «Non riesco a capire perché hai dato ad Annalise tutto quel denaro. Così tanto» rifletté.

«Perché se non gliel’avessi dato si sarebbe rifiutata di preparare il tè a vostra altezza granducale».

«Oh, Fritzi!» esclamò Priscilla guardandolo, scuotendo la testa e sorridendogli malgrado tutti i guai. Si erano mai visti tanto amore e tanta follia tutti insieme in un unico vecchio saggio? Ed era mai esistito un tè tanto costoso?

«Ammetto di aver permesso a un momento passeggero di oscurare la mia visione del futuro, in quell’occasione».

«In quell’occasione? Oh Fritzi. E tutte le altre, invece? Quando mi davi tutto quello che ti chiedevo... per i poveri, per la mia festa. Devi avere sofferto le pene dell’inferno per l’ansia. Oh Fritzi. Sei stato un tesoro. Un tesoro caro e meraviglioso. Ma con me avresti dovuto comportarti diversamente fin dall’inizio, trattarmi come avresti trattato una vera nipote...»

«Vostra altezza» esclamò Fritzi balzando in piedi, «stiamo sprecando tempo. La situazione è molto urgente. Dobbiamo procurarci del denaro. E dovete lasciare che sia io a giudicare cos’è meglio, per quanto finora abbia sbagliato. Vado immediatamente a Symford Hall per chiedere un prestito ad Augustus».

Priscilla spinse indietro la sedia e si alzò a sua volta. «Mio caro Fritzi, ti prego di lasciare fuori quel poveretto» disse arrossendo. «Come puoi disturbare con i tuoi problemi una persona a letto ammalata?»

«Sua madre non è a letto ammalata, e va benissimo anche lei. Vado subito».

«Ti dico di no. Non voglio chiedere niente a sua madre. Ti... proibisco di fare una cosa del genere. Oh, Fritzi» aggiunse disperata, dato che lui aveva preso il cappello e il bastone buttati in un angolo all’arrivo e non aveva la minima intenzione di ubbidire agli ordini, «oh, Fritzi, non puoi chiedere un prestito a Tussie. Se sapesse che siamo in difficoltà ne morirebbe».

«Ne morirebbe? E perché mai?» gridò Fritzing esasperato da quell’immagine di debolezza.

«Lui ne morirebbe, ma sarebbe in ogni caso una cosa orribile» gemette Priscilla angosciata. «Insomma, oggi pomeriggio – non volevo dirtelo, ma ci sono costretta – proprio oggi pomeriggio mi ha chiesto di sposarlo, e la cosa brutta è che credo lui speri... in un sì da parte mia».