XV.

La prima sera a Creeper Cottage non fu una bella sera. Divampava un bel fuoco di legna, le tende erano tirate, la lampada spandeva una luce calda attraverso il paralume rosso, e quando Priscilla si alzava in piedi i suoi capelli sfioravano le travi di quercia del soffitto, tanto era basso. Insomma, l’atmosfera era perfetta in ogni dettaglio, proprio come dovrebbe essere l’atmosfera dentro un cottage in una sera d’autunno, quando fuori la nebbia umida pende come un grigio sipario sui vetri delle finestre. Nell’arrivare alle nove per aiutare i suoi ospiti a consacrare la nuova vita con Shakespeare, Tussie pensò, mentre apriva la porta lasciandosi alle spalle l’oscurità ed entrava nel piccolo, intimo e caldo locale, di non aver motivo di dubitare del comfort di quella giovane divina. Non aveva mai visto luogo dall’aspetto più confortevole. Non si era mai reso conto di come una lampada dal paralume rosso e il bagliore di un caminetto acceso facessero apparire accogliente un luogo. Alzò gli occhi su Priscilla – temo che, quand’erano entrambi in piedi, lui dovesse alzare gli occhi per guardarla – con un ampio sorriso di genuino piacere. «Che meraviglia» esclamò con calore.

Era però un piacere destinato a vita breve. Priscilla gli sorrise, ma dietro al suo sorriso c’era un riserbo che l’animo sensibile di lui captò all’istante. Era sola, e non c’erano segni della presenza dello zio né dei preparativi per la lettura di Shakespeare.

«Qualcosa non va?» chiese Tussie col viso già aggrondato per l’ansia. Priscilla lo guardò e gli sorrise di nuovo; questa volta era un sorriso vero, presente negli occhi così come sulle labbra, che danzava al bagliore guizzante del fuoco. «È buffo» disse. «Non mi era mai successo. Ci credereste? Ho fame».

«Fame?»

«Fame».

Tussie smise di svolgere la sciarpa di lana per fissarla pietrificato.

«Altroché. Una fame da lupi. Una fame tale che l’idea di Shakespeare mi è insopportabile».

«Ma...»

«Lo so. State per dire: allora perché non mangiate? Sembra facile. Invece non avete idea di quanto sia difficile. Temo che io e lo zio abbiamo un sacco di cose da imparare. Ci siamo scordati di assumere una cuoca».

«Una cuoca? Credevo avrebbe pensato a tutto quanto la vostra cameriera, quella sempre china in riverenze».

«Lo pensavo anch’io. E lo zio. Ma non è così».

Priscilla arrossì, poiché da quando Tussie se ne era andato dopo il tè lei aveva avuto alcune brutte sorprese che prima l’avevano lasciata indignata, poi con la voglia di ritrarsi spaventata. Fritzing non era riuscito a nasconderle che Annalise si era ribellata, e si rifiutava di cucinare, e Priscilla non era riuscita a ubbidire al primo impulso e licenziarla. Era stato a quel punto, dopo aver compreso, che aveva cominciato a ritrarsi spaventata. Solo allora si era fatta strada in lei l’idea di essere alla mercé di una domestica, e il pensiero l’agghiacciava.

«Vorreste dire che non avete cenato?» chiese Tussie con voce resa profonda dalla costernazione.

«Cenato? In un cottage? Certo che non ho cenato. Una vera e propria cena non ci sarà mai, la sera. Ma la cosa tragica è che non c’è stato neppure uno spuntino. Non ci abbiamo pensato finché non abbiamo sentito i morsi della fame. Annalise è stata la prima. Ha cominciato ad avere fame alle sei, e ha detto qualcosa a Fritz... allo zio, ma lui non aveva fame, e l’ha ignorata. Adesso ha fame anche lui, ed è uscito a cercare una cuoca. Lo trovo assurdo. Non abbiamo niente in casa. Annalise ha mangiato il pane e l’altra roba che ha trovato. Ora è di sopra che piange». Mentre osservava il viso preoccupato di Tussie, Priscilla contrasse le labbra in un fremito, poi scoppiò a ridere.

Lui afferrò il cappello. «Vado a cercarvi qualcosa» disse precipitandosi verso la porta.

«Non riesco a immaginare cosa, a quest’ora. L’unico negozio chiude alle sette».

«Li farò riaprire».

«Vanno a letto alle nove».

«Li tirerò giù dal letto, dovessi stare tutta la notte a tirare sassolini alle finestre...»

«Non andateci senza cappotto, vi prenderete un brutto raffreddore».

Tussie allungò un braccio oltre il varco della porta per afferrarlo, poi svanì nella nebbia. Ma era talmente agitato che non se lo infilò, lo tenne sul braccio. La sciarpa rimase nel salotto di Priscilla, sulla sedia dove l’aveva gettata. Portava l’abito da sera, e già aveva mal di gola per un raffreddore incipiente che, come aveva temuto, si era preso la domenica partecipando alle gare di corsa durante la festa dei bambini di Priscilla.

Priscilla tornò a sedersi accanto al fuoco, pensando intensamente a cose quali il pane. Non sarebbe stata in quella condizione se avesse saltato un solo pasto, ma, in effetti, non aveva mangiato niente per tutto il giorno: detestava troppo la colazione di Baker’s Farm per riuscire anche solo a guardarla; si era scordata il pranzo perché nel pieno del trasloco; e durante il tè era troppo sottosopra per l’inaspettata apparizione del padre sulla parete per preoccuparsi di mangiare il pane e burro serviti da Annalise. E adesso era in preda ai tremori e al freddo. Verso le sette e mezza aveva detto ad Annalise di portarle il pane avanzato dal tè, ma Annalise se l’era mangiato.

Alle otto e mezza aveva detto ad Annalise di portare lo zucchero, avendo letto da qualche parte che mangiare una certa quantità di zucchero fa passare la voglia di altro cibo anche ai più famelici, ma Annalise, che aveva dato fondo anche allo zucchero, aveva detto che se l’era mangiato tutto Herr Geheimrath. Una cosa era certa: non ce n’era, e non c’era neppure Herr Geheimrath per difendersi: era fuori dalle sette e mezza in cerca di una cuoca, convinto che se solo avesse trovato una cuoca il cibo sarebbe seguito a ruota, con la stessa naturalezza con cui i fiori seguono a ruota la pioggia. Priscilla si agitava sulla sedia per quell’assenza prolungata, consapevole che non esisteva cuoca in grado di aiutarli. Che farsene di una cuoca se non c’è niente da cucinare? Oh, se solo Fritzing fosse tornato alla svelta carico di pagnotte! Qualcuno bussò alla porta e Priscilla la aprì di uno spiraglio. Pensava fosse Tussie, rapido ed efficiente come sempre, per cui gli riservò un caloroso benvenuto; a entrare fu invece Robin Morrison, a passo svelto e con la gioia in volto per la calorosa accoglienza. «È bellissimo qui» esordì Robin, tutto sorrisi.

Priscilla non si mosse né accennò una stretta di mano, perciò il giovane si fermò sul tappeto davanti al focolare e allungò le mani verso il fuoco, guardandola dall’alto con occhi luminosi, audaci. Non l’aveva mai vista così bella. Nel suo sguardo c’era un che di straordinariamente profondo e misterioso, si disse; e quando i loro occhi si incontrarono Priscilla abbassò i suoi. Era la prima volta che lo faceva. Sappiamo già che era molto affamata e del tutto priva di forze. Non abbassò solo gli occhi ma anche la testa, e le mani penzolarono inerti oltre i braccioli della poltrona come bianchi fiori assetati.

«Sono venuto a chiedere a Mr Neumann-Schultz se posso rendermi utile in qualche modo» disse Robin.

«Ah sì? Lui sta alla porta accanto».

«Lo so. Ho già bussato, ma non mi ha risposto, così ho pensato che fosse qui».

Priscilla non fece commenti. In un altro momento avrebbe trattato Robin con disdegno, e si sarebbe liberata di lui. Ora si limitò ad accasciarsi sulla poltrona.

«È uscito?»

«Sì».

La voce era molto bassa, poco più che un sussurro. Chi conosce il senso di debolezza dato dalla fame a questo stadio conosce anche l’emozione che trapela dalla voce del sofferente quando lo si obbliga a parlare; diventa querula, languida per la bramosia, il desiderio di cibo. Ma per chi non lo conosce, per chi ha appena cenato, è per metà innamorato e vuole che anche l’altra persona sia innamorata e crede senza riserve nel proprio fascino, è facile cadere nell’errore di Robin e fraintendere la natura della bramosia. Al posto suo, Tussie avrebbe messo in dubbio quanto gli dicevano i sensi, ma Tussie era molto modesto. Robin invece non metteva mai in dubbio niente. Vedeva, udiva, e si elettrizzava; e sotto a quel suo elettrizzarsi, con una potenza tale da farlo arrossire fino alla radice dei capelli, già cominciava a prender forma in lui il commento fugace e sprezzante: “Sono tutte uguali”.

Priscilla chiuse gli occhi. Tendeva l’orecchio in attesa del rumore dei passi di Tussie o di Fritzing, un rumore benedetto, foriero dell’arrivo di qualcosa da mangiare, e intanto desiderava che Robin se ne andasse. Era anche gentile e premuroso, ma tutto sommato uno scocciatore. Un vero peccato che al mondo ce ne fossero tanti e non se ne rendessero conto. Qualcuno avrebbe dovuto dirglielo: la loro madre, per esempio, o altre persone similmente utili. La prossima volta che lo avesse incontrato, e fosse stata opportunamente nutrita e sostenuta dal cibo, gli avrebbe detto due o tre cosette, decise distrattamente. Per riprendersi gli ci sarebbe voluto un bel pezzo.

«Non... non state bene?» si informò Robin al termine di una pausa durante la quale non le aveva mai staccato gli occhi di dosso, mentre quelli di Priscilla erano rimasti chiusi; e persino alle sue stesse orecchie la propria voce parve più profonda, più intensa del solito.

«Oh... no» mormorò Priscilla con un sospiro appena udibile.

«Siete... felice?»

Felice? Come poteva essere felice qualcuno che non aveva fatto colazione, né pranzato, né tanto meno cenato? si chiese Priscilla. La domanda le parve bizzarra, e il tono vibrante in cui fu posta le parve anch’esso bizzarro, per cui aprì un attimo gli occhi per guardare Robin con un sorriso divertito, un sorriso che a sua insaputa la fame trasformò in qualcosa di mesto e tremulo. «Sì» rispose Priscilla con una strana voce patetica, «credo... di sì». E dopo un’occhiata fugace, le palpebre esauste calarono di nuovo.

Quel che accadde subito dopo fu che Robin, tremante, le baciò la mano. Lei lo lasciò fare con totale indifferenza. Tutte le donne tedesche sono abituate al baciamano. Lo ricevono come saluto d’incontro o di commiato, e anche in varie altre occasioni; nell’imbattersi in una conoscenza maschile alzano la mano con gesto quasi meccanico; non si sorprendono mai del rituale; anzi, le sorprenderebbe tralasciarlo. Priscilla, dunque, pensò semplicemente che Robin stesse per andarsene. “Per fortuna” si disse guardandolo per un istante a occhi socchiusi. Robin invece non era avvezzo al baciamano e vedeva le cose in tutt’altra luce. Vedeva che lei non faceva alcun tentativo per sottrarre la mano, e il sentirla mormorare qualcosa di indistinto – era un semplice arrivederci – lo trascinò irrimediabilmente verso la propria rovina: chinatosi sopra di lei, lo sventurato giovane le baciò i capelli.

Priscilla aprì gli occhi all’improvviso, anzi li spalancò. Non so quale scelleratezza Robin avrebbe perpetrato subito dopo, o quali sciocchezze stessero per affiorare alle sue labbra, o come interpretasse l’espressione di lei, ma un istante dopo fu scagliato per sempre giù dalle vertiginose vette delle sue illusioni: Priscilla gli diede uno schiaffo.

Mi duole dover riferire la scena. È sempre molto poco elegante vedere una donna menare le mani. È un gesto infantile, immorale, retrogrado, anzi, barbaro; lo schiaffo, poi, fu molto violento, straordinariamente violento per una mano così minuta e una ragazza così a digiuno.

Noi però sappiamo che Robin era già stato due volte sul punto di baciarla; e il gesto, ne sono convinta, conteneva anche l’energia accumulata che Priscilla non aveva potuto sfogare sul poliziotto né sulla madre in treno. Comunque sia, risultò efficace. Vi fu un’esclamazione – credo di sorpresa, mi rifiuto di pensare che un giovane come lui badasse al dolore – e la sua mano salì rapida al viso. Con altrettanta rapidità Priscilla si alzò dalla poltrona e suonò il campanello con furia, gli occhi puntati in quelli di lui, il viso in fiamme. Annalise dovette scaraventarsi giù dalla scaletta, perché sembrò non essere passato neppure un istante da che erano uno di fronte all’altro, gli occhi allo stesso livello, lui scarlatto, lei pallida, entrambi in mortale silenzio, quando la cameriera si presentò nella stanza.

«Questa persona mi ha insultato» annunciò Priscilla girandosi e indicando Robin. «Non gli è più permesso entrare a casa mia. Sta’ bene attenta a non dimenticartene» ingiunse alla ragazza con cipiglio severo; ricordava infatti di averli visti chiacchierare alla festa dei bambini.

«Non volevo...»

«Vi dispiace andarvene?»

Annalise gli aprì la porta. Lui uscì, e lei gliela richiuse alle spalle. Poi riattraversò la stanza a passo composto, sbirciando con la coda dell’occhio la principessa – che però non badò a lei e rimase immobile presso il tavolo guardando fisso davanti a sé, le labbra serrate, il viso pallido trasfigurato da un’espressione di raggelata collera – e una volta arrivata al bagno cominciò a correre. Si precipitò fuori dalla porta di servizio, poi entrò in casa di Fritzing passando per l’altra porta di servizio e uscì di nuovo dalla porta d’ingresso, nella via. Raggiunse Robin mentre svoltava nel viottolo, diretto alla canonica. «Cos’avete fatto?» domandò in tedesco, senza fiato.

«Cos’ho fatto?» Robin gettò la testa all’indietro e rise a piena gola.

«Shh... shh» lo ammonì Annalise lanciandosi un’occhiata intimorita dietro le spalle.

«Cos’ho fatto?» ripeté Robin cercando di reprimere quello scoppio di riso amaro. «Cosa volete che abbia fatto? Ho fatto quello che qualunque uomo avrebbe fatto al mio posto. Mi ha incoraggiato, in pratica me l’ha chiesto. Ho baciato la vostra giovane padrona, liebes Fräulein, e lei ha fatto finta di non aver gradito. Ora, una ragazza di buon senso come voi non lo definirebbe un comportamento assurdo?»

Ma Annalise, sinceramente costernata, arretrò dalla mano tesa di lui. «Cosa?» strillò, «cosa?»

«Cosa? Cosa?» la scimmiottò Robin. «Beh, e allora? Siete tutte così puritane in Germania? Fingi anche tu, piccola ipocrita?»

«Oh» gemette Annalise perdendo il controllo e spingendolo via con entrambe le mani, «cos’avete fatto? Elender Junge, cos’avete fatto?»

«Siete tutte matte» disse Robin in preda alla collera. «Non riuscirete a farmi credere che nessuno si bacia, in Germania».

«Oh, sì che si baciano, certo» esclamò Annalise torcendosi le mani, «ma né in Germania né altrove, nemmeno in Inghilterra, o in nessun altro posto al mondo, il figlio di un pastore... il figlio di un pastore...» Ansimava e si attorcigliava e srotolava il grembiule attorno alle mani in un parossismo di agitazione, mentre Robin la fissava completamente sbalordito. «Né in Germania né altrove... il figlio di un pastore... può baciare... una principessa reale».

Ora fu la volta di Robin esclamare: «Cosa?»