Polly
Luglio 1940

Il cielo era di un azzurro perfetto, senza una nuvola, ma non era vuoto.

«Io ne conto sette», disse Christopher, e in quel momento le vide anche lei: sette piccole bolle d’un bianco perlaceo si staccarono da alcune minuscole figure rigide. Più in alto nel cielo apparvero come dal nulla cinque bombardieri, neri sullo sfondo assolato, e sopra di loro, frenetici come rondini intente a nutrire i pulcini, i caccia fecero una conversione e scesero in picchiata, poi s’inclinarono in una brusca virata e ripresero quota, descrivendo nel cielo una cornice di vapore bianco, con le punte delle ali che rilucevano metalliche nell’intenso bagliore. Era impossibile distogliere lo sguardo. Un caccia, scendendo all’attacco di un bombardiere, fu colpito da altri bombardieri davanti e dietro: mutò direzione, tentò di prendere quota con l’aggressore che lo seguiva da vicino e fu colpito di nuovo, poi all’improvviso cominciò a precipitare lungo una linea verticale liberando una nuvola di fumo scuro, finché non scomparve dalla loro vista. Prima che potessero rendersi conto di aver udito l’esplosione, un altro caccia andò a raggiungere il primo bombardiere: per un secondo parvero sul punto di collidere; poi il caccia cambiò traiettoria all’ultimo momento, invece il bombardiere fu colpito e cominciò a perdere quota rapidamente. Ormai sentivano il rombo irregolare dei motori e vedevano che, come l’altro, emetteva del fumo scuro.

«Precipiterà», disse Christopher, mentre il velivolo spariva oscurato dalla foresta che sorgeva dietro il campo in cui si trovavano. Aspettarono, scrutando gli alberi. Il rumore del motore si fece improvvisamente più forte e poi l’apparecchio riapparve: un enorme mostro nero, sgraziato e pieno di segni appariscenti, che pareva quasi brucare le cime degli alberi più grossi. Proseguì la sua corsa barcollante alla loro destra e prese a scollinare verso la casa, eruttando fumo nero lambito da fiamme scarlatte.

«Si abbatterà sulla casa!».

«No», disse Christopher. «È più probabile che si fermi in fondo alla collina. Forza!». E si mise a correre veloce giù per il prato. È quello che farebbe papà, si disse Polly mentre correva con lui, ma aveva paura: Christopher non era papà.

Christopher passò per il buco nella siepe, scese giù per la scarpata e raggiunse la strada sotto, con lei che lo seguiva inciampando e scivolando. «Non cercare di starmi dietro», le disse e si mise a correre a perdifiato. Polly sentì il fracasso dell’aereo che si abbatteva. «È nel campo accanto a York!», strillò Christopher mentre svoltava a sinistra verso la fattoria di York. Polly era decisa a raggiungerlo e infatti arrivò sul posto in tempo per vedere tre uomini venire fuori dal relitto fumante. Christopher stava per raggiungerli, ma loro gli fecero cenno di stare alla larga, si misero a correre e poi si buttarono a terra nello stesso istante in cui un’enorme esplosione si levava dal cratere dove giaceva l’aereo. Christopher si era voltato per dirle di buttarsi faccia a terra proprio nel momento in cui qualcosa di rovente e acuminato le urtava la gamba. Quando alzò gli occhi, vide che dal nulla nel campo erano spuntati fuori altri uomini: Mr York, un tale che lavorava per lui e Wren. Mr York teneva un fucile, mentre Wren si ergeva minaccioso con un forcone in mano. I piloti si alzarono in piedi lentamente mentre gli uomini li circondavano. Nessuno fiatò, ma c’era un che di inquietante in quel silenzio. Christopher fece cenno ai piloti di alzare le braccia. Poi li raggiunse e prese le pistole di due di loro; il terzo non era armato. Parevano frastornati, i volti rigati di sudore. Dal nulla erano spuntati altri due contadini: Polly vide che uno dei due reggeva un fucile e l’altro stringeva in mano un falcetto.

Lentamente e scandendo le parole, Christopher disse: «Siete prigionieri di guerra. Tenete le mani in alto. Polly, va’ a telefonare al colonnello Forbes. Mr York, dica a uno dei suoi uomini di fare strada. Li portiamo nella saletta della chiesa e montiamo la guardia finché non vengono a prenderli». Dall’aereo si levò una seconda esplosione, più piccola, e la carcassa sprofondò ancora più in basso con la coda spezzata rivolta verso il cielo. Christopher, tradendo per la prima volta un’esitazione, disse: «Ce n’erano altri, dei vostri, là dentro?», ma uno dei prigionieri fece un gesto a significare che ormai era troppo tardi, e solo allora Mr York parlò.

«Ce n’erano un bel po’, scommetto, ma sono morti bruciati, Mr Christopher. Carbonizzati». Il suo tono esprimeva viva soddisfazione.

Christopher si voltò verso Polly. «Vai, ho detto!», le gridò; era pallido. «Faccia strada lei, Mr York, se non le dispiace».

Polly si girò e corse verso il cancello; superandolo si voltò e vide che marciavano dietro di lei, un’unica fila chiusa da Christopher che reggeva le due pistole. Mentre attraversava la strada e imboccava il vialetto, pensò all’espressione negli occhi marrone chiaro di Mr York: Christopher era stato bravo quanto papà. Che fortuna che fosse andato con lui lo scorso fine settimana, quando erano scesi dei paracadute sui campi di luppolo di Mill Farm! Chris le aveva raccontato di aver chiesto a papà come facesse a sapere che si trattava di paracadutisti inglesi e papà aveva detto che non lo sapeva, ma che, nel caso in cui non lo fossero stati, era importante che arrivassero loro per primi. La tensione era alle stelle, aveva detto, soprattutto dopo che avevano sparato al nipote di Mrs Cramp, la settimana prima. Ma ciò non toglieva che Christopher fosse stato davvero lucido e coraggioso: aveva parlato nel modo giusto, mostrando un’autorevolezza tale che quei contadini e perfino Wren gli avevano obbedito senza fiatare. Trovandosi sul posto aveva visto coi propri occhi che, fosse stato per loro, le cose sarebbero andate in tutt’altro modo. Sapeva che Wren era un po’ tocco. «Non è più lui», aveva sospirato Mrs Cripps dopo aver scoperto che rubava i coltelli dalla cucina e poi li affilava con cura omicida nel suo fienile. Ma gli altri non erano da meno.

Lo studio del Generale era deserto, e papà aveva affisso il numero sulla base del telefono. Si trattava in realtà del quartier generale dei volontari della difesa locale, ma poiché si trovava in casa del colonnello Forbes (la sua stanza delle armi era stata trasformata in ufficio, giacché conteneva l’unico apparecchio telefonico della casa), tutti dicevano di telefonare “al colonnello Forbes”. Rispose un certo brigadiere Anderson e Polly lo informò dell’accaduto. «Ottimo lavoro», disse. «Arriviamo subito. La chiesa di Watlington, ha detto? Ottimo lavoro». E riattaccò. Lo ha detto come se si stesse riferendo a un sano sport all’aria aperta, pensò Polly. Da quando era arrivato Christopher – all’inizio doveva essere un breve soggiorno per dare una mano nell’orto che era stato ampliato (ma a lei aveva confidato che in realtà aveva litigato così furiosamente con suo padre che avevano dovuto sistemarlo in qualche altro posto) –, avevano avuto diverse conversazioni interessanti riguardo alla guerra. Più lo ascoltava, meno sapeva scegliere fra due posizioni opposte: quella per cui tutta quella guerra non aveva senso e l’obiezione di coscienza era l’unica condotta onorevole, e quella per cui Hitler era il male assoluto che andava combattuto a tutti i costi. A questo si aggiungeva l’importanza di scongiurare l’eventualità, sempre più concreta, di un’invasione. Così aveva detto Mr Churchill. Si diceva anche che il re, che dopotutto era buono a priori, si stava esercitando a sparare nei giardini di Buckingham Palace, così da morire combattendo. Non era fuggito in Canada come aveva fatto la famiglia reale olandese. Non saper prendere posizione le sembrava intollerabile, eppure proprio non ci riusciva. Così aveva provato a rivolgersi a Miss Milliment che, dopo averla ascoltata con grande attenzione, aveva detto che questo tipo d’indecisione poteva essere anche una forma di onestà. Poi aveva osservato che avere dei principi può essere molto impegnativo, ma che quando se ne adotta uno bisogna essere disposti a pagarne il prezzo, per quanto alto. Non aveva saputo a chi altro chiedere: papà lavorava così tanto che era sempre esausto; mamma, quando non stava male per via dell’ulcera, passava il tempo con Wills o a scrivere a Simon in collegio. Le aveva fatto due vestiti molto belli, ma era stata molto scontrosa con lei quando glieli aveva fatti provare. Erano secoli che non aveva con sua madre una conversazione su un argomento qualunque.

Christopher si era rivelato una novità sorprendentemente positiva nella sua vita. Ogni mattina lavorava con Mr McAlpine, e la Duchessa lo elogiava dicendo che era un giardiniere nato. Il pomeriggio, invece, avevano preso a fare lunghe passeggiate, in cui all’inizio non parlavano molto, spesso anzi non parlavano affatto, a parte quando Christopher le indicava le cose: il passaggio ricavato da un coniglio in una siepe, un nido dove un cuculo aveva depositato le uova all’inizio della primavera, bruchi pronti a trasformarsi in falene sui pioppi che il Generale aveva piantato l’anno dell’Incoronazione. Poi gradualmente, grazie alle domande di Polly, aveva cominciato a parlare di altre cose, a mostrarle il suo album pieno di disegni a matita che lei trovava magnifici. Riusciva a rendere interessanti dettagli come il singolo artiglio di un uccello o il fogliame dei vari tipi di felci in cui s’imbatteva: quando trovava qualcosa che gli piaceva, si sedeva e la disegnava. Per molto tempo non gli disse che anche lei faceva disegni simili, perché i suoi le sembravano molto meno belli di quelli di Christopher, ma alla fine gli mostrò i migliori e lui se ne entusiasmò. «Devi continuare a farlo!», le disse. «Non deve essere un passatempo o un compito per te. Deve essere la cosa normale che fai tutti i giorni».

L’unico ostacolo a questa sua nuova amicizia era Clary. Clary non aveva voglia di uscire a passeggiare: passava ore sopra il melo a leggere libri del tutto inadatti alla sua età, come BlackBeauty o TheWide,WideWorld, che la facevano piangere. Dopo la tremenda sera in cui era arrivata la notizia di zio Rupert, e Clary aveva pianto e parlato e pianto per tutta la notte, non ne aveva più fatto parola. Eppure a Polly non era sfuggito che aspettava con ansia l’arrivo del postino, che esaminava le lettere sul tavolo dell’ingresso prima che se ne impossessassero i destinatari, che si faceva silenziosa e pareva trattenere il respiro ogni volta che squillava il telefono. Finora però non erano giunte notizie sulla sorte di zio Rupert, se era stato fatto prigioniero o no, e ormai erano passate sei settimane. Era difficile decidere come comportarsi con lei, perfino di cosa parlare, ma nel frattempo Clary era diventata terribilmente gelosa di Christopher, la prendeva in giro e metteva il broncio quando Polly tornava dai suoi pomeriggi artistici. Se Polly tentava di coinvolgerla, la trattava con sufficienza; se provava a suggerire cose che lei e Clary potevano fare insieme, diceva che moriva di noia al solo pensarci e che di certo Christopher era più bravo di lei in quella cosa. A lezione si comportava in modo terribile: Miss Milliment, poveretta, le dava compiti facili o non gliene dava affatto; aveva smesso di scrivere il diario perché ora lo trovava sciocco e inutile, e Miss Milliment, che di solito non perdeva mai le staffe, qualche volta con lei ci era andata molto vicina. Polly se ne accorgeva dal fatto che si rivolgeva a Clary con speciale dolcezza, scandendo le parole, un atteggiamento che sembrava irritarla ancora di più. Finché quella settimana Miss Milliment non ne aveva potuto più e le aveva chiesto a brutto muso come si permetteva di parlare in quel tono a un’altra persona. C’era stato un momento terribile di silenzio in cui si erano fissate, e Polly si era accorta che Miss Milliment era arrabbiata davvero, i piccoli occhi grigi accesi dietro le lenti spesse. Poi Clary aveva detto: «Non importa. Non c’è nessuno da cui lei possa andare a lamentarsi di me, no? Non importa niente a nessuno». Si era alzata ed era uscita dalla stanza, e Polly aveva visto gli occhi di Miss Milliment riempirsi di lacrime. L’unica persona con cui non era scontrosa e villana era Zoë. Trascorreva un sacco di tempo con lei: le dava una mano con la bambina, si entusiasmava per i suoi primi vaghi sorrisi, l’aiutava a farle il bagnetto, imparava a piegare e fermare i pannolini, faceva commissioni con infinita pazienza. La bambina, che era stata chiamata Juliet, le impegnava molto entrambe e loro parlavano solo di lei. E quando Neville era tornato dal collegio per le vacanze ed era stato male diverse notti per via dell’asma, lei gli era stata seduta accanto, gli aveva letto Sherlock Holmes e lo aveva costretto a lavarsi i denti di nuovo se mangiava dei biscotti a letto. Polly sapeva queste cose perché spesso andava in cerca di Clary per vedere come stava, e quelli erano gli unici momenti in cui sembrava star bene.

Andò dunque a cercarla per raccontarle della cattura dei prigionieri. Era come sempre sull’albero, intenta a leggere un grosso volume rilegato di rosso che Polly riconobbe come Piccoledonne. «È appena morta Beth, è così triste», disse. «Mi porti una foglia di romice? Ho il fazzoletto fradicio».

Polly prese la foglia migliore che trovò e poi, aiutandosi con la vecchia corda ormai a brandelli, si arrampicò fino alla sua postazione, di fronte a Clary ma leggermente più in alto. «La cosa terribile è che non si conosceva la TBC», disse Clary asciugandosi gli zigomi col dorso della mano. «Ne saranno morti a migliaia».

«Hai visto il caccia?».

«Che caccia?».

«Quello che per poco non si schiantava su di noi».

«Ah, quello! Ho sentito un gran boato, sì, ma non ho pensato che ci si volesse schiantare addosso».

«Be’, c’è mancato poco. Christopher ha detto che avrebbero cercato di evitarlo, e infatti è finito sul campo accanto alla fattoria di York». Dopo un breve silenzio, domandò: «Non vuoi sapere cos’è successo dopo?».

Clary mise due dita in mezzo al libro per segnare la pagina a cui era arrivata e alzò gli occhi. «Be’? Cos’è successo?».

«L’aereo è esploso ma prima sono usciti tre uomini. Mr York e i suoi sono venuti fuori dal niente, come fanno loro... ma Christopher è andato da quei tre per primo, ha preso loro le pistole e li ha fatti prigionieri. Poi mi ha detto di andare a telefonare al colonnello Forbes e ha scortato gli uomini fino alla chiesa! È stato bravissimo!».

«È davvero strano. Un obiettore di coscienza che gioca a fare il soldato».

«Ma li ha salvati! Ha salvato loro la vita!».

«Non so perché ti scaldi tanto. Sono tedeschi. Non me ne importa un fico secco se sono vivi o morti».

«Non è possibile».

Polly era sconvolta e anche impaurita. Ma Clary, che aveva la faccia non solo bagnata di lacrime ma anche sporca di verde e grigio per via dei licheni che erano sulla foglia, la guardò con fermezza, come a sfidarla.

«Ma sono esseri umani», disse alla fine Polly.

«Io mi rifiuto di considerarli uomini. Sono loro, e basta. Una grande massa di gente che ci ha rovinato la vita. Sta andando tutto in malora, se vuoi sapere come la penso, e noi non possiamo farci un bel niente, perciò non vedo a che pro avere dei principi morali. Probabilmente tutto il mondo sta finendo poco a poco, dunque non puoi chiedermi di dispiacermi per dei tedeschi che non ho nemmeno mai visto in vita mia».

«E allora perché ti dispiace tanto per Beth che è morta? Anche lei non l’hai mai vista».

«Beth? Ma se la conosco da anni! Beth non scomparirà mai. Muore, certo, ma io posso ritrovarla lì tutte le volte che voglio. In generale, ormai preferisco i libri alle persone, o meglio le persone che sono nei libri a quelle che sono nella realtà... In linea di massima...», aggiunse dopo una pausa durante la quale Polly la vide passare dolorosamente in rassegna le eccezioni a quella regola. E si rese conto, con una fitta di sgomento, di quanto spesso glielo aveva visto fare nelle ultime settimane, di come Clary si ostinasse a tenere quella condotta dura, intransigente, sdegnosa finché qualcosa non la faceva vacillare e ripiombare nello smanioso interrogativo – dov’era lui? – fin quando l’assaliva il dubbio angoscioso che Rupert fosse davvero ancora da qualche parte e poi il familiare strazio di non sapere, tutta una sequenza di stati d’animo che Polly aveva attraversato con lei più e più volte quella prima tremenda notte, quando lo avevano dichiarato disperso. La cosa migliore, si erano dette, era accettare fin da subito l’idea che lui non tornasse mai più. «Che sia morto, vuoi dire», aveva detto Clary implacabile. Poi Polly le aveva rivelato che sarebbe stato bello vederlo tornare; se poi non fosse tornato – «perché è stato ucciso», precisò Clary –, be’, almeno in quel caso lei si sarebbe già abituata all’idea, per quanto possibile. Nelle prime ore di quella notte insonne, questa soluzione era parsa loro molto saggia e perfino confortante, ma naturalmente non era così semplice. All’inizio non era andata tanto male: a ogni squillo del telefono Clary sperava fosse suo padre, sorvegliava l’ingresso in attesa di un telegramma; quando però i giorni erano diventati settimane si era fatto difficile per lei accettare la situazione: si aggrappava con forza sempre maggiore a una speranza che il tempo e il silenzio stavano soffocando.

«Capisco», disse Polly con tristezza.

«Cos’è che capisci?».

«Quello che hai detto sulle persone dei libri».

«Oh, è tutto a posto. Non devi darmi ragione per forza».

«Non è quello che sto facendo. Ho detto solo che capisco quello che hai detto, non che sono d’accordo».

«È già qualcosa». Ma a Polly parve che lo dicesse con astio.

Decise di fare uno sforzo ulteriore. «Io preferisco te a qualsiasi personaggio letterario».

Clary la guardò arcigna. «Che frase da leccapiedi!».

Questo fu troppo. Polly afferrò la corda e si calò giù dall’albero.

«Volevo dire che, se leggessi un po’ di più, di sicuro troveresti in un libro qualcuno che ti piace più di me!».

In quella battuta, che pure conteneva un velato insulto, Polly riconobbe un’offerta di pace. «Volevo dire che ti voglio bene, stupida! Lo sai che volevo dire questo. Perché non puoi accettarlo?».

«Io non accetto niente», rispose Clary, ma lo disse in tono mortificato, come chi ammette un difetto.

«Allora non dimenticarti del tè», le gridò Polly allontanandosi. «Non me lo dimentico, ma mi domando che cosa potrà esserci mai da mangiare», replicò Clary. Quel mattino era capitato un brutto incidente col burro. (Flossy, la gatta della cucina, ne aveva mangiato una parte mentre sul resto aveva lasciato una tale quantità di peli e saliva che lei stessa non ne aveva voluto più, e avevano dovuto buttare via un intero panetto da mezzo chilo, corrispondente alla razione familiare di una settimana).

«Non so. Pane e grasso di risulta, come si faceva d’inverno ai tempi della regina Vittoria».

Invece una Mrs Cripps al massimo della forma aveva preparato focaccine dolci e pane con l’uvetta e c’era ancora una buona scorta della marmellata di more dell’anno prima. Adesso si prendeva il tè tutti quanti nel vestibolo, perché la Duchessa aveva decretato che non c’era abbastanza personale per tavole separate. La cosa presentava vantaggi e svantaggi, pensò Polly: voleva dire che la conversazione non sarebbe stata più dominata dalle bambinaie, un’infilata di luoghi comuni intervallata da silenzi in cui potevi sentire il latte che scendeva giù per le gole, come aveva osservato una volta Clary; ma d’altra parte, se per caso avevi fame, dovevi vedertela con le anziane prozie, la cui abilità nell’ingurgitare enormi quantità di cibo dando l’impressione di averlo appena toccato era tale da lasciare basiti. L’eccellenza era stata raggiunta grazie ad anni e anni passati a sorvegliarsi e a togliersi il cibo di bocca: l’ultimo panino, la fetta di torta con la glassa e una ciliegia sopra, la fettina di pane con più burro erano tutte cose che Flo desiderava sottrarre a Dolly e che Dolly era decisa a non lasciare a Flo. Come la maggior parte delle donne perbene cresciute sotto la regina Vittoria, erano state educate e non mostrare interesse verso il cibo; il loro appetito era ben dissimulato, di qui il rapido passaggio dalla mano alla bocca, capace di lasciare diversi commensali a secco.

A pranzo e a cena era la Duchessa a fare le porzioni; ma a colazione e all’ora del tè c’era di che darsi battaglia. Stavolta Polly voleva mettere da parte qualcosa per Christopher, che spesso arrivava in ritardo ai pasti, e gli fece un piatto con tutte le cose migliori, ma quando lui arrivò disse di non avere fame.

Quel pomeriggio andarono a passeggio insieme e attraversarono due campi verso il bosco, dove c’era il torrente. I campi pullulavano di ranuncoli, margherite e papaveri che parevano fatti di carta, e i grilli saltavano accanto alle loro ginocchia. Si sentì il richiamo di un cuculo salire dalla foresta che si ergeva di fronte a loro orlata di ombre frastagliate e irregolari. Christopher stava in silenzio e camminava a grandi passi, assente, e Polly aveva l’impressione che, se fosse stato solo, si sarebbe messo a correre. Avrebbe voluto chiedergli che ne era stato dei prigionieri, che cosa era successo nella saletta della chiesa e anche raccontargli di Clary, ma lui sembrava così assorto che queste cose le parvero troppo banali. Tuttavia era andata con lui per fare conversazione, non esercizio fisico, perciò, una volta che furono in mezzo al bosco, gli chiese dove stessero andando. Lui si fermò e disse: «Non lo so. Dove vuoi tu». Così lei disse che voleva vedere il punto in cui lui e Simon avevano allestito il campo l’estate prima. Veramente c’era già stata con Clary durante le vacanze di Pasqua, quando erano andate a raccogliere le primule, ma decise di non dirlo. Era strano, pensò allora, che quando uno desiderava che tutto andasse bene con un’altra persona, di colpo iniziava a non dirle le cose. Come mamma e papà, pensò, anche se a loro non era andata poi così male. Lei però non voleva essere quel tipo di persona con Christopher, per il quale provava un profondo rispetto. Per questo disse che le sembrava di essere già stata al campo a Pasqua, ma stava camminando alle sue spalle e lui parve non aver sentito; tuttavia, da un punto di vista morale, almeno lo aveva detto.

Quando arrivarono sul posto, si capiva a malapena da qualche rametto carbonizzato e dalle chiazze di terreno rimaste nude per via della cenere che lì c’era stato un campo. Christopher non sembrava a suo agio a stare lì e suggerì di andare dall’altra parte del bosco. «C’è uno stagno laggiù», disse.

Quando però arrivarono allo stagno, che riluceva sotto il sole come melassa scura emanando un putrido lezzo di palude, Polly constatò che iniziare una conversazione seduti in riva a un acquitrino era ancora più difficile che farlo camminando. Christopher stava seduto e si cingeva le ginocchia con le braccia ossute, fissando l’acqua. Polly guardava il suo inquieto pomo d’Adamo chiedendosi se fosse o no il caso di fargli domande sui prigionieri, quando lui disse: «Quello che odio di più è dover essere sempre contro qualcosa. Ma se fai parte di una minoranza non hai scelta. Non posso essere per la pace, devo essere contro la guerra e poi sopportare il fatto che la gente mi consideri uno svitato o un codardo. Ah, e poi ecco cos’altro!», esclamò come se quel qualcosa glielo avesse rammentato lei. «La gente per cui la guerra è una cosa buona!».

«Nessuno la pensa così!».

«Be’, diciamo allora... necessaria. Comunque la metti, riescono a farne una questione morale e si riempiono la bocca di principi, d’integrità... Secondo loro i pacifisti sono contro la guerra solo perché hanno paura che gli cada una bomba in testa o perché non sopportano la vista del sangue...».

«Io non credo che ci siano persone che la pensano così».

«Dimmi chi non la pensa così».

«Io non la penso così. Voglio dire, non sono d’accordo con te, ma accetto...».

«Perché non sei d’accordo con me?».

«Perché», disse dopo averci riflettuto freneticamente, «perché non vedo cos’altro si possa fare. Io non so quand’è cominciata tutta questa faccenda, ma adesso c’è e bisogna affrontarla in qualche modo. Hitler e tutto il resto, intendo. Nulla di ciò che possiamo dire lo fermerà, ormai. Perciò a me non sembra che la scelta sia semplice e chiara come dici tu. Dobbiamo scegliere fra due mali molto brutti».

«Che sarebbero?».

Sforzandosi di ignorare il suo tono ostile, Polly rispose: «Be’, fare la guerra, che è quello che stiamo facendo. Oppure lasciare che Hitler si prenda tutto».

«Parli esattamente come tutti gli altri».

Le lacrime le pizzicavano gli occhi. «Me l’hai chiesto tu». Decise di andarsene, ma con dignità. «È meglio che ora torni da Wills», disse. «Ho promesso alla mamma di dargli la cena e fargli il bagno, stasera».

Quando si fu allontanata, lo sentì gridare qualcosa e tese l’orecchio. Non aveva sentito bene.

«Cos’hai detto?», gridò.

«Ho detto scusa, Poll!».

«Oh, d’accordo».

In realtà, sebbene si fosse riappacificata con lui, restava il fatto che quel giorno non era riuscita a sostenere un contraddittorio calmo con due delle persone a cui si sentiva più legata e, avendo sempre guardato con disprezzo ai suoi genitori e ai loro coetanei che si dicevano di continuo cose che non pensavano davvero, si ritrovò a chiedersi con disagio se l’inganno e la dissimulazione non fossero componenti imprescindibili delle relazioni umane. Perché, se fosse stato così, sarebbe stata molto dura per lei.

Quando arrivò alla Casa del Pero, la questione delle relazioni umane le si presentò in una luce ancora peggiore. Lydia stava litigando con sua madre, la quale sembrava arrabbiata in modo esagerato per un motivo diverso da quello che dichiarava, un’altra cosa che Polly aveva visto fare spesso agli adulti.

«Non posso farci niente. Me lo hai chiesto tu! Mi hai detto: non sarebbe divertente poter giocare con Judy? E siccome no, non è divertente, io l’ho detto».

«Ma se hai sempre adorato giocare con lei!».

«Non è vero», disse Lydia in tono pensoso. «Non mi è mai piaciuto. Mi adattavo e basta».

«Non capisco perché sei così cattiva con Judy».

«Scusa, ma tu ti divertiresti a giocare con una santarellina che copia sempre, è noiosissima, non la smette mai di vantarsi dei suoi amici che hanno la piscina e ruba l’acqua di colonia degli altri per mettersela sui foruncoli? E poi ha l’alito cattivo», aggiunse. «E se devo avere a che fare con l’alito cattivo, be’, preferisco qualcosa di più interessante, tipo una tigre».

«Lydia, basta così! Non voglio sentire un’altra parola su Judy».

«Be’, io nemmeno». E proseguirono su questo tono.

Polly prese in braccio Wills e lo strinse a sé. Lui sbatté le ciglia e fece un sorriso complice che cedette il posto a un’espressione neutra e solenne.

«Lydia, esci fuori di qui! Subito!».

Quando Lydia fu uscita, zia Villy disse: «Jessica poteva venire in qualsiasi altra occasione! Per mamma non fa alcuna differenza quando andiamo a trovarla. Non sa nemmeno più chi siamo! Ma no! Lei non sopporta l’idea che i suoi amici vengano qui senza di lei».

Sybil, che era chiaramente la persona a cui si stava rivolgendo, smise di stirare le tutine di Wills e disse: «Magari è solo perché questo fine settimana andava bene per Raymond. Se devi fare il bagno a Wills, va’ pure, Polly».

Quando era piccola, in quelle situazioni se ne andava con riluttanza, perché significava che gli adulti stavano per avere una conversazione veramente interessante. Adesso, invece, mise il broncio per semplice puntiglio: non voleva che pensassero di poter dare ordini a destra e a manca, ma sapeva che la conversazione che si preparava era solo di una banalità diversa. Nelle conversazioni private non era tanto l’argomento a fare la differenza, bensì se le persone dicevano o no quello che pensavano e provavano e che, per qualche ragione che tuttora le sfuggiva, doveva essere tenuto nascosto ai ragazzi. Fu un sollievo stare con Wills, anche se fu immediatamente chiaro che non aveva nessuna voglia di fare il bagno. Si tolse i vestiti e li buttò nella vasca, poi salì sopra la tazza e tirò la catenella dello sciacquone. Polly ripescò dall’acqua i suoi piccoli calzini grigi, la tutina – le cui tasche si rivelarono piene di aghi di pino e forcine della mamma –, la camiciola e i sandaletti dalla punta tonda e poi tentò di infilarlo nella vasca, ma lui ritirava le gambette e le si avvinghiava al collo con una stretta da strangolatore. «Acqua no», gridava. «Wills sporco. Sporco bello!». Il suo alito sapeva di caramelle. «Il bagno no», disse poi in tono più interlocutorio. Alla fine le toccò entrare nella vasca con lui: si sedettero uno di fronte all’altra e Polly lo lavava pezzo per pezzo senza che lui se ne accorgesse, mentre sedeva con aria assorta e ogni tanto buttava le mani in acqua levando spruzzi che per poco non accecarono la sorella. Le fece cantare TheLambethWalk una decina di volte mentre cercava di asciugarlo. Quando la loro madre arrivò con la cena, Polly era sfinita.

«Chi viene nel fine settimana, mamma?».

«Dei musicisti. Amici di Jessica e Villy. I Clutterworth. Lorenzo, mi pare si chiami lui. Lei non so».

«Non dirmi che si chiama Lorenzo Clutterworth! Sembra il personaggio di un romanzo!».

«Sì, hai ragione. O di una brutta commedia. Cara, quanto tempo è che non ti lavi i capelli?».

«E perché vuoi saperlo?».

«Non essere impertinente, per favore. Te l’ho chiesto perché non mi sembrano molto puliti».

Terminato il bisticcio, aveva un gran bisogno di parlare con Clary, ma quando arrivò a Home Place sentì della musica – Beethoven – provenire dal grammofono, il che significava che Clary e la Duchessa stavano ascoltando i loro dischi. Non sarebbe stata la benvenuta. Zia Rach non era ancora tornata da Londra. Dal soggiorno sentiva gracchiare la radio, perciò la stanza doveva essere occupata dalle prozie, che ascoltavano tutti i notiziari per poi litigare su quanto era stato detto. Di certo non aveva voglia di stare lì con loro. Salì con indolenza le scale, percorse il corridoio ed entrò nella camera da letto che condivideva con Clary. Clary era molto disordinata e questo rendeva la stanza più sua che di Polly, anche se lei insisteva di tanto in tanto per fare pulizie radicali. Se solo Oscar non fosse morto!, pensò. A quanto pareva, aveva una peculiare sfortuna con i gatti, anzi, al momento le sembrava di averla non solo coi gatti ma anche con le persone e nella vita in generale. Oltre a fare paura, la guerra stava rendendo tutto molto monotono. Eccola che diventava ogni giorno più vecchia, senza che nulla accadesse nella sua vita: non aveva nemmeno una stanza tutta per sé, come l’aveva avuta a Londra. Se un anno prima qualcuno le avesse detto che a vivere lì in campagna si sarebbe annoiata fino alle lacrime, gli avrebbe riso in faccia. Adesso era tutto diverso. Adesso il futuro le sbadigliava in faccia come un grosso, apatico punto interrogativo. Che ne sarebbe stato di lei? Che cosa mai se ne sarebbe fatta dei molti anni che presumibilmente l’attendevano? Avrebbe guardato il tempo che passava: lei non aveva sviluppato nessuna vocazione, a differenza di Louise e Clary che avevano sempre avuto le idee chiare su ciò per cui erano nate; lei aveva sempre immaginato solo di avere una casa, una casa bellissima e tutta sua, che avrebbe riempito delle mille cose che era andata raccogliendo e che sarebbe stata diversa da ogni altra casa al mondo. Poi aveva immaginato di viverci da sola, coi suoi gatti. Le era anche passato per la testa di invitare Christopher a stare da lei; una volta, mentre disegnavano insieme, si era ritrovata a pensare che sarebbe stato bello vivere con lui e allora aveva spostato la casa dal Sussex a un posto più selvaggio, dove poter tenere più animali. A lui non aveva detto niente per timore di sentirsi dire che non se ne parlava affatto. Dopo quel pomeriggio e quella frase – «Parli proprio come tutti gli altri» –, non aveva più senso fargliene cenno. Di solito, quando si sentiva depressa e spossata come ora, il pensiero della sua casa le era di conforto: poteva rifugiarsi lì e perdersi in fantasticherie su come arredarla. Quella sera, quando immaginò di entrare dalla nera porta lucida con frontone e colonne nel piccolo vestibolo quadrato che aveva il pavimento a scacchi bianchi e neri (lo aveva rifatto da poco) e di ammirare i limoni e gli aranci che crescevano in due mastelli bianchi e neri collocati ai due lati della stufa in muratura, prima ancora di essere arrivata al tavolo di mosaico di marmo con una bordura di conchiglie e una caraffa di vetro vittoriana buona per tenere fresca la limonata – l’aveva comprata a una svendita in chiesa l’anno prima –, be’, quella sera si bloccò, folgorata dal pensiero di quanto sarebbe stato brutto vivere lì da sola (malgrado i gatti) per tutta la vita. A un certo punto la casa sarebbe stata completa, non vi sarebbe più entrato un solo quadro, tappeto, tavolo o arredo d’alcun genere, e allora che avrebbe fatto lei? Avrebbe mangiato solo panini, pensò, perché ci vuole poco a prepararli. E ai gatti avrebbe dato il ripieno dei panini. Ci sarebbero state ore e ore senza nulla da fare, perché malgrado ciò che aveva detto Christopher a proposito del disegno, a lei interessava solo realizzare quelli che sarebbero serviti per la casa, non ne avrebbe voluti di più. La faccenda del disegno si sarebbe esaurita nel momento in cui avesse avuto quadri a sufficienza. Quando era morto Oscar, zia Rach le aveva portato una tartaruga da Londra, ma si era subito persa in giardino, e così la bella scatola a forma di guscio di testuggine che le aveva fatto perché vi trascorresse il letargo non era servita a niente. Per avere dei figli bisognava sposarsi, e lei con chi mai avrebbe potuto sposarsi? Inoltre, dopo aver fatto il bagno a Wills, non era più tanto sicura di volerne; aveva notato che parlare con sua madre era diventato molto meno piacevole da quando era nato Wills ma, del resto, forse il fatto di star male così spesso l’aveva resa scorbutica e lamentosa. I dolori e la continua preoccupazione per papà. O forse era vero quello che le aveva detto una volta Louise, che le madri in realtà non vogliono bene alle figlie ma, siccome da loro ci si aspetta il contrario, i loro sentimenti al riguardo sono molto contorti. Le aveva chiesto, in preda all’ansia, se pensava che almeno i padri volessero bene alle figlie, ma a quella domanda Louise si era adombrata e aveva detto di non averne la più pallida idea.

Poi Polly si ricordò che la madre di sua madre era morta in India mentre lei era a scuola in Inghilterra. Forse il fatto di non aver avuto una madre o di averla avuta solo per brevissimo tempo era un ostacolo ai sentimenti materni? Mamma però non aveva mai fatto mistero della sua adorazione per Simon e Wills. Dal suo punto di vista di figlia, si rallegrò di avere almeno il papà. E allora pensò a Clary, poverina, che con ogni probabilità era ormai un’orfana. Pensò all’orribile insegna che campeggiava in lettere cubitali su tutta la larghezza di un edificio di Londra: «CASA PER ORFANE DI MADRE E DI PADRE». Cosa doveva essere vivere in un posto che sbandierava parole simili! La felicità, o per meglio dire l’infelicità, naturalmente era un concetto relativo ma questo non l’aiutava a essere contenta di quanto le era toccato, dal momento che non le piaceva. Decise di avere due serie conversazioni, una con papà e una con Miss Milliment, sulle prospettive di carriera di una persona senza talento. Confortata da quel proposito, si mise a riordinare la stanza ammucchiando tutto con cura, poi si lavò i capelli.

«Lorenzo!», strillò Clary. «Sembra il nome di uno con la calzamaglia bianca, la barbetta a punta e gli orecchini! Sarà divertente avere in casa un così losco individuo! La moglie come te la immagini?».

«Un’artistoide, credo. Sai, era il tipo di donna che indossa gonne fatte in casa e un sacco di collane con piume d’uccello che le arrivano fino alla pancia», replicò Louise, la cui scuola aveva terminato il semestre. «Alla Mary Webb», aggiunse.

Le altre due finsero di non aver sentito mentre pensavano, entrambe, che Louise stava facendo sfoggio delle sue letture. «Non è detto che legga poi tanto», aveva osservato Clary stizzita, una volta. «Solo che sono libri diversi da quelli che leggiamo noi».

«In verità si chiama Laurence», proseguì Louise. Si stava dipingendo le unghie con uno smalto bianco opaco e smorto che Polly trovava orrendo.

«Ah sì! Adesso ricordo. Sono le zie che gli hanno dato quel soprannome».

«Chi te l’ha detto?».

Clary arrossì. «Tu, mi sembra».

A Polly non sfuggiva mai quando Clary era in difficoltà, così intervenne: «Se è davvero un direttore d’orchestra, vedrai che la Duchessa lo vorrà tutto per sé. Adora i musicisti».

«Lo so bene. È innamorata di Toscanini».

Louise si voltò verso di lei. «Non essere ridicola, Clary».

«È vero. Ha detto: “Sono innamorata di Toscanini”. L’ha detto ieri mentre ascoltavamo il finale della Pastorale. È la nona sinfonia».

«È solo un modo di dire», replicò Louise in tono sprezzante. Ormai era cresciuta troppo rispetto a loro, pensò allora Polly, e più tardi, mentre si preparavano per la cena, lo disse a Clary.

«Lo so», disse Clary. «Non fa che snobbarci o trattarci con sufficienza».

«Credo che si annoi. Mi annoio anch’io, certe volte».

«Caspita Polly! Proprio tu che sei sempre così ragionevole!».

«È quello che ho sempre pensato anch’io. Ma non funziona più tanto bene. Il fatto è che mi sento inutile». E senza alcun preavviso le spuntò una lacrima. «Voglio dire, so che quello che provo non conta perché c’è la guerra e via dicendo, però io queste cose le provo lo stesso. Proprio non capisco che cosa ci sto a fare qua. Mi sento come se dovessi guardare in faccia il senso della vita, ma sono anche consapevole che farlo può essere molto pericoloso...».

«In che senso pericoloso?».

«Come se dopo non ci fosse ritorno. Come se facendolo vedrei qualcosa che non potrei più dimenticare. Voglio dire...», aggiunse cercando di apparire noncurante, «e se non ci fosse alcun senso?».

«A che ti riferisci esattamente?».

«Metti che niente avesse importanza? Che la guerra non fosse significativa, perché noi non siamo che minuscole cose che per puro caso si muovono e provano sentimenti?».

«Cose fatte da Dio, vuoi dire?».

«No! Nemmeno questo. Fatte da nessuno. Lo vedi? Ora ci sto pensando, e non voglio!».

«Be’», disse Clary, spezzando un dente del pettine che si stava passando fra i capelli. «Questo non è possibile perché noi proviamo dei sentimenti. Mi presti la tua crema? Grazie. Se tu fossi solo un giocattolo ingegnoso, non proveresti la sensazione che essere tale sia orribile. Credimi, i sentimenti possono essere molto brutti, ma non puoi dire che non sono niente. Che ti piaccia o no, tu puoi pensare, provare emozioni e scegliere, e lo fai continuamente». Si strofinò con vigore il naso arrossato dal sole. «Per me il problema è che non hai ancora le idee chiare su quello che vuoi fare. Che ne è della casa? Non t’importa più?».

«Non più di tanto. Cioè sì, m’importa, ma un giorno o l’altro sarà finita».

«E allora? Quando sarà finita potrai andare a starci».

Ci fu un silenzio. Poi Polly disse: «Non so se voglio. Non credo che sarebbe abbastanza. Da sola».

«Oh, si tratta di questo! Tu vuoi qualcuno per cui vivere». Sembrava sollevata. «Sono certa che troverai qualcuno, Poll. Insomma, guardati, sei così bella! Hai visto le mie pantofole per caso?».

«Una è sotto il letto».

«Allora sarà lì anche l’altra. Un po’ più in fondo». Si stese sulla pancia per recuperarle. «Le cose sono terribilmente complicate per quelli della nostra età. Ci servirebbero persone di cui innamorarci, invece siamo qui circondate da parenti e l’incesto non va d’accordo coi tempi moderni. Ci tocca aspettare».

«Credi davvero che si tratti di questo? Non puoi mettere quel cardigan con quel vestito, Clary. Stanno malissimo».

«Davvero? Oh be’, l’altro è sporco, perciò...».

«Prendi il mio, quello rosa».

«Grazie. Buffo, no? Non ho nessun gusto nel vestire». Si mise a ridere. «Se io fossi solo un ingegnoso giocattolo, potresti cucirmi addosso una bella tutina e non avrei bisogno di cambiarmi».

«No, non potrei», rispose Polly, «perché sarei un giocattolo anch’io». Dopo aver parlato con Clary si sentì confortata, ma le restò la sensazione di essere stata fraintesa.

Alla fine la famigerata visita dei Castle e dei Clutterworth fu rimandata. Ognuno ne fornì motivazioni differenti: zia Villy, che era palesemente furiosa, disse che c’era stato un equivoco sulle date; la Duchessa disse che Mrs Clutterworth non stava bene; Christopher disse di aver saputo da sua madre che papà aveva fatto una scenata rifiutandosi sia di venire sia di essere lasciato solo a casa. Lui, Christopher, era contento che non fossero venuti, perché in caso contrario suo padre se la sarebbe presa con lui perché non contribuiva in alcun modo allo sforzo bellico. Erano di nuovo amici, il che per Polly era un sollievo, anche se adesso era un po’ diffidente e non era più disposta a confidarsi con lui come aveva sperato di poter fare in passato. Lo vedeva meno, in quanto Christopher lavorava in giardino tutte le mattine e, poiché i duelli aerei sopra le loro teste proseguivano, passava i pomeriggi a scrutare il cielo per intercettare eventuali paracadutisti e, nel caso, correre in bicicletta sul posto per salvarli, anche se nessun altro atterrò così vicino a loro com’era accaduto la prima volta. La Milizia Territoriale – adesso si chiamava così la squadra del colonnello Forbes e del brigadiere Anderson – disse che Christopher era un ottimo elemento, peccato che non avesse ancora l’età per unirsi a loro. Christopher allora si sentiva molto a disagio, le raccontò, perché era chiaro che invidiavano la sua giovane età che gli avrebbe permesso presto di andare a morire per la patria. E aggiunse anche che era troppo codardo e infastidito per dire loro come la pensava veramente.

«Tu pensi che, quando uno crede in qualcosa, deve per forza dirlo a tutti?», le domandò un caldo pomeriggio di agosto.

«No, se non hai nessuna possibilità di attirarli dalla tua parte», s’intromise Clary, che stava ascoltando, prima che Polly potesse rispondere. Allora Polly disse che non c’era modo di saperlo con certezza.

Christopher replicò che il brigadiere Anderson non avrebbe cambiato idea per nessun motivo al mondo. «È una di quelle persone che pensano, dicono e fanno sempre le stesse cose», disse.

«Se fossi sua moglie impazzirei», osservò Clary. «Credete che anche Mr Rochester fosse quel tipo d’uomo? Non sono mai stati chiariti i motivi della pazzia della prima Mrs Rochester. Magari è impazzita per colpa del marito».

«L’hai detto», replicò Christopher. «Sempre e mai sono un po’ la stessa cosa».

Clary gli lanciò un’occhiata risentita e al tempo stesso ammirata.

«Io non ho mai conosciuto una persona pazza», disse Polly in tono pacato.

«Sì, invece. La vecchia Lady Rydal, poverina».

Non voleva pensarci. Clary le aveva fatto una vivida descrizione della sua visita alla casa di cura. Quando la Duchessa le aveva chiesto notizie di sua madre, zia Villy aveva detto che era più tranquilla e dormiva molto, e da allora Polly covava il timore che Lady Rydal migliorasse al punto da venire a stare alla Casa del Pero e bisognasse andare a trovarla, e che poi all’improvviso impazzisse di nuovo. Non potrei mai fare l’infermiera, pensava spesso Polly. Starei talmente male per i pazienti che non saprei come aiutarli. Ma non lo disse a nessuno, perché da entrambe le sue due serie conversazioni – con Miss Milliment e con papà – era venuto fuori che quella poteva essere la sua strada. A onor del vero, il primo suggerimento di Miss Milliment era stato un altro. «Ho sempre pensato», aveva detto con la sua voce gentile, esitante, «che forse tu e Clary potreste andare all’università. La vostra è l’età in cui s’imparano più cose e mi piacerebbe che entraste in contatto con menti eccellenti, insegnanti di prim’ordine e persone d’ogni genere». Guardò Polly con curiosità. «Certo, entrambe dovreste lavorare sodo per prepararvi, dovreste prendere il diploma e fare gli esami di ammissione per accedere ai corsi. Avevo pensato di sottoporre queste idee ai tuoi genitori e al padre di Clary ma, nel suo caso, le circostanze lo hanno reso impossibile. Un’istruzione universitaria amplierebbe di molto le possibilità di una carriera utile e interessante». Scrutò Polly attraverso le piccole ma spesse lenti dalla montatura metallica. «Non ti vedo molto entusiasta», disse. «Ma vorrei che ci pensassi. Nel caso di Clary, credo che questo le darebbe un obiettivo, e lei ne ha bisogno. Ma tu forse desideri andare alla scuola d’arte».

«Oh no, Miss Milliment. Non potrei mai essere un’artista, ne sono certa. Sono piuttosto una specie di arredatrice, e davvero non desidero fare nient’altro». Si accorse che il lungo e alquanto bizzarro lavoro a maglia di Miss Milliment le era caduto dal ginocchio e che le maglie si andavano sfilando furtive dal ferro.

Miss Milliment lo afferrò, ma poiché l’altro lato del lavoro le era finito sotto un piede, le maglie rimaste presero a disfarsi una dietro l’altra. «Credo che ci abbia messo il piede sopra, Miss Milliment. Posso recuperarle il lavoro perduto, se vuole».

«Grazie, Polly. Te ne sono grata. Anche se credo che ci vorrà un coraggio particolare, da parte di uno dei nostri valorosi soldati, per indossare una sciarpa fatta da me. A quanto pare sono incapace di fare lo stesso numero di maglie da un ferro all’altro».

«Io vorrei solo sapere che cosa farò nella vita, ecco», disse Polly più tardi, quand’ebbe finito di disfare, con discrezione, la sciarpa fino ai buchi più grossi per eliminarli.

«Lo capisco. Ma hai tempo per decidere. Intanto, faresti bene a pensare a come prepararti al meglio».

«Forse dovrei fare qualcosa per la guerra».

Miss Milliment sospirò. «È probabile. Ho sempre pensato che saresti un’eccellente infermiera, mentre Clary la vedrei più in un corpo militare femminile. Il lato avventuroso potrebbe attrarla».

«Sarei pessima come infermiera! Starei troppo male per i feriti e non riuscirei ad aiutarli!».

«Polly cara, non ho detto che sei un’infermiera, ma che potresti diventarlo. In ogni caso ci vogliono ancora tre anni prima che tu possa cominciare l’addestramento. E ci vogliono ancora tre anni anche perché tu possa iscriverti all’università. Ma è possibile che, se sarai una studentessa, ti permettano di rimandare l’arruolamento fino a che non otterrai il diploma. Dovremmo forse discuterne con tuo padre?».

Ma quando Polly gliene parlò, papà disse che non vedeva l’utilità di andare all’università. «Una figlia intellettuale!», esclamò. «Non saprei più di cosa parlare con te. Preferisco che tu stia a casa, al sicuro». Fu un sollievo, ma era allo stesso punto di prima.

«Sarebbe piuttosto eccitante, immagino», disse Clary quando le parlò dell’idea dell’università.

«Be’, Miss Milliment dice che dovresti andarci anche tu».

«Davvero? Non si sarà mica stancata di darci lezioni!».

«Non può essere, perché ha detto che solo per prepararci dovremo studiare sodo per anni».

«Oh. E perché non vuoi andarci, Poll?».

Ci pensò per un momento. «Non credo di essere abbastanza brava», disse alla fine. «Insomma, l’università è per i maschi e per le ragazze molto molto intelligenti, giusto? Mi sentirei inferiore».

«Oh, Poll! Negli ultimi tempi dici sempre così».

«Che intendi per “negli ultimi tempi”?».

«Lo sai bene! Questi tempi. Tempi terribili e spaventosi in cui le cose si trascinano e basta».

«Monotoni, vuoi dire».

«Sì! Lo sai, ogni giorno accadono cose terribili e noi dobbiamo andare avanti: alzarci, lavarci i denti, senza che niente succeda anoi, un giorno dopo l’altro. Ci vuole tempo per diventare adulte e poter fare quello che vogliamo. E poi ci sono tante di quelle cose che non sappiamo...».

«Per esempio?».

«Be’, tutte le cose che non ci dicono». La sua voce prese un tono sdegnato. «“Perché siamo troppo giovani”. Sono abbastanza grande per sapere che mio padre è scomparso. Questo mi rende abbastanza grande per qualsiasi cosa». Aveva iniziato a piangere, ma poi proseguì imperterrita. «Sai, Zoë è convinta che sia morto», disse. «Ha abbandonato ogni speranza. Lo capisci dal fatto che non si cura più del suo aspetto. E nessuno parla più di lui. Quando una cosa è molto brutta e tutti sono preoccupati, ti aspetteresti che se ne parlasse di più, ma non nella nostra famiglia. Un mucchio di ostriche, ecco cosa siamo...».

«Puoi parlare di lui con me».

Disse così ma in realtà ne aveva paura. Clary aveva fatto una mappa della costa settentrionale della Francia, a partire da Saint-Valéry dove si sapeva che zio Rupert era sbarcato e proseguendo verso ovest attraverso Normandia e Bretagna, e poi verso sud lungo il Golfo di Biscaglia. Aveva fissato la mappa a uno dei logori sugheri del bagno e vi segnava sopra i fantasiosi spostamenti che immaginava suo padre stesse facendo e che raccontava con dovizia di dettagli a Polly la sera, in una specie di radiodramma a puntate. Le sue conoscenze della Francia non andavano oltre letture come Laprimularossa, Raccontodiduecittà e un romanzo storico di Conan Doyle intitolato TheRefugees. I tedeschi erano diventati i repubblicani e i francesi, uomini e donne, i membri di una rete clandestina che aiutava un aristocratico a tornare a casa sua, in Inghilterra. Queste fedeli e valorose persone permettevano a zio Rupe di spostarsi lungo la costa. Gli erano capitate diverse piccole occasioni di fuga, ma erano appunto molto modeste e più d’una volta dovette starsene rintanato in un qualche villaggio per una o due settimane. Questo accadeva sempre più spesso, e Polly capiva che Clary non voleva far arrivare suo padre sulla costa occidentale perché a quel punto sarebbe dovuto tornare a casa. Era pur vero che parlava molto bene il francese perché aveva studiato in Francia e aveva fatto il pittore lì nel periodo precedente al suo primo matrimonio, perciò sarebbe stato facile per lui, a detta di Clary, spacciarsi per francese. Il suo piano era di imbarcarsi su un peschereccio diretto alle Isole del Canale, ma i tedeschi ovviamente erano arrivati prima. Era stato sul punto di morire in un incendio di un granaio dove lo avevano nascosto e aveva sudato sette camicie pedalando per due giorni su una bicicletta carica di cipolle intrecciate (le aveva viste a Londra); per un giorno intero aveva viaggiato dentro una carriola nascosto sotto sacchi di fertilizzante a base di pesce («da quelle parti sono tutti contadini o pescatori e il concime devono farlo con le lische e le teste e roba del genere») e, arrivato a sera, emanava un puzzo tale che i suoi ospiti gli avevano tolto tutti i vestiti per lavarli e lui aveva cenato avvolto in una coperta. L’uniforme non l’aveva più da un pezzo: si era procurato dei vestiti francesi in cambio del suo orologio d’oro. Certe volte non aveva altro di cui nutrirsi se non ciò che la terra offriva: prendeva le mele dai frutteti (qui Polly puntualizzò che le mele non erano ancora mature) o rubava le uova dai pollai. «Se incontrasse delle mucche, potrebbe mungerle!», aveva suggerito Polly con entusiasmo, al che subito Clary aveva precisato che a suo padre non era mai piaciuto il latte. C’era spesso qualche buon diavolo che gli dava un corroborante bicchiere di brandy – pareva che tutti ne avessero sempre una bottiglia a portata di mano – o una Gauloise, che per fortuna era la marca di sigarette preferita di zio Rupe. Si era ammalato gravemente attraversando la Senna a nuoto in un punto in cui il fiume era molto largo, ma una vecchina di buon cuore, una pastora, lo aveva curato e nutrito finché non s’era rimesso in salute; diceva a zio Rupe che i tedeschi li aveva trattati talmente male che non si azzardavano nemmeno ad avvicinarsi alla sua fattoria.

Polly ascoltò per due o tre sere quel susseguirsi di avventure e trionfi e rovesci, sul cui esito finale non c’erano dubbi secondo la narratrice, ma a cui lei, malgrado il racconto fosse molto avvincente, non poteva credere. Dentro di sé, Polly la pensava come il resto della famiglia, e cioè che zio Rupert fosse morto, perché, se davvero l’avevano fatto prigioniero – ipotesi fermamente sostenuta solo dalla Duchessa –, per quale motivo non glielo avevano ancora detto?

Nemmeno la notizia dei quattrocento probabili morti per il naufragio di una nave francese nel Canale ebbe su Clary l’effetto che Polly temeva e insieme sperava, sapendo che sarebbe stato meglio per lei. «È solo la prova del fatto che ci sono in giro navi francesi», disse. «E papà arriverà a casa su una di quelle. È perfettamente logico», disse, omettendo la possibilità che suo padre fosse proprio sulla nave appena affondata.

I giorni si susseguivano. Continuavano i duelli in cielo e, adesso che erano tornati dal collegio per le vacanze, Teddy e Simon scorrazzavano tutto il giorno per la campagna in bicicletta sperando di catturare dei tedeschi. Quando la cosa venne fuori, fu proibito loro di continuare, ma Teddy aggirò il divieto piazzandosi nel quartier generale della Milizia Territoriale dove il colonnello Forbes, approvando vivamente quel comportamento, gli affidava di continuo innocue ma stancanti missioni. Da queste fu escluso per motivi di età Simon, che ormai era alto come sua madre e aveva la faccia piena di foruncoli; la cosa gli dispiacque più di quanto desse a vedere, Polly se ne accorse e lo lasciò in uno stato di dolorosa solitudine. Papà risolse brillantemente il problema dandogli una radio mezza sfasciata e dicendogli: «Se riesci a ripararla, è tua». Perciò lui era a posto, rifletté Polly con una certa dose di risentimento. E dov’era la sua, di radio, parlando per metafore? Lydia e Neville, che si erano riappacificati, facevano i pazienti nelle lezioni di pronto soccorso che zia Villy teneva due volte la settimana alle donne del villaggio. Si sdraiavano su tavoli retti da cavalletti e alcune signore dai modi cauti e ansiosi applicavano loro bendaggi di garza su varie parti del corpo. Quando non erano così impegnati, giocavano ore e ore in quella che era chiamata la Veneranda, una delle prime macchine del Generale, che era stata spostata dal garage ai tempi dell’evacuazione della Casa dei Bambini, e da allora era rimasta in mezzo a un campo dietro il frutteto dove ora sprofondava lenta e maestosa nella terra. Tutte cose che un tempo le sarebbero piaciute, pensò Polly con tristezza: le sembrava di essere troppo giovane oppure troppo vecchia praticamente per qualsiasi cosa.

In agosto sua madre la portò a Londra per acquistare abiti invernali, dal momento che quelli che aveva erano diventati tutti troppo piccoli. Venne con loro anche zia Villy, perché andava a un concerto alla National Gallery in cui si esibiva anche il tizio che doveva venire per il fine settimana. In treno, zia Villy e mamma occuparono due posti angolari nella direzione di marcia, così lei si sedette davanti e finse di non conoscerle, di non averle mai viste prima. Zia Villy aveva un’aria elegante, col suo abito di flanella grigio e una camicetta in crêpe de Chine blu scuro, calze di seta e scarpe decolleté; borsa e guanti erano abbinati con gusto e il cappello messo di traverso sui capelli grigi ondulati aveva un nastro di gros grain bianco con un fiocco dietro. Si era anche truccata: del fard sugli zigomi e un rossetto color ciclamino scuro che dava una piega crudele alla sua bocca. Tuttavia, guardandola, si aveva l’impressione di vederla come doveva essere stata da giovane, quando nella sua vita c’erano cose che la eccitavano.

Mamma, invece, non era truccata e i capelli rossi ingrigiti erano acconciati in una crocchia distratta, con ciocche ribelli e forcine che spuntavano da tutte le parti come graffette. Il viso era pallido a parte le lentiggini sul naso e sulla fronte, ed era già lucido di sudore per via del tempo trascorso ad aspettare il treno sul binario battuto dal sole. Indossava un vestito a fiori bianco, nero e verde, con un soprabito di lino color crema che sembrava troppo grande per lei ed era già tutto spiegazzato. Le calze erano di un pesca che non stava bene col resto; aveva scarpe nere e guanti di cotone bianco che si tolse sedendosi. Le mani, bianche e lisce, dalle piccole dita adorne dell’anello di fidanzamento con gli smeraldi e di quello d’oro, erano forse la parte più elegante della sua figura, pensò amaramente Polly. Era difficile immaginare come fosse stata da giovane: aveva ormai l’aria di chi è da sempre una persona di mezz’età. Adesso sorrideva a zia Villy facendosi aria col guanto e dicendole di sì, di aprire un finestrino. Il sorriso scomparve come il sole dietro una nuvola improvvisa, lasciandole sul viso un’espressione di vaga ma ansiosa indifferenza.

«Alle Galeries Lafayette hanno delle belle cose per i ragazzi», stava dicendo zia Villy. «Potreste fare tutto in Regent Street, per poi raggiungere facilmente il Café Royal e pranzare con Hugh».

«Oh, non possiamo andare da Peter Jones?». Polly voleva comprarsi i vestiti nello stesso negozio dove si serviva Louise, dalla quale aveva sentito dire che quello era il posto migliore.

«No, cara. È troppo fuori mano. Voglio andare da Liberty e prendere delle stoffe per Wills, oltre che per te».

Si sentì vincere dallo sconforto. Doveva essere il suo giorno e non poteva nemmeno scegliere dove andare. Avrebbe voluto i pantaloni di lino come li aveva Louise, ma mamma non approvava i pantaloni per le ragazze, a meno che non servissero per sciare o cose simili.

A Robertsbridge salì molta gente e a Tunbridge il treno era stracolmo. Risuonò un allarme antiaereo, ma la gente continuò a leggere il giornale e a guardare fuori dai finestrini senza scomporsi. Poi sentirono degli aerei proprio sopra le loro teste e di colpo parve di averne uno lì a pochi metri e si udì una raffica di spari. Un tale seduto vicino a Polly le mise una mano sulla testa e la spinse in basso, al di sotto del finestrino. «Mitragliatrici. La prossima volta che faranno?», domandò poi in tono di pacato stupore.

Ma gli altri guardarono fuori dal finestrino e qualcuno gridò: «Lo hanno colpito!», e per tutto il treno risuonarono grida di giubilo. Polly si alzò in piedi, contrariata per non aver visto l’aereo che veniva abbattuto, e subito dopo stupendosi di se stessa per aver desiderato una cosa simile.

Mamma sorrise a quell’uomo e la esortò a ringraziarlo. «Grazie», disse lei con espressione impermalita. Lui le fece un sorriso di condiscendenza piuttosto umiliante e tornò al suo cruciverba.

La stazione di Charing Cross era piena di uomini in uniforme con enormi borsoni di tela. Aspettavano il treno. Avevano il collo arrossato per l’attrito delle ruvide giacche militari; i loro stivali neri erano enormi.

Sua madre suggerì di raggiungere Regent Street a piedi, ma zia Villy disse che non aveva senso stancarsi prima ancora di aver cominciato e che era meglio prendere un taxi: lei le avrebbe lasciate da Liberty e avrebbe proseguito fino allo studio del suo dentista.

Il taxi era giallo, un vecchio modello coi sedili scricchiolanti e un autista di cent’anni che fece lentamente il giro di Trafalgar Square e di Piccadilly Circus, dove alle finestre degli edifici erano ammucchiati dei sacchetti di sabbia, superò i grandi magazzini Swan & Edgar, fuori dai quali la gente aspettava d’incontrare altra gente, superò le Galeries Lafayette, il negozio di tessuti Robinson & Cleaver – dove mamma disse di dover andare a prendere dei tovaglioli da tavola per la Duchessa – e Hamley’s, un negozio che tutti i bambini presumibilmente adoravano ma che lasciava Polly piuttosto indifferente: i giocattoli, pensò mentre passavano davanti alla vetrina, le erano sempre parsi dei blandi sostituti delle cose vere. E infine Liberty, che aveva sede in un imponente edificio in stile Tudor.

Quando raggiunsero il piano dov’erano esposti i tessuti, la madre le disse con sua grande sorpresa: «Ora, Polly, voglio che tu scelga due stoffe per due vestiti di lana, più uno di seta e uno di voile. Mentre tu scegli, io vado a prendere la stoffa per Wills, poi mi mostrerai quello che hai deciso e se lo riterrò adeguato lo compreremo».

Fu un lusso inatteso e delizioso: scelse e cambiò idea, scelse di nuovo e restò per un po’ a macerare nel dubbio e alla fine chiese a sua madre di scegliere per lei.

Dopo Liberty, proseguirono su Regent Street. Vi fu una blanda scaramuccia da Robinson & Cleaver, perché Polly non voleva le maglie della salute – aveva sentito dire da Louise che erano bourgeois, una cosa da cui secondo lei bisognava guardarsi a ogni costo – ma sua madre non volle sentire ragioni al riguardo. Alle Galeries Lafayette Sybil le comprò due gonne, una blu a pieghe con una giacca abbinata e una di tweed verde oliva, tre camicie e due maglioni, una sottoveste con l’orlo di pizzo e un bellissimo soprabito color noce moscata con il collo di finta pelliccia. Ormai era ora di andare al Café Royal per pranzare con papà.

«Dev’essere il compleanno di una certa persona», disse l’anziana commessa che preparò i loro pacchetti. «Lasciami indovinare. Mi sembri troppo giovane per sposarti, perciò deve essere il tuo compleanno». E Polly arrossì, perché era davvero tanta roba. Più di quanta ne avesse mai avuta in vita sua.

«Daremo tutto a papà perché lo porti a casa in macchina», disse mamma mentre scendevano le scale.

«Ma non sarà prima del fine settimana!».

«Dovrai avere pazienza, cara. Non possiamo certo girare tutto il pomeriggio portandoci dietro i pacchetti. Eccolo!».

Fu un pranzo magnifico. Bevve un bicchiere di sherry, ordinò diversi antipasti e del salmone guarnito di squisita maionese e gelato alla vaniglia con salsa al cioccolato. «Ordina pure tutto quello che vuoi. Non capita spesso di avere a pranzo tutt’e due le mie ragazze preferite». Il salmone lo ordinarono tutti, ma Polly notò che mamma ne lasciò gran parte. «E per te cos’hai comprato, mia cara?», disse lui alla mamma mentre sceglievano il dessert.

«Non mi serve niente, davvero. Prendo solo un caffè», disse porgendo il menu al cameriere. «Grazie a Dio sono dimagrita e posso mettermi la roba che portavo prima di avere Wills».

«Io non lo trovo giusto, vero, papà? Avere della roba da mettersi non è come avere delle belle cose nuove».

«Sono d’accordo. Falle comprare qualcosa di bello e di molto costoso, questo pomeriggio».

«Promesso».

Invece le cose andarono diversamente. Dopo pranzo e dopo che papà le ebbe messe sul taxi, Sybil disse: «Polly, devo incontrare una persona dalle parti di John Lewis, dove puoi andare a comprarti i reggiseni e la biancheria. Va bene per te?».

«Certo. Ma dove vai? Ci vediamo lì?».

«No... non c’è tempo. Quando hai finito, prendi l’autobus per Charing Cross. Ti do il biglietto del treno, per sicurezza. Oh, sì, anche i soldi per le compere». Rovistò nella borsetta piuttosto malandata e diede a Polly delle banconote. «Attenta a non perderli. Ecco la lista di quello che voglio che compri. Dopo prendi il ventiquattro, anche se io non dovessi arrivare in tempo, ma vedrai che arriverò. Se però ti sembra di essere in ritardo prendi un taxi». Erano venticinque sterline, una somma molto superiore a quanto avesse mai posseduto in vita sua. «Dio mio, ma sono troppi!».

«Mi darai il resto, voglio essere sicura che bastino. Tienili. E promettimi che prenderai quel treno».

«Certo, lo prenderò». Dopo che fu scesa dal taxi, stette a guardarlo mentre si allontanava. Era confusa e vagamente a disagio.

* * *

Sua madre non riuscì a prendere il treno. Polly aspettò al cancello fino all’ultimo momento, ma di Sybil nemmeno l’ombra, così finì per salire sul treno talmente tardi che dovette farlo dalla carrozza di testa, quella di prima classe. Mentre camminava lungo il corridoio e il treno arrancava lento sopra il fiume, vide una cosa molto strana: zia Villy in uno scompartimento di prima classe. Seduto di fronte a lei c’era un uomo di bassa statura con una zazzera di capelli neri che Polly pensò subito dovesse essere Mr Clutterworth, che era proteso verso la zia e le teneva la mano fra le sue. Non si accorsero di lei, e Polly se ne andò in fretta perché aveva l’imbarazzante certezza che i due preferissero non essere visti. Zia Villy non aveva detto che doveva incontrare qualcuno sul treno. Ma del resto nemmeno sua madre aveva fatto parola a proposito del suo appuntamento nel pomeriggio. Che cosa stava succedendo? Se solo ci fosse stata lì Clary, si sarebbe profusa in decine di congetture, ingegnose e interessanti, per spiegare quei due misteri. Zia Villy e il presunto Mr Clutterworth si guardavano negli occhi, ma era solo lui a parlare. Le sembrava incredibile che zia Villy avesse uno spasimante, ma da quel che aveva visto doveva essere così. Il che le suggerì che forse sua madre se l’era svignata per la stessa ragione. Scartò subito l’ipotesi, perché sua madre non si era messa in ghingheri come aveva fatto zia Villy. E poi lei adorava papà e non gli avrebbe mai fatto una cosa del genere. Si sforzò di pensare ai suoi bei vestiti nuovi, ma la mente continuava a tornare a sua madre e a cosa poteva averla trattenuta oltre l’orario del treno.

Quando il treno si fermò a Battle e Polly scese sulla banchina, vide zia Villy camminare verso di lei, sola. Ecco un’altra bizzarria: che fine aveva fatto Mr Clutterworth, sempre che si trattasse di lui?

«Dov’è Sybil?», domandò Villy quando l’ebbe raggiunta.

«Ha perso il treno. Dopo pranzo è andata a un appuntamento e mi ha detto di partire. Ed è quello che ho fatto».

«Oh, bene». Zia Villy non mostrò il minimo stupore. Allora Polly capì che lei era al corrente dell’appuntamento. «Vedrai che sarà sul prossimo. Mr Carmichael l’avrà fatta aspettare. È tipico di certi personaggi».

«Chi è Mr Carmichael?».

«Non te l’ha detto? È uno specialista. Sa tutto degli organi interni. Forse non dovevo dirtelo. Sybil non vuole che tuo padre stia in pensiero». Guardò Polly e aggiunse: «Non c’è niente di cui preoccuparsi. È stata zia Rach a insistere perché si facesse visitare. Sai che si preoccupa sempre tanto per la salute degli altri. È solo per sicurezza. Sybil avrà pensato che per te sarebbe stato più semplice non dire niente a tuo padre, se non lo avessi saputo nemmeno tu. La cosa migliore è tenere la cosa per noi. Lo farai, vero?».

Polly si sentì la bocca improvvisamente asciutta.

«Va bene».

«Ecco Tonbridge. Hai comprato delle belle cose? Non mi sembra che tu abbia molto con te».

«Abbiamo dato la maggior parte della roba a papà perché la porti a casa in macchina venerdì».

Zia Villy le diede una piccola stretta al braccio. «Sono proprio curiosa di vedere cos’hai comprato».

Polly sorrise. La paura l’aveva trafitta come una scheggia di ghiaccio e lei allora la sciolse in una rabbia bianca e rovente, silenziosa: quanto odiava l’ipocrisia, il paternalismo! Quant’erano orribili le persone quando dicevano cose che non pensavano, quando erano convinte che una bambina (perché tale la consideravano, ne era certa) andasse distratta con piccole stupidaggini, quando scambiavano il loro comodo per un atto di protezione nei suoi confronti... Ti toglieresti quello sciocco sorriso dalla faccia se ti chiedessi di quel tizio che era sul treno con te, pensò mentre saliva in auto, accanto a Tonbridge. Per tutto il tragitto si strinse a quello scampolo di potere, per allontanare da sé tutto il resto.

* * *

«Dio del cielo! Un mistero in piena regola», disse Clary. Aveva preso in prestito delle pinzette da Zoë e stava cercando di regolarsi le sopracciglia, perché le trovava troppo folte nella parte interna. «Se non faccio qualcosa finiranno per congiungersi. Zoë dice che sarei più carina con le sopracciglia depilate, ma io non credo che serva a molto, ti pare?».

«Insomma, vuoi concentrarti?», disse Polly stizzita. La sua sensazionale rivelazione su zia Villy meritava una reazione adeguata. «E poi, credevo che non ti importasse di essere carina».

«Infatti non me ne importa niente». Mise giù le pinzette. «Dunque. Probabilmente è innamorata di quel Lorenzo, ma come è ovvio che sia non va in giro a raccontarlo a tutti. Chi ha una relazione non lo fa. Anzi, ho il forte sospetto che il farlo di nascosto sia parte del divertimento. E poi, se zio Edward lo sapesse, potrebbe cercare di uccidere Lorenzo, e questo lei di certo non lo vuole. A me sembra tutto molto chiaro».

Riesce a essere davvero indisponente, pensò Polly. «Non ti pare che sia un po’ troppo vecchia per questo genere di cose?».

«In un certo senso lo è. Ma d’altra parte questo rende il tutto ancora più patetico. Il lupo travestito da agnello», aggiunse incongruamente. «Una delle sue espressioni preferite, ora che ci penso. Ma andare a letto con altri uomini quando si hanno i capelli grigi a mio parere sconfina nel ridicolo. E quando sarà questo famigerato fine settimana?».

«Non lo so. In settembre, mi pare. Lorenzo ha dei concerti, perciò sarà spesso in viaggio. Così diceva zia Villy».

«Be’, quando ci sarà, dovremo tenere gli occhi ben aperti. “Il lupo travestito da agnello”. È un ottimo titolo per un racconto, non trovi?».

Vedendo il sorriso di Clary, che riusciva chissà come a essere allegro e assorto al tempo stesso (ultimamente pensava molto ai titoli da dare ai suoi scritti), Polly provò per lei, come di recente le accadeva spesso e senza un motivo preciso, un moto di affetto misto a stima e insofferenza.

«Se ti stendi di schiena», le disse, «te le faccio io le sopracciglia».

Ore dopo, quando si erano lavate i denti ed erano già a letto con la luce spenta e i pannelli dell’oscuramento aperti per via del grande caldo, Polly ripensò all’episodio di cui con Clary non aveva parlato. Sua madre era arrivata col treno successivo, aveva preso un taxi dalla stazione ed era venuta a Home Place per scusarsi con lei di non averla raggiunta dove avevano stabilito. «Avevo un appuntamento con una persona e ci è voluto più tempo del previsto. Hai preso dei reggiseni come si deve?».

«Sì. È andata bene?».

«Cosa?».

«Zia Villy mi ha detto che avevi appuntamento con un dottore».

«Oh, sì. Tutto bene, certo. Non te l’ho detto perché... non volevo che tuo padre si agitasse e che il nostro pranzo fosse rovinato».

E così mi sono agitata io, aveva pensato Polly.

«È stato bello no? Una bella giornata. L’unica cosa che ho dimenticato di prenderti è un buon impermeabile. Ma posso occuparmene la prossima volta che vado in città».

«Quando ci vai?». Sybil non aveva risposto subito, perciò Polly aveva detto: «Posso venire anch’io?».

Allora sua madre le aveva risposto immediatamente, in tono leggero: «No, cara. Stavolta no. Adesso devo proprio andare. Devo dare la cena a Wills». E se n’era andata. Da tutto questo si evinceva chiaramente che sua madre non le aveva affatto chiesto di non dire niente a papà, e ciò voleva dire che non c’era nessun segreto da custodire. Nonostante tutto era contenta di non aver detto nulla a Clary, che aveva già tanto di cui preoccuparsi. Allora le venne in mente un’altra cosa che aveva dimenticato di dirle.

«Sei sveglia?».

«Certo che sono sveglia. Non sono mica come la gente nei film: toccano il cuscino con la testa, un battito di ciglia e, bum!, dormono».

«Stamattina, sul treno, ci hanno sparato con la mitragliatrice! Mi ero scordata di dirtelo».

Vi fu un attimo di silenzio.

«Hai sentito?».

«Sì che ti ho sentito». Ci fu un altro momento di silenzio e poi Clary disse stizzita: «Certo, tutte a te le fortune... non mi hai detto neanche cos’hai mangiato per pranzo».

«Antipasti, salmone con maionese e gelato. Ah, e prima di tutto lo sherry».

«Mmh».

«Clary, potevi venire anche tu!».

«Lo sai che detesto fare spese! Vestiti poi... Che faceva la gente quando hanno fatto fuoco con le mitragliatrici?».

«Niente di speciale. È durato pochi secondi, poi uno dei nostri caccia ha colpito l’aereo e tutti hanno esultato».

«Bene, adesso me l’hai detto». Polly la sentì stropicciare le lenzuola imbronciata. Poi disse: «A proposito, grazie per le sopracciglia. Certo però che, se fa così male, non lo farò mai più».

«Potresti trattare la parte centrale con l’acqua ossigenata, in modo da schiarire i peli».

«Polly, credo che tu non abbia capito. Il fatto che non m’importi di essere carina non vuol dire che io sia disposta a trasformarmi in una via di mezzo fra Re Lear e Groucho Marx».

Polly trovò la battuta esilarante e per alcuni minuti discussero, ridendo a crepapelle della sorte delle sopracciglia di Clary. «Finiranno per chiamarmi Miss Monociglio se non faccio qualcosa!».

«Puoi provare con la pipì di mucca, come le nobildonne ai tempi del Botticelli, che avevano quelle belle fronti bianche e lisce. E non un solo pelo!».

«Convincila tu, una mucca, a fare pipì dentro un recipiente! Del resto, se me le rado, quelle ricresceranno e sembrerò zio Edward quando non si fa la barba».

«Ma se tu fossi un rapinatore non ci sarebbero problemi, perché la maschera ti nasconderebbe il volto». E così via.

Quando finalmente restarono in silenzio, Polly si mise ad ascoltare al buio il ronzio distante degli aerei (l’allarme era partito ore prima, come succedeva sovente in quei giorni) e le esplosioni della contraerea che si levavano sporadiche dalla costa. Il sollievo le dava un senso di leggerezza: sollievo perché quella sera non c’erano stati episodi della Saga di Zio Rupe in Francia, perché sua madre stava bene e si era trattato solo di una delle fissazioni di zia Rach, perché nel fine settimana sarebbero arrivati i suoi bei vestiti nuovi. Le parve strano provare emozioni tanto banali nel mezzo di una guerra. Forse aveva un’indole superficiale, ma anche questo non doveva avere troppa importanza, perché un istante dopo averlo pensato si era già addormentata.

* * *

Verso la fine della settimana la situazione peggiorò: i tedeschi lanciavano bombe da mattina a sera, in diverse zone del paese. Si diceva che mandassero mille aerei al giorno. «Abbiamo abbattuto centoquarantaquattro aerei tedeschi!», esclamò Teddy con gli occhi che gli brillavano.

«Ma abbiamo perso ventisette dei nostri», disse Simon.

«Ventisette sono pochi se paragonati a centoquarantaquattro».

«Dipende da quanti aerei abbiamo a disposizione».

Il giorno dopo però il conto perdite e profitti era più drammatico che mai. La sera telefonò zio Edward ed ebbe una lunga conversazione con papà, finita la quale fu deciso che Hugh sarebbe andato a Londra quella domenica mattina per controllare il molo.

Simon era riuscito ad aggiustare la radio e lui e Teddy passavano ore ad ascoltare le notizie o qualunque trasmissione riuscissero a captare. La ricezione era pessima, il suono gracchiante e spesso la voce degli annunciatori sembrava provenire da sott’acqua, ma a Teddy e Simon non importava.

Domenica era il giorno della partenza di papà per Londra. Fu terribile quando si allontanò: tutti cercavano di mostrarsi spensierati e si dedicavano a cose che Polly trovava del tutto assurde.

«Il loro piano è sgominare la nostra aeronautica e invadere l’isola», disse Teddy a colazione. La prospettiva sembrava elettrizzarlo.

«E tu come lo sai?», domandò Clary in tono glaciale.

«Me l’ha detto il colonnello Forbes. Lui ne capisce, di strategia militare. Comunque, quando accadrà lo sapremo perché suoneranno le campane della chiesa».

«Oh be’, allora siamo a posto».

«In un certo senso è così. Avremo il tempo di imbracciare le armi. Io ho il fucile che mi ha dato papà per sparare ai conigli. Simon ha lo stocco di papà. Basta ricordare quello cha ha detto Mr Churchill a proposito di combattere sulle spiagge o altrove. Poi, se uno non è d’accordo, avrà almeno il tempo di suicidarsi».

«Con cosa?».

«Non essere ingenua, Poll. Se uno lo vuole davvero, ci sono cento modi per farlo».

«Credi davvero che dovremo suicidarci, se arrivano i tedeschi?», domandò a Clary. Le avevano mandate a raccogliere tutte le susine del tipo Regina Claudia che crescevano contro i muri dell’orto.

«No. Teddy fa lo scemo, ecco tutto. Non può vedere le cose dal punto di vista di una donna. È piuttosto ottuso, se vuoi la mia opinione».

«Eppure», osservò Polly, «questo fa capire che agli uomini in realtà la guerra piace, o almeno... li eccita».

«Se così non fosse non ce ne sarebbero, di guerre. Loro se ne vanno a divertirsi sul campo di battaglia e noialtre restiamo qui alla mercé dei crudeli invasori».

«Clary, non credo che questo sia esatto».

«Non è giusto, infatti. È quello che ho appena detto. Insomma, guarda noi... siamo un manipolo di donne e bambini!».

«Ci sono anche uomini...».

«Il Generale è quasi completamente cieco. McAlpine ha i reumatismi e fatica perfino a zappare, pensa un po’ a combattere. Tonbridge è così smilzo che se un tedesco gli starnutisse in faccia cadrebbe per terra. Wren è praticamente sempre ubriaco, e in più è pazzo da legare». Li aveva contati sulle dita delle mani, e concluse dicendo: «Il tuo amato Christopher, poi, non crede nella guerra e probabilmente se ne starebbe a guardare mentre ci stuprano o chissà cos’altro. Se a proteggerci da tutto questo ci sono solo Teddy col suo fucile per conigli e Simon con lo stocco, be’, non abbiamo nessuna possibilità».

Era seduta sulla scaletta che stavano usando per cogliere i frutti più alti. Dopo aver scelto due susine ben mature, ne porse una a Polly e addentò l’altra.

«Quello che più mi irrita è il fatto che nessuno sia disposto a dirci in cosa consista lo stupro. Se c’è un reale pericolo, io voglio avere una qualche idea di che cos’è. Ma loro non dicono niente! In questa famiglia non c’è verso di parlare delle cose brutte. Io invece credo che bisognerebbe parlarne proprio perché sono brutte. Ma se chiedi a uno di loro non arrivi da nessuna parte. Zia Rach mi ha detto che non dovrei avere certe curiosità morbose, ma a me non sembra morboso. È solo curiosità. Io voglio sapere tutto!». Passò a Polly il piccolo secchio che aveva riempito di frutti perché lo mettesse nella carriola. «Tu invece no, vero, Poll?».

«Sapere tutto? Non avrei tempo per tutto. E poi non esiste nessuno che sappia proprio tutto. Il guaio è che, quando una cosa la sai, devi cercare di fare qualcosa».

«Non è vero. La sai e basta. La tieni lì nel caso in cui possa tornarti utile».

«Capisco che funzioni così per chi scrive dei libri», disse Polly. Si stava rattristando, come le succedeva spesso quando pensava alla sua mancanza di ambizioni. «L’hai chiesto a Miss Milliment? Di solito lei sa rispondere alle domande».

«Miss Milliment non ha la più vaga idea di cosa sia lo stupro», disse Clary con un certo disprezzo. «Quando gliel’ho chiesto, l’ho capito subito».

«Come? Ha molti anni, lo saprà di certo. Da cosa hai dedotto che non lo sapesse?».

«Hai presente il colore della sua faccia, quel grigio giallastro pallido? Be’, è diventato di un colore più simile a quello delle foglie morte».

«Imbarazzo», disse Polly senza esitare. «Questo dimostra che sa benissimo di cosa si tratta, ma non vuole dirtelo».

«No! Certo, sapeva che è una cosa orribile, ma non voleva parlarne. Non lo sa, davvero. Deve essere molto imbarazzante per una persona di quell’età».

«Guardiamo sul dizionario».

«Bella idea, Poll!».

La conversazione s’interruppe perché Clary afferrò una prugna dove era posata una vespa e fu punta.

Mentre Polly portava a casa la carriola per consegnare la frutta a Mrs Cripps (Clary era andata a mettersi dell’aceto sulla puntura), pensò allo strano fatto che le cose più normali avessero cominciato a sembrare irreali. Doveva essere perché l’ignoto – che pure pendeva sulle loro teste e che quasi aspettavano con ansia – aveva cominciato a sembrare... straordinario e drammatico, sì, ma allo stesso tempo più reale di quello che succedeva davvero. È tutto questo aspettare, si disse: aspettare di diventare grande, aspettare che la guerra vada peggio o meglio, o che finisca.

La mattina dopo Teddy annunciò che un bombardiere tedesco aveva sganciato ordigni su Londra. «L’hanno abbattuto, però», aggiunse. Lui e Simon avevano appeso un tabellone nel vestibolo e lo aggiornavano con le ultime notizie. Papà telefonò a Home Place ed ebbe una lunga conversazione con la Duchessa, dopo la quale fu annunciato che tutti i residenti della Casa del Pero dovevano spostarsi a Home Place. Uno dei motivi era il fatto che Emily, la cuoca, aveva deciso di tornare nel Northumberland da sua sorella; inoltre, disse la Duchessa, era meglio che stessero tutti sotto lo stesso tetto. La novità generò reazioni contrastanti.

«Dobbiamo trasferirci!», si lamentò Clary. «Dobbiamo lasciare la bella camera che abbiamo sempre avuto e andare in quell’orribile stanzetta con quell’orrenda carta da parati».

«Davvero?».

«Davvero. La nostra stanza diventerà di Roland e Wills. Non capisco perché non possono andarci loro, nella cameretta: sono piccoli e di certo non gliene importa niente della carta da parati».

Sennonché a pranzo zia Rach rammentò alla Duchessa che Villy aveva riferito che Edward aveva detto che Louise non poteva più stare a Londra dalla sua amica e doveva tornare a casa. «Perciò resterete nella vostra stanza e con voi ci sarà anche Louise».

«Preferiamo andare in quella piccola», disse prontamente Clary.

«Temo non sia possibile. Ci andranno Neville e Lydia».

Non restava che borbottare il proprio scontento. «Ci terrà sveglie tutta la notte per mettersi lo smalto e parlare di teatro», disse Clary imbronciata mentre spostavano i mobili per fare posto a un terzo letto con relativo cassettone.

«A me è andata peggio», disse Neville. Senza far rumore si era messo a testa in giù sulla porta, per stupirle. «Dovrò dormire con una femmina!», disse mentre la faccia pian piano gli diventava paonazza. «Ho segnato il mio territorio con il gessetto e ho intenzione di sanzionarla se lo oltrepassa».

«Neville, è da maleducati ascoltare i discorsi degli altri».

Fissò Clary con audacia. «Io sono un gran maleducato», disse.

Lei gli diede una piccola spinta e lui cadde sul pianerottolo addosso a Lydia, la quale stava per l’appunto portando di sopra i propri averi e barcollava un po’ sotto il loro peso. Fu un disastro, con Lydia che piangeva mentre scatole di gessetti, buste di carta sottile piene di collanine infilate da lei come regali per tutti, due orsacchiotti e una pelle di biscia fissata a un foglio di balsa finivano a terra e rotolavano da tutte le parti. Clary sgridò Neville, il quale sparì subito, e Polly si mise ad aiutare Lydia a raccogliere la roba. «Le perline mettile nel mio cappello», le disse mentre raccoglieva la pelle di serpente sperando che Lydia non si accorgesse che si era rotta, ma invece naturalmente se ne accorse. «La cosa più rara che avevo!», gemette. «Mi ci vorrà una vita per trovarne un’altra!».

«Non è tanto rovinata. E poi, scommetti che Christopher te ne trova un’altra?».

«Voglio trovarla io! Non voglio le cose trovate da un altro».

«Se ti siedi, ti metto un po’ di rossetto».

Funzionò. Lydia si sedette sul pavimento con la faccia assorta protesa in avanti, mentre Polly le passava sulla bocca un vecchio rossetto Tangee mezzo secco che non usava da una vita.

«Non è giusto», disse Lydia. «Decidono loro con chi dobbiamo dividere la camera... dicono perfino che se quella piattola di Judy viene a stare qui dovrà dormire con noi, ma la loro camera non la dividono con nessuno! Per esempio, adesso che zia Syb va a fare quell’esplorazione, potrebbero mettere zio Hugh in camera con mamma».

«Ma di che stai parlando?».

«Devono operarla per vedere cosa c’è dentro. Ho sentito lei e mamma che ne parlavano, poi appena mi hanno visto hanno detto quella cosa in francese che dicono quando vogliono tenerci nascoste le cose».

«...Poll! Per la terza volta! Il letto lo vuoi accanto alla finestra o no?».

«Non importa», disse balzando in piedi, e corse da sua madre senza badare a ciò che aveva intorno.