Louise
Autunno-inverno 1940

Era la prima cena davvero da adulti a cui partecipava. Non una cosa di famiglia, nella quale automaticamente sarebbe stata relegata nel ruolo marginale di un’adulta a metà, ma una cena in cui, a parte l’amica di mamma, Hermione Knebworth, che l’aveva invitata, nessuno la conosceva, tutti erano più grandi di lei e la trattavano alla pari. Hermione – quanto era gentile! – l’aveva voluta invitare di punto in bianco e soprattutto era stata lei a convincere mamma a lasciarla venire a Londra e a passare la notte in casa sua. In verità Hermione aveva detto a Villy: «Cara, ho un bisogno disperato di una ragazza giovane! Qui sono tutti vecchi bacucchi e sono sempre gli stessi! Inoltre è ora che Louise faccia la conoscenza di qualcuno che non sia uno di quegli artistoidi della scuola di recitazione». Ma Louise questo non lo sapeva. Sua madre le aveva detto soltanto che Hermione desiderava parlarle.

«Hermione? Non conosco nessuno che si chiami così, a parte naturalmente la moglie di Leonte».

«Hermione Knebworth. Certo che la conosci». Villy doveva gridare perché Louise si era fermata sul pianerottolo in cima alle scale e lei era nello studio del Generale. «Louise! Vieni qua subito, per favore. Si tratta di un’interurbana».

Louise aveva iniziato a fare (quasi) tutto quello che sua madre le chiedeva, solo che lo faceva molto, molto lentamente. Ora, mentre scendeva le scale con il massimo della calma, pareva il ritratto della dignità offesa.

«Dacché la mia risposta non può che contraddire l’accusa», mormorò. «E il solo testimonio a mio scarico non posso essere che io stessa...»6.

«Louise!».

Ma l’invito si era rivelato una cosa davvero eccitante. Del resto tutto era meglio che stare a Home Place a fare la muffa. La scuola di teatro aveva chiuso i battenti dopo l’attacco aereo e, nonostante avesse cercato lavoro presso varie compagnie di repertorio, nessuno l’aveva voluta. Non possedeva un abito da sera decente e avrebbe desiderato prenderne in prestito uno dalla madre, che però naturalmente non aveva voluto saperne, sostenendo che erano troppo da grandi per lei, e così le era toccato rassegnarsi al vecchio vestito di raso color corallo che ormai le dava la nausea e le andava pure un po’ corto.

Invece, quando giunse nel lussuoso appartamento di Hermione a Mayfair, la prima cosa che la sua ospite disse fu: «Immagino che ti farà piacere andare a prendere qualcosa di carino per stasera». E l’aveva portata nel suo negozio che distava solo cinque minuti da casa. Aveva scelto per lei un abito di chiffon azzurro cielo con le spalline pieghettate col quale non si poteva indossare il reggiseno, prospettiva eccitante di per sé. Hermione le aveva dato anche una bella scatola con dentro delle culotte, una sottoveste di seta azzurro chiaro con l’orlo di pizzo bianco e un bellissimo paio di calze di pura seta.

E adesso otto persone sedevano nella sala da pranzo blu notte di Hermione – di giorno era buia come l’inferno, ma tanto lei non pranzava mai in casa –, con le candele sopra il tavolo, a consumare la cena favolosa che la padrona di casa aveva fatto portare da un albergo nelle vicinanze: caviale, che Louise non aveva mai mangiato prima, pernice arrosto, mousse di cioccolato e champagne rosa; e poi un piatto di squisiti stuzzichini a base di funghi e bacon croccante. Mangiò tutte le portate, ma non parlò molto perché l’atmosfera era per lei insolita, tutti erano così tanto più grandi e aveva paura di dire qualcosa fuori posto. C’erano due coppie, gli uomini in uniforme e le donne in abito da sera, naturalmente; c’era anche un tale che non doveva essere troppo vecchio, ma era molto taciturno e sembrava non avere occhi che per Hermione, anche se lei a malapena gli badava; poi c’era un uomo con l’uniforme della Marina, seduto accanto a Hermione e di fronte a Louise. Non era decrepito come le coppie sposate, ma vecchio lo era eccome: almeno trent’anni, pensò. Lei era seduta tra due ufficiali dell’esercito che si comportarono in modo gentile e noioso, domandandole dove vivesse e cosa facesse, poi Hermione li interruppe dicendo: «Malcolm, è la figlia di Edward Cazalet... ti ricordi di Edward?».

«Oh, ma sì, certo». E Louise si accorse che sua moglie cominciò a guardarla con rinnovato interesse.

Adesso tutti punzecchiavano Hermione perché era riuscita a mettere insieme una cena così buona. «Ci riuscirebbe anche se fossimo sopra un’isola deserta!».

«Per fortuna non è questo il caso».

«Non saprei se è una fortuna. Le notti sarebbero senz’altro più tranquille, non le pare?».

«Io dormo quasi sempre all’Ufficio di Guerra. Sottoterra. Non si sente niente».

«Marion poverina non potrebbe mai farlo».

«Marion poverina passa le notti a giocare a carte in una sede dell’ARP7!».

«Non è affatto vero! Ci sono incidenti uno dietro l’altro, adesso che se la stanno prendendo col West End».

«Hermione invece», proseguì imperterrito quel tale, «vende vestiti».

Il tipo taciturno si animò all’improvviso. «Questo è falso», esclamò. «Hermione si alza ogni mattina alle cinque e va a lavorare in una fabbrica di munizioni».

L’altro uomo non troppo vecchio alzò gli occhi dalla pernice. «Davvero? Hermione, abbiamo passato tante ore insieme e non me l’hai mai detto».

«Non lo dice a nessuno».

«Comunque probabilmente dovrò smettere». Hermione lo disse col tono di chi vuole dichiarare chiuso l’argomento.

Ma il tipo taciturno non si lasciò zittire.

«E sapete perché? Ha trovato un modo per fare la sua parte del lavoro più in fretta di tutti gli altri e questo ha portato scompiglio nella catena di montaggio. In pratica, si è fermata la fabbrica».

«John, caro, non parliamone più! Tra l’altro, è un argomento così noioso». Ma gli sorrise con quegli occhi grigi e intelligenti, poi gli chiese di accenderle una sigaretta e lui ripiombò nel suo totale silenzio adorante.

Della guerra in senso stretto non si parlò, ma ci furono dei pettegolezzi riguardo ad alcuni personaggi di spicco. Il generale de Gaulle: «Un uomo goffo, molto rigido, che non ha niente del proverbiale tatto dei francesi», disse quello che dormiva all’Ufficio di Guerra. E poi il generale Ismay che, a quanto pareva, aveva frequentato la stessa scuola di uno dei presenti. «Un bel tipo... che va d’accordo con tutti». Tutti si dissero contenti della rielezione del presidente Roosevelt. «È molto più probabile che venga in nostro aiuto lui di un qualsiasi repubblicano». Poi la conversazione prese una noiosa deriva tecnica, con gli uomini che parlavano di un certo accordo fatto da Churchill per cinquanta cacciatorpediniere americani. Le donne si erano messe a parlare di bambini. «Non ci crederai mai: Jonathan piangeva perché non ci sono stati i fuochi d’artificio la notte di Guy Fawkes!». Louise stava cominciando a provare un senso di delusione quando il tale seduto di fronte a lei si chinò sul tavolo e le disse a voce così bassa che lei lo sentì a malapena: «Sei stupenda!». E sostenne il suo sguardo con un’espressione di ammirazione così irresistibile che Louise si sentì arrossire e non le venne in mente una risposta.

Lui allora le sorrise e le disse: «Forse i cacciatorpediniere non sono il tuo argomento preferito?».

«No davvero. A chi possono interessare?».

«Be’, a me per esempio, dato che ci lavoro sopra».

«Oh!». Ecco in che genere di trappole si cadeva quando non si conosceva nessuno! «Chiedo scusa», disse.

«E qual è invece il tuo argomento prediletto?».

«Be’, sto studiando recitazione. Stavo, dovrei dire, perché la mia scuola ha chiuso dopo l’attacco aereo». E poi diventò tutto facile: gli raccontò dei provini che aveva fatto invano presso le compagnie di repertorio, del progetto della scuola di trasferirsi in campagna, in un teatro libero, e di riconvertirsi in una compagnia di studenti; della sua preferenza per le parti maschili in Shakespeare; della sua famiglia che non l’appoggiava e pensava che dovesse invece partecipare allo sforzo bellico.

«Non lo mangi il pudding? È buonissimo, davvero».

«Non vado pazza per il pudding», mentì, ma le sembrava il genere di frase che avrebbe detto un’adulta.

«Davvero? Io invece sì. E più sono indigesti, più mi piacciono. Il rollè di rognoni con la melassa era il mio preferito, a scuola».

Questo la colse alla sprovvista. «Be’, alcuni piacciono anche a me. È solo che ho mangiato davvero tanto stasera».

«Probabilmente sei molto saggia».

Qualcuno reclamò la sua attenzione, e lei mangiò qualche cucchiaino di mousse al cioccolato per non apparire maleducata. Quando alzò gli occhi, Hermione le rivolse un sorriso meravigliosamente rassicurante. Poco prima l’aveva presentata dicendo: «Lei è mia figlia». “Magari lo fossi davvero”, pensò Louise. Sarebbe stata una madre perfetta. Era elegantissima nel suo abito di seta rossa con scarpe in tinta. Profumava di gardenie. Louise lo sapeva solo perché glielo aveva chiesto. Un lieve sentore che si respirava in tutto l’appartamento, come se le bastasse entrare in una stanza per lasciarvi il suo profumo. «È Caron’s Bellodgia», le aveva detto. Era stato prima dell’arrivo degli altri ospiti, quando aveva passato in rassegna il tavolo rotondo raddrizzando forchette e coltelli, lisciando tovaglioli, ravvivando rose, dicendo al cameriere di cambiare i bicchieri da vino. Sembrava riuscisse a fare ogni cosa in maniera perfetta e in pochi secondi, e Louise aveva notato come anche ai camerieri non dispiacesse la sua voce strascicata e perentoria quando diceva loro che avevano sbagliato. «Non sopporto i piattini da burro di vetro», aveva detto. «Cambiateli. Come ho già detto, devono essere di porcellana bianca. E non si devono vedere tracce di prezzemolo». E tutti rispondevano: «Sì, signora», e si precipitavano a prendere quello che aveva chiesto.

Dopo cena, la serata proseguì in salotto, dove c’erano poltrone dai braccioli dorati – che le ricordavano un po’ la casa di Stella – e dove fu servito il caffè con lo zucchero, zucchero vero. Il tale che le aveva fatto i complimenti prima – le pareva di ricordare che si chiamasse Michael – era seduto accanto a lei, ma Louise si vergognò di chiedergli il cognome, perché lui glielo aveva detto quando erano stati presentati e non lo ricordava.

Ma poi Marion disse: «E il famoso quadro? È finito? Posso vederlo?».

E lui rispose: «L’ho lasciato nell’ingresso. Appartiene a Hermione».

«Sono felice di mostrartelo. Portalo qui, Michael».

Era un ritratto a grandezza naturale di Hermione con un abito di seta grigio, in piedi accanto a un caminetto di marmo bianco e con un braccio posato sulla mensola. Alle sue spalle, dal lato opposto del caminetto, c’era una tenda di velluto giallo, scura e piuttosto sudicia. Il dipinto era splendido, pensò Louise. Si capiva subito che si trattava di Hermione: i capelli, i tratti del volto, ogni cosa era fedele, ma allo stesso tempo non se ne ricavava un’idea precisa di come Hermione fosse in realtà. Il raso del vestito, le pieghe pesanti del velluto, le venature bianche del marmo erano tratteggiati con maestria. A Louise parve un ottimo dipinto, ma non un buon ritratto. Non ci fu bisogno che esternasse il proprio parere, perché tutti esclamarono subito: «Favoloso! È proprio uguale a te! Una meraviglia! Temevo fosse uno di quei quadri moderni dove non si capisce nemmeno cosa sia rappresentato, figuriamoci poi riconoscere una persona!».

Hermione disse: «Mi lusinga, ma immagino che se così non fosse stato mi sarei dovuta arrabbiare».

Presto gli ospiti esaurirono i commenti al riguardo, ma Louise notò che Michael continuava a osservare il quadro con un’espressione seria, quasi lo vedesse per la prima volta.

Poco dopo, qualcuno propose di andare in un locale notturno. «È suonato l’allarme», fu obiettato, poi un altro dichiarò: «Non intendo lasciare che Herr Göring rovini la mia vita notturna».

Marion disse: «Io credo che per stasera rinuncerò. Domani sono di turno e ho un disperato bisogno di dormire. Tu però vai, Frank, se ne hai voglia».

«No. Ti porto a casa e poi andrò al vecchio bunker. Sarò pure un soldato da scrivania, ma al momento ho un mucchio di lavoro da fare».

Alla fine, andarono in quattro: Hermione, il taciturno John, Michael e Louise, all’Astor, in Berkeley Street, con la macchina di John.

Il posto le parve molto buio quando entrarono, ma Louise notò che ci si abituava subito. Era pieno, ma tutti conoscevano Hermione e dopo poco procurarono loro un tavolo. Ordinarono dello champagne e Michael disse che avrebbe gradito anche dell’acqua minerale. Hermione chiese a Michael di farla ballare e Louise, un po’ delusa, fu lasciata da sola con John. Anche lui era chiaramente scontento degli ultimi sviluppi.

«Balliamo?», le disse senza convenevoli.

Era facile ballare con lui: la piccola pista era gremita e lui era bravo a evitare gli altri ballerini.

«Ti è piaciuto il ritratto?», domandò Louise per riempire il silenzio.

«Non capisco niente di pittura», replicò. «Ma suppongo che chiunque possa dipingere un bel quadro, con Hermione come modella».

«È la donna più affascinante che io conosca».

Questo lo animò. «Lo è davvero! Ed è anche molto intelligente. In effetti è la persona più straordinaria che io abbia mai incontrato. La conosci da molto?».

«Be’, è una vecchia amica di mia madre. Perciò, in un certo senso, sì. Ma del resto uno non conosce mai bene gli amici dei propri genitori».

«Immagino sia così». Poi aggiunse, dopo un breve silenzio: «Michael lo conoscevi?».

«Mai visto prima di stasera. Come fa di cognome?».

«Non lo sai?». Per qualche ragione la cosa gli fece piacere. «Pare sia piuttosto famoso. Un ritrattista di grido. Un suo quadro costa una fortuna. Hermione non avrebbe mai potuto permetterselo. Si tratta di un regalo, ma lei non vuole dire di chi». E tornò a deprimersi.

«Come ha fatto a dipingerlo se è in Marina? Mi ha detto che presta servizio su un cacciatorpediniere».

«È in congedo per malattia. Ha avuto l’appendicite. Il medico di bordo ha dovuto procedere con l’asportazione dell’appendice. La cosa si è un po’ complicata e adesso è in licenza per circa sei settimane». In quel momento la musica cessò e tornarono al tavolo.

Quando fu il suo turno di ballare con Michael, Louise constatò che era un ballerino provetto. Suonavano un quickstep, e lui le fece fare le evoluzioni più complicate. Lo sforzo di stargli al passo le mise addosso una gran tensione.

«Rilassati e segui me», le disse, ma queste istruzioni non le furono d’aiuto.

«Mi dispiace. Non sono abbastanza brava per te».

«Sciocchezze! Ho solo fatto più pratica. Andavo all’Hammersmith Palais ogni settimana, un tempo. Visto? Quando ti tocco la spalla, devi andare nell’unica direzione in cui puoi muoverti».

Ma per lei non era così semplice.

«Gli altri stanno ballando», disse. «Torniamo al tavolo e facciamo due chiacchiere. È da poco che mi occupo di cacciatorpediniere. Fino a poco tempo fa mi occupavo di volti. E tu hai un volto davvero fuori dal comune. Non vedo l’ora di disegnarlo. Molti ritengono che i miei quadri siano volgari, e probabilmente hanno ragione, ma nel disegno me la cavo. Posso farti un ritratto a matita?».

«Non saprei». Era stupefatta dalla descrizione che aveva appena udito della propria faccia e non vedeva l’ora di andarsene per vedere che cosa fosse cambiato dall’ultima volta che si era guardata allo specchio. «Sono in città solo per stanotte. I miei non vogliono che resti a Londra».

«Hanno ragione, certamente. Be’, forse potresti...».

Ma in quel momento accadde una cosa così straordinaria che il tempo parve fermarsi. Ci fu un’esplosione sorda, molto forte, poi tutto iniziò a traballare, come se le pareti si stessero sforzando di restare in piedi; i grossi lampadari dalla luce soffusa tremarono con un tintinnio irregolare, i paralumi rossi sui tavoli vibrarono, lo champagne ondeggiò nei bicchieri. Tutti trattennero il fiato e una donna emise un «Oh!», acuto e innaturale, ma tutto accadde nello stesso brevissimo lasso di tempo. Poi, molto lentamente, un pezzetto d’intonaco staccatosi dal soffitto cadde sul loro tavolo, accanto ai bicchieri. Lei era rimasta seduta, dritta e immobile.

Michael le prese la mano. «Che ragazza coraggiosa!», disse. «Stavo dicendo: vieni nello Wiltshire per il fine settimana, a mia madre farebbe piacere conoscerti. Adesso ne sono ancora più convinto».

«Una bomba?», domandò Louise.

«Una bomba molto vicina, a quanto pare».

In quel momento Hermione e John tornarono al tavolo.

«Adesso stanno davvero esagerando!», esclamò Hermione con la sua pronuncia strascicata. «Uno non può rilassarsi un attimo, concedersi un po’ d’innocente divertimento che loro subito arrivano a rovinarlo! Ci vuole un’altra bottiglia di quest’ottimo champagne per tirarci su».

Quando il cameriere venne a prendere la loro ordinazione, li informò che la chiesa di Piccadilly Circus era stata colpita, almeno stando a quel che si diceva. Molti avevano iniziato ad andarsene, ma Hermione suggerì di restare. «Non ci stanno piovendo le bombe addosso». Si rivolse a Louise. «Stai bene, piccola?».

Louise annuì. Adesso, dopo che il suo coraggio era stato elogiato, le tremavano le ginocchia.

Ore dopo, mentre si toglievano le mantelle nell’appartamento di Hermione, quest’ultima le disse: «Hai fatto colpo su Michael Hadleigh! Ti sei divertita?».

«Oh, è stata una serata stupenda. Sei stata davvero gentile a invitarmi». Louise le baciò la guancia scolpita e profumata.

Hermione le diede una piccola pacca e disse: «Ti avverto, è un rubacuori. Sono certa che lo rivedrai, ma non farti coinvolgere troppo, me lo prometti?».

«Non lo farò». Lo disse perché sapeva di doverlo dire, ma dentro di sé era curiosa di vedere se quell’uomo riusciva davvero a rubarle il cuore.

Hermione la guardò, sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma cambiò idea.

Poi, quando Louise si era già spogliata e si stava lavando i denti, bussò piano alla sua porta. «Dimenticavo di dirti che domattina uscirò presto, cara, perciò non ci vedremo».

«Vai alla tua fabbrica?».

«Sì, esatto. Alla mia fabbrica personale. Dormi finché ne hai voglia e chiama Yvonne quando vuoi fare colazione. Poi, da brava, va’ a prendere il treno per il Sussex prima dell’ora di pranzo, altrimenti tua madre non ti darà il permesso di tornare. Compris?». E se ne andò.

Si era appena infilata nel letto quando suonò il cessato allarme. Erano le quattro e venti. La povera Hermione poteva risparmiarsi la fatica di mettersi a letto, pensò appena toccato il cuscino, mentre il sonno aveva la meglio su di lei.

La mattina dopo fu svegliata da Yvonne, che le disse che un signore la desiderava al telefono.

«Sono Michael», disse. «Michael Hadleigh».

«Ciao».

«Ti ho svegliata?».

Guardò l’orologio: erano le dieci. «No di certo».

«Ho telefonato a mia madre, e lei sarebbe felice se venissi il prossimo fine settimana».

«Be’... io non credo che...». Quel fine settimana era impegnata con Stella.

«Il fatto è che questo è l’ultimo per me, poi dovrò imbarcarmi di nuovo. Per cui ora o Dio solo sa quando. Vieni, ti prego! Mi daresti un gran dispiacere se non venissi».

Così gli disse che avrebbe provato a modificare i suoi programmi, cosa che naturalmente le riuscì.

«Michael Hadleigh? Vuoi dire quello che dipinge quei ritratti così manierati? Perché mai vuoi avere a che fare con lui?». Stella sapeva essere tagliente quando voleva. «Lo so già», aggiunse. «Scommetto che ti ha detto che sei incredibilmente bella, e tu hai abboccato all’amo!». E sapeva anche essere estremamente irritante. «Per di più sua madre è figlia di un duca! Come si fa a resistere?».

«Come sai tutte queste cose?».

«Mutti legge tutte le riviste che raccontano di queste cose. Spera di trovare qualcuno alla mia altezza, o così dice quando la prendiamo in giro per quei giornaletti, ma la verità è che è una snob. Le piace leggere cosa fa la gente altolocata».

«Be’, vieni da noi il fine settimana successivo e ti racconterò tutto».

«Sì, va bene. Ci vengo, ma non per sentirti parlare di questo. E, Louise, per l’amor del cielo, non ti innamorare di quel tizio, perché ti rovinerà la vita! Sei troppo giovane per legarti a un uomo».

Quel seitroppogiovane le restò sullo stomaco. Stella certe volte era proprio arrogante. Non si considerava troppo giovane per niente, e lei, a diciannove anni, non era poi tanto più vecchia: essere trattata come una bambina dalla sua migliore amica le parve un po’ troppo.

«Non ho intenzione di legarmi a nessuno», disse con tutto il sussiego di cui fu capace.

* * *

«Un intero fine settimana con Michael Hadleigh? Il ritrattista? Non se ne parla!».

«Ma mamma, non sarei sola con lui. Ci sono anche i suoi genitori. Hanno una casa nello Wiltshire. Lui è in licenza, poi dovrà imbarcarsi nuovamente».

Questo l’ammorbidì un poco, ma non bastò a compiere il miracolo. Sua madre telefonò a Hermione per avere il numero di Lady Zinnia in campagna e la chiamò: fu umiliante oltre ogni dire, ma fu a quel punto che si rese conto di volerci andare davvero. Così, quando sua madre finalmente le accordò il permesso e si mise a fare storie su questioni come quella dei pantaloni, Louise mise il broncio e diventò sgarbata.

Solo una volta salita sul treno per Londra, con un foulard sui capelli appena lavati e vestiti che lei avrebbe preferito morire piuttosto che farli vedere ai suoi amici della scuola di recitazione – gonna e soprabito di tweed verde oliva, calze lunghe e scarpe chiuse (a scuola erano d’obbligo sandali e calzini), una borsetta (quando a scuola usavano delle borse di tela in cui poter nascondere la maschere antigas) e infine la costosa valigia Revelation di sua madre posata sulla rete portabagagli – solo allora cominciò a sentire l’euforia e l’ansia per ciò che l’aspettava. Per lenire la seconda si era preparata argomenti di ogni genere: che un’attrice deve accumulare esperienze con persone dei più svariati generi, che i rigurgiti di nostalgia di cui ancora soffriva di tanto in tanto sarebbero svaniti se avesse compiuto sforzi frequenti, che probabilmente lui non era serio quando le aveva detto quelle cose, che del resto non erano poi tante; ma poi le tornò in mente quella frase: «Sei stupenda!». Era stato come un whisky doppio a stomaco vuoto. Nella sua famiglia non si parlava né tanto meno si discuteva dell’aspetto fisico delle persone, con l’eccezione di sua madre che non faceva che criticare il suo. Sapeva di essere goffa: le lezioni di portamento che faceva a scuola glielo avevano chiarito, casomai non fossero bastati i velenosi rimbrotti materni. Ma nessuno le aveva mai detto che era piacevole da vedere, nessuno le aveva mai detto che era stupenda. Forse lui è l’unico al mondo che possa pensarlo, si disse. Sapeva che i pittori avevano gusti bizzarri in fatto di volti, una certa propensione per le rotondità e la sciatteria per esempio, o la tendenza ad apprezzare volti che uno mai e poi mai definirebbe belli in senso convenzionale. Probabilmente lui era uno di quelli. Perché le importava tanto? Non lo sapeva, poteva solo supporre che uno si innamorasse partendo dall’aspetto esteriore e che, se una persona non fosse attratta da quello, poi non si disturbava nemmeno a voler conoscere il resto. E si rese conto che, oltre a diventare una grande attrice, desiderava anche avere accanto a sé una persona che la considerasse la creatura più speciale al mondo. Non che fosse proprio a caccia, ma cominciava a desiderare che qualcuno desse la caccia a lei.

Venne a prenderla alla stazione di Pewsey nel tardo pomeriggio, con una maglia a collo alto e vecchi pantaloni di flanella grigia piuttosto larghi: una figura tozza, quasi squadrata... non che io la pensi come Lydia o Kitty Bennet in materia di uniformi, pensò Louise. Che fortuna aver letto Jane Austen, pensò, altrimenti ora si sarebbe ritrovata a pensare a quanto le fosse parso più attraente quella sera, quando indossava, appunto, l’uniforme.

«Il treno non ha tardato di un minuto», disse. «Certo, un solo minuto sarebbe stato un’attesa intollerabile». Le tolse di mano la valigia. «È magnifico che tu sia venuta. Mamma non vede l’ora di conoscerti».

Il tramonto era infuocato e lasciava il cielo freddo, cupo, trasparente. Attraversarono in auto un’ampia valle tappezzata di campi di stoppia – grandi tappeti d’oro – e una serie di dolci colline calcaree, che si facevano più scure sotto la luce morente. Era una campagna meno fitta di quella a cui era abituata: c’erano pochi alberi e quei pochi si agitavano con grazia al vento dominante. Michael guidò veloce per le strette strade tortuose che salivano dalla valle e attraversò piccoli villaggi mal illuminati, dove l’unico segno di vita era rappresentato dal fumo che fuoriusciva dai pochi comignoli, finché raggiunsero un bosco e da quello imboccarono un vialetto.

«Eccoci qua», disse Michael. Il bosco si diradò e Louise vide due inferriate correre lungo il bordo del viale e poi la massa scura della casa di fronte a loro. Non si erano detti molto in macchina: lei gli aveva domandato chi ci fosse in casa e lui aveva risposto che avrebbe incontrato solo i suoi genitori. Fermò la macchina e Louise scese, rabbrividendo leggermente mentre lui le prendeva la valigia dal bagagliaio.

C’erano due porte, la seconda era fatta quasi tutta di vetro, poi si ritrovarono in un immenso ingresso in fondo al quale una scala doppia immetteva in una galleria. Un domestico in età molto avanzata venne a informarli che il tè stava per essere servito in biblioteca.

«Bene. Qui c’è la valigia di Miss Cazalet. Potresti dire a Margaret di portarla di sopra, per favore?». Si volse verso di lei, le tolse il foulard e le sorrise con fare rassicurante. «Ecco qua... bellissima!». Le prese la mano e la condusse oltre un’imponente porta di quercia e lungo un corridoio che terminava in un’altra porta di quercia. Questa si apriva su una stanza quadrata interamente tappezzata di libri, a eccezione dello spazio occupato da un grosso caminetto in cui bruciava un ceppo e di fronte al quale erano sistemati tre divani, su uno dei quali sedeva una donna con i capelli bianchi e dall’aria fragile, che ricamava qualcosa a un telaio rotondo.

«Mamma, lei è Louise».

Quando Louise si fu avvicinata abbastanza da stringere la mano protesa verso di lei, vide che la donna non era anziana come pareva a giudicare dai capelli. Indossava una giacca imbottita di seta cinese, con fiori e uccelli ricamati, sopra una gonna lunga di pesante lana bianca, e un paio orecchini d’argento, la cui forma ricordava quella di un pesce, le pendevano dalle orecchie grandi ma ben fatte.

«Louise», le disse. Gli occhi erano azzurri e chiarissimi e la guardavano, le parve adesso, con una specie di brillio obliquo, come fossero trasparenti. «Benvenuta, Louise». E poi, voltandosi verso suo figlio che si era chinato a baciarla, aggiunse: «Avevi ragione, Mikey caro. È una piccola bellezza». Ma nel modo in cui lo disse c’era un tono impersonale e paternalistico che fece sentire Louise a disagio.

«Dov’è il tè?».

«Ho chiesto di portarlo non appena ho sentito la tua macchina, caro».

«Dov’è il Giudice?».

«Nella sua tana a lavorare, come sempre. Vieni a sederti, Louise. Raccontami di te».

Ma quell’invito acuì il suo disagio, e Louise si accorse che le risposte alle domande che aveva dato fino ad allora, intanto che mangiava focaccine calde con marmellata di more e torta di ciliegie, erano piuttosto banali.

«La mia torta preferita!», esclamò Michael quando la vide, e Louise notò un fugace sorriso soddisfatto sul viso di sua madre.

«Davvero, caro? Sono felice per te».

«Be’, stasera devi recitare per noi», disse poi rivolta a Louise mentre con un gesto delicato si leccava via da un dito un residuo di marmellata e poi lo puliva con una grande fazzoletto bianco di stoffa finissima. Oh Dio, no!, gemette Louise dentro di sé.

Dopo il tè Michael tirò fuori le sue Senior Service e gliene offrì una. Lei la prese e se la lasciò accendere, e allora Lady Zinnia disse: «Fumi? Quando ero giovane io andava di moda, ma mia madre ha sempre detto che una ragazza che fuma è volgare».

«Oh, mamma, a sentire te una ragazza è volgare qualunque cosa faccia. I tempi sono cambiati. Ma se preferisci, non fumiamo qui...».

«Mio caro, non mi sogno nemmeno di dirti cosa devi o non devi fare! Stavo solo suggerendo che, se Louise intende davvero diventare un’attrice, dovrebbe prendersi cura della propria voce...».

Alla fine Michael la invitò a dare un’occhiata al suo studio, la condusse di sopra e poi lungo una serie infinita di corridoi fino all’altra ala della casa, dove c’era una stanza molto grande con dei lucernari su un lato del soffitto.

«Aspetta un attimo che oscuro le finestre», disse mentre abbassava una serie di tende a rullo. Poi accese la luce e la stanza s’illuminò tutta. Il pavimento era costituito da assi di legno grezzo, e c’era un gradevole odore di pittura. Michael aprì un lato della stufa a legna, la fece sedere su un’ampia poltrona e le offrì un’altra sigaretta. «Non lasciarti sopraffare dalla mamma. Disprezza le persone che la temono, ma le piace mettere alla prova chi non conosce. Tu tienile testa. Lo apprezzerà. Ha problemi al cuore e per lei è dura, perché è sempre stata una persona molto attiva. E poi ovviamente si preoccupa per me molto più del necessario, anche se non lo ammetterà mai».

Sembrava voler dire due cose in una volta, pensò Louise. E comunque le pareva difficile, per una nuova arrivata come lei, tenere testa a una donna con problemi di cuore e la tendenza a preoccuparsi troppo. Così disse soltanto: «Ti prego, dille di non farmi recitare. Mi paralizzerei dal terrore. Davvero, non mi viene in mente niente di più spaventoso».

«Cara Louise, stasera reciteremo tutti: viene gente a cena, e a mamma piace giocare ai mimi. Perciò non dovrai farlo solo tu. Anche se di certo ci farai impallidire tutti: sei una professionista, no?».

«Oh, vengono molte persone?».

«Una famiglia del vicinato, gli Elmhurst. Ora dimmi di te. Voglio sapere tutto».

Poiché lui sembrava davvero interessato, e non semplicemente curioso come le era parso che fosse sua madre, si lanciò in una descrizione della sua famiglia che lui parve trovare spassosa: si accorse per esempio che, quando parlava delle due anziane prozie riusciva a imitarle alla perfezione e a farlo ridere. Gli raccontò di zio Rupe, e lui disse che doveva essere molto triste, delle lezioni con Polly e Clary – «Certo, ormai non ho più l’età» –, della scuola di cucina e della sua grande amica Stella, e poi di quanto le sarebbe piaciuto unirsi alla compagnia di repertorio fondata dalla sua scuola nel Devon, se solo i suoi le avessero accordato il permesso. «Vogliono che impari a dattilografare, credo, in modo da trovare un noioso impiego di guerra», concluse. «Quest’anno però me lo concedono».

«Finché avrai diciott’anni?».

«Come sai quanti anni ho?».

«L’ho chiesto a Hermione. Mi ha detto che ne hai diciassette».

«Diciassette emezzo». Si sentiva sminuita dalla sua vera età.

«Davvero straordinaria, per avere diciassette anni emezzo», disse lui.

Louise volle che le mostrasse qualcuno dei quadri che stavano poggiati alla parete.

«Non ti piaceranno. Non sono moderni né sperimentali. È solo che i ritratti mi riescono molto bene, la gente li trova rassicuranti e me li pagano un sacco di soldi».

I ritratti femminili erano molto simili a quello di Hermione: signore in abito da sera e, in alcuni casi, con addosso dei gioielli sedute su ampie poltrone dorate o adagiate con grazia sui divani. Non sorridevano, ma avevano l’aria di averlo appena fatto ed esserne già stufe. Non le vennero commenti da fare sui quadri. Ce n’erano due diversi dagli altri ma, nonostante fossero poggiati alla parete e rivolti verso l’esterno lui non glieli mostrò. Uno raffigurava un’avvenente ragazza vestita da cavallerizza, l’altro un giovanotto con una camicia azzurra aperta sul collo, straordinariamente bello, faunesco, poetico. Louise non seppe chiarire a se stessa cos’avessero di diverso quei due quadri, a parte la bellezza astratta dei soggetti e il fatto che potevano anche sembrare l’una stupida e l’altro stizzito. Miss Milliment l’aveva più o meno costretta a guardare dei quadri che giudicava belli e che erano opera di artisti perlopiù morti e sepolti, e si rese conto di non aver mai visto opere d’arte contemporanea, men che meno opere di persone che conoscesse. Con l’eccezione di zio Rupe, naturalmente, ma si accorse che fino ad allora aveva guardato i suoi lavori con occhio acritico, dandoli per scontati perché si trattava di suo zio.

«Non credevo ti piacessero», disse Michael. «Sono manierati e volgari, sono come me, non trovi?».

«Non puoi dire sul serio!».

«Invece sì. Non credere che sia un male, sai. Alla maggior parte delle persone non dispiacerebbe affatto essere così».

«E tu non sei come la maggior parte delle persone?».

«Ma certo che no. Io sono fuori dall’ordinario, come te».

Lo guardò cercando di capire se la stesse prendendo in giro, ma non ci riuscì.

«Cara Louise, non ti prendo in giro. Ti trovo troppo affascinante. Conosci Shakespeare praticamente a memoria, non hai paura delle bombe e... non lo so, tutto! Nel momento in cui ti ho vista per la prima volta ho pensato che dovevi essere speciale, e accidenti se lo sei!».

Il suono di un campanello proveniente dal piano di sotto lo fece scattare in piedi e sollevò così Louise dall’obbligo di replicare.

«È ora di vestirsi», disse. «Ti mostro la tua camera, è meglio».

L’accompagnò indietro lungo il corridoio, superarono le scale e imboccarono il corridoio opposto.

«Il bagno è là in fondo», le disse. «Hai tempo di fare il bagno se vuoi. Vengo a prenderti fra mezz’ora».

Durante quel fine settimana le fece tre ritratti a matita, la portò a cavalcare (si rivelò un fantino eccellente: c’era una schiera di coppe che aveva vinto nelle gare, tra cui quelle di Olympia e Richmond), fece il gioco dei mimi in squadra con lei – in questo non era particolarmente bravo, ma era disinibito ed era chiaro che si divertiva –, suonarono il piano – lui suonava a orecchio – e cantarono canzoni come DontPutYourDaughterOnTheStage,MrsWorthington. Per tutto il tempo lui non perse l’occasione di ammirarla per qualunque cosa dicesse o facesse. La mattina di lunedì l’accompagnò a Pewsey per prendere il treno, le diede un bacio sulla guancia e le raccomandò di scrivergli.

«Ma lui...», disse Stella il fine settimana successivo, dopo aver ascoltato tutto il resoconto, «lui com’è?».

«Te l’ho appena detto!».

«Niente affatto. Mi hai detto solo le cose che ha fatto. Eri così stordita dal lusso della casa, dai campanelli che ti dicono quando andare a vestirti e dal fatto che qualcun altro ti ha disfatto i bagagli che non hai notato nessun dettaglio interessante. Che aspetto ha?».

Louise ci pensò su qualche istante. «È strano. Se te lo descrivessi lo farei sembrare anonimo, invece non lo è affatto. È un uomo affascinante».

«Va’ avanti».

«Dunque, capelli castano chiaro. Non tantissimi, in realtà. Credo che presto diventerà calvo. Non è che sia giovanissimo, a proposito: ha trentadue anni. Occhi azzurro chiaro, tendenti al grigio, che guardano con intensità... tutto. Ha la fronte ampia». S’interruppe; aveva anche un’ombra di doppio mento, ma era un dettaglio che non voleva condividere con Stella. «Il naso piccolo», aggiunse.

«Riesco a vederlo quasi ce lo avessi davanti», disse Stella con sarcasmo.

«Ha una bella voce. Credo sia il suo pregio migliore».

Seguì un silenzio. Poi Louise scattò sulla difensiva. «Pensi che io dia troppa importanza all’aspetto esteriore, vero?».

«No. Tutti devono dare importanza a quello che vedono. Ciò che vedi è ciò che conta. Dimmi dei suoi genitori».

Su questo Louise ce la mise tutta. Riferì la prima impressione che aveva avuto della madre, una fragile creatura distesa su un divano, e di come durante il fine settimana si era resa conto che non era affatto così. «Ha una personalità forte, credo. Disegna e realizza gioielli, ma ha fatto anche un sacco di altre cose. Ceramiche e piatti, per esempio. Ma Michael mi ha detto che ha il cuore in cattive condizioni e che ha dovuto smettere. Ho avuto l’impressione che per lei lui sia la persona più importante al mondo...».

«E il marito?».

«Lei con lui è gentile, mentre è chiaro che lui l’adora. Ma ha passato quasi tutto il fine settimana a lavorare: l’ho visto solo a tavola. È stato molto cortese con me. È il genere di persona che scopre quello che t’interessa e poi ne parla, e ovviamente è in grado di parlare di tutto. E non solo con me. La sera che è venuta a cena tutta quella gente, si è preso molta cura di due ragazze che erano terrorizzare da Zee».

«Zee?».

«È il soprannome della madre di Michael. Invece i giovanotti sono tutti pazzi di lei: ne ha sempre cinque o sei intorno».

«Sembra il tipo a cui non sono simpatiche le donne», osservò Stella.

«Oh, no, no. Non credo sia così».

«Se dovesse essere così, tieni gli occhi ben aperti».

«Mi ha invitata a tornare».

«Perché sa che lo vuole Michael. Non vuol dire che le sei simpatica».

«Non credo proprio di piacerle». Lo disse con un tono talmente sconsolato che Stella rise e le passò un braccio intorno alle spalle. «Coraggio! Che importanza hanno queste cose quando stai per diventare un’attrice di fama mondiale?».

«Sta’ zitta! Non mi faranno fare neanche questo! Mi metteranno a fare un noioso lavoro come dattilografa fino al giorno in cui sarà troppo tardi! Mi sento come se per tutta la vita non avessi fatto altro che ingannare il tempo, e adesso, adesso che finalmente potrei iniziare a vivere, arriva questa guerra maledetta e rovina tutto!».

«Quando c’è la guerra quasi nessuno può fare quello che vuole».

«Qualcuno sì, invece. Mio padre è ben contento di organizzare la difesa dell’aerodromo. Molto meglio che tornare a spalare le macerie dei moli dopo il bombardamento. E scommetto anche che c’è un mucchio di gente a cui piace combattere. Lo so, mi ritieni egoista e mi ritengo tale anch’io. Voglio dire solo che anche molte altre persone lo sono, ma nel loro caso non si nota perché desiderano fare cose che incontrano l’approvazione generale».

Più parlava così e più si sentiva male. A minuti, ne era certa, Stella le avrebbe fatto notare che alle migliaia di persone le cui case erano state distrutte dalle bombe di certo la guerra non piaceva, così si affrettò ad aggiungere: «Lo so bene che sono fortunata rispetto a tanta gente, ma questo non mi fa sentire meglio. Mi fa solo sentire in colpa».

«Va bene», disse Stella senza scomporsi. «Torniamo a Mozart».

«Solo il movimento lento, però. Lo sai che gli altri non so suonarli».

Avevano passato la mattinata ai due pianoforti. Nessuna di loro era particolarmente brava, però si divertivano. Stella se la cavava meglio nella lettura a vista e riusciva a suonare anche brani che non conosceva, mentre Louise ormai non si esercitava da mesi; ma erano pazienti l’una con l’altra, s’interrompevano quando era necessario e ripartivano, finché non fece troppo freddo per continuare: nel camino ardeva un fuoco lieve che mandava il grosso del suo calore nella canna (la Duchessa era abituata a suonare coi mezziguanti).

Stella adorava stare chez Cazalet. Sosteneva che era come vivere in un villaggio anziché in una scatola, come ingiustamente affermava che si vivesse nell’appartamento dei suoi genitori. Le piaceva l’assenza di curiosità di ognuno nei confronti di quello che facevano o dicevano gli altri. Non c’erano interrogatori né esami accurati come quelli che lei e Peter erano costretti a subire in merito a qualunque cosa facessero o pensassero. Stella non vedeva l’ora di avere un appartamento tutto suo e aveva detto a Louise che, se si fosse iscritta anche lei alla scuola di stenografia, avrebbero potuto dividerne uno e magari ottenere un impiego nella stessa istituzione: alla BBC o al Ministero dell’Informazione. Ma Louise non voleva rinunciare all’idea di avere a disposizione un anno per diventare attrice, con la stessa ostinazione con cui Stella si era rifiutata di iscriversi al primo anno di università, come suo padre l’aveva implorata di fare: non voleva restare tagliata fuori, così aveva detto e ripetuto, da quello che succedeva nel mondo reale. «Io voglio essere in guerra», diceva. Suo padre alla fine si era arreso, non perché fosse persuaso dalle ragioni di Stella ma perché, disse, bisognava che Stella cominciasse a imparare dai propri errori. Aveva raccontato tutto questo a Louise, e lei aveva commentato che i genitori si mettono sempre di mezzo, quando una ha le idee chiare su ciò che vuole fare. «Abbiamo ambizioni opposte... è un peccato che non possiamo fare a cambio di genitori», aveva detto, e la frase aveva suscitato una reazione inaspettata (almeno per lei) in Stella, che era stata sul punto di piangere e l’aveva abbracciata con insolito trasporto. Avere Stella era una vera fortuna, pensò Louise, perché, nonostante temesse di sentire la mancanza di Michael, il tempo che aveva trascorso con lui presto aveva cominciato a sembrarle irreale ed era giunta al punto di dubitare dell’attendibilità dei suoi ricordi.

«In effetti ci sono andata per pura vanità», le confidò quella notte, quando entrambe erano coricate nei rispettivi letti.

«Lo so. A volte mi preoccupa il fatto che tu sia così insicura di te stessa».

«Che intendi dire?».

«Be’, sembra che tu abbia bisogno che siano gli altri a dirti chi sei».

«Tu invece sai chi sei senza che te lo dicano gli altri?».

«A questo non posso rispondere, perché nella mia famiglia non si fa altro che parlare di tutti, elogiando, discutendo, criticando...».

«La mia famiglia critica me. Non fanno altro».

«Parli di tua madre. Non mi pare che tuo padre abbia mai fatto questo». Lo aveva incontrato una volta che Edward aveva offerto a entrambe il pranzo, a Londra. «È evidente che ti vuole un gran bene... Ma torniamo alla tua vanità», aggiunse, non ottenendo nessuna replica.

«Tornaci tu se vuoi», disse allora Louise risentita. «Volevo dire soltanto che ci sono andata perché lui è stata la prima persona che mi abbia ammirata».

«E io? Io ti ammiro molto».

«Va bene. Il primo uomo che mi abbia ammirata».

«Be’, almeno sei onesta», disse Stella. «Non spingerti troppo in là, però».

«A cosa ti riferisci?».

«Ce ne sono fin troppe di ragazze che si sposano troppo presto e poi si annoiano, con conseguenze catastrofiche. Pensa ad Anna Karenina o a Madame Bovary».

«Stella, senti: per prima cosa non ci penso nemmeno a sposarmi, ancora per diversi anni; secondo, Michael non somiglia neanche un po’ a Karenin o a Monsieur Bovary».

«Non somiglia nemmeno a Heathcliff o a Romeo, se è per questo», replicò Stella. «In effetti da quello che dici mi sembra un tipo piuttosto noioso».

Erano sul punto di litigare. «Adesso mi metto a dormire», disse Louise in tono offeso. «Non voglio discuterne mai più».

Il giorno dopo, Stella si scusò. «Non perché creda di aver detto delle cose sbagliate, ma perché le ho dette nel modo sbagliato». A Louise non parvero nemmeno delle scuse. Malgrado tutto questo, dopo la partenza di Stella, si annoiò a morte a Home Place, e fu felicissima quando finalmente arrivò una lettera indirizzata a sua madre da Mr Mulloney (uno dei suoi insegnanti di recitazione) il quale la informava che aveva trovato un teatro nel Devonshire e una casa spaziosa a quattro chilometri di distanza dove potevano alloggiare gli studenti; aveva anche assunto una certa Mrs Noel Carstairs che sarebbe stata la direttrice del convitto. A Louise veniva offerta una borsa di studio, il che voleva dire che la famiglia doveva pagare solo due sterline a settimana per il vitto.

Vi fu qualche lite di poco conto riguardo al bagaglio, in quanto Louise insistette per portare con sé ogni singolo capo d’abbigliamento in suo possesso perché, se avessero messo in scena dei testi contemporanei, gli attori avrebbero dovuto indossare i propri vestiti. Polly e Clary erano invidiose quanto bastava. «Spero che ci permetteranno di venire a vederti recitare», disse Polly. «Sei fortunata a sapere che cosa vuoi fare».

«E ad aver interrotto gli studi così giovane», aggiunse Clary.

Zia Rach la portò a Tunbridge Wells e le comprò una vestaglia pesante. Il Generale le diede cinque scellini. Sua madre le diede due mesi di paghetta – sette sterline, più i soldi per il treno – e le disse di fare una telefonata una volta arrivata. Zia Syb le fece un maglione: «Doveva essere il tuo regalo di Natale, ma a quanto pare ne avrai bisogno prima», e zia Zoë le diede un vasetto di una crema di Elizabeth Arden. «Mettila sulla bocca la sera. È ottima per le labbra screpolate». Lydia le donò un diario che si rivelò essere dell’anno prima, ma lei disse che non faceva differenza. «Basta che sposti tutto avanti di un giorno, e potrai decidere tu se avere il giorno del mese o il giorno della settimana esatto», spiegò. «Ho fatto il calcolo prima di regalartelo». Aveva scritto «PER MIA SORELLA LOUISE, DA SUA SORELLA LYDIA» in inchiostro rosso sulle prime due pagine. «Quei giorni sono passati, perciò non ha importanza», disse.

Louise la ringraziò e si sentì commossa. Adesso che stava per andarsene, tutti erano buoni con lei come non lo erano mai stati prima, e l’ultima sera si ritrovò a pensare che tutto poteva rivelarsi così spaventoso e terribile che presto le sarebbe venuta la voglia di tornare, ma scacciò quel pensiero il più in fretta possibile.

A sorpresa Stella andò a prenderla a Charing Cross e si recarono insieme alla stazione di Paddington dove comprarono dei pessimi panini: si poteva scegliere tra quelli con la carne in scatola e quelli con le barbabietole e loro li presero entrambi.

«Dove ci mettiamo a mangiare?».

La stazione era affollata e non c’erano posti a sedere.

«Sulla banchina», suggerì Stella. «Prendo un biglietto d’ingresso».

Si sedettero sulle valigie di Louise, che avevano trascinato dal taxi in modo che lei potesse poi comprarsi le Reszke Minors coi soldi destinati al facchino.

«Mi mancherai moltissimo».

«Anche tu».

«Non così tanto però. Tu stai andando a fare qualcosa!».

«Lo so. Ma mi mancherai lo stesso. Scrivimi, mi raccomando».

Gran parte del soffitto di vetro della stazione era crollato e stava piovigginando.

«Quasi dimenticavo. Zia Anna ti ha preparato questi». Rovistò nella borsa e tirò fuori una piccola scatola di cartone. «I suoi speciali biscotti alla cannella. Non fa che cucinare perché è tanto infelice».

«Oh, grazie! Ringraziala da parte mia».

«Scrivile. Fallo tu. Ormai non riceve più posta».

«Lo farò. Quanto vorrei che venissi con me!».

Poi a nessuna delle due restò altro da dire e, quando il lungo convoglio grigio entrò lentamente in stazione, fu un sollievo per entrambe.

«Va bene. Troviamo un buon posto. Lo vuoi il resto del mio panino? Non mi va più».

«No, grazie».

Issarono la valigia nel vagone e trovarono un posto all’angolo per Louise.

«Adesso vado», disse Stella. «Non mi piacciono i lunghi addii».

«Va bene».

Si abbracciarono, poi Stella andò via. Louise la guardò attraverso il finestrino aperto, ma lei non si voltò. Per un po’ finse di aver appena detto addio all’unico uomo che mai avrebbe amato nella vita e dal quale aveva dovuto separarsi per andare nel Devon ad assistere un fratello che stava morendo lentamente per via di una malattia incurabile. Il viso le si rigò di lacrime per la tristezza di quel sacrificio eroico e il pianto cessò solo nel momento in cui entrò una coppia anziana. Si affrettò a starnutire e a soffiarsi il naso, e i due si scambiarono un’occhiata, ripresero le valigie e uscirono dallo scompartimento. Proprio mentre pregustava il momento in cui avrebbe spiegato ai suoi colleghi della compagnia come avere tutto per sé il proprio scompartimento, entrarono due signore di mezza età: si mise a starnutire per vedere se funzionava di nuovo, ma non fu così. La guardarono con disgusto e si sedettero comunque sui sedili più lontani. Adesso cominciò a domandarsi se le sarebbe toccato continuare a starnutire per tutto il viaggio. Decise di no e che, se per caso gliel’avessero chiesto, avrebbe detto che l’aria della stazione le aveva procurato la febbre da fieno.

Il treno partì. Non era un treno rapido e si fermava spesso, dentro e fuori dalle stazioni. Alle quattro del pomeriggio era buio, un anziano custode si occupò di abbassare le tende dei finestrini e Louise cominciò a preoccuparsi di non riuscire a riconoscere la sua destinazione, perché i cartelli erano tutti cancellati, ma il custode le disse che a ogni fermata veniva annunciato il nome della stazione e che sarebbero arrivati a Stow Halt alle sei. Le due signore di mezza età avevano consumato un abbondante spuntino che era terminato con del tè versato da un thermos, la cui vista fece venire a Louise una gran sete. Aprì la scatola di biscotti alla cannella di zia Anna e si sforzò di mangiarli lentamente mentre leggeva Illavorodellattoresusestesso di Stanislawskij, nella fievole speranza che le signore le domandassero come mai s’interessasse di teatro, dandole così la possibilità di parlarne. A una stazione salirono numerosi marinai. Il vagone si riempì, e molti restarono in piedi nel corridoio a fumare. Le uniformi erano così nuove che davano l’impressione di essere vestiti a festa; le grosse borse di tela e gli stivali, che facevano sembrare enormi i loro piedi, rendevano accidentato il tragitto verso il bagno. Sentì un’ondata soffocata di commenti salaci mentre si faceva strada in mezzo a loro. Al suo ritorno, mise via Stanislawskij e aprì al suo posto Lacasadellafreccia, un libro molto avvincente che parlava di un detective assai vanitoso di nome Hanaud. I marinai scesero tutti a Exeter e, quando raggiunse la sua stazione, nel vagone era rimasta solo lei e dovette armeggiare parecchio per poter aprire la porta senza togliere la tenda da oscuramento. Era buio pesto e faceva molto freddo. Restò lì ferma e tremante, una valigia alla sua destra e una alla sua sinistra. Erano troppo pesanti per portarle entrambe contemporaneamente. Poi un tale munito di torcia venne a chiederle: «È diretta a Stow House?».

«Sì».

«Questo è il suo bagaglio? Bene. Mi segua».

Entrò con gratitudine nel vecchio taxi che, pensò, odorava di breviari umidi.

«Devo andare a prendere altre due persone», disse l’uomo dopo aver sistemato le valigie nel baule.

Gli altri due erano un ragazzo di nome Reuben, che era al secondo anno quando lei aveva iniziato, e una ragazza nuova di nome Matilda. Rimasero seduti sull’angusto sedile posteriore per tutto il breve tragitto e si scambiarono pochissime parole, perché a nessuno di loro venne in mente qualcosa di abbastanza brillante da dire.

Chris Mulloney li accolse con teatrale ospitalità in un vestibolo con un mosaico come pavimento. Indossava come al solito i suoi informi pantaloni di tweed, scarpe da tennis sporche e un maglione grigio a collo alto che, a causa del suo collo corto, gli lambiva i lobi delle orecchie. Infine la testa calva era adorna di un berretto di lana. Gli occhi castani e allegri rilucevano sotto due sopracciglia cespugliose e il naso, si diceva, era il risultato di un pugno che gli era stato inferto molti anni prima.

«Cari!», disse. «Benvenuti a Exford, miei cari!».

Louise, ritrovandosi per un momento incastrata contro il suo stomaco tondo ma sorprendentemente sodo, sorrise a disagio. L’ultima volta che l’aveva visto, lui l’aveva ridotta in lacrime facendole ripetere all’infinito la stessa battuta e facendole notare che la pronunciava ogni volta un po’ peggio. A Londra era un insegnante rispettato, perché otteneva dei risultati innegabili. Aveva due armi: la collera artefatta e l’autentica passione, e le usava entrambe senza parsimonia.

«La direttrice», disse poi in tono scherzoso come a segnalare due virgolette prima e dopo la parola, «vi mostrerà le vostre stanze. Direttrice!».

Con perfetto tempismo scenico, la signora in questione apparve in cima alle scale. «Questi sono Louise, Reuben e...».

«Matilda», si presentò la nuova arrivata.

«Matilda. Ecco Mrs Noel Carstairs». Lo disse come se fosse un nome famoso, o almeno degno della loro conoscenza. Era una donna minuta che pareva un uccellino con i capelli biondi ossigenati che avevano bisogno di urgenti cure. Portava una specie di vestaglia di raso celeste con il collo guarnito di gale di pizzo sporco, e aveva in mano un pezzo di carta che consultava freneticamente. «Cari», disse con un accento straniero mentre cercava i loro nomi. «Ah, sì. Louise! Sei in camera con Griselda. Vieni!».

La stanza era piccola, con due letti, due cassettoni e una credenza.

«Di giorno hai la vista sul mare. Va bene?». Due occhi scoloriti e malinconici la guardavano da sotto enormi ciglia finte che parevano troppo pesanti per le sue palpebre. La faccia invece era lucida e senza trucco. «Oggi lascio riposare la mia pelle», disse. Le sue pantofole col tacco, che lasciavano scoperti i calcagni, si allontanarono ticchettando sul pavimento pieno di macchie color melassa scura.

Griselda doveva essere già arrivata: sopra uno dei due cassettoni c’erano flaconi e vasetti. Il letto più lontano dalla finestra doveva essere il suo: c’erano sopra una maschera antigas e una vestaglia di lana. La stanza era gelida e c’era solo una lampadina che pendeva al centro del soffitto, schermata da un logoro paralume di pergamena. A letto non si legge, pensò Louise. Si sentì infreddolita e scontenta. Prese dalla valigia un maglione più pesante e andò in cerca di un bagno.

La casa sembrava non finire mai, con corridoi che si diramavano in almeno tre direzioni diverse. Alla fine vide una porta aperta su una stanza da letto ampia dove c’erano tre ragazze.

«Cercavo un bagno».

«Il bagno, vuoi dire. È accanto al gabinetto. Ce n’è un altro molto buio dietro la cucina, ma ha lo scarico difettoso. Ti faccio vedere».

«Io sono Betty Farrell», disse precedendola. «In cucina c’è un po’ di tepore grazie alla stufa. Manca poco all’ora di cena. Andiamo giù, così ti presenti». Era bassina e allegra, con le lentiggini e il naso all’insù.

Il bagno era piccolo: per qualche motivo la vasca era stata dipinta color crema, c’era un piccolo scaldabagno arrugginito, un lavabo da cucina e una tazza con la seduta di legno. La finestra a ghigliottina non si chiudeva bene e qualcuno aveva tappato lo spiffero con della carta di giornale, ma con scarso beneficio.

La cucina era enorme, piena di gente e decisamente più calda. Chris le presentò tutti, in ultimo una ragazza sciatta e magrolina che sembrava più giovane degli altri e portava i lunghi capelli raccolti in una spettinata coda di cavallo. «E lei è mia figlia, Poppy. È lei che manda avanti la casa».

Poppy fece un sorriso timido e non disse nulla. Aveva sollevato dal fornello un enorme tegame e lo stava portando con passo malfermo verso il lavandino, dove ne versò il contenuto in due colini. L’aria si riempì di vapore e dell’odore dei fagiolini bolliti. Il lungo tavolo da cucina era apparecchiato con forchette e coltelli.

«Sediamoci, miei cari. La cena sarà servita a breve. Annie? Annie, va’ ad aiutare tua sorella».

Una ragazzina ancora più giovane, una bambina dai lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena, si tolse tre dita dalla bocca, andò verso la stufa e prese un’altra grossa pentola contenente delle patate lesse, poi si diresse a fatica verso il tavolo. Quando ebbe posato le patate, tornò a ficcarsi le dita in bocca. Intanto, dall’altra parte della stanza, un ragazzo biondo e magro stava raccontando qualcosa, interrotto dalle risate stridule delle ragazze sedute intorno a lui. Poi, mentre il ragazzo andava a sedersi al tavolo, una di loro gli disse: «Forza Jay, raccontaci la storia del pappagallo!».

«Dai, intanto che Chris taglia la carne!».

Jay si guardò intorno. Si erano seduti tutti a eccezione di Poppy, che stava portando a tavola, con l’aiuto di un carrello, un enorme pezzo di carne grigia che piazzò di fronte a suo padre e ad Annie, che raccoglieva cucchiai da portata con la mano sinistra.

«Quella del pappagallo? E va bene: quella del pappagallo». Aveva la voce strascicata, leggermente querula, adatta a tenere banco con gli aneddoti. Descrisse un pappagallo che apparteneva a un’anziana signora, un animale a cui era attribuita eccezionale intelligenza e che veniva incoraggiato dall’orgogliosa padrona a camminare lungo una striscia di stoffa appositamente tesa sopra al pavimento. Jay allora impersonò il pappagallo mentre con gesti incerti metteva una zampa davanti all’altra. Poi, di nuovo nei panni del narratore, descrisse un’anziana signora che scoppiava in risatine eccitate di fronte allo spettacolo. Poi tornò nei panni del pappagallo, alzò gli occhi dal filo su cui stava arrancando e disse con voce da pennuto: «Ti faccio ridere, eh? Provaci un po’ tu, vecchia bagascia».

Tutti risero, e Louise si unì per conformismo all’ilarità generale, ma dentro di sé era confusa.

Non aveva mai sentito nessuno usare quella parola e non sapeva con esattezza cosa significasse, ma era certa che sua madre l’avrebbe considerata volgare in maniera intollerabile. Lanciò un’occhiata in direzione di Chris, che però era tutto intento a tagliare la carne. Annie, che era venuta a sedersi, fissava la carne e Poppy era ancora ai fornelli a scaldare la salsa. Poi si accorse che Jay la guardava con un lieve sorriso beffardo, come se sapesse esattamente cosa le passava per la testa, e ciò la fece arrossire. Chinò il capo sul piatto fumante, in modo che pensassero che il rossore fosse dovuto a quello.

A cena si parlò solo di teatro. A quanto pareva, avrebbero cominciato con delle scene di Shakespeare da allestire nelle scuole locali, ma Chris non volle sbottonarsi sull’assegnazione delle parti. Dopo cena, restarono in due a lavare i piatti e gli altri si ritirarono. Griselda si rivelò essere una ragazza straordinaria, con i capelli neri dai riflessi bluastri, gli zigomi alti e lunghi occhi a mandorla – davvero affascinante, pensò Louise mentre salivano le scale insieme.

«Che si fa la mattina?».

«Oh, colazione. Non c’è pane tostato perché il tostapane è rotto, però ci sono pane, margarina, qualche marmellata e tè. Poi andiamo a Exford, sono quattro chilometri ma la maggior parte di noi fa l’autostop per risparmiare i soldi dell’autobus».

«Com’è il teatro?».

«Piuttosto sporco e c’è puzza di gas. I camerini sono gelati e un sacco di sedili in platea sono sfondati. Ma è il nostro teatro».

«Cosa fanno durante le prove quelli che non devono recitare?».

«Lilli ci dà lezioni di dizione».

«Chi è Lilli?».

«Mrs Noel Carstairs. È rumena, veramente. In Romania era la stella dei musical. È venuta qui e ha sposato Noel Carstairs, l’impresario, hai presente? Ma poi lui l’ha lasciata per una più giovane e lei è caduta in miseria».

«Per questo non è venuta a cena?».

«Oh, no. Oggi mangiava solo cibi crudi. Fa un sacco di cose per restare in salute. Si prepara questi orridi piattini con carote e cavoli grattugiati e li mangia in camera. Passa ore a camminare all’indietro sulla sabbia, perché dice che fa bene alla postura. Nella sua stanza ha un enorme ritratto della regina di Romania con sopra una scritta storta e illeggibile. È mezza matta, in realtà, ma è tanto dolce».

La mattina dopo si rese conto che la casa sorgeva di fronte a un ampio estuario: la marea era bassa. C’erano una distesa di sabbia luccicante e una schiera di casette sulla riva di fronte. Era una bella mattina limpida e faceva molto freddo. Si svegliò euforica e trovò Griselda già vestita, con dei pantaloni e un maglione.

«Forse il bagno è ancora libero, se vuoi», le disse. «Io mi sveglio sempre presto, altrimenti trovo una fila lunghissima».

Si lavò e indossò il maglione nuovo che le aveva fatto zia Syb e i pantaloni, nuovi anch’essi, di velluto a coste blu scuro, poi raggiunse Griselda in cucina. C’era anche Poppy, che stava preparando il vassoio con la colazione per suo padre. La cucina non era molto calda. «La stufa si è quasi spenta», fece Poppy in tono di scusa. «Posso avere la tua tessera annonaria?».

In mezzo al tavolo stava acciambellato un grosso gatto nero, che osservava Annie intenta a tagliare a pezzi gli avanzi di carne della sera prima e a metterli sopra un piatto. Griselda e Louise mangiarono pane, margarina e marmellata mentre aspettavano che il grosso bollitore nero cominciasse a fischiare.

«Oggi ti accompagno con l’autobus», le propose Griselda. «Così saprai come tornare».

«Da quanto sei qui?».

«Meno di una settimana. Sono venuta prima perché casa nostra è stata bombardata e mia madre non ha voluto che restassi a Bristol».

Rimase un attimo sbigottita nel rendersi conto che da quando aveva lasciato casa non aveva rivolto un solo pensiero alla guerra, che nessuno ne aveva parlato la sera prima e che cose come tessere annonarie e maschere antigas erano diventate parte integrante della sua vita al punto che si era dimenticata a cosa servissero.

«Mi dispiace», disse. «Deve essere stato terribile per te».

Griselda alzò le spalle. «Io detesto parlare della guerra», disse. «Tu no?».

Il resto della giornata fu eccitante oltre ogni dire. Lo stato di conservazione del teatro le era del tutto indifferente. Era un teatro, col sipario rosso scuro tirato da un sudicio cordone giallo. Mettere piede sulle assi polverose del palco fu una gioia, una vittoria, il vero inizio della sua carriera. Gli effluvi di gas, di vecchi fondali sagomati e dei sedili freddi, umidi e sudati della platea la elettrizzavano; i camerini dal pavimento in cemento, con quel lieve odore di cerone e le file di lampadine attorno agli specchi erano tutto ciò che desiderava. Quando si furono seduti sulle sedie di legno disposte sul palco con le luci accese e il sipario aperto e vennero annunciati i testi che avrebbero messo in scena e furono assegnate le parti, si sentì girare la testa dalla contentezza. Avrebbe interpretato Catherina nella prima scena del corteggiamento della Bisbeticadomata e anche Anne in due scene di RichardofBordeaux. L’unica pecca era che, poiché la compagnia era composta da dieci ragazze e solo quattro ragazzi, le prime dovevano recitare a turno mentre i maschi, fortuna loro, non solo erano praticamente in tutte le scene ma recitavano sempre. Griselda fu scelta per fare Lady Macbeth nella scena dell’assassinio, insieme a Roy che, a giudicare dalla lettura del copione, era probabilmente il miglior attore della compagnia secondo Louise. Faceva anche Petruchio con lei. Anche Jay avrebbe recitato con lei, nei panni di Richard.

Per pranzo andarono in un caffè affacciato sul fiume, Louise divise un uovo fritto con Griselda: l’uovo fu spartito con sommo scrupolo e le patatine contate una a una. Avevano entrambe una gran fame.

* * *

Nelle settimane che seguirono imparò un mucchio di cose, e non solo sul teatro. Soppesava attentamente il contenuto delle lettere che scriveva a casa: aveva paura che l’avrebbero fatta ritirare dalla scuola, se avesse fornito loro informazioni tali da metterli in allarme. Quando scrisse loro per chiedere una paghetta più cospicua, per esempio, non menzionò il fatto che la cena, un pezzo di carne con contorno di verdura e patate (ovvero le uniche cose che Poppy sapesse cucinare), era l’unico pasto della giornata (spesso saltavano anche la colazione, perché la stufa si spegneva e questo voleva dire niente acqua calda, e inoltre la marmellata e la margarina finirono prima che la tessera annonaria desse a Poppy la possibilità di comprarne ancora). Non fece parola nemmeno del fatto che quasi tutte le mattine facevano l’autostop per andare a Exford così da risparmiare sul biglietto dell’autobus (e comprarsi le sigarette); ci teneva particolarmente a tenere loro nascosto il metodo a cui ricorrevano alcuni, e cioè mettersi distesi in mezzo alla strada fingendosi svenuti o malati, ottenendo così un passaggio sicuro. Scrisse che la sera, dopo cena, avvenivano conversazioni molto interessanti, si recitavano poesie – avevano sentito parlare di Dylan Thomas o di T.S. Eliot? Erano poeti meravigliosi. Ma non raccontò che a una festa di compleanno c’era stata una gara a chi si vestiva meno e che l’aveva vinta lei con due strisce di stoffa spesse quanto francobolli e una passata di cipria. Non usò, naturalmente, quella parola proibita che era tanto di moda: si diceva cazzo a ogni piè sospinto! Non raccontò che una sera si erano ubriacati con un buonissimo liquore giallo-verde chiamato Strega, dono di alcuni olandesi che vivevano su una barca ormeggiata nell’estuario. Non disse una parola di quelle terribili settimane in cui si era scoperto che Annie aveva i capelli incrostati di uova di pidocchi e che li aveva attaccati a tutti i membri della compagnia. A Exford mancavano i pettini a denti fini e dovettero lavarsi i capelli nel lavello con una sostanza puzzolente. Tenne per sé che la “direttrice” altri non era che una vecchia e stanca attrice di mezza tacca che non era certo in grado di mandare avanti una casa o di prendersi cura di qualcuno, e che a tenere in piedi la baracca erano le due figlie adolescenti di Chris Mulloney. Poppy aveva sedici anni e Annie ne aveva dodici. Quest’ultima non era mai andata a scuola, ma leggeva tutto il giorno, si occupava del gatto – che aveva chiamato Zar Alessandro – e sembrava contenta così. Ogni tanto venivano in visita i genitori di qualcuno – andavano a dormire alla locanda in fondo alla strada – e in quelle occasioni, per reciproco ma tacito accordo, l’andazzo cambiava completamente. Non scrisse loro che pativa la fame quasi ogni giorno, come non scrisse che andava di lusso quando riusciva a fare un bagno alla settimana e che finora le lenzuola non erano state cambiate nemmeno una volta. Soprattutto non fece parola del fatto che Chris Mulloney era un membro della Peace Pledge Union, un’organizzazione comunista. Con Stella si aprì di più.

La cosa strana quaggiù è che, sebbene parliamo di cose che a casa non si possono nemmeno nominare (questo quando non parliamo di lavoro, e devo ammettere che parliamo quasi sempre di lavoro), ci sono argomenti di cui invece non si parla mai. Per esempio non parliamo mai della guerra. Molti qui sono pacifisti, Chris è membro della PPU. Non abbiamo giornali, e anche se Chris ha una radio, la usa soltanto per ascoltare programmi comici come ItsThatManAgain, lo conosci? È un programma bellissimo. Mentre Lilli – ovvero Mrs Noel Carstairs, detta anche “direttrice” – qualche volta ascolta dei cantanti. E poi non parliamo mai delle nostre famiglie e in particolare dei nostri genitori. Nessuno dice niente di casa sua, né di cosa faceva prima di venire qui. Invece la scorsa settimana c’è stata una discussione molto interessante sulle lesbiche, ma nessuna delle presenti lo era e solo una persona tra noi ha detto di conoscerne una, perciò non ho imparato molto sull’argomento. Essere vergini non è visto di buon occhio, mi pare, soprattutto dalla ragazza più grande che si chiama Ernestine e dice di avere venticinque anni, anche se sembra molto più vecchia. Sto imparando molto sulla vita oltre che sul teatro. Un attore molto interessante, di nome Jay Coren, si è stupito che io abbia letto così pochi libri e mi ha dato un romanzo di Ernest Hemingway, che secondo lui è il più grande scrittore al mondo. Il libro si chiama Addioallearmi e parla quasi sempre di sesso: però sono innamorati, lei ha un bambino e alla fine muore. Devi leggerlo. È meraviglioso. Chris ha noleggiato dei costumi magnifici per le nostre recite. Io ho lo stesso abito che ha indossato Gwen Ffrangcon-Davies quando ha recitato in RichardofBordeaux con Gielgud! È giallo con un copricapo fantastico. Per Catherina invece porterò uno splendido vestito di velluto rosso con un ricamo a perline. È incredibilmente caldo e puzza. Ci danno i biglietti gratuiti per il cinema, che per fortuna è a pochi passi dal teatro, così uno può andare a vedere il film negli intervalli fra una prova e l’altra. LeseimoglidiEnricoviii l’ho visto spezzato in nove parti! Però è magnifico, non trovi?

Lilli ci dà lezioni di dizione: ognuno ne fa due la settimana.

Spesso ci aiutiamo tra noi dandoci la battuta. Le giornate passano in fretta e la prossima settimana ci sarà la prima! Quanto vorrei che venissi! Pensa a me alle otto di venerdì prossimo: cominciamo con Labisbeticadomata. Roy poveretto ha il collo pieno di bolle rosse e la gorgiera non ha certo migliorato le cose...

Si fermò a riflettere qualche istante. Scrivere a Stella era certo più facile che scrivere a sua madre, ma aveva esaurito tutte le notizie. Oh!

Non devi preoccuparti di Michael Hadleigh.

Non mi ha più scritto, perciò immagino che si sia dimenticato di me.

Proprio il giorno dopo, invece, le arrivò una sua lettera, reindirizzatale da casa. Capì subito che doveva essere lui, perché c’era un timbro della Marina nello spazio riservato al francobollo. Se la portò nella vecchia serra nel giardino di Stow House, in modo da poterla leggere in santa pace.

Carissima Louise,

avevo deciso di non scriverti, perché temevo che la cosa non ti facesse piacere, ma non ce l’ho fatta. Se non vuoi più ricevere le mie lettere, basta che tu mi scriva due righe per dirmelo, ma spero tanto che non sia così. È notte fonda e io sono l’ufficiale di turno, perciò spesso vengo interrotto a causa delle ronde e di altri lavori di routine, e dato che al momento sono l’unico ufficiale a bordo non ho mai un momento libero.

È una lettera difficile da scrivere. Inibizioni, sai... la censura, e anche il fatto che è la prima volta che ti scrivo. Per tutte queste settimane in mare non ho fatto che ripensare alla grazia e alla dignità che hai dimostrato in quel night club quando è caduta la bomba. E sei così giovane! Credo che anche la tua giovinezza mi spaventi un po’. Oh, Louise, qualunque cosa accada, tu non prendermi sul serio, perché allora mi prenderei sul serio anch’io, e sarebbe ridicolo.

Però ci siamo divertiti quel fine settimana, eh? Sei stata impareggiabile nel gioco dei mimi; la mamma è rimasta molto colpita. I miei disegni non ti rendono giustizia. Ma ne ho portato con me uno, perché serva almeno a ricordarmi alcune piccole cose importanti come il modo in cui si piegano gli angoli della tua bocca e l’angolatura delle tue sopracciglia quando le alzi all’improvviso – no, non proprio un triangolo, ma inarcate in un modo curioso... no: somigliano a piccoli, graziosi tetti puntuti invece che alla solita linea curva.

Chissà se poi la tua compagnia di repertorio si è formata... In ogni caso, non ho dubbi sul fatto che diventerai una grande attrice. E se non avremo modo di conoscerci meglio, quando saremo vecchi andrò al teatro del West End, dove tu reciterai nella parte principale, e racconterò a tutti che ti ho conosciuta da giovane...

Cara Louise, ora devo andare a rimettere a posto una cima di ormeggio che vuole andarsene alla deriva. Buonanotte.

Tuo per sempre,
Mike

La lesse la prima volta, divorandola, e poi una seconda volta, più lentamente. La mia prima lettera d’amore, pensò, e poi si chiese se davvero la si poteva definire tale. Scriveva «Carissima Louise», ma del resto la gente usava quella formula mille volte al giorno e talvolta anche per dirsi delle cattiverie. No, non voleva dire niente. Ma poi c’era la parte in cui la esortava a non prenderlo sul serio, che però poteva voler dire che davvero lui non voleva essere preso seriamente, e le frasi sulla sua grazia e dignità, sulla sua bocca, sulle sue sopracciglia... Certo uno poteva trovare belli i lineamenti di una persona senza per forza esserne innamorato, e lui era talmente sofisticato e vecchio, e chissà quante ne aveva conosciute, di ragazze. La stava adulando, sì, ma era il primo a farlo. Bisognava ammettere che era eccitante: cercò di dirlo a voce alta e con calma, ma la mano che stringeva la lettera le tremava. Era una cosa da adulti (altra parola usata sovente a Stow House) ricevere una lettera come quella. La rilesse con attenzione una terza volta, la piegò e la infilò nella busta. Se la mise nella borsa, nel caso in cui le fosse venuta voglia di rileggerla ancora.

La prova costume di martedì durò dalle dieci del mattino alla sette e mezza di sera. Ciò era in parte dovuto al fatto che ogni cosa doveva essere ripetuta due volte per dare a tutte le ragazze la possibilità di provare. La sera Chris mandò qualcuno di loro a prendere un cartoccio di pesce fritto e patatine e Lilli preparò una gran quantità di tè in uno dei camerini. Louise sentiva di aver fallito completamente. Non che avesse dimenticato le battute, ma la sua era stata un’interpretazione piatta, mentre Roy manteneva un buon livello costante e, a suo giudizio, molto professionale. Chris, e con lui una signora che era misteriosamente comparsa qualche giorno prima, era seduto in platea e per ogni scena dava una valutazione. La sua valutazione fu devastante. «Tu dovresti essere sessualmente attratta da lui!», tuonò. «E dovresti anche parlare con il postino che ha consegnato in ritardo la tua lettera. Forza, ragazza mia, sai di cosa sto parlando!». Il guaio era che lei, invece, non lo sapeva affatto. Non aveva la più remota idea di come ci si comportasse con una persona da cui si era “sessualmente attratti”, ma sarebbe morta piuttosto che ammetterlo. Tirò fuori un debole sorriso di complicità e ricominciò da capo, sempre più goffa e legnosa. C’erano stati difetti anche sul piano tecnico: era entrata in ritardo in scena, aveva guastato il ritmo del primo battibecco non dicendo abbastanza velocemente le sue battute, a un certo punto aveva eclissato Roy durante un monologo. «Non puoi pretendere che l’attenzione del pubblico sia sempre su di te». E così via. Più tardi, in camerino, pianse togliendosi il vestito di velluto rosso e furono tutti molto buoni con lei: Lilli le disse di non rovinarsi il trucco e l’altra Catherina, Jane Mayhew, andò a prenderle ancora una tazza di tè prima di correre a cambiarsi per entrare in scena. Poi restò sola per qualche minuto. Si asciugò gli occhi con cura e fissò lo specchio illuminato a profusione. Forse, dopotutto, non sono brava, pensò. Tra le altre cose, Chris le aveva detto che si muoveva con goffaggine: proprio come le diceva sempre mamma. Doveva essere vero. Altro che «grazia e dignità!», pensò, guardandosi gli occhi imbrattati e i solchi delle lacrime sullo strato di trucco che si era applicata con tanta cura. La sua scatola di cosmetici nera, l’oggetto a cui teneva di più, era posata davanti a lei e aveva un’aria intonsa. Alcuni dei suoi compagni avevano sporcato e usurato le proprie intenzionalmente allo scopo di farle sembrare più vissute, ma lei non voleva imbrogliare: sarebbe rimasta la sua preziosa scatola per il resto della vita e quell’usura doveva essere autentica.

Bussarono alla porta: era Jay con un pacchetto di sigarette.

«Se ti ha fatto quella paternale», disse sedendosi sul tavolino da toletta, «è perché pensa che tu sia brava».

«E cosa te lo fa credere?».

«L’ho osservato. A certi di noi fa notare solo quando sbagliano una battuta, quando sbagliano le parole, intendo, e poi dice che andava bene».

«Forse perché sono bravi».

Scosse il capo. «È un cretino per tanti versi, ma su queste cose non sbaglia. Che te ne pare della sua ragazza?».

«È la sua ragazza?».

«Vuoi scommettere? Abita a Exford. Per ora. Vedrai che da un giorno all’altro viene a stare da noi. Con qualche pretesto, tipo quello di dare una mano a quella povera ignorante di Poppy». La guardò. «Hai freddo? Stai tremando». Si avvicinò all’improvviso e infilò una mano sotto il kimono di seta che sua madre le aveva concesso di portare, cercò e trovò il suo seno. «È grande giusto come la mia mano», disse con una tenerezza sorprendente. Quando la baciò sulla bocca, una ciocca dei suoi capelli biondicci cadde in avanti e le solleticò il collo.

«Ecco». Si raddrizzò e le sorrise con una specie di circospezione. «È meglio che vada», disse. «Devo mettermi quella cazzo di calzamaglia».

Le lasciò le sigarette. Sul pacchetto aveva scritto: «PER ANNA DI BOEMIA» e sotto, tra parentesi, «(MRS QUEENIE PLANTAGENET)».

Si sentì improvvisamente molto meglio. Poi tornò Lilli e le mostrò come applicarsi il suo nero nuovo di zecca sulle ciglia.

Quando tornò in platea per guardare Jane e Roy nella scena della Bisbetica, diede un’occhiata furtiva alla ragazza di Chris. Era piuttosto vecchia, con lunghi capelli neri, la frangetta e una grossa sciarpa intorno al collo. Al buio, fu tutto quello che riuscì a vedere. Rivolse la propria attenzione agli attori. Jane era bassina, aveva i capelli rossi, un vocione sorprendente e un piglio sicuro. Non emergeva l’infelicità che, secondo Louise, si nascondeva dietro il caratteraccio di Catherina. Pareva quasi che fingesse di averlo, il caratteraccio, e che cercasse in tutti i modi di ingraziarsi Roy. La cui interpretazione era in tutto e per tutto sempre la stessa. Non era cambiata di una virgola dalla prima lettura. Louise sentiva che c’era qualcosa di sbagliato in questo, ma non avrebbe saputo dire cosa. Notò che Chris diede a Jane una valutazione frettolosa, mentre non disse nulla di Roy, e pensò che forse Jay aveva ragione. Sembrava più grande degli altri, e allora decise che a lei piacevano gli uomini più vecchi. Non posso ancora affermarlo, si disse, perché ne conosco soltanto due. Quel bacio, quelle carezze... era avvenuto tutto talmente in fretta che adesso le pareva irreale. Non c’era stato preavviso né conclusione, e l’emozione era sopraggiunta in ritardo: un che di leggero e audace ma privo di conseguenze, qualcosa che non aveva mai provato prima di allora.

Si ridestò dal suo sogno a occhi aperti quando Chris annunciò una pausa di dieci minuti prima di cominciare con Macbeth.

«Griselda si è sentita male», le disse qualcuno mentre tornava in camerino e trovò la povera ragazza china sopra un secchio, la faccia terrea sotto il pallido trucco da Lady Macbeth.

«Non mi ricordo le battute!», gemette. «Ricordo le prime, ma poi mi si annebbia tutto. No, non va bene. Non ce la faccio. Dovrà farlo Helen al posto mio».

Alla fine fu chiamato Chris, il quale entrò con passo marziale dicendo: «Hai dato di stomaco, vero? Bene. Questo ti ha disteso i nervi, e adesso sei pronta ad andare in scena. Dimmi le tue battute d’apertura e vedrai che si risolverà tutto». Si era seduto sui talloni davanti a lei, e le prese le mani. «Forza, ragazza mia. Devi spingere il tuo coraggio al limite, e vedrai che non fallirai».

Lei lo fissò e poi cominciò con voce rotta: «M’incontrarono nel giorno della vittoria...»8.

«Hai visto?», la interruppe Chris. «Te le ricordi. Io so che te le ricordi, e lo sai anche tu. La lettera puoi leggerla anche molto lentamente. Non credo che Macbeth avesse una bella calligrafia...».

Ora Griselda gli sorrideva. Chris si alzò in piedi continuando a stringerle una mano e l’accompagnò fuori dal camerino.

«Secondo me sei stata fantastica!», esclamò Louise più tardi, mentre entrambe si spalmavano il Trex sulle facce dal colorito innaturale. (Usare il grasso vegetale da cucina era l’ultima moda: qualcuno una volta era entrato nel camerino di una nota attrice in un teatro londinese e aveva visto che lei usava proprio quello, così adesso chi si affannava ancora con il latte detergente veniva guardato dall’alto in basso).

«Anche tu. Soprattutto nel ruolo di Anne. Nella scena con Jay sei stata molto più brava di Helen».

«Tu che ne pensi di Jay?», domandò Louise con noncuranza.

«Be’, è molto intelligente eccetera, ma ha un bocca crudele, non ti pare?».

Louise pensò fra sé che era un’affermazione piuttosto sciocca: che diavolo significava una bocca crudele? Come si distingueva da una bocca buona? Ma Griselda proseguì: «Lo sai, è larga e ricurva, ma in qualche modo dura. E ha pure gli occhi freddi. Non credo che mi fiderei di lui».

Louise tacque di nuovo. Occhi freddi. Gli occhi, com’era stato insegnato loro, potevano cambiare completamente a seconda dello stato d’animo della persona. A teatro, gli occhi erano la cosa più importante. I suoi, adesso, erano irritati per via dello sfregamento necessario a eliminare i grumi di nero dalle ciglia. Si ripromise di chiedere a Lilli come evitare quell’inconveniente.

«È molto bravo nei panni di Richard», disse Griselda. «E poi racconta delle storie favolose. Dio, che fame! Potrei mangiare qualunque cosa!».

«Dici che troveremo qualcosa al nostro ritorno?».

«Non lo so».

Dovettero prendere tre taxi per tornare, perché si era fatto molto tardi. Poppy aveva lasciato due vassoi di grossi panini ripieni di formaggio e pasta di aringhe, ma Zar Alessandro aveva messo le zampe sui secondi e nessuno fu molto attratto da quello che era rimasto dopo il suo passaggio.

«Perché Annie non si è portata il gatto in camera?», disse Chris. Era molto arrabbiato.

«Se l’è portato, ma credo che sia tornato giù da solo. È colpa mia, dovevo lasciarli nella dispensa, ma temevo che tornaste ancora più tardi e allora io sarei stata già letto e voi non li avreste trovati».

«Bastava lasciare un biglietto, Poppy. Non importa, piccola. Non piangere, ti prego. Per oggi abbiamo avuto la nostra dose di emozioni. Portami un boccone in camera, sii buona».

Alla fine, per la maggior parte di loro, la stanchezza ebbe la meglio sulla fame e se ne andarono nelle rispettive stanze lasciando Poppy a trascinarsi in cucina con in mano del manzo in scatola e dei cracker. «Non posso usare il pane, altrimenti non basterà per la colazione». Sembrava sfinita quanto loro.

«Non è una bella vita, la sua», disse Louise mentre lei e Griselda si svestivano in gran fretta nella stanza gelida.

«No. Ed è una vera ingiustizia, perché anche lei vorrebbe fare l’attrice».

«Davvero? Non sembra per niente il tipo».

«Be’, la sua è una famiglia di teatranti. A quanto si dice sua madre era bravissima».

«Cosa le è successo?».

«È morta in un incidente d’auto un po’ di tempo fa. Non so quando di preciso. Me lo ha detto Lilli mentre mi faceva la manicure». Griselda stava cercando di smettere di mangiarsi le unghie dopo che Lilli, indignata da quella brutta abitudine, le aveva detto che doveva imparare ad averne cura.

«Potrei darle una mano. Sono stata a scuola di cucina».

«Io fossi in te me ne guarderei bene. Se Chris viene a sapere che sai cucinare, non ti farà fare altro».

Il solo pensiero era così orribile che Louise decise egoisticamente di lasciare le cose come stavano.

La mattina del giorno della prima dormirono tutti fino a tardi e consumarono un pasto non meglio specificato a metà giornata. Nel pomeriggio Louise s’infilò nel letto, l’unico luogo caldo, e si mise a scrivere a Michael.

«Caro Mike... carissimo Mike... caro Mike», cominciò e s’interruppe. «Caro Mike» le suonava freddo, mentre «Carissimo Mike» le pareva una scopiazzatura, giacché mai, se non l’avesse già fatto lui con lei, gli si sarebbe rivolta con quelle parole. Alla fine prese un foglio nuovo e lasciò in bianco l’intestazione, in modo da decidere a lettera terminata, con un’idea chiara di cosa gli avrebbe detto. «Grazie per la tua lettera. Me l’hanno inoltrata da casa, perché la compagnia di repertorio di cui ti parlavo è nata, stasera abbiamo la prima e siamo tutti molto nervosi. Portiamo in scena degli stralci di Shakespeare e una commedia di Gordon Daviot che, pensa un po’, è una donna». Continuò su questa china raccontandogli anche della prova costume e di quanto era stata male, ma concluse: «Del resto, quando uno per tutta la vita ha desiderato una cosa e adesso ha la fortuna di averla, che altro può volere? Viviamo in una casa fredda e spoglia e non c’è mai molto da mangiare, ma a nessuno importa perché siamo tutti completamente assorbiti dalla nostra arte, e quando ci si sente così le cose materiali non contano, sei d’accordo?». (Di questa parte era abbastanza soddisfatta, ma temeva che la tirata sul teatro l’avrebbe annoiato). «Sì, abbiamo trascorso proprio un bel fine settimana. Mi è piaciuto molto andare a cavallo e giocare ai mimi, e nessuno mi aveva mai fatto un ritratto prima! Tua madre poi è stata davvero gentile». Lo scrisse con cautela, perché non le veniva in mente un’altra parola per definirla. «Le ho scritto un Collins – in famiglia chiamiamo così le lettere di ringraziamento, per via di Mr Collins». Poi pensò che forse lui non aveva letto Orgoglioepregiudizio perciò aggiunse, tra parentesi: «(Austen)».

E proseguì: «Ma di certo tu lo saprai già», in modo da non offenderlo insinuando che fosse un ignorante. Poi la rilesse dall’inizio. Le parve di una piattezza mortale. «Non è una lettera molto interessante, temo. Capisco cosa intendi quando parli di come ci si sente a scrivere a qualcuno per la prima volta. Di fatto, ancora non ci si conosce bene.

Non riesco a immaginare come sia la vita su una nave da guerra. Zio Rupert ebbe il mal di mare per i primi due giorni. Dev’essere terribile dover combattere con la nausea, ma la mia istitutrice, ricordo, mi ha raccontato che qualche volta succedeva pure all’ammiraglio Nelson. Del resto non vedo come ciò possa esserti di qualche conforto. Spero non vada troppo male. Con affetto, Louise». Poi ci ripensò e scrisse: «P.S.: Sotto le bombe non si è trattato di vero coraggio. Sono rimasta immobile solo perché non sapevo che altro fare. Naturalmente mi fa molto piacere che tu mi trovi bella». Come intestazione scrisse: «Caro Mike». Il nome abbreviato, si disse, ammorbidiva la secchezza di “caro”.

Scrisse il nome, quello della nave e poi «presso il Servizio Generale delle Poste». Era strano come indirizzo, ma era quello che aveva scritto lui sulla busta, perciò doveva andare bene.

La sera della prima arrivò e se ne andò. Stella le inviò un telegramma, un gesto che Louise apprezzò molto perché tutti avevano ricevuto telegrammi da casa eccetto lei. La sala, come aveva imparato a chiamarla, era piena solo per metà, ma a lei non importava: era un vero pubblico, in carne e ossa, che aveva pagato per entrare, e solo questo contava. Jay la baciò di nuovo dietro le quinte, mentre Louise aspettava di andare in scena. «Ecco, mia adorata... il bacio di buon auspicio. Se sia d’affetto o di passione decidilo tu...». Roy fu bravo e assolutamente affidabile e a tratti Louise finse che ci fosse Jay al suo posto, perché questo lo rendeva più interessante. Ripensò alle sue riflessioni sulla Catherina di Jane, e mise un po’ di quella tristezza nella sua. Fu bellissimo fare l’inchino davanti al sipario di velluto rosso, quando fu chiamata a ricevere il suo applauso. Dopo venne a trovarla Chris, il quale le diede un grosso bacio su entrambe le guance e la strinse contro lo stomaco rotondo e sodo. «Eccola qua, la mia ragazza! Sei stata brava, Louise. Migliorerai ancora, ma sei stata brava».

Tornarono tutti a casa con l’ultimo autobus e si sedettero intorno al tavolo senza mai smettere di parlare della rappresentazione, ripercorrendola in ogni dettaglio, poi finalmente andarono a dormire. La mattina dopo Louise trovò il cuscino sporco di cerone e pensò che forse quella del Trex non era poi una gran trovata.

Fecero quattro spettacoli serali e quattro matinée dedicate alle scolaresche – che erano piuttosto rumorose, ma almeno riempirono la sala –; le serate invece non richiamarono molto pubblico. Il giornale locale recensì lo spettacolo, e tutti gli attori furono menzionati. L’articolo non era firmato e, anche se Chris evidentemente sapeva chi l’aveva scritto, non volle dire nulla in proposito se non per negare di esserne lui l’autore. Malgrado tutto, leggere che «Louise Cazalet ci ha regalato due vivaci interpretazioni di Catherina e Anne» fu una grande emozione. Ne comprò due copie, una da spedire a casa e una da conservare in un album insieme al programma.

Finita la settimana dedicata a Shakespeare, Chris annunciò i prossimi testi da mettere in scena. Erano Febbredafieno e Notturnotragico. Disse loro che stavolta, anche facendo recitare ragazze diverse nello stesso ruolo, non c’erano comunque parti femminili a sufficienza perché ognuna potesse figurare in entrambe le commedie. Louise fu scelta, con sua delusione, per la parte di Sorrel in Febbredafieno: la parte dell’ingénue, secondo lei la più noiosa. Mentre non fu scelta affatto per recitare in Notturnotragico. Febbredafieno andò in scena nel periodo natalizio, e Chris le disse che, se voleva, dopo poteva andare a casa per un paio di settimane. Lei non voleva, temeva che se fosse andata a casa non l’avrebbero lasciata tornare. Poi però ricevette una lettera da Mike – la terza – dove le scriveva che aveva una settimana di licenza perché la sua nave era in riparazione e le domandava se aveva voglia di passare almeno qualche giorno di quella settimana con lui. In caso contrario si offriva di venire a trascorrere una notte nel Devon per vederla.

Date le difficoltà nella comunicazione [scriveva], ti propongo sfacciatamente di incontrarci in Markham Square venerdì dieci gennaio. Ho dato un’occhiata ai treni da Exford e ho visto che, con un po’ di fortuna, dovresti arrivare verso le tre. Se non è possibile, scrivimi e, quando andrò a Londra, ti telefonerò io per trovare un altro modo. Provaci, mia cara Louise... desidero tanto vederti. Saresti il miglior antidoto possibile alla mia vita attuale. In mare aperto l’umidità è terribile: il più grande privilegio è starsene in cuccetta, dove almeno c’è solo la condensa che ti sgocciola sul naso. Certo, ogni tanto riusciamo a sparare a qualcuno. Nulla di più. Uno dei miei compiti qui è censurare le lettere degli uomini, perciò sto diventando un esperto di problemi domestici e di coppia. A volte penso che forse ti sei innamorata di qualche affascinante attore, e posso solo sperare che non sia così...

Lei gli rispose che si sarebbe fatta trovare in Markham Square quel venerdì e che poteva stare via per una settimana. Non rispose al dubbio di lui riguardo alla possibilità che si fosse innamorata di un altro, perché era ancora incerta sulla natura dei suoi sentimenti per lui e per Jay, il quale aveva preso l’abitudine di andare nella sua camera quando Griselda non c’era: si stendeva sul letto con lei e le leggeva delle poesie. A lei piaceva e, quando la lettura cedeva il passo a baci, carezze e strusciamenti, scoprì che anche quello le piaceva, sebbene non nel modo che si era aspettata. Aveva sempre creduto che, quando si arrivava a baciare qualcuno, bisognava esserne innamorati al di là di ogni dubbio. Lei invece non provava l’estasi amorosa di cui tante volte aveva letto. Jay le piaceva e un po’ lo temeva – per la sua voce pacata e sarcastica, il suo lessico sofisticato, i suoi pallidi occhi che parevano giudicare. Con lei però sapeva essere molto dolce e, quando non aveva paura, Louise si sentiva come se la base della sua spina dorsale fosse diventata una cosa fluida che le mandava nel bacino piccole onde di piacere che finora non aveva mai sperimentato. Ma il corpo sembrava staccato dal resto. Se chiudeva gli occhi, Jay poteva essere chiunque, oppure solo dita, mani, bocca. «Allora tu mi ami?», gli domandò una sera.

Silenzio. Lei era sdraiata di schiena e lui la guardava reggendosi sui gomiti. «Questa è una domanda ridicola, mia cara ragazza. Ti piacerebbe se la rivolgessi a te?».

«Non mi dispiacerebbe».

«Sì, è vero», replicò lui. «Almeno tu sei onesta, non fingi. Non hai la testa piena di romanticherie senza senso. Ti trovo bella, immagino che tu l’abbia capito ormai. Se tu non fossi chiaramente una verginella ti avrei già presa».

«Mi avresti presa?».

«Ti avrei scopata... Ma prevedo», disse dopo aver atteso invano una risposta, «che la cosa ti disgusterebbe e produrrebbe da parte tua una reazione rumorosa che non mi piacerebbe. Perciò ci rinuncio». Prese in mano «New Verse», la rivista di Geoffrey Grigson, e seguitò a leggere:

AnnieMcDougallwenttomilk,caughtherfeetintheheather,

WoketohearadancerecordplayingofOldVienna.

Itsnogoyourmaidenheads,itsnogoyourculture,

AllwewantisaDunloptyreandthedevilmendthepuncture.

E così via fino all’ultimo verso:

Itsnogo,myhoneylove,itsnogo,mypoppet,

Workyourhandsfromdaytoday,thewindwillblowtheprofit.

Theglassisfallinghourbyhour,theglasswillfallforever,

Butifyoubreakthebloodyglass,youwontholduptheweather.9

Senza dire niente, sfogliò qualche pagina e lesse ancora:

Ihaveahandsomeprofile

Ivebeentoagreatpublicschool

Ivealittlemoneyinvested

ThenwhydoIfeelsuchafool

AsifIownedaworldthathadhaditsday?

Youcertainlyhavegoodreason

Forfeelingasyoudo

Nowonderyouareanxious

Becauseitsperfectlytrue

Youownaworldthathashaditsday.10

Chiuse il libro e la guardò di nuovo.

«Visto? Se vuoi sapere cosa succede nel mondo, leggi i poeti contemporanei. Loro lo sanno».

«Erano due poesie dello stesso autore?».

«No. Il primo era Louis McNiece. Il secondo W.H. Auden. Due nomi che dovresti conoscere, e invece scommetto che non li hai mai sentiti».

Louise scosse la testa con aria così affranta che lui le fece una carezza.

«Coraggio. Ecco una cosa che ti tirerà su».

Poi cominciò a leggere con la stessa voce che aveva usato per l’aneddoto del pappagallo.

Miss Twye si stava insaponando le tette nella vasca

quando sentì dietro di sé una risata maligna

e con sua grande sorpresa scoprì

un malvagio nella credenza.11

«Anche tu ti insaponi le tue belle tette quando fai il bagno? Il tuo dolcepetto, come lo chiama Enrico VIII?».

«E se anche lo facessi?», replicò lei. «In questo bagno non c’è spazio per una credenza». Era affascinata dalla sua vasta cultura. «Vorrei sapere di più», disse Louise. «Pare che il mondo sia pieno di cose che non conosco».

«Se vuoi ti faccio una lista di poeti. Sarebbe un buon inizio».

E lo fece davvero. Certe volte però Louise non lo vedeva per settimane intere. Questo accadeva in parte perché Jay passava molto tempo con Ernestine, la ragazza più grande della compagnia, che non era simpatica a nessuno, ma di cui tutti avevano un po’ di paura. Ernestine aveva una stanza tutta per sé al pianterreno. C’era un caminetto dove accendeva un fuoco a carbone, perciò la sua era l’unica stanza calda in tutta la casa. Possedeva molti vestiti alla moda e si metteva lo smalto bianco sulle unghie lunghe. Era piccola di statura, con belle gambe e una figura armoniosa, ma a guardarle il viso sembrava molto più vecchia dei venticinque anni che diceva di avere. Portava i lunghi capelli neri acconciati con una frangia simile a una salsiccia che le attraversava la fronte e il resto sciolti sulla schiena, e sulla lunga bocca sottile aveva sempre uno strato di rossetto color ciclamino. La sua voce era stentorea e roca e la usava perlopiù per farsi beffe di qualcosa: la società, le classi sociali, gli inglesi (diceva di essere francese per metà), i ricchi, chiunque facesse un lavoro che non avesse a che fare con l’arte, la verginità che per lei era una forma di vile perbenismo. In passato aveva vissuto a Chelsea, che descriveva come l’unico avamposto civilizzato di quella enorme massa di repressi divisi in classi che costituiva il resto di Londra. Aveva ben poco talento, ma era convinta di essere destinata alla grandezza. Chris le lasciava ampi margini di libertà: secondo alcune voci faceva di tutto per tenersela buona e le concedeva privilegi che ad altri erano negati, come quello della camera. Ernestine parlava di continuo dei suoi amanti: in particolare di Torsten, un norvegese, il migliore che avesse avuto, a quanto diceva. Gli altri la stavano a sentire per pura educazione quando non potevano farne a meno, durante i pasti per esempio, ma per il resto cercavano di evitarla. Credevano che pagasse una quota maggiore di quella degli altri e che a Chris servissero quei soldi. Aveva evidentemente scelto Jay come unico maschio degno della sua attenzione e non nascondeva a Louise la propria antipatia. Era venuta in qualche modo a sapere delle lettere che riceveva dalla Marina reale – alloggiando al piano terra arrivava alla posta prima di tutti gli altri – e canzonava spesso Louise per il suo bel marinaio. «Si dice che ogni ragazza bella e brava s’innamora di un marinaio, e io grazie al cielo non appartengo alla categoria. Louise però è davvero bella e brava, non trovi?». Si era rivolta a Jay.

«Bellissima, direi», rispose lui bruscamente con un’espressione dura che fece capire a Louise che era dalla sua parte.

La sera prima della partenza di Louise, Ernestine la invitò inaspettatamente nella sua stanza. Aveva saputo che Louise si assentava per una settimana. «Forse ho qualcosa per te».

Non sapendo come cavarsi d’impaccio, Louise la raggiunse dopo la solita cena a base di carne e cavoli.

Ernestine le offrì una delle sue Balkan Sobranies nere e un bicchiere di vino. Louise si sedette sul bordo di un divano arancione mentre Ernestine procurava i bicchieri e il cavatappi.

«Vai a casa, dalla tua famiglia?», domandò porgendole il bicchiere in cui aveva versato il vino.

«No». Louise non seppe mentire, e inoltre una parte di lei mirava a esibirsi davanti a Ernestine, che considerava lei e tutti gli altri un manipolo di ragazzini. «Veramente vado a trovare “il mio bel marinaio”, come lo chiami tu. Ha una settimana di licenza e coincide col mio periodo libero».

«Buon per te!». Parve sinceramente colpita. «Non lo avrei mai detto». Alzò il bicchiere. «Brindiamo a voi due!». Quando non la usava per infamare qualcuno, la sua voce un po’ roca era piacevole. «Non sarà mica sempre stato un marinaio, no?».

«Oh, no. È un pittore».

«Uno studente d’arte! Oh, caro!»

«Non uno studente. Proprio un pittore. Un ritrattista».

«Come si chiama?».

«Michael Hadleigh».

«Michael Hadleigh? Così hai un amante famoso!».

«Non è proprio il mio amante...». Si accorse che stava per arrossire e bevve un generoso sorso di vino. «Lo conosco, ecco... tutto qua».

Ernestine le si avvicinò e le riempì il bicchiere. «Be’, a quanto pare lui desidera conoscerti meglio. Non penserai che starete una settimana a tenervi per mano, spero».

«No». Le parve un’idiozia. «No di certo».

«Be’, allora forse, mia cara, hai bisogno di qualche consiglio». Si alzò e raggiunse un cassettone, da cui estrasse un tubetto simile a quello del dentifricio. «Una precauzione», disse porgendoglielo.

Louise lo guardò. «volpargel», c’era scritto sopra. «A cosa serve?».

Ernestine alzò gli occhi al cielo. «Dio santo! Non ci posso credere. Serve a non restare incinta, mia povera creatura innocente. Naturalmente, più avanti ti servirà un diaframma».

«Sono certa di non volere un bambino», disse. Lo disse come se avesse ponderato con calma il problema e avesse infine deciso così. Vorrei andarmene, pensò, ma Ernestine, come se le avesse letto nel pensiero, accese due sigarette e gliene offrì una. Il filtro dorato era macchiato di rossetto color ciclamino, e Louise non la voleva, ma rifiutare le parve scortese.

«Chiaro che non lo vuoi. Io cerco di aiutarti. Qualcosa mi dice che la mamma non ti ha spiegato molto al riguardo, vero? Comunque basta andare in farmacia e chiederne un tubo, e te lo danno. Un’altra cosa: magari ti piacerebbe portare con te della biancheria intima un po’ meno infantile. Torsten mi ha regalato delle camicie da notte che trova molto eccitanti. Te le faccio vedere».

Una era di chiffon nero, l’altra era di raso fucsia guarnita di pizzo nero.

Voleva davvero essere gentile, pensò Louise, e decise che la cosa più semplice era accettarne una. Non l’avrebbe mai indossata, ma Ernestine questo non poteva saperlo.

«Sei molto gentile...», esordì.

«Sciocchezze! Devi venire sempre dalla zia Ernestine quando ti servono consigli riguardo al sesso. Prendi anche il tubetto, è meglio. Non ti ci vedo proprio a entrare in farmacia per comprarne uno!».

A quel punto Louise riuscì a svincolarsi. La metteva a disagio il fatto che, nonostante non le fosse simpatica, Ernestine aveva avuto buone intenzioni nei suoi confronti.

Inoltre le aveva aperto scenari, riguardo alla settimana a venire, che le fecero rimpiangere – o quasi – di aver accettato l’invito.

* * *

La Settimana... sembrò meravigliosamente lunga, l’opposto di ciò che credeva accadesse quando si era felici. Aveva sempre pensato che, nel momento in cui si fosse divertita davvero, il tempo sarebbe trascorso in un lampo, e invece quei sette giorni sembrarono allungarsi al punto che, quando ne furono passati solo due, aveva la sensazione di aver vissuto così per anni. Il primo giorno era molto nervosa. Lui portava l’uniforme, come la sera in cui lo aveva incontrato per la prima volta. L’aveva cinta col braccio e l’aveva stretta a sé, poi le aveva dato un fraterno bacio su una guancia. Aveva fatto programmi. Sarebbero andati a uno spettacolo di varietà al Comedy Theatre. «Ho i biglietti per il primo spettacolo serale», disse. «Possiamo fare uno spuntino prima di andare a Hatton in macchina. Non è certo al tuo livello, ma pare che sia molto bello. Va bene?».

Disse che le andava benissimo.

«Hai tutto il tempo di cambiarti e fare il bagno».

L’accompagnò di sopra: la casa sembrava molto silenziosa.

«I domestici sono tutti nello Wiltshire», disse Michael. «Il mio patrigno vuole chiudere la casa e stabilirsi al suo club, oppure prendere un piccolo appartamento. Non vuole che mamma stia a Londra».

«Il tuo patrigno?».

«Sì. Credevi che fosse mio padre?».

«In effetti sì. Nessuno pronunciava mai il suo nome. Voglio dire, i domestici dicevano Sir Peter, tu e tua madre sempre Peter. Come facevo a saperlo?».

«Non potevi. Non devi preoccuparti. Mio padre è morto nell’ultima guerra. Quasi non mi ricordo di lui». Le mostrò la stanza degli ospiti e il bagno che si trovava sul pianerottolo, un paio di gradini sotto. «Faccio un bagno anch’io. La mia stanza è di sopra. Non metterci troppo. Non voglio sprecare il tempo che ho con te».

Il varietà fu magnifico; la parte migliore, pensò, era quella in cui la deliziosa July Campbell cantava ANightingaleSangInBerkeleySquare.

Dopo andarono da Prunier e Louise mangiò le prime ostriche della stagione. Lui le raccontò qualcosa di suo padre. «Era una specie di eroe, perciò io sento di dover essere alla sua altezza».

Si addormentò in macchina mentre tornavano in campagna, e lui la svegliò scompigliandole con dolcezza i capelli. Davanti alla porta della camera la baciò allo stesso modo in cui l’aveva baciata a Londra e disse: «Dormi bene. Ci vediamo a colazione».

Le cose non stavano andando affatto come aveva previsto Ernestine.

Durante la settimana avvennero un paio di fatti singolari. Zee, la madre di Michael, annunciò a un certo punto che il giorno dopo sarebbe venuta a pranzo Rowena. Michael non ne fu contento.

«Oh, mamma! Perché?».

«Caro, desiderava tanto vederti, ora che sei in licenza! Non ho avuto il cuore di dirle di no».

Rowena, scoprì Louise, era la bella ragazza del dipinto. Arrivò in perfetta tenuta da signora di campagna: gonna di tweed e un maglioncino di cachemire in tinta, scarpe ben lucidate e una giacca di vellutino che dava il tocco finale al tutto. Louise, in pantaloni e camicia di cotone, si sentì una sempliciotta al suo cospetto. I capelli di un biondo chiaro naturale erano tagliati in un semplice caschetto, non era truccata ed era pallida, pertanto il viso era dominato dai grandi occhi chiari e ben distanziati. Aveva l’aria infelice. Durante il pranzo vi fu una certa tensione: Zee spinse Michael a parlare della sua nave, cosa che lui, notò Louise, apprezzava molto. Sua madre sembrava conoscere molti dettagli della sua vita a bordo: quando fu menzionata la mitragliera da contraerea Oerlikon, per esempio, lei sapeva di cosa si trattasse. Louise e Rowena rimasero più o meno in silenzio per gran parte del pasto. Finito di mangiare, Zee suggerì che Michael mostrasse le stalle a Rowena e condusse Louise con sé in biblioteca.

«Povera Rowena», disse mentre decideva come abbinare delle lane. «È talmente innamorata di Michael. Ma non ha nessuna possibilità». Alzò gli occhi dal cucito per guardare Louise, che se ne stava impalata e silenziosa. «Ma credo che ormai se ne sia accorta. Michael è un rubacuori. Spero che non gli permetterai di rubare il tuo».

Furono di ritorno dopo circa un’ora. Louise notò che Rowena aveva pianto. Ringraziò Zee per il pranzo e disse che doveva andare via.

«Michael ti accompagnerà in macchina».

Mentre i due uscivano dopo educati saluti, Louise si accorse che Zee la fissava. Le sorrise, ma Louise non se la sentì di ricambiare.

Più tardi, seduti nello studio, mentre Michael fissava della carta sul cavalletto per fare un altro schizzo, Louise gli disse: «Il ritratto che hai fatto a Rowena è bellissimo».

«Sì», replicò lui con noncuranza. «È uno di quelli che mi sono riusciti meglio. Adesso siediti su quella sedia... così». Prese uno sgabello basso e si sedette in modo da guardarla dal basso. «Adesso volta la testa leggermente a destra e guardami. Un po’ di più... di più... basta così. È perfetto. Scusa, rilassati pure. Devo fare la punta alla matita».

Ma Louise sentiva che la cosa non poteva finire lì. «Tua madre mi ha detto che era molto innamorata di te».

«Temo che lo sia ancora. Povera Rowena. Abbiamo avuto un mezzo flirt. È adorabile e ha un buon carattere ma, come dice la mamma, non è proprio una cima. Temo che mi sarei annoiato a morte».

«Vuoi dire, se l’avessi sposata?».

«Se l’avessi sposata, esatto». Fece la punta alla matita con cura, riducendola a un punto. Poi disse. «Vedendoti, ha capito. Non devi essere gelosa».

«Non sono gelosa!». Era vero, non lo era; era solo molto stupita. Aveva immaginato che Rowena avrebbe fatto il possibile per conservare la propria dignità di fronte a un’umiliazione tanto scottante da essere quasi volgare, che sarebbe salita in macchina e si sarebbe allontanata dal vialetto prima di cedere al pianto...

«Cara Louise! Hai un’aria così severa. Ma mamma aveva ragione. Era ora di dirglielo già da tempo, e mi ha confidato che, quando è entrata e ti ha vista, ha capito. Ora torniamo alla tua posa. Volta la testa verso destra, no, così è troppo. Ecco, meglio. Così è perfetto».

In un modo o nell’altro, la blandì e la adulò tanto che Louise non ci pensò più, e per tutta la settimana si crogiolò a tal punto nella totale ammirazione che promanava dalla madre e dal patrigno, che la faccenda le uscì di mente. Veniva trattata alla stregua di un piccolo precocissimo genio, come fosse una di loro, insomma: privilegiata, dotata, viziata dalla fortuna e anche, a causa della sua giovane età, vezzeggiata, elogiata, incoraggiata a esibirsi. Sir Peter volle condividere con lei la sua passione per Shakespeare, e questa volta fu facile convincerla a recitare per lui qualche parte famosa: Viola, Giulietta, la Regina Caterina di Enrico viii e Ofelia, e poi conversò con lei di quelle opere, prendendo assai sul serio le sue opinioni e dichiarandosi cavallerescamente d’accordo.

«Non sembra che quelle di Caterina e di Wolsey siano le uniche due parti scritte veramente da lui?». Come mai pensava questo? Perché le loro battute erano scritte in pentametri giambici, mentre quelle di Enrico e degli altri personaggi no... e così via. Quando la sera si esibirono per gioco in qualche scena, la loro ammirazione la scaldò al punto da farla eccellere, e scoprì allora di avere un certo talento per le parti comiche. A casa, nessuno si era mai interessato a quello che faceva, a chi era, e adesso quelle benevole attenzioni le diedero un po’ alla testa. Complice il fatto che la famiglia sembrava in gran confidenza con molta gente importante e famosa. Pareva conoscessero tutti, in genere in maniera piuttosto intima. Soprattutto Zee, come ormai Louise la chiamava con disinvoltura. Non potevi nominare un politico, un drammaturgo, un direttore d’orchestra che Zee non avesse conosciuto o con cui non fosse in amicizia. Il libro degli ospiti era pieno dei loro nomi, così come di nomi di attori, musicisti, scrittori, artisti e ballerini di successo. Quasi tutti uomini. In biblioteca, i libri recavano dediche autografe degli autori, omaggi più o meno affettuosi indirizzati a lei, e Louise giunse alla conclusione che una persona che era stata ed era tuttora amata da tanta gente importante non poteva che essere meravigliosa e straordinaria. Un giorno, all’ora del tè, arrivò un telegramma per lei e Louise notò che Peter, come ormai lo chiamava, le si era messo accanto per guardarla mentre lo apriva. Lei lo lesse e lo porse al marito sorridendo. «Winston», disse. «Gli avevo scritto per dirgli quanto apprezzavo il suo operato».

Ogni cosa era agli antipodi da Stow House, e anche da casa sua. Le fu chiesto della sua famiglia e Louise ne fece una descrizione per quanto possibile interessante: parlò di sua madre che aveva danzato nei Balletti Russi, del notevole curriculum di guerra di suo padre e di come vivessero tutti quanti insieme nella dimora patriarcale di suo nonno. Il venerdì le telefonò sua madre, e Louise si recò nel piccolo studio che in casa veniva chiamato stanza del telefono.

«Non avevo idea che tu non fossi a Stow House», esordì sua madre: sembrava molto contrariata.

«Be’, dovevo andarmene per una settimana, e Michael mi ha invitata perché anche lui ha una settimana di licenza».

«Avresti dovuto chiamarmi per dirmelo. Lo sai bene».

«Scusami, mamma. Lo avrei fatto se fossi dovuta andare in un posto nuovo. Comunque è solo una settimana».

«Non è questo il punto. Papà ha un paio di giorni liberi e vuole venire nel Devon per vederti. Avremmo fatto tutta quella strada, per constatare alla fine che non c’eri. C’è mancato poco, sai? Papà voleva farti una sorpresa».

«Oh, mi dispiace proprio tanto. Vedi, non recito nella commedia che va in scena ora, così non ho pensato a una vostra possibile visita».

«C’è anche la famiglia lì con voi, vero?».

«Oh, sì. Sono tanto gentili con me. La madre di Michael una volta andava alle feste con Diaghilev e altra gente di quell’ambiente. Dice che di certo ti ha vista ballare».

«Davvero? Be’, spero che tu non stia dando troppo fastidio. E che ti stia divertendo», aggiunse non troppo convinta, come se le due cose fossero in contraddizione fra loro.

«Bene. Torno a Stow House lunedì. Verrete al mio prossimo spettacolo?».

«Ne dubito. Tuo padre ha pochissimi fine settimana liberi. Fammi una telefonata quando arrivi. Non scordartene, per piacere».

Non se ne sarebbe scordata, promise. Chiese notizie della nonna e le fu detto che non stava molto bene. Fu un sollievo quando Villy disse che doveva attaccare perché era un’interurbana. Non era stata una conversazione molto amichevole.

Solo il sabato scoprì che quello era l’ultimo giorno, perché a mezzogiorno del lunedì Michael era atteso a bordo. Sua madre sarebbe andata a Londra con lui per trascorrere insieme l’ultima sera. «Lo capisci, vero?», le disse Michael. «Vuole stare un po’ con me perché Dio solo sa quando avrò un’altra licenza».

«Certo che capisco», rispose meccanicamente, senza rifletterci molto. Le prese il volto tra le mani e la baciò. Stavolta le premette la bocca contro le labbra, un bacio caldo, voluttuoso. «Oh, Louise», disse, «sono così egoista che a volte vorrei che tu fossi un po’ più grande».

«Che cosa farai ora?», le domandò lui più tardi, quella mattina. Non ci aveva ancora pensato. Consultarono l’orario dei treni e venne fuori che non poteva tornare nel Devon di domenica – quella notte doveva trascorrerla a Londra. Telefonò a Stella e le rispose la madre: Stella era a Oxford con degli amici fino a lunedì sera. Si vergognava a chiedere ai Rose di ospitarla anche in assenza di Stella, perciò disse che non aveva importanza e che le avrebbe scritto una lettera. Poi le venne in mente Lansdowne Road, che era più o meno chiusa ma la usavano ogni tanto i suoi genitori quando dovevano passare una o due notti in città. Chiamò a casa e chiese se poteva passare la notte lì e come poteva procurarsi le chiavi. Sua madre andò a chiamare suo padre e questi venne al telefono per dirle che era un’idea magnifica ma che non le permetteva di passare la notte a Londra da sola, perciò l’avrebbe raggiunta, si sarebbero visti a Paddington e l’avrebbe portata a cena. A che ora arrivava? La conversazione ebbe luogo di fronte a Michael, che sentì la voce sonora e allegra di Edward e subito le fornì l’orario richiesto, che lei ripeté al telefono un po’ frastornata. «Stupendo. A presto, allora», disse suo padre, e riattaccò.

«È magnifico», commentò Michael. «Così non dovrò stare in pensiero per te».

Louise non disse niente. Non era magnifico affatto: si rese conto di avere una gran paura, ma non c’era modo di uscirne.

Era trascorso tanto di quel tempo da quando aveva cominciato a evitare la compagnia di suo padre, che le ragioni per cui lo faceva erano come sbiadite, confuse: la sua deliberata ostilità nei suoi confronti aveva sortito l’effetto sperato e il terrore si era sedimentato in una sorta di ribrezzo. Era come evitare il pensiero di qualcosa che dà la nausea: riusciva a non pensarci mai. Adesso però era in trappola e la paura cominciò a sobbollire in lei, implacabile.

La giornata passò. All’ora del tè, la madre di Michael gli chiese di portare gli schizzi che aveva fatto di Louise. «Così vediamo qual è il migliore. E quali cornici metterci, caro».

C’erano quattro disegni, due a matita e due a inchiostro, di cui uno nero e uno color seppia. Il migliore sarebbe stato esposto alla prossima mostra che sua madre stava organizzando. Il piacere dei complimenti, dell’essere al centro dell’attenzione, adesso era guastato: avrebbe voluto aggrapparsi a loro, far sì che quel giorno non finisse, chiedere che la tenessero sempre là, al sicuro, nel grembo della loro indulgenza...

«Io penso quello a inchiostro nero...», stava dicendo sua madre con aria assorta.

«Nessuno di questi mi soddisfa pienamente. Farò meglio la prossima volta», disse Michael.

«Quando sarà la prossima volta?», domandò Louise di punto in bianco, e allora tutti la guardarono e, dalla faccia di Zee, Louise capì che se ne era uscita con la frase sbagliata.

«Fra non molto, vedrai», disse Michael con voce molto tranquilla, e Louise si rese conto che stava parlando a sua madre.

L’ultima sera – c’erano solo loro quattro – fu servita una cena speciale, con tutti i piatti preferiti di Michael. «Mi sembra di essere tornato ai tempi della scuola», esclamò quando portarono la treacle tart, al che sua madre disse: «Se solo fosse possibile...». E Louise capì solo allora che Zee temeva che Michael restasse ucciso, eventualità che a Louise parve terribile e assurda, perché quella famiglia non viveva forse una vita incantata dove non accadeva mai niente di brutto? Dopo si sedettero in biblioteca a prendere il caffè accompagnato da cioccolatini Charbonnel & Walker; Michael ne addentò uno e disse: «Oh, no. È al marzapane!», e sua madre subito disse: «Dallo a me». Poi le chiesero di fare di nuovo Giulietta e Ofelia. Louise li accontentò e si commosse nell’interpretare Ofelia, cosa che, secondo il suo pubblico, migliorò ulteriormente la sua esibizione.

Quando salirono al piano di sopra per andare a dormire, Michael le disse bisbigliando: «Posso venire a darti la buonanotte?», e lei gli fece cenno di sì. Si spogliò e si domandò se fosse il caso di indossare la camicia da notte di Ernestine, ma quando la provò le parve ancora più brutta di come la ricordava e si rimise la sua camicia da notte di cotone. Si lavò i denti, si spazzolò i capelli, si sedette sul letto e attese, cominciando a sentirsi nervosa. Ma quando lui arrivò e si sedette sul letto accanto a lei, si limitò a tenerla abbracciata per un pezzo senza dire una parola. Poi la scostò un poco da sé. «Sei così giovane... mi lasci stupefatto».

Lei ricambiò il suo sguardo, dissentendo da quell’affermazione e chiedendosi che cosa sarebbe successo adesso.

«Volevo solo salutarti come si deve. Domani ci saranno mia madre e tuo padre. E io voglio baciarti». Lei annuì, lui la cinse col braccio e la baciò di nuovo, stavolta cercando di aprirle la bocca; a Louise non piacque, ma per farlo contento non fece resistenza.

Dopo un tempo che le parve piuttosto lungo, lui emise un piccolo gemito e la lasciò andare. «Ora devo lasciarti», disse. «Sta diventando un po’ pericoloso. Dormi bene. Scrivimi. Grazie per aver reso così bella questa settimana».

Distesa al buio, senza riuscire a dormire, si sentiva molto confusa. Essere innamorata, a quanto pareva, comportava dei rituali che lei non capiva affatto: le pochissime informazioni che era riuscita a raccogliere al riguardo erano oblique, frammentarie e, provenendo perlopiù da sua madre, riguardavano in larga misura cosa non dire e cosa non fare. L’unica regola che le veniva in mente gliel’aveva inculcata proprio sua madre, quando le aveva detto di non «mettere alla prova gli uomini»: era successo nel giardino di casa, una volta che si era tolta la camicetta e si era messa a prendere il sole per qualche minuto in reggiseno. Sul momento non aveva capito, aveva solo percepito l’ostilità di sua madre e non sapeva con certezza se l’ostilità fosse diretta a lei in particolare o a tutti gli uomini in generale. Quello che emergeva in modo inequivocabile era il fatto che gli uomini provavano cose diverse dalle donne, ma c’era anche dell’altro, qualcosa di più spaventoso, indeterminato, sulla cui esistenza però non c’erano dubbi. Se la gente non parlava mai di sesso – almeno le donne –, allora nel sesso doveva esserci qualcosa di orribile (ricordava stralci di conversazioni fra sua madre e zia Jessica, e il generico assunto che il corpo era disgustoso di cui meno si parla e meglio è). Forse essere innamorati di qualcuno significava solo volergli bene al punto da sopportare qualunque cosa. Lei aveva creduto di essere innamorata di Michael, ma forse dopotutto non era così, visto che aveva faticato a tollerare la sua lingua che le si infilava nella bocca... aveva provato un po’ di paura e questo era di certo sbagliato. Deve esserci qualcosa che non va in me, pensò. Forse sono davvero come ha detto Stella: vanesia e assetata dello sguardo altrui, tutte cose che con l’amore non c’entrano niente. Deve essere colpa mia. La cosa la rattristò molto.

Il giorno dopo fu chiesto a Margaret di farle i bagagli, Louise firmò il libro degli ospiti (sulla stessa pagina dove avevano firmato Myra Hess e Anthony Eden) e dopo pranzo Peter sistemò una coperta di pelliccia sulle ginocchia di Zee, che era seduta sul sedile posteriore accanto a Michael, mentre Louise fu fatta salire davanti, vicino allo chauffeur; viaggiarono in prima classe fino a Paddington e lì, sul binario, Louise scorse suo padre che l’aspettava. La salutò, lei gli presentò i suoi amici, suo padre si tolse il cappello davanti a Zee e disse: «Spero che mia figlia si sia comportata come si deve», e Zee rispose: «Si è comportata splendidamente», poi lo prese sotto braccio e lo condusse lungo il binario parlandogli come a un vecchio amico, con Louise e Michael che li seguivano uno accanto all’altra. «Mamma cara», commentò lui. «Sei il tatto in persona».

Suo padre offrì loro un passaggio, ma Zee disse che prendevano volentieri un taxi. Louise li guardò salire in vettura e allontanarsi, con Michael che la salutava con la mano dal finestrino aperto. Provò un breve moto di angoscia e poi solo sconforto, un senso schiacciante di monotonia: stava per andare a casa con suo padre, una prospettiva familiare ma tutt’altro che rassicurante.

Lui la prese sotto braccio e la condusse alla macchina.

«Dunque, tesoro mio, è un bel po’ di tempo che non ti ho tutta per me. Ti sei divertita?».

«Molto».

«Che donna affascinante, Lady Zinnia!», esclamò mentre sistemava la valigia nel bagagliaio. «Non sembra per niente che abbia un figlio di quell’età».

«Michael ha trentadue anni».

«È quello che volevo dire... Dunque, è domenica sera, quindi non c’è molto da fare. Perciò pensavo di portarti a cena. Ho prenotato un tavolo al Savoy Grill alle otto. Mamma ha detto di non tenerti sveglia fino a tardi perché domani devi partire. Ma hai tutto il tempo per cambiarti».

La cena filò liscia. Louise se la cavò chiedendo notizie di ogni membro della famiglia man mano che le venivano in mente. Mamma era molto stanca: si sentiva in dovere di fare visita alla nonna ogni volta che poteva, dato che stava così male, e poi zia Syb non si era ancora ripresa del tutto, così le toccava anche stare dietro a Wills e Roly. Ed Ellen? Ellen soffriva di brutti reumatismi, e con la bambina di Zoë c’era spesso molto bucato da fare, e toccava sempre a lei. E lui, papà? Lui stava bene, non vedeva l’ora di tornare nella RAF, ma zio Hugh aveva portato zia Syb in vacanza in Scozia – che razza di idea con quel freddo!, ma lei aveva voluto così –, perciò aveva sulle spalle tutto il peso dell’azienda e, dovendo anche organizzare i turni di sorveglianza notturna, per diverse settimane non era tornato a casa. Teddy aveva vinto il torneo di squash della scuola e stava imparando il pugilato. La sua pagella, per il resto, non era stata particolarmente brillante. Neville era scappato da scuola ma, per fortuna, aveva detto a una signora che aveva incontrato sul treno per Londra di essere un orfano diretto in Irlanda, e lei aveva fiutato l’imbroglio. Come bagaglio aveva con sé due paia di calzini, un sacchetto di caramelle alla menta e un topolino bianco che aveva rubato a un altro ragazzino. La signora lo aveva invitato a fare merenda a casa sua a Londra e aveva avuto l’intelligenza di cercare il suo cognome sull’elenco telefonico. «Ho ricevuto la chiamata in ufficio», disse Edward. «Poi sono andato a prendere quel piccolo mascalzone e Rach è venuta in città per riportarlo a Home Place».

«Perché pensi che sia scappato?».

«Ha detto che era stufo della scuola e che credeva che tanto non sarebbe importato a nessuno. Clary era furiosa con lui. Che ne dici di un po’ di gelato con il pudding?».

Mentre rincasavano, le disse: «Non sei troppo presa da questo tizio, vero?».

«È solo un amico. Perché?».

«Non lo so. Sei ancora troppo giovane per queste cose». Le posò una mano sul ginocchio e lo strinse. «Non voglio ancora perderti».

Le sirene si misero a suonare non appena entrarono in casa; le fece uno strano effetto: ogni cosa era avvolta nei teli, c’era silenzio, freddo e molta polvere. Disse che era stanca e che se ne andava subito a letto. Va bene, replicò lui, ma sembrava deluso. «Mi bevo un ultimo bicchiere e ti raggiungo».

Che aveva voluto dire? Louise ci pensava mentre si spogliava alla svelta (la stanza era gelida) e si infilava la camicia da notte di cotone dalla testa. Non essere idiota, pensò, voleva dire soltanto che andrà a letto anche lui. Guardò nel suo vecchio cassettone per cercare un paio di calzini: degli aerei volavano sopra il loro tetto e i fucili della contraerea presero a sparare. I cassetti erano pieni di roba vecchia: vestiti che non le stavano più, oggetti che non le piacevano più – come un cane di porcellana nera –, i trofei di equitazione e diversi vecchi nastri per capelli, unti e stropicciati.

Non lo sentì mentre saliva le scale, perché le bombe cadevano giù a pioggia, e il loro fragore, seppure distante, copriva i rumori più lievi. Aprì la porta senza bussare, con un bicchiere di whisky in mano.

«Sono venuto a vedere se avevi paura», disse. «Mettiti a letto. Sembri infreddolita».

«Non ho affatto paura».

«Buon per te. Mettiti sotto, che ti rimbocco le coperte».

Si sedette sul letto e posò il suo whisky sul comodino.

«Stai crescendo, lo vedo», disse. «Quasi non riesco a crederci. Sembra solo ieri che eri la mia bambina. E guardati adesso!». Fece il gesto di sistemarle le lenzuola, ma poi infilò una mano sotto e le fu addosso, afferrandole un seno. Il suo alito sapeva di whisky, un odore caldo, ributtante, gommoso.

«Sei una donna», disse e di colpo premette la sua bocca su quella della figlia, la sua lingua, come un duro verme schifoso cercava d’insinuarsi dentro.

Il terrore le salì su per il corpo tutto d’un colpo, come un’onda alta e improvvisa: se le raggiungeva la gola, sarebbe rimasta paralizzata, ma almeno non avrebbe avuto quella sensazione di annegamento... Nel momento in cui capì di avere scelta, fu la rabbia a salvarla. Tirò su le ginocchia, gli mise le mani sul collo e lo spinse via da sé. Nel silenzio improvviso che seguì, prima che uno dei due riuscisse a parlare o a muoversi, una bomba cadde nelle immediate vicinanze, la casa vibrò tutta e un vetro venne giù con una specie di riluttanza dalla finestra della camera.

«Mi dispiace», disse lui: sembrava affranto e disorientato al tempo stesso.

Louise drizzò la schiena e si abbracciò le ginocchia.

«Non ti avrei mai fatto del male», disse suo padre. Sembrava scandalizzato, cupo, pensò Louise. Ma non era tutto.

«Ti ho visto, a teatro», disse Louise. «A quanto pare non riesci a tenere le mani lontano dai seni delle altre. Ti ho visto come la toccavi. Ero in un palco».

Lui avvampò, e Louise vide il suo sguardo farsi duro e guardingo. «Non è possibile. Avrai visto qualcun altro».

«Avevo il binocolo da teatro. Eri tu. La donna aveva i capelli neri con una ciocca bianca e gli occhi viola. L’ho vista nel bagno delle signore durante l’intervallo. E naturalmente un abito molto scollato», aggiunse; gli strali stavano andando a segno e non doveva esagerare.

«È una vecchia amica», disse lui. Il rossore era passato, ma gli occhi erano freddi come vetro azzurro.

«Tua e della mamma?».

«Mamma l’ha conosciuta, sì».

«Ma sa che vai a teatro con lei e chissà cos’altro fate? Sa cosa fai durante i fine settimana?».

Fu il colpo decisivo. Adesso sembrava davvero sconvolto. «Ma come...», cominciò, poi cambiò tono. «Cara, non sei abbastanza grande per capire...».

«Finiscila di trattarmi come una bambina solo quando ti conviene, e come una... come una sgualdrina quando hai altre voglie! Ti odio! Mi fai schifo! E poi...». Le si spezzò la voce e si arrabbiò con se stessa perché le veniva da piangere.

«...sei un bugiardo», concluse a voce bassissima.

«Ascolta, Louise. Lo faccio qualche volta, ma solo per non ferire mamma. E non lo vuoi nemmeno tu, vero? Raccontarle ciò che è successo stasera le spezzerebbe il cuore. Non so spiegarti perché le cose stiano così... devi fidarti di me e basta». La guardò in viso e aggiunse: «Voglio dire, devi accettarlo».

Vi fu un silenzio durante il quale caddero, più lontano, altre due bombe.

«Davvero, ero venuto solo per vedere se avevi paura delle bombe», disse. «Volevo dirti che possiamo andare in un rifugio antiaereo, se vuoi. Mi dispiace se... se mi sono lasciato andare. Non accadrà più». Prese il bicchiere e tracannò tutto il whisky.

«No», replicò lei: non vedeva l’ora che se ne andasse.

Lui si alzò e restò col bicchiere vuoto in mano a fissare la finestra oscurata. «Almeno il tuo letto non è vicino alla finestra», disse. Quando Louise alzò gli occhi dalle lenzuola intorno alle ginocchia per guardarlo, lui la fissava indeciso, prostrato.

«Buonanotte, allora», disse a disagio. Si avviò verso la porta col passo di chi ha le gambe indolenzite. «Verrò a bussare alle sette e mezza, se non sarai già sveglia».

«Va bene». Fu come se questo sancisse un loro tacito, difficile accordo.

Aspettò tesa di sentire la sua porta che si chiudeva e poi si prese la testa fra le mani per piangere. Poteva vederla come una vittoria, un trionfo anzi, invece si sentiva sconfitta.

La mattina dopo, alla stazione, dopo aver fatto cenno al facchino di trovarle un buon posto e dopo averle portato il «Times», «Lilliput» e «Country Life» da leggere durante il viaggio, cercò il capotreno e gli chiese di aver cura di lei, le diede una sterlina per il pranzo e restò per un po’ in piedi nello scompartimento. Il disagio si era insinuato come schiuma fra di loro: Edward disse che avrebbe fatto meglio a scendere dal treno. Le diede una piccola pacca sulla spalla, poi un rapido, incerto bacio sulla testa. Quando ricomparve davanti al finestrino che era mezzo aperto, disse: «Devo andare, ora». Poi di colpo scrisse qualcosa col dito sul vetro sudicio. «Perdonami, cara. Ti voglio bene». Lo scrisse in maniera speculare – da bambina le aveva mostrato spesso come riusciva a usare due penne e a scrivere in direzioni opposte, una normale e una speculare. Si volse a lei quando ebbe finito, tentò di ammiccare e una lacrima gli cadde su una guancia. Poi la salutò con un cenno della mano e se ne andò senza voltarsi indietro.

6 W. Shakespeare, Raccontodinverno, in Idrammiromanzeschi, trad. it. di E. Montale, Mondadori, Milano, 1976.

7 Air Raid Precautions. Si tratta di un’organizzazione sorta alla vigilia della seconda guerra mondiale in Inghilterra per la difesa dei civili dagli attacchi aerei nemici.

8 W. Shakespeare, Macbeth, in Letragedie, trad. it. di A. Lombardo, Milano, Mondadori, 1976.

9 «Annie McDougal andava a mungere e inciampò nell’erica, /si alzò per ascoltare un disco di balli viennesi. / Non serve a niente la tua verginità, non serve a niente la tua cultura, /non vogliamo altro che uno pneumatico Dunlop e a chiudere il buco ci penserà il diavolo». E poi: «Non serve a niente, mio dolce amore, / il lavoro quotidiano delle tue mani se lo porterà via il vento. / Il bicchiere cade di ora in ora, cadrà sempre, / ma se lo rompi, quello stupido bicchiere, non saprai resistere nella tormenta». L. MacNeice, Bagpipemusic, in «New Verse», 1/1933, Cambridge University Press, Londra, 1933. Traduzione nostra.

10 «Ho una bella figura / Sono andato alla scuola privata / Ho un po’ di denaro investito /E allora perché mi sento un tale cretino / Come se possedessi un mondo che ha fatto il suo tempo? Hai delle ottime ragioni / Per sentirti così /Sfido io, che sei nervoso / Perché è assolutamente vero / Possiedi un mondo che ha fatto il suo tempo». W.H. Auden, Song, in «New Verse», 1/1933, Cambridge University Press, Londra, 1933. Traduzione nostra.

11 G. Ewart, MissTwye, da PoemsandSongs, Fortune Press, Londra, 1939. Traduzione nostra.