Polly
Luglio-ottobre 1941

«È troppa strada per te. Se anche riesci ad arrivare, sarai troppo stanca per tornare indietro».

«No, non è vero». Guardò Simon con rabbia: era evidente che stava ripetendo quello che diceva Teddy, e in modo molto irritante. «Ma se ci tenete ad andare per conto vostro...», disse.

«Non è questo», si affrettò a dire Teddy; escludere arbitrariamente qualcuno da una qualunque iniziativa era contro la legge dei Cazalet. «È solo che non ti ci vedo a pedalare per quasi trenta chilometri».

«Camber non dista affatto quindici chilometri da qui!».

«Ma quasi! E noi abbiamo le bici a tre velocità».

«Va bene. Ho capito che non mi volete».

«Non vogliono neanche me», interloquì Neville. «Il che è ben più grave».

«Ti dico una cosa», disse Neville a Polly mentre gli altri due si allontanavano alla chetichella. «Quando saranno vecchi e cadenti e mi pregheranno perché li porti sulla mia auto da corsa, io gli dirò di no. Oppure sul mio aeroplano, che probabilmente userò per i viaggi più lunghi. Gli dirò che sono troppo vecchi per fare qualunque cosa divertente. Dei vecchi scemi».

«Non dovresti dire queste cose».

«È quello che presto diventeranno. I maschi stupidi sono scemi, le femmine stupide sono oche. Scemi e oche, capito?».

La guardò sperando di aver suscitato scandalo. Era cresciuto molto nell’ultimo anno, tanto che i pantaloncini gli arrivavano diversi centimetri sopra le ginocchia ossute, ma i capelli gli crescevano ancora in ciuffi disordinati e il collo esile e nervoso gli dava un’aria vulnerabile. Tutto in lui sembrava assemblato male: i denti erano esageratamente grossi per la sua bocca, i piedi chiusi nei sandali sudici sembravano enormi, le orecchie erano troppo sporgenti; il torace magro e già un poco abbronzato, con le costole in rilievo, gli conferiva un senso di fragilità e faceva un brutto effetto sopra il cinturone di cuoio da cui pendeva un coltellaccio. Aveva addosso numerose piccole ferite: graffi, tagli, vesciche, pellicine, persino un’ustione sulla mano destra, che si era procurato facendo esperimenti con la lente d’ingrandimento. La sua espressione abituale era un miscuglio di provocazione e ansia. Polly si domandò cosa si provasse a essere lui, e si rese conto di colpo che non lo avrebbe mai saputo.

«Stavo pensando di andare a Bodiam in bicicletta», disse. «Vuoi venire?».

Vide il piacere che gli dava fingere di essere indeciso se accettare o meno. Poi, con un tono di voce che era una pregevole imitazione del colonnello Chinstrap della trasmissione radiofonica ItsThatManAgain, disse: «Non è affatto una cattiva idea».

Quel gesto le costò caro. Durante l’andata le vennero le solite fitte allo stomaco del primo giorno e il resto della gita – fecero merenda sull’erba, visitarono il castello, gli impedì di buttarsi nel fossato e lo convinse a scendere dalla cima di un’alta quercia – le fu guastato dal terrore di cominciare a sanguinare senza avere niente da mettersi per tamponare, e di spaventare Neville o di provocargli ribrezzo. Il ritorno fu sfiancante: gli disse che era stanca e che doveva andare piano, ma che lui, se voleva, poteva pedalare più in fretta; ma non lo fece. Continuava a staccarla di alcuni metri per poi tornare indietro. «Hai fatto bene a non andare a Camber», disse tutto allegro. «Ti saresti dovuta fermare e passare la notte in mezzo a un campo o dentro una chiesa».

Più tardi le disse anche, con tono incoraggiante: «Non è colpa tua, però. Non puoi farci niente se sei una femmina. Le femmine si stancano presto, credo che abbia a che fare con i capelli».

Quando furono arrivati, gli chiese se poteva mettere a posto anche la sua bicicletta e lui disse che lo avrebbe fatto certamente.

Salì le scale a fatica, si fece un bagno e si stese sul letto. Le doleva la testa, le doleva lo stomaco e si sentiva a pezzi: non le andava nemmeno di leggere. Però Neville si era divertito, ne era valsa la pena. In quel momento decise che ogni settimana avrebbe fatto qualcosa per qualcuno e stilò una lista delle persone, scrivendo accanto a ogni nome il gesto adatto da compiere. Per alcuni era facile. Il Generale, per esempio: bastava leggergli alcune pagine del «Timber Trades Journal», che era di una noia mortale; per alcuni invece, come per sua madre e per Miss Milliment, era piuttosto complicato. Alla fine, decise di fare un cardigan a maglia per Miss Milliment: un’impresa colossale che avrebbe richiesto mesi di lavoro, ma poteva darglielo come regalo di Natale, un regalo speciale, molto superiore a quelli che faceva di solito. A sua madre l’idea piacque e si offrì di trovare un modello in grado di contenere la considerevole mole di Miss Milliment. «Dovrà essere un modello da uomo», le disse. «Il che vuol dire che avrà i bottoni a sinistra. Credi davvero che lo porterai a termine? Altrimenti sarebbe un terribile spreco di lana».

Promise di sì, e insieme a Clary andò all’emporio di Watlington a scegliere la lana, ma Mrs Cramp aveva solo lana adatta a bambini piccoli, oppure gomitoli color cachi e blu scuro. «Di questi tempi la gente non chiede che questi», disse. Alla fine zia Villy fu così buona da comprarne un po’ a Londra, non prima di una serie di annose discussioni sul colore che sarebbe stato meglio a Miss Milliment. Il guaio era che ogni colore che veniva proposto sembrava una pessima idea: un color vino non stava bene con la sua pelle giallastra, il verde bottiglia avrebbe fatto somigliare i suoi capelli a delle alghe, il grigio era troppo banale, il rosso l’avrebbe resa simile a un autobus di Londra. E così via. La scelta cadde infine su un blu indistinto, melangiato. Bene, Miss Milliment era sistemata, e dato che poteva occuparsene solo in assenza della destinataria, il lavoro non procedeva molto spedito. Il vero problema era sua madre. «L’unica cosa che desidera davvero è che papà non vada più a Londra, e io per questo non posso fare proprio niente», aveva detto una volta a Clary. Poi un giorno entrò in camera di sua madre e la trovò che si toglieva le forcine dai capelli seduta al tavolo da toletta.

«Ho un gran bisogno di lavarmi i capelli», disse. «Mi daresti una mano? Non è facile sciacquarli bene, e stare china sul lavandino tutto quel tempo mi fa girare la testa».

Dopo quella volta lavò i capelli alla madre ogni venerdì, prima che suo padre arrivasse da Londra per passare il fine settimana con loro, ed escogitò anche un metodo molto efficace: seduta su una sedia della giusta altezza, sua madre poteva poggiare la testa sul lavandino ed evitare i giramenti di testa.

Un altro osso duro era papà. Ormai lo vedeva molto di rado, e ogni volta non le sfuggiva quanto fosse stanco. Quando arrivava a Home Place il venerdì sera aveva sempre lo spasmo nervoso alla tempia ed era grigio in volto dalla stanchezza. Inoltre era difficile stare sola con lui: c’era così tanta gente in casa e, dato che adesso lei mangiava a tavola con gli adulti, lui non veniva più ad augurarle la buonanotte in camera. A cena di solito si parlava molto della guerra: Hitler aveva invaso la Russia, perciò adesso i russi erano alleati, e la cosa ai suoi occhi non faceva che procrastinare ulteriormente la fine del conflitto.

Poi, un sabato, Hugh le chiese di andare a Hastings con lui. «Solo tu, Poll. Non riusciamo mai a stare insieme».

Andarono in macchina, perché papà aveva dei buoni benzina in più per l’azienda, e fu un sollievo quando riuscirono a lasciare casa, perché diverse persone avevano cercato di unirsi a loro. «Sei sicura che non ti dispiaccia?», aveva chiesto ansiosamente a Clary.

«Ma certo che no!».

Polly però sapeva che non era vero e aveva aggiunto: «Vorrei tanto avere papà tutto per me, per un po’».

E Clary le aveva fatto un gran sorriso inaspettato e aveva ribadito. «Certo. Lo capisco perfettamente».

Teddy e Simon avevano fatto fuoco e fiamme pur di unirsi a loro, ma Hugh li aveva messi a tacere. «È una cosa per me e Polly. Voi restate a casa», aveva detto mentre erano già sulla porta. Polly si era messa il vestito rosa e le scarpe da tennis che aveva appena sbiancato. Ma erano ancora umide e diventarono più bianche mentre si asciugavano, durante il tragitto per andare a Hastings.

«Hai qualche idea?», gli domandò intanto che le grida («È un’ingiustizia!») si dileguavano in lontananza.

«Andiamo a cercare un bel regalo per mamma. Chissà, magari troviamo anche qualche altra cosa. Stavo pensando a un regalo di post compleanno per te».

«Mi hai già regalato questo bellissimo orologio». Le stava un po’ largo intorno al polso e lo spostò.

«Quello lo abbiamo scelto insieme a Edimburgo, durante la nostra ultima vacanza... voglio dire, l’ultima che abbiamo fatto».

Lo guardò chiedendosi il perché di quella bizzarra precisazione.

«Che c’è?», domandò lui percependo la sua perplessità.

«Come mai sei così pedante?».

«Non lo so proprio. Che ne pensi del fatto che i russi adesso sono con noi? Meglio averli come alleati che come nemici, non sei d’accordo?».

«A me pare solo che la guerra diventi ancora più mondiale, così», disse. «Se solo avessimo gli americani dalla nostra parte...».

«Non li abbiamo nemmeno contro. Mr Roosevelt ha già fatto molto per noi. In effetti, senza il suo aiuto, chissà dove saremmo adesso».

«Ma non è come se fossero nostri alleati e ci aiutassero a combattere contro i tedeschi. Dopotutto nell’ultima guerra l’hanno fatto».

«Potrebbero ancora farlo. Ma, Polly cara, pensaci, tu che sei tanto contraria alla guerra, immagina di essere americana: che ne diresti se la guerra fosse la loro e noi tutti dovessimo lasciare il nostro paese e andare dall’altra parte del mondo a combattere al loro fianco? Tutti gli uomini, intendo dire», precisò; non approvava che le donne andassero in guerra. «Probabilmente diresti che quella è la loro guerra e che devono sbrigarsela da soli».

«Lo sai, papà, che non ho mai conosciuto un americano?».

«È un po’ quello che volevo dire».

«D’altra parte, se Hitler vince qui da noi, probabilmente vorrà conquistare anche altri paesi, per esempio il loro, e allora non saranno molto contenti».

«Io credo che Hitler già in Russia abbia fatto il passo più lungo della gamba. Non vincerà», aggiunse.

«E quanto tempo ci vorrà?».

«Non ne ho la più pallida idea. Non accadrà tanto presto. Ma le cose vanno meglio rispetto all’anno scorso».

«Di che parli? Gli attacchi aerei, i razionamenti, la conquista della Francia e di tutti quegli altri paesi. A me sembra che vada sempre peggio!».

«L’anno scorso a quest’ora c’è mancato poco a che ci invadessero. Quello sì che sarebbe stato peggio. E abbiamo vinto solo la battaglia d’Inghilterra. Adesso posso dirtelo, Poll: avevo spesso incubi riguardo a quello che sarebbe potuto succedere, tipo rimanere bloccato a Londra e non poter tornare da te».

«Oh, papà! Mi dispiace tanto! Capisco cosa intendi quando dici che adesso va meglio». Si sentiva molto lusingata che lui le raccontasse cose così personali come i suoi incubi. «Non credevo che li avessero anche gli adulti», disse.

«Oh, cara! Le cose non cambiano poi tanto, quando si diventa adulti. Passando a cose più piacevoli, credo che per prima cosa faremo una visita a Mr Cracknell. E lì vicino c’è anche una bella gioielleria».

Quando furono nei pressi di Hastings, le chiese: «Come vanno le cose a casa?».

«Bene, direi. A chi ti riferisci in particolare?».

«Be’, le tue zie. E tua madre, per cominciare».

«Zia Rach ha la schiena a pezzi».

«Lo so», disse lui di getto. «Si paragona spesso a una vecchia sdraio bloccata. La faccio andare da quell’ottimo specialista di Londra. E poi credo che le piaccia lavorare in ufficio».

«A zia Rach piace essere utile», disse Polly. «Le piace più che agli altri».

«È proprio vero. E poi?».

«E poi cosa? Ah, le altre. Be’, zia Villy è molto insoddisfatta. Credo che le piacerebbe fare un lavoro più importante per la guerra. Lavorare per la Croce Rossa, dare lezioni di primo soccorso e aiutare alla casa di cura di Mill Farm non credo le basti».

«Accidenti se sei perspicace, Polly!».

«Invece zia Zoë è piuttosto contenta. Adesso si occupa di due pazienti della casa di cura. Legge per loro, scrive le loro lettere, cose così, e poi è pazza di Juliet».

Hugh sorrise, quel sorriso tenero e indulgente che riservava ai bambini piccoli. «Posso immaginarlo».

«E che mi dici di mamma?», domandò lui dopo una pausa.

Polly ci pensò su. «Non so. Il fatto è che si sente quasi sempre poco bene. La vacanza con te l’ha resa felice, ma l’ha anche molto stancata. Quando è tornata, è rimasta a letto per due giorni interi».

«Davvero?».

«Non dirle che te l’ho detto. Non avrei dovuto. Non voleva che tu lo sapessi».

«D’accordo».

«Ho avuto tanta paura, quando ha dovuto operarsi. Ma è andato tutto bene, no?».

«Ma certo», replicò lui con enfasi. «Benissimo. Ma spesso ci vuole un po’ di tempo per riprendersi da queste cose. Eccoci. Hastings, stiamo arrivando!».

Il negozio di Mr Cracknell era buio e tutto al suo interno sembrava ricoperto di polvere, ma c’erano molte cose affascinanti. Mobili, soprattutto: papà comprò due poltrone con delle spighe di grano intagliate sullo schienale. «Non posso resistere», disse. Ma c’erano anche numerose scatole di legno, alcune con intarsi di madreperla, altre di ottone. All’interno avevano del raso guarnito di gale oppure velluto rosso o blu scuro. Alcune contenevano bottigliette di vetro intagliato o scatoline con coperchi d’argento. C’erano scatole per il cucito, con minuscoli rocchetti attorno ai quali stavano arrotolati spessi fili di seta sbiaditi. All’interno, su un ripiano, erano disposte delle forbici d’acciaio, degli aghi e uno strumento per fare i fori nella stoffa, e alcune avevano un cassetto sul fondo che si apriva premendo un piccolo bottone. Polly ne era affascinata e le osservò attentamente una a una, cercando di decidere quale le piaceva di più. Poi trovò una semplice scatola di legno pregiato che, una volta aperta, si trasformò in un piccolo scrittoio portatile. «Si usava per i viaggi», le disse Hugh. «Le signore ne avevano una quando andavano in visita da qualche parte». Una volta aperta, la scatola diventava un piano inclinato ricoperto di cuoio verde scuro. Sotto, c’era un vano dove riporre la carta. «Piacerebbe molto a Clary», disse. «Papà, credi che possa costare meno di venticinque scellini? Perché non ne ho di più». A lei sembrava una grossa somma, ma sapeva che per lui, se si trattava di scellini, non lo era poi tanto.

«Vado a scoprirlo. Vieni a vedere questo». Era un tavolinetto ottagonale con un elegante piedistallo. Il ripiano era molto bello, con il legno tagliato a triangoli dagli angoli aguzzi che creavano un motivo floreale. Suo padre fece pressione su un punto e il ripiano si aprì a scoprire una cavità conica rivestita con una carta a roselline, come la carta da parati di una casa delle bambole, pensò Polly. Mr Cracknell emerse dal retrobottega reggendo un sottile vassoio ottagonale rivestito della stessa carta, ma con l’interno diviso in numerosi scompartimenti. «Stavo riparando il vassoio», disse, e lo inserì con cura in cima al cono.

«È un tavolo da cucito dei primi del diciannovesimo secolo. Non è vecchissimo».

«Allora, Polly, di che legno si tratta? Vediamo quanto ne sai».

Polly disse che le sembrava noce.

«Esatto!», esclamò Mr Cracknell. Era un uomo anziano, con gli occhiali dalla montatura d’acciaio, i capelli bianchi-verdastri, l’andatura curva.

Passò il pollice appiattito sul legno. «Una splendida venatura. L’intaglio è finissimo».

«Credi che a mamma piacerebbe?».

Andava bene solo per piccoli lavori di cucito: non c’era abbastanza spazio per il pigiama invernale che lei stava facendo per Wills.

«Sì... credo di sì». E l’entusiasmo di suo padre si affievolì.

«Be’, sarà meglio che diamo un’altra occhiata in giro».

Mr Cracknell, che conosceva bene i fratelli Cazalet perché erano clienti abituali, disse che aveva un bel comò alto a cui forse Hugh avrebbe volentieri dato un’occhiata. «Dato che le piace il noce», disse. «Anche le maniglie sono quelle originali». Il negozio era così buio e zeppo di roba che gli ci volle una torcia per illuminarlo.

Polly capì che a papà piaceva molto: accarezzava il legno, estraeva con delicatezza un cassetto, ammirava la fattura. «Vedi, Poll? A quei tempi i cassetti si facevano con caviglie di legno e incastri a coda di rondine». In uno dei cassetti c’era come una spruzzata di piccoli fori. «Tarli», sentenziò Mr Cracknell: poi diede dei sapienti colpetti al cassetto e Hugh annuì.

«Se ce ne fossero ancora, verrebbe fuori della polvere, come della segatura», spiegò a Polly. «E quanto vuole per questo, Mr Cracknell?».

«Be’, potrei cederlo per trecento».

Hugh emise un fischio. «Temo sia più di quanto pensassi di spendere oggi».

Alla fine prese il tavolino da cucito, e mentre Mr Cracknell lo portava fuori per caricarlo in macchina, Polly gli ricordò di chiedere il prezzo dello scrittoio portatile.

«Lo vuoi davvero, Poll? Credi che lo useresti?».

«Vorrei regalarlo a Clary».

«Ma certo. Me l’avevi detto. Chiedo subito».

È distratto, pensò Polly. E non era da lui.

Tornò da lei e disse: che fortuna, costa solo venticinque scellini.

«È un regalo costoso per le tue finanze, cara», le fece notare.

«Lo so, ma voglio proprio regalarglielo».

Quand’ebbero finito di caricare tutto in macchina, Polly disse: «Perché sorridi, papà?».

«Pensavo che ho una brava figlia».

Allora Polly si accorse che, quando non sorrideva, aveva l’aria triste.

Dato che erano lì, le propose di dare un’occhiata agli altri negozi. Erano nella città vecchia, tutta vicoli stretti e gabbiani e zaffate di pesce e catrame. Nel negozio del gioielliere, che era piccolo e traboccante di monili antichi, Hugh prese un paio di orecchini di granato, dei pendenti.

«Credi che a mamma piacerebbero?», le domandò. «Starebbero bene con quella collana che le ho regalato anni fa».

Polly sapeva che a sua madre non piacevano i granati perché non stavano bene col colore dei suoi capelli e si metteva quella collana solo ogni tanto, per far piacere a papà.

«Anche a Edimburgo le hai comprato degli orecchini. Me li ha mostrati», disse. «Forse le piacerebbe di più un’altra cosa». Le faceva spessissimo dei regali, anche se il suo compleanno era passato da un pezzo. «E poi non li indosserebbe spesso. C’è la guerra».

«Hai un buon senso pratico». Cominciò a studiare un vassoio di anelli. Proprio quando Polly stava per avvertirlo che ultimamente la mamma non portava anelli, lui ne prese uno piccolo, con una pietra verde piatta incastonata nell’oro. «Provalo», le disse. Era perfetto per il suo indice.

«Che te ne pare?».

«Credo che le piacerebbe molto. Piacerebbe a chiunque, del resto».

«Bene. Allora lo darò a chiunque. Toglilo».

«In che senso, chiunque?», domandò mentre gli porgeva l’anello. Le sembrava una follia.

«La prima persona che incontro uscendo dal negozio». Andò nel retro e Polly lo vide compilare un assegno. E se uscendo dal negozio, rifletté Polly preoccupata, incontrasse il postino? Certo, magari il postino ha una moglie, ma non è detto.

Quando fu di ritorno disse: «Ciao, Poll. Che bello incontrarti qui». E le porse il cofanetto. Dentro, su un cuscinetto di raso bianco consumato, c’era l’anello. «Sapevo che la prima persona che avrei incontrato saresti stata tu», aggiunse.

Polly andò in estasi. Un anello! E così bello, per giunta!

«Oh, papà! È il mio primo anello!».

«Volevo essere il primo a regalartene uno».

«Ma è meraviglioso! Posso metterlo subito?».

«Mi offenderei se non lo facessi. Lo smeraldo ti sta molto bene, Poll», osservò quando lei gli mostrò la mano con l’anello. «Hai delle belle mani, come tua madre».

«Ma è davvero uno smeraldo? Una pietra autentica?».

«Sì. È della fine del sedicesimo secolo, a quei tempi non credo ci fossero pietre false. A me sembra uno smeraldo. E così ha detto il gioielliere».

«Dio mio!».

«Sei grande ormai», disse. «Mi ricordo un tempo in cui ti sarebbe piaciuto molto più un gatto di uno smeraldo».

«L’interno è così bello!», disse quando furono risaliti in macchina.

«Sì. È come i cassetti di quel comò alto. A quei tempi importava che le cose fossero fatte bene, anche nei punti meno visibili».

Prima che mettesse in moto, Polly gli gettò le braccia al collo e gli diede tre baci. «Grazie, papà. È il più bel regalo che abbia mai ricevuto!».

Andarono sul lungomare e passeggiarono lungo la schiera di capanne nere alte e strette dove i pescatori riponevano le reti. Era una bella mattina con un vento vivace che disegnava cavalli bianchi sulla distesa liscia del mare. La spiaggia era cinta dal filo spinato e punteggiata di piramidi di cemento che impedivano l’accesso al mare. Camminarono senza parlare, in un confortevole silenzio. Polly era immensamente felice, come non le capitava da tempo. Era pervasa dalla gioia di aver ricevuto l’anello e dall’euforia di dare a Clary il suo regalo. «Respira a fondo, papà», disse. «L’aria di mare ti farà bene». Lui le sorrise, affettuoso e paterno, e poi inspirò facendo un verso buffo.

«Ho respirato molta sana aria di mare», disse. «Cerchiamo un posticino dove mangiare sulla via di casa».

Si sedettero sotto un melo nel cortile del pub e dopo che furono serviti a lui la birra e a lei del sidro, Hugh disse di punto in bianco: «La mamma ti ha parlato della possibilità di sottoporsi a un’altra operazione?».

«Non molto. Mi ha detto qualcosa diverse settimane fa ma poi, quando le ho chiesto se l’avrebbe fatta, mi ha detto che hanno cambiato idea. È successo prima della vostra vacanza».

Vi fu un silenzio durante il quale Polly fissò il bicchiere di suo padre. Era confusa e cominciava ad avere paura. Disse: «È stato un sollievo, no? Lei non lo diceva, ma io lo so che era terrorizzata dall’idea di un’altra operazione, perché dopo la prima è stata tanto male. Sì, deve essere stato un sollievo».

«Lei ha detto così? Un sollievo?».

«Ha detto...». Ci pensò. Le sembrava fosse importante ricordare le parole esatte. «Sono stata io a dire: “Oh, bene! Che bello. Immagino che sarai sollevata”, e lei ha detto di sì. Ha detto di sì, papà. E poi era così felice per la vostra vacanza. Ha detto che era solo stanca perché durante il viaggio di ritorno non è riuscita a dormire molto. E mi ha chiesto di non dirtelo perché non vuole che tu ti preoccupi. Non era niente di grave. Le capitano spesso strane giornate in cui resta a letto».

«Davvero?». Si stava accendendo una sigaretta e Polly notò che gli tremavano le mani.

«Oh, papà. Vi preoccupate così tanto l’uno per l’altra, lo avete fatto sempre. E secondo me quello che lei desidera davvero è poter venire a Londra con te. Le manchi. Credo che dovresti lasciarla venire con te».

«Ci penserò», le disse in un tono che Polly reputò sincero. «Che Dio ti benedica», disse poi; era un modo per chiudere l’argomento e passare ad altro.

Mentre salivano in auto, le disse: «Non vedi l’ora di dare a Clary lo scrittoio portatile, vero?».

«Eccome! Per il mio compleanno mi ha fatto un magnifico regalo. Farfalle di ogni genere in una scatola di vetro... per la mia casa! Ma quando vedrà questo, secondo me piangerà dalla gioia! Sarà felice, per una volta».

«È molto infelice?».

«Oh, papà, è infelice da morire! Non vuole nemmeno prendere in considerazione la possibilità che zio Rupe sia morto e che non lo rivedrà mai più. Inventa storie di ogni genere e ha perfino scritto al generale de Gaulle perché pensava che stesse lavorando come spia in Francia, per mesi non ha avuto risposta e poi ha ricevuto una lettera dove dicevano che hanno svolto un’indagine ma che quel nome non lo trovano da nessuna parte. Io credevo che, di fronte a questo, avrebbe accettato il fatto che è morto, ma invece proprio non ci riesce! Gli vuole troppo bene».

Fu un fulmine a ciel sereno. Suo padre, in modo del tutto improvviso, scoppiò in singhiozzi convulsi e senza lacrime, poggiò la testa tra le braccia, sul volante, e pianse a lungo. Lei si sporse e lo abbracciò ma non riuscì a farlo smettere.

«Papà caro, mi dispiace tanto! Lui era anche tuo fratello e deve essere terribile per te! Tu, al contrario di Clary, te ne rendi conto. Allora è così, vero? Povero papà!».

Dopo un po’ capì che parlare non gli era d’aiuto e continuò semplicemente ad abbracciarlo, senza fiatare; alla fine i singhiozzi si placarono, Hugh tirò fuori il fazzoletto e si soffiò il naso. Quando si fu asciugato la faccia, cosa che fece con gesto un po’ goffo (del resto, pensò Polly, non doveva essere abituato a piangere), disse: «Mi dispiace, Poll».

«Non dirlo nemmeno. Capisco perfettamente».

Una volta che furono sulla via di casa, Polly disse: «Non lo dirò a Clary. Sarebbe sconvolgente per lei sapere che per te non ci sono speranze. Però...», aggiunse incerta, non volendo rattristarlo ancora, «...un po’ di speranza c’è sempre, no, papà? Tu non credi?».

«Deve esserci», rispose lui, a voce talmente bassa che lei lo sentì appena.

Dopo quel giorno, di rado le capitò di poter rimanere da sola con papà, perché, per equità, lui dovette portare fuori anche Simon e comunque trascorreva la maggior parte del tempo con mamma e Wills. Clary non fu granché colpita dall’anello con lo smeraldo, finché Polly non le disse che risaliva all’epoca elisabettiana, e allora le chiese di poterlo provare. «Può averlo indossato chiunque! Per esempio una delle dame di compagnia di Maria Stuarda. Pensaci! Magari era lì quando hanno decapitato quella poveretta! Devo ammetterlo, è un oggetto fantastico!». Invece andò subito in visibilio per lo scrittoio portatile; restò senza parole e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Ma allora... tu mi vuoi proprio bene...», disse. «Guarda! Un cassetto segreto». Sfiorandolo aveva aperto un cassettino basso, sotto il vano per la carta. Conteneva un piccolo, sottile pezzo di carta piegato per raggiungere le dimensioni di una busta. Una volta aperto, il foglio risultò ricoperto di una grafia sottile in due direzioni diverse e perpendicolari. «Come le lettere nei libri di Jane Austen! Oh, Poll, che emozione! Mi ci vorrà una vita per leggerla. L’inchiostro è tutto sbiadito! Forse è una lettera molto importante». Cercarono di capire cosa vi fosse scritto, ma anche con l’aiuto di una lente d’ingrandimento non furono in grado di decifrarla tutta. «Mi pare parli perlopiù del tempo e del prezzo della mussola», disse alla fine Clary. «Dovrà pur esserci dell’altro... o forse è un codice, il fatto è che ogni volta che mi sembra di vedere una parola importante, quella s’incrocia con una riga perpendicolare e non si legge più».

Strano a dirsi, quando la mostrarono a Miss Milliment, lei seppe decifrarla subito. «Si usava scrivere così, quando ero piccola», disse. «La corrispondenza costava cara e bisognava risparmiare sulla carta». In effetti parlava del tempo e del prezzo non solo della mussola, ma anche del pizzo, della lana merino e perfino dei manicotti.

«È comunque una lettera antica», disse Clary mentre la ripiegava amorevolmente. «La terrò sempre qui, nel suo comparto segreto. Polly, è la cosa più esotica e bella che abbia mai posseduto. Ci terrò i miei scritti». Stava scrivendo una serie di racconti collegati l’uno all’altro da vari personaggi, e a volte ne leggeva dei brani a Polly, che li trovava molto più interessanti delle peripezie di zio Rupe in Francia. Però le leggeva solo le parti su cui aveva dei dubbi, perciò Polly non riusciva a farsi un’idea dell’intera storia. «Tu sei una cassa di risonanza», le diceva severamente. «Non è necessario che ti diverta».

Adesso, mentre si affrettava a togliere tutto ciò che era posato sul tavolo da toletta in modo da fare spazio allo scrittoio, le disse: «Grazie, Poll. Tu devi proprio essere... tu sei la mia più grande amica. Poi aggiunse: «Ma ti sarà costato molti soldi», e Polly, sapendo che questo avrebbe dato ancora di più a Clary la sensazione di essere amata, disse: «Sì. Un bel po’». Sentiva che stava riuscendo a fare del bene agli altri, il che, per chi non aveva talenti particolari, era un buon risultato.

«Come credi fosse Miss Milliment da bambina?», le domandò mentre si preparavano per la cena.

Clary ci pensò su. «Una pera coi codini?», suggerì. «Chissà se qualcuno le diceva mai che era una bella bambina».

«Non è possibile. Magari qualcuno che voleva essere gentile con lei».

«Be’, immagino ne avesse bisogno».

«Oh, io non credo. Le madri pensano sempre che i loro figli siano belli. Prendi Zoë con Juliet».

«Juliet è deliziosa», disse subito Clary. «Prendi tua madre con Wills, invece: lo so che è tuo fratello, ma non si può certo definirlo una bellezza».

Entrambe si stavano preparando con particolare cura, perché un tale che era stato amico di zio Rupert era atteso per l’ora di cena. Clary ci teneva particolarmente perché si trattava di un amico di suo padre, Polly perché le piaceva vestirsi, spazzolarsi i capelli cento volte, tirarsi in su le sopracciglia col dito e lisciarle in una linea sottile, fare in modo che la riga delle calze fosse dritta e indossare qualche gioiello. Per Clary, farsi bella voleva dire stirare la camicetta buona, cercare delle calze non spaiate e darsi la pena, perlopiù vana, di provare a togliere le macchie d’inchiostro. Nessuna esplicitò di essere intenta a preparativi eccezionali, ma ognuna delle due sapeva che anche l’altra lo era.

«Chissà che tipo è l’amico di papà», disse Clary con studiata noncuranza.

«Be’, di certo è vecchio».

«Che intendi per vecchio?».

«Troppo vecchio per noi. Sui quaranta o quasi».

«Da come parli sembra che tu abbia pensato di sposartelo».

«Non dire sciocchezze. Oltretutto sarà di certo già sposato. Vista l’età...».

«Invece no. So per caso che la ragazza che voleva sposare lo ha rifiutato, e anche per questo è andato a vivere in Francia. Me lo ha detto papà».

«Vuoi dire che c’è un trauma nella sua vita?». Polly non seppe nascondere la sua curiosità.

«È probabile. Lo capiremo quando lo vedremo. Perciò occhi ben aperti, poi confronteremo le nostre impressioni. Archie Lestrange. Archibald Lestrange», ripeté. «Sembra un personaggio di un libro di John Buchan. Archie l’eroe. Archibald il cattivo».

* * *

Era senz’alcun dubbio Archie l’eroe, pensò Polly. Altissimo di statura, con una fronte alta e tonda e i capelli scuri un po’ radi sulle tempie. Aveva le palpebre pesanti, con l’espressione di chi dentro di sé se la ride, oppure vorrebbe farlo.

Era stato ferito e zoppicava; aveva anche una leggera balbuzie. La Duchessa lo volle seduto vicino a tavola e gli era evidentemente molto affezionata. Parlarono dei tempi andati, del periodo che aveva preceduto questa guerra e, pensò Polly, di quello subito dopo la guerra precedente, quando lui era spesso loro ospite nella casa di Totteridge; parlarono anche di quando lui e Rupert frequentavano la Slade. Sembrava conoscere bene la famiglia, non solo i nonni, ma anche papà e zio Edward e zia Rach. Era stato testimone di nozze di Rupert quando aveva sposato la madre di Clary, e naturalmente conosceva anche la mamma e zia Villy, sebbene con loro avesse meno confidenza. Per cena c’erano pollo arrosto e salsa di pane, e lui disse che era meraviglioso mangiare finalmente del buon cibo. «Nelle Coastal Forces», disse, «le navi sono troppo piccole per avere un cuoco professionista e per quel lavoro si offrono solo i marinai più incapaci. C’erano grossi cosciotti rosa di agnello sanguinolenti, oppure neri come il carbone, per non parlare di quelle patate indescrivibili... grigie e lucide che sembravano piccole facce terrorizzate!». Dopo raccontò che aveva fatto domanda per la Trade, ma di sottomarini per gente della sua statura non ne fabbricavano.

Più tardi, mentre si spogliavano per andare a dormire, Clary e Polly si scambiarono le loro impressioni.

«È simpatico. Capisco perché a tuo padre piaceva. Ha un aspetto strano, però. Un po’... cupo».

«Ha sofferto molto. Trovo che sia una figura tragica. La gente spesso comincia a balbettare dopo che gli è capitato qualche fatto grave».

«Vuoi dire la ferita alla gamba?».

«No, sciocca. Mi riferivo alla donna che si è rifiutata di sposarlo. Credo che questo gli abbia fatto venire un complesso d’inferiorità».

Ultimamente attribuiva queste caratteristiche a chiunque, aveva notato Polly, anche perché era una teoria difficile da smentire.

«A me non sembrava così inferiore».

«Non vuol dire essere inferiori, ma sentirsi tali».

«Oh, be’. E chi non ci si sente?».

«Non è buffo? Uno sta con se stesso sempre, perciò dovrebbe avere un’idea di se stesso più chiara di quella che hanno gli altri. E invece... prendi te, Poll: sei terribilmente carina, presto sarai bellissima, e sei anche buona e gentile, e dici sempre che non sai cosa fare, che non sei brava in niente e via dicendo».

«Lo dici anche tu di te stessa».

«Eh sì», replicò Clary. «Io ho le sopracciglia spesse e delle brutte gambe con grosse ginocchia, non ho le belle caviglie sottili che hai tu, ho un caratteraccio e soffro di claustrofobia – non lo negare, lo hai detto tu stessa! –, perciò mi pare di avere ragioni sufficienti per sentirmi inferiore».

«Ecco, l’hai detto».

Ormai Archie Lestrange era dimenticato, e per mezz’ora ingaggiarono una gara di autodenigrazione in cui ognuna contestava con puntiglio le argomentazioni dell’altra, finché Clary non fu vinta dal sonno, cosa che accadde come sempre senza il minimo preavviso: un momento parlava a raffica e quello subito dopo dormiva.

La mattina seguente Clary disse: «A proposito di Archie... mi ha detto lui di chiamarlo così... ho notato che era molto timido con zia Rach».

«È una donna non sposata. Probabilmente si comporta in questo modo quando ne incontra una, dopo quello che gli è successo».

«Oh, è vero. Poverino».

In agosto arrivò la deludente notizia che Angela non si sarebbe sposata né avrebbe avuto il bambino. Di brutto, pensò Polly, c’era il fatto che poteva dire addio alla possibilità di fare da damigella, una cosa che aveva sempre desiderato ardentemente. La prima delle due novità giunse come risposta a una domanda diretta: zia Villy pensava che Angela avrebbe voluto una damigella? No, perché non si sposava più. La seconda invece le fu comunicata indirettamente da Louise, che era a casa per una settimana a causa di ingenti lavori di ristrutturazione nel suo teatro e che aveva ricevuto da Nora una lettera in cui si dichiarava sconvolta dal fatto che Angela non avrebbe avuto il bambino.

«È singolare», osservò Clary. «Sembrerebbe più logico il contrario». Louise si rifiutò di parlare con loro della faccenda per la solita ragione che non erano affari che le riguardassero e che comunque erano troppo giovani.

«Come si fa a essere troppo giovani per una conversazione, su qualunque argomento?», protestò Clary. Quella storia non aveva destato in lei nessun interesse fino al momento in cui le avevano detto che non poteva saperne niente, e questo aveva risvegliato la sua curiosità e i suoi sospetti. «Con Louise ho chiuso. Davvero. Ha superato il limite». Domandò a Zoë cosa ne pensasse e Zoë disse che forse Angela aveva avuto un aborto. «Ma l’uomo che voleva sposare è già sposato», aggiunse. «Perciò, a lungo andare, è stato meglio così». Quando Clary lo raccontò a Polly, entrambe alzarono gli occhi al cielo per l’espressione alungoandare; Clary disse che lei preferiva le scorciatoie ed entrambe risero di gusto.

Era strano, pensò Polly mentre raccoglieva i fagiolini che Mrs Cripps avrebbe tagliato e messo sotto sale per l’inverno, essere tanto frivola. Lei poteva ridere e scherzare con Clary, giocare con Wills, darsi da fare per essere carina e intanto si combatteva una guerra, e da quanto ne sapeva le cose non si stavano mettendo bene per gli Alleati. Hitler faceva progressi preoccupanti in Russia e in giro si diceva che le provocazioni dei giapponesi stavano passando il segno e che, se fossero entrati in guerra al fianco di Hitler, questo avrebbe significato prolungarla ancora chissà quanto oppure, peggio, che Hitler avrebbe vinto: sarebbe tornata la paura, come l’estate precedente, quando un’invasione sembrava alle porte.

Sempre determinata a portare avanti il suo progetto di spendersi per rendere migliore la vita degli altri, Polly decise di suggerire a sua madre di andare a Londra a stare con papà. «Ascolta, mamma. Potrei occuparmi io di Wills al posto tuo, durante la settimana. E tu verresti comunque ogni sabato e domenica. Anche Ellen mi darebbe una mano, ne sono certa. E allora perché non dici semplicemente a papà che ti trasferisci? O meglio ancora lo fai e basta... pensa che bella sorpresa gli faresti quando torna dall’ufficio! Non voglio suggerirti quello che devi fare...», disse, anche se non le sembrava che il suo tono fosse arrogante. «Sono convinta che lui ti vorrebbe lì, ma non vuole che ti affatichi».

Sua madre era intenta a cucire le fettucce sui calzini e sui fazzoletti per il prossimo semestre di Simon. «Cara, non posso andare via adesso che Simon è qui per l’ultima settimana di vacanza. Lo sai quanto gli pesa tornare a scuola».

«Va bene, ma potrai farlo quando sarà partito».

«Ci penserò». Poi aggiunse in tono lamentoso: «Oh, perché non possiamo stare tutti insieme? Simon che deve andare in collegio, Wills che è piccolo e ha bisogno di me, Hugh che deve stare a Londra! È terribile. Non sono una brava cuoca, sai. Non so se sarei capace di cucinare delle cose che possano piacere a Hugh».

«Oh, mamma! Puoi fare come zia Villy quando Mrs Cripps ha la serata libera. Prende il ricettario e fa esattamente quello che c’è scritto. Ti ricordi lo stufato di coniglio della scorsa settimana?».

«Va bene cara. Ci penserò, te lo prometto». Ma lo disse in un tono da cui si capiva che preferiva pensare piuttosto che parlare.

Be’, pensò Polly, io ho fatto del mio meglio. Le sembrava bizzarro che una persona che desiderava ricongiungersi a suo marito si desse tanta pena per il cibo.

Teddy e Simon tornarono in collegio. Papà se li portò via una domenica pomeriggio e andarono a cena nel suo club, poi li accompagnò in stazione il mattino dopo. Teddy partì senza il più piccolo timore: erano gli ultimi due semestri e, dato che agli esami estivi non era andato molto bene, doveva ripeterne alcuni, dopodiché, come non si stancava mai di ripetere, avrebbe potuto arruolarsi e imparare a volare. Simon, invece, quella domenica si sentì male, non volle pranzare e passò la giornata appiccicato alla mamma. Polly giocò con lui a carte e a scacchi, ma anche la facile sconfitta che le inflisse a quest’ultimo gioco non bastò a tirargli su il morale. Tutti cercavano di essere allegri e incoraggianti: «Presto sarà Natale», gli disse Polly. «A te piace tanto!».

«Forse ho mal di denti», disse lui durante la merenda. «Mi sento proprio come se da un momento all’altro dovesse cominciare a farmi male un dente. È strano, ma di solito non mi sbaglio su queste cose».

Ma questo, lo sapeva Polly e lo sapeva lui, non fece la minima differenza. Dopo averlo salutato sfoggiando un gran sorriso, sua madre si voltò e tornò in casa con passo lento, e quando Polly andò a chiamarla per la cena, disse che non voleva mangiare. Aveva pianto, la voce suonava indistinta e impastata, e per poco non la cacciò via chiudendole la porta in faccia.

Poi iniziarono le lezioni anche per lei, Clary, Lydia e pure Neville, che se ne tornò a scuola di buona lena, disse Clary, perché aveva imparato a fare una perfetta imitazione di Lord Haw-Haw e non vedeva l’ora di esibirsi.

Archie Lestrange, che la prima volta era rimasto da loro per due settimane, tornò in settembre, e Clary se ne rallegrò tanto che Polly si chiese se per caso non si fosse innamorata. Parlò di questa possibilità con lei, che s’indispettì moltissimo; le disse che era pazza, che cercava sempre di rovinare tutto e che doveva essere proprio idiota per farsi venire un’idea tanto assurda e disgustosa. Poi mise il broncio e per due giorni se ne andarono a letto (il momento peggiore) e si svegliarono al mattino in un silenzio ingessato e carico di tensione. Alla fine Polly si scusò con le parole più umili che le riuscì di trovare e Clary, dopo aver ribadito quanto era stata stupida a concepire quel sospetto, la perdonò. Più tardi, mentre facevano a turno il bagno nella stessa poca acqua tiepida, Clary le disse: «Del resto posso capire perché ti sia venuta quest’idea folle. Il fatto è che lui mi è proprio simpatico. È anche carino e mi fa ridere – come papà –, e poi lo ammiro per le sue opinioni sulle cose».

«Quali cose?».

«Oh, quasi tutto. Certo, non è che abbiamo parlato proprio di tutto, ma lui è d’accordo con me che le donne devono poter fare carriera e che la letteratura è molto importante e che, quando si dice che una persona è peggio di un animale, si fa un complimento agli animali... e poi a volte mi parla di mia madre, la conosceva bene, sai? Hai presente quella cartolina che mi aveva mandato, dove scriveva che mi voleva bene? Be’, lui era in vacanza con lei e papà quella volta, e si ricorda bene che mamma aveva detto: “Devo mandare una cartolina alla mia piccola Clary”. Mi ha raccontato un sacco di cose. Le piaceva vestirsi di blu e beveva una cosa chiamata Dubonnet, che si prende nei caffè, non poteva mangiare i gamberi e gli scampi e cose del genere, e nemmeno le fragole, ma mi ha detto che in quel periodo dell’anno non c’erano, perciò non aveva importanza. E sai la cosa più bella? Una sera le ha chiesto se era felice e lei ha detto: “Penso di essere la persona più fortunata del mondo. Mi dispiace solo di non avere Clary qui con me”. Doveva volermi bene per dire una cosa del genere, ti pare?». Vedendo gli occhi di Clary, che erano lo specchio fedele del suo cuore, e dell’amore tenace che il tempo e le disgrazie non avevano scalfito, Polly si sentì troppo commossa per dire qualunque cosa.

Dopo aver lavato la schiena a Clary però disse: «Capisco che ti piaccia. È simpatico anche a me, ma nella tua posizione è diverso».

La settimana seguente sua madre andò davvero a Londra e non lo disse a suo padre, per fargli una sorpresa. Polly era molto contenta di sé per essere stata promotrice di quell’idea, ma i pomeriggi con Wills furono più spossanti di come se li era aspettati. Stava attraversando un’età terribile, si diceva. Pareva che volesse fare solo cose che erano pericolose per lui o per gli altri, e quando gli veniva impedito si buttava a terra, inarcava la schiena e si metteva a strillare. «Comincio a pensare che diventerà un dittatore», disse a Ellen verso la fine del secondo giorno.

«È solo che vuole fare a modo suo», disse lei con tranquillità. «Lascialo lì in terra e ignoralo. La smetterà». E la smetteva infatti, solo che dopo un po’ ricominciava. Tra una scenata e l’altra era molto affettuoso e le sorrideva in modo adorabile. Ma Polly rifletté cupa che i dittatori sapevano essere molto seduttivi quando volevano.

Il venerdì seguente, quando i suoi tornarono, trovò la madre in condizioni allarmanti. Sembrava esausta: il viso insolitamente giallastro, cerchi scuri intorno agli occhi. Anche papà aveva l’aria prostrata, ma entrambi salutarono con ostentata allegria, poi sua madre disse che andava di sopra a riposare un po’ prima di cena. Polly l’accompagnò per vedere se voleva che le disfacesse i bagagli o che le portasse una tazza di tè, ma lei disse di no, che non voleva niente: stava rovistando nella borsa e alla fine estrasse una bottiglietta di pillole.

«Oh, mamma, non devi prendere altre aspirine... ti ricordi cos’ha detto il dottor Carr?».

«Non sono aspirine. A forza di stare seduta in macchina mi è venuto il mal di schiena». Ne versò due sul palmo della mano se le cacciò in bocca.

«Non vuoi un bicchiere d’acqua?».

«No, non mi serve». Era seduta sul bordo del letto e si stava togliendo le scarpe con i piedi. Poi alzò gli occhi di scatto e disse in uno strano tono – un po’ scherzoso un po’ supplichevole: «Ma non lo dirai a tuo padre, vero? Si agiterebbe tanto, e io non lo reggerei. Me lo prometti?».

Promise, ma si sentiva a disagio. Quando sua madre si fu messa a letto, la coprì con la trapunta, le baciò la fronte calda e umida e se ne andò.

Restò a tentennare sul pianerottolo, indecisa se andare in cerca di papà, non per dirgli delle pillole, no, aveva promesso di non farlo, ma per provare a sapere da lui come mai la mamma era in quelle condizioni... probabilmente erano usciti tutte le sere per andare a teatro o a cena.

Poi udì delle voci provenienti dal soggiorno, perché la porta doveva essere rimasta aperta.

«...una cosa terribile, ma ho dovuto fingere che andasse tutto bene, ovviamente».

Sentì lo spruzzo del sifone per la soda. Poi la voce di suo padre disse: «Grazie Villy. Ne avevo proprio bisogno».

Zia Villy disse: «Caro Hugh, mi dispiace così tanto. Che cosa posso fare?».

«Sei molto cara, ma non c’è niente da fare».

«Sei certo che lei non lo sappia?».

«Non lo sa. L’ho messa alla prova questa settimana, e per fortuna non ne ha idea».

«Le servirà assistenza, sai. Voglio dire, per adesso posso pensarci io... ma dopo...».

Sentì dei passi dirigersi verso la porta e si schiacciò contro la balaustra. Ma la porta venne chiusa e da quel momento udì solo dei mormorii indistinti.