Louise
Gennaio 1940

«Ah! Louise! Che bello vederti tornare. Quest’anno sarai la nostra allieva residente più grande». Miss Rennishaw era in corridoio in uno dei suoi consueti completi di tweed che parevano campi scavati con l’aratro, tanto erano macchiati e malconci, e sembrava del tutto indifferente alle folate gelide che accompagnavano ogni nuovo ingresso. Il vialetto esterno era intasato di veicoli e autisti che trasportavano grosse valigie di cuoio. Presto apparve Bracken con la sua – una valigia vecchissima che era appartenuta a suo padre e che aveva dovuto legare con delle cinghie perché i fermagli non si chiudevano più bene. La sorella di Miss Rennishaw, anzi la sua gemella (sebbene fosse di una buona spanna più bassa di lei che era un donnone), venne fuori in quel momento dal loro salotto privato e mormorò qualcosa.

«Sono nel primo cassetto del mio comò, Lily. Non ti affaticare».

«Grazie, Bracken».

«Molto bene, Miss». Si toccò il cappello e sparì nel buio. Non mi fa più tanto effetto, pensò Louise mentre saliva le scale dietro a Blake, il giardiniere della scuola, che le stava portando la valigia. Aveva la stessa stanza dove aveva alloggiato nei semestri precedenti, una mansarda con due piccoli lucernari. Durante il primo semestre, che era stato terribile, l’aveva condivisa con Nora e poi, dopo che Nora se n’era andata per via della guerra, era subentrata Elizabeth Crofton-Hay, una ragazza noiosa che parlava solo di debuttare in società, essere “presentata” eccetera. L’unico altro suo argomento di conversazione era Ivor Novello, di cui era perdutamente innamorata. Era andata a vedere TheDancingYears quattordici volte, ma non aveva nessun interesse artistico per il teatro. Anche lei si era ritirata dai corsi, perciò quest’anno ci sarebbe stata un’altra allieva che però non era ancora arrivata, così Louise scelse per sé il letto migliore, vicino al lucernario. La stanza era la stessa: due letti di ferro con le coperte azzurre, due cassettoni con piccoli specchi quadrati appesi sopra, due armadi poco capienti, due sedie con la seduta in giunco. Il pavimento era rivestito di linoleum blu scuro, talmente tirato a lucido dalle inquiline che i tappetini di lana ai piedi del letto schizzavano via al più piccolo tocco. Si sedette sul letto senza togliersi il cappotto: faceva così freddo che non si sentiva nemmeno l’odore del lucido dei mobili. Si era accorta che non le faceva più effetto – che non aveva più nostalgia di casa – circa a metà del semestre precedente. Prima di allora, di tanto in tanto aveva notato di non soffrirne, ma aveva evitato di soffermarsi su quel pensiero per paura di ripiombare nell’angoscia. (Cosa che era accaduta spesso durante il primo semestre: stava versando in una ciotola un fondo di cottura, oppure era seduta in sala da pranzo in mezzo alle compagne che chiacchieravano, e proprio mentre cominciava a pensare che dopotutto non era male essere lontani da casa, ecco che l’angoscia le piombava addosso: allora doveva lasciare quello che stava facendo, correre di sopra e buttarsi sul letto a piangere). Poi però, col tempo, aveva cominciato a farci l’abitudine. Non rompeva più le suppellettili, non aveva più la nausea: a volte trascorreva ore e addirittura giorni senza rivolgere un solo pensiero alla sua famiglia. Si era chiesta come mai questo non le facesse fare i salti di gioia e ne aveva parlato a Natale con Polly (Polly era nella sua stessa posizione: dopo che aveva paventato per anni gli orrori della guerra, ecco che si dimostrava non troppo diversa dalla vita di tutti i giorni, almeno quanto a orrori), che aveva sostenuto come anche per lei il fatto di non preoccuparsene più tanto non era stato quella liberazione che si aspettava. Poi però aveva aggiunto che forse questo dipendeva dal fatto che non credeva che la guerra sarebbe rimasta ciò che era ora, ovvero una banale questione di fastidi e oscuramento, e Clary l’aveva interrotta per dire che, se uno era finlandese, probabilmente invece aveva paura eccome; non aveva un briciolo di tatto, aveva pensato Louise. Lei, del resto, aveva ben altro di cui crucciarsi: per esempio, l’audizione. Era riuscita a convincere i suoi che doveva farne una per entrare in una scuola di recitazione e aveva promesso che, se fosse andata male, non se ne sarebbe parlato più. In tal caso avrebbe imparato a battere a macchina e sarebbe andata a lavorare in qualche noioso ufficio. Avevano acconsentito, le era parso, soprattutto perché sua madre prima della guerra era stata così decisa a mandarla in Francia a imparare la lingua presso una famiglia (ormai era fuori discussione) che non aveva messo in conto nessuna alternativa, e alla sua età – diciassette anni a marzo – era certo troppo giovane per arruolarsi in qualche organizzazione o cose altrettanto spaventose. Grazie a Dio! Essere trattata per anni e anni come una bambina e andare alle lezioni, e poi avere un’ambizione bruciante considerata da tutti frivola ed egocentrica! Unirsi alle WREN o alle ATS2 doveva essere un po’ come andare in collegio, immaginava. Se invece fosse riuscita a farsi ammettere alla scuola di recitazione, avrebbe potuto frequentarla per un anno, e in un anno potevano succedere tante cose. Era un’egoista, certo. Il semestre “di devozione” con Nora lo aveva dimostrato. Le due Rennishaw erano anglicane conservatrici: andare alla funzione era praticamente obbligatorio, anche se si poteva decidere di frequentare una chiesa diversa dalla loro, una dove non si bruciavano incensi per confessarsi eccetera, e Nora ci si era buttata col suo solito ardore, più o meno trascinando con sé Louise. Ogni settimana, per tutto il semestre, si era seduta nel piccolo confessionale e, anche se all’inizio aveva avuto difficoltà a trovare cose da confessare, e in qualche occasione se le era persino inventate, col tempo era diventato sempre più facile, perché il suo carattere peggiorava di settimana in settimana. «Sono molto orgogliosa, vendicativa e ambiziosa3», aveva esordito, ma padre Fry l’aveva interrotta subito per dire che Amleto aveva solo desiderato di essere così e che comunque quelle affermazioni erano troppo generiche per costituire una confessione. Allora Louise era stata costretta a dire che non le pareva per niente giusto dover pulire i bagni o lavare i pavimenti, cose che ogni allieva era tenuta a fare nella settimana in cui prestava servizio come cameriera, ed ecco perciò che era orgogliosa. Quando aveva fatto presente a Nora che quel rito non stava facendo di lei una persona migliore, bensì il contrario, Nora le aveva spiegato che uno non può crescere se prima non si rende conto di quant’è debole la sua indole e aveva cercato di far esercitare Louise nella confessione ogni sera. A essere onesti, Nora si attribuiva sempre un sacco di difetti – peccati, li chiamava – e, ogni volta che ne citava uno, Louise si rendeva conto di averlo anche lei; un paio di volte la conversazione si era trasformata in una gara a chi delle due fosse la peggiore. La vita quotidiana era ormai un campo minato. Bastava distrarsi un attimo e si commetteva peccato. «È questo a rendere tutto così importante ed eccitante!», aveva esclamato Nora, ma Louise dentro di sé pensava che così ci si negasse qualunque forma di divertimento. Aveva deciso allora che sì, credeva in Dio, ma di certo non lo amava, anzi non le era nemmeno granché simpatico. Ma questo non poteva certo dirlo a Nora, anche se padre Fry si era dimostrato sorprendentemente calmo quando gliel’aveva confessato e aveva detto, con voce pacata, che anche lui, quando aveva l’età di Louise, pensava cose simili. Saperlo la confortò e la indispettì al contempo.

Poi però Nora se n’era andata a lavorare alla Casa dei Bambini di zia Rach, che si era trasferita di nuovo a Londra. Elizabeth Crofton-Hay, pur andando a messa ogni domenica, non era per nulla religiosa. All’inizio le era piaciuto imparare qualcosa sul make-up e venire edotta su come Elizabeth si lavasse ogni sera le calze col Lux e portasse una collana fatta con le perle che il suo padrino e la sua madrina le avevano regalato, una per ogni compleanno, ma le esperienze più interessanti della vita di Elizabeth – un periodo di studio a Firenze e un fine settimana lungo a Sandringham – non avevano fatto di lei una persona con cui fosse piacevole conversare, e Louise si era stancata presto delle sue tirate su Ivor Novello. Si diresse verso la porta per vedere chi fosse la sua nuova compagna di stanza. C’era un biglietto fissato con una puntina che recitava: «LOUISE CAZALET E STELLA ROSE». Per qualche ragione quel nome le evocò l’immagine di una giovane bionda e pallida con lunghi capelli sciolti sulla schiena, un personaggio uscito da un libro di fiabe, con un nome da eroina. Decise di disfare la valigia e di prendere una maglia più pesante.

Stella arrivò quando avevano quasi finito di cenare. Aveva perso il treno e di conseguenza anche il taxi inviatole dalla scuola, perciò aveva dovuto aspettare che se ne liberasse un altro. Le fu servita la cena e Miss Rennishaw suggerì a Louise di restare a farle compagnia. Così si ritrovarono sole nella vasta sala da pranzo, sedute a uno degli otto tavoli rotondi. Non somigliava per niente a una principessa. Aveva una fitta chioma di capelli neri, sottili e ricci; la pelle olivastra senza traccia di trucco; occhi di forma allungata di un grigio tendente al verde sopra zigomi alti; un naso prominente e ossuto e una piccola bocca pallida, di singolare eleganza, con un piccolo neo scuro sotto uno degli angoli. Quando ebbe finito di registrare tutti questi dettagli, Louise si rese conto che Stella la stava osservando con pari curiosità. Si scambiarono un sorriso, lievemente imbarazzate.

«Ti manca casa, eh?».

«In che senso?».

«Be’, ti sentirai un po’ strana... è la tua prima sera».

«Oh, no! Stavo pensando: meno male che non sono a casa adesso! Quando mio padre saprà che ho perso il treno diventerà una furia. Se fossi a casa, non ne uscirei viva».

«A tua madre invece non importa?».

«A lei importa il fatto che importi a lui. Perciò è la stessa cosa. Come si sta qui?».

Louise disse che non era male, ed era la verità. Ma ciò non bastò a Stella e, nel tempo necessario a finire la cena, compresa la charlotte di mele, si fece spiegare nei dettagli ogni cosa: le spiegò che c’erano quattro diverse categorie di lavori – la cucina, il servizio in salotto e quello domestico e infine la lavanderia –, che ogni settimana veniva assegnato alle allieve un ruolo diverso, che le due titolari della scuola insegnavano cucina, che un’ex alunna di nome Patsy si occupava del servizio in salotto, che la Rennishaw Bassa insegnava a fare le pulizie e che una vecchissima irlandese dall’aria mefistofelica, Miss O’Connel, si occupava della lavanderia. Lavoravano tutte le mattine, avevano le prime ore del pomeriggio libere e poi ricominciavano alle cinque dopo il tè, fino alla cena e al lavaggio delle stoviglie. «La peggiore è la O’Connel. Lo scorso semestre mi ha fatto stirare una cotta increspata tre volte. Ogni volta che finivo, la spiegazzava, la bagnava con l’amido e mi faceva ricominciare».

Stella la fissò, poi scoppiò a ridere. «Non ho la più pallida idea di quello che stai dicendo!».

«Be’, saprai cos’è una cotta. È quella veste che portano i preti in chiesa».

«Oh. Giusto», si affrettò a replicare Stella.

«E una stiratura increspata si fa con un ferro...».

Ma in quel momento la Rennishaw Bassa infilò la testa nell’uscio per dire a Stella che suo padre desiderava parlarle al telefono, e Stella fece una buffa faccia spaventata – ma a Louise non sfuggì che era preoccupata davvero –, poi balzò in piedi e uscì dalla sala seguendo la Bassa, che tornò un momento dopo per dire a Louise di sparecchiare il posto di Stella e mettere tutto nel retrocucina. Quando ebbe finito, Louise si fermò in corridoio. Sentì la voce di Stella interrotta da lunghi silenzi. «Sì, papà, lo so... Sì, è vero. Ho detto che mi dispiace... Non lo so... Ho fatto tardi, non so come... Oh, papà, non è mica la fine del mondo! Mi dispiace, ho già detto che mi dispiace... Non lo so... Non so cos’altro dire». La manfrina sembrava non finire più, poi a un certo punto le parve che Stella stesse piangendo, e provò una gran pena per lei. Un minuto dopo Stella riapparve e, non appena fu fuori dal salottino delle Rennishaw, fece di nuovo quella faccia buffa, alzò gli occhi al cielo e si strinse nelle spalle esili in una posa di esagerata disperazione.

«Mio Dio!», disse. «Ho fatto venire il mal di testa a mia madre, hanno cenato in ritardo per via di tutte le telefonate! Non è possibile mandarmi fuori per quanto sono egoista e irresponsabile ed è solo grazie al suo buon cuore se ho ancora il permesso di finire il semestre!».

«Mi sembrava che stessi...».

«Piangendo? Oh, ho dovuto far finta. È l’unico modo di fermarlo. Padri! Tu col tuo hai problemi?».

«Non... be’, qualche volta».

«Io non vedo l’ora di essere adulta», disse Stella mentre salivano le scale dirette alla mansarda.

«Oh, su questo sono d’accordo al cento per cento».

Fu il nucleo originario del loro legame. Che fece un grosso passo in avanti allorché Louise venne a sapere che Stella, a differenza delle altre, non ci teneva per niente a debuttare in società – «Non so nemmeno che vuol dire!», disse con un delizioso tono sprezzante – perché desiderava diventare qualcuno, anche se non aveva ancora deciso chi esattamente, il che fornì a Louise l’appiglio per confidarle le sue ambizioni e dirle dell’imminente audizione. Stella si mostrò gradevolmente colpita. «Puoi esercitarti con me», disse. «Mi piace un sacco fare da spalla... o come si dice».

«In effetti... potrei venire anch’io alla tua scuola di recitazione», disse tempo dopo. «Credo che potrebbe piacermi». Louise restò interdetta, perché le sembrò un approccio irriverente all’arte che venerava.

«Non si può decidere di recitare!».

«Perché no?».

«Perché no? Perché non è un semplice lavoro, è piuttosto una specie di vocazione. Insomma, prima di tutto bisogna avere un po’ di talento».

«Come te, intendi?».

«Non ho mai detto di averne».

«Però lo pensi. Invece il tuo potrebbe essere semplice desiderio di fama. A me questo non interessa affatto. Lo farei solo per vedere com’è. Se t’interessano le cose, non ha importanza se sei bravo a farle oppure no. Il divertimento sta nel farle».

«Oh!».

«Non sei d’accordo!».

«È solo che non ci ho mai pensato in questi termini».

Ne avrebbero avute molte di conversazioni di questo genere, nel corso di quel semestre che fu, a detta delle Rennishaw, il più freddo a memoria d’uomo. Tutte tenevano le borse dell’acqua calda, dormivano con le calze e chiudevano le finestre la sera, subito dopo che la Rennishaw Alta era passata ad augurare loro la buonanotte. Lei credeva nell’aria fresca, qualunque fosse la temperatura esterna. C’era un camino a carbone nel loro salotto, il che voleva dire che cinque o sei ragazze, a turno, potevano andare a scaldarsi. I pasti erano abbondanti, nonostante il razionamento fosse cominciato prima dell’inizio del semestre. Erano state modificate le ricette. All’inizio non c’era stata una gran differenza: i loro centoventi grammi di burro venivano serviti separatamente in apposite ciotoline, mentre bacon e zucchero erano sui vassoi comuni; in cucina si usavano lardo e margarina. La carne venne razionata solo alla fine del semestre, ma era diventata più cara, e fu insegnato loro a preparare stufati e pasticci e a usare le poco apprezzate frattaglie. Louise smise di confessarsi, ma la riprovazione delle Rennishaw la metteva troppo a disagio e continuò ad andare in chiesa. Stella venne con lei la prima domenica, si alzò in piedi e si sedette e s’inginocchiò, ma non aprì bocca. «Non so le parole», disse quando in seguito Louise le chiese come mai non avesse partecipato. «Tanto non ho intenzione di andarci di nuovo», aggiunse. «Volevo solo vedere com’è».

«La tua famiglia non va a messa?».

«Mai». La risposta fu proferita in tono talmente carico di sottotesto inespresso, che Louise lasciò cadere l’argomento.

L’insaziabile curiosità di Stella pareva abbracciasse ogni cosa. La portava a superare i limiti («Vediamo dove porta questa strada»), a curiosare nei cassetti delle altre quando pulivano le camere («Barbara Carstairs ci tiene una scatoletta di ciglia finte, nere, non come le sue che sono castano chiaro, e Sonia Shillingsworth nel cassetto della biancheria tiene la foto di un tizio. Di certo non è suo fratello!». Di fronte a questi resoconti Louise, per quanto scandalizzata, non poteva non cadere nella trappola e domandare: «Come lo sai?». «Non ce l’ha, un fratello. Gliel’ho chiesto»). La curiosità la spingeva a mettere le mani in barattoli di marmellata e scatole di biscotti per assaggiarne il contenuto, a tentare esperimenti con flaconcini di crema detergente e lozioni astringenti – perfino rossetti, che si passava sulle labbra e che poi toglieva in gran fretta. Allo stesso tempo Louise aveva notato che professava una ferma e paradossale riservatezza, e non le piaceva che le si facessero domande. Sapeva essere molto divertente: dopo poche settimane era in grado di imitare tutte, e non solo nella voce ma persino nel loro modo di fare. E poi era la spettatrice perfetta: si commuoveva quando Louise interpretava Giulietta e rideva fino alle lacrime quando si esibiva nella scenetta dell’insegnante di ballo. «Cara, cara Louise! Adoro chi sa farmi ridere. E piangere. Sei l’unica qui a scuola che ci riesca». Era meravigliosamente solidale con Louise quando si lamentava della mancanza d’interesse dei suoi genitori verso la sua carriera. «Certo», diceva, «quando hanno dei piani su di te può essere anche peggio».

«I tuoi hanno dei piani per te?».

«Se ce li hanno? Mia madre vuole che vada all’università e che diventi un’insegnante o vada a lavorare in biblioteca o cose del genere. Ma a mio padre interessa solo che io faccia un buon matrimonio. Certe volte, invece, è il contrario. Litigano, poi fanno pace e danno tutta la colpa a me».

«E tuo fratello?».

«Su di lui non ci sono mai stati dubbi. Peter era destinato a diventare musicista fin dall’inizio. È entrato in Conservatorio appena ha finito la scuola. Solo che sarà chiamato alle armi prima di aver terminato gli studi. Gli hanno permesso di concludere il primo anno solo perché aveva una doppia borsa di studio. Perciò gli resta un solo semestre».

«Può darsi che per allora la guerra sia già finita. Non sembra stia succedendo granché».

«Succederà».

«Come diavolo fai a saperlo, Stella?».

«Lo so e basta. Mio padre dice che il potere di Hitler sta crescendo smisuratamente, e inoltre quell’uomo è pazzo».

Louise si era accorta che molte conversazioni tra loro terminavano con Stella che riportava le frasi di suo padre come verità incise sulla pietra. Certe volte lo trovava fastidioso. «Be’, comunque a me pare che non stia succedendo niente. Voglio dire, gli evacuati sono tornati a Londra e non ci sono stati gli attacchi aerei che tutti temevano e che dovevano essere terribili. E mio padre dice che ogni settimana che passa abbiamo più aeroplani e navi e tutto, perciò è sempre meno probabile che i tedeschi osino attaccarci. Perciò, Stella, lascia che ti dica che forse tuo padre si sbaglia».

Ma l’espressione di Stella, o meglio tutta la mimica del suo corpo, denunciava la più completa impossibilità che ciò avvenisse. Louise lasciò stare. Ormai si volevano bene al punto da poter essere in disaccordo, disapprovare l’una le scelte dell’altra e ignorarsi, ma un vero litigio non l’avevano mai avuto.

«Che fortuna per me che tu sia qui», diceva spesso Stella. Qualche volta l’esclamazione era seguita da un elenco delle virtù di Louise: che usava il cervello, che leggeva, che sapeva esattamente quello che voleva, che era “una persona seria”, fino a che Louise, rossa di piacere per tanto apprezzamento e ben conscia di non leggere né di pensare abbastanza da meritare lodi così sperticate, cominciava a declinare i complimenti e contrattaccava elencando i talenti di Stella, che a lei sembravano speciali perché avevano una peculiare naturalezza (non solo sapeva suonare benissimo a orecchio qualunque cosa sentisse ma era anche molto intonata; inoltre parlava correntemente il francese e il tedesco e possedeva una buona memoria fotografica: bastava che leggesse una ricetta una sola volta e la ricordava senza problemi). Di tanto in tanto passavano a discorsi sulla fortuna di essersi incontrate e allora Stella si produceva in una tirata su quanto fossero noiose le altre ragazze; vista una viste tutte, diceva, e poi elencava le sette età della debuttante: «All’inizio è fissata coi cavalli, ha un faccino rosa e paffuto e splendente di salute, porta giacche di tweed e parla solo di nodelli e strigliature; dopo un po’ la vedi girare vezzosa vestita di tulle e pizzo, indossando collanine di perle e con i capelli arricciati; la volta dopo eccola commossa e radiosa nel suo vaporoso abito di seta bianca, il giorno delle nozze; dopo ancora è in cachemire, indossa perle più grosse e tiene in braccio un marmocchio... oh, dimenticavo il giorno del debutto, con quelle assurde piume bianche in testa e i lunghi guanti bianchi! La ritroviamo anni dopo parecchio ingrassata, con un tailleur e un cappellino complicato, il giorno del diploma del figliolo; e infine eccola ormai decrepita, vestita di pizzo beige, al matrimonio della figlia...». Le caricature di tutte queste fasi erano accompagnate da una mimica esilarante, e le mani di Stella disegnavano gli abiti che si addicevano alle varie macchiette, finché Louise non aveva le lacrime agli occhi dal gran ridere.

«Henrietta non è così male», osservava alla fine.

«Lo è eccome! Dorme supina perché crede che così non le verranno le rughe!».

«Come lo sai?».

«Me l’ha detto Mary Taylor. La notte le vengono gli incubi e Mary deve svegliarla».

«Be’, ci sono le Gemelle Serafiche». Angela e Caroline Redfern erano identiche: capelli biondo cenere, profondi occhi bruni e lunghe gambe eleganti; erano considerate unanimemente le bellezze della scuola.

«Ah, quelle! Fanno colpo perché sono due. È come per i collezionisti, sai: averne due è meglio che averne una. Io dico che sono due teste senza nemmeno un pensiero dentro».

Louise, dopo aver riso, diceva che forse Stella era un po’ troppo critica. «Insomma, non è che noi due siamo tanto migliori di loro».

«Non ho mai detto questo. Però noi due vogliamo tirare fuori il meglio da noi stesse. Vogliamo essere di più».

In qualche modo Stella riusciva sempre ad avere l’ultima parola. Così come, rifletté Louise, ci era sempre riuscita Nora. Forse sono io che ho un carattere debole, pensò stupefatta. Non può essere! Nonostante tutto, considerava Stella la sua migliore amica e per lei, che a differenza di Stella non era mai andata a scuola né in collegio, quella era un’esperienza nuova ed eccitante e l’unica cosa di cui aveva paura era che, finito quel semestre, avrebbero dovuto separarsi, perché Stella sarebbe rimasta per portare a termine il corso. «O forse no», le disse. «Non si sa mai. Detesto cucinare e di certo non farò mai lavori domestici, e che senso ha imparare a fare i colloqui con la servitù, se presto la servitù non esisterà più?».

«Stella! Che idea assurda! I domestici ci saranno sempre».

«No invece. Andranno a lavorare altrove per via della guerra e non vorranno più tornare. Tu lo faresti?».

«È diverso».

«Perché ragioni in base alla vecchia divisione in classi».

«E allora? È quella che abbiamo, no?». E qui toccò una corda nuova e del tutto sconosciuta del carattere della sua amica, così Stella le spiegò la sua visione politica. Da cosa pensava che dipendesse la suddivisione in classi? Dare alla gente una così scarsa istruzione da fare in modo che possano svolgere solo i lavori più umili, più monotoni, oppure fingere che abbiano una vocazione, come per le infermiere, quando invece quello che vogliono è solo poter fare qualcosa, qualunque cosa, anche malpagata. Per far stare la gente là dove nessuno vuole stare, non c’è niente di meglio che negare un’istruzione e pagare male. Erano sdraiate l’una di fronte all’altra sul letto di Louise a sgranocchiare dolcetti, avvolte nelle rispettive trapunte, e per un istante o due tacquero entrambe, ma il temporale che imperversava fuori, il sibilo del vento e la pioggia battente, a Louise sembrava la manifestazione materiale dei suoi pensieri, che erano caotici, rumorosi. E stupefatti.

Allora Stella disse: «Non avevi mai pensato a queste cose, vero?».

«No. Non in questi termini».

«Nella tua famiglia non se ne parla?».

«Be’, no. Non molto». Ripensò a suo padre che inveiva contro la gente che non ha voglia di lavorare per guadagnarsi lo stipendio. «Mio padre mi ha detto che una volta ha guidato l’autobus durante lo sciopero generale».

Ma Stella si limitò a ridere e sentenziò: «Ecco, ho capito. Un conservatore, insomma!».

«E mia madre ha lavorato a lungo per la Croce Rossa. Molte opere di carità e via dicendo».

«La carità è solo un altro modo per far stare la gente al suo posto».

Louise restò zitta. Tutto ciò che Stella diceva la incantava; non aveva l’esperienza né le conoscenze né la scaltrezza intellettuale per controbattere o contestare o aderire a quelle idee. Molto più tardi, dopo che Miss Rennishaw fu passata per augurare loro la buonanotte e informarle che era caduto un albero sul vialetto, Louise disse: «Ma se tu non vuoi farli e credi che nessuno voglia farli, chi li farà quei lavori?».

E Stella, che capì subito che Louise si riferiva alle faccende domestiche, replicò: «Non lo so. Molti lavori secondo me non si faranno più. Non sono necessari. Pensa a tutto quel lucidare...».

La risposta non era del tutto soddisfacente, ma Louise era troppo incerta sulla materia per contestarla. Era un argomento scomodo (ma nondimeno eccitante) e lei non ne sapeva nulla rispetto a Stella, così si ripromise di informarsi meglio, anche se presentiva che non sarebbe stato facile trovare qualcuno a cui fare domande.

Dovevano tornare entrambe a casa il fine settimana seguente, ma il venerdì Louise ricevette una telefonata da sua madre. «Temo che dovremo rimandare, Louise. Di colpo la nonna non sta per niente bene, devo portarla in una casa di cura».

«Che le è successo?».

«Come ti dicevo, non sta bene. Ultimamente dimentica tutto. Adesso poi sembra che non sappia più dove si trova e i domestici non ce la fanno a gestirla. La porterò in un bel posto a Tunbridge Falls, dove mi hanno detto che ci sono ottime infermiere e la tratteranno come si deve. Ovviamente papà è via... pare non lo mandino mai in congedo. Perciò possiamo rimandare al prossimo fine settimana?».

«Ma io posso stare benissimo a casa da sola. Non ti ci vorrà più di un giorno, no?».

«Temo di sì invece, perché dovrò andare a prenderla a Frensham, da zia Jessica, e dovrò portarla alla casa di cura, poi andare a chiudere casa sua a Londra e occuparmi di Bryant che, poveretta, ha avuto una specie di esaurimento nervoso. La nonna non faceva che ordinare cene enormi e poi non invitava nessuno – perché ovviamente non riconosce più nessuno –, andava in confusione e se la prendeva con quella povera donna».

«Santo cielo! Ma allora è proprio impazzita».

Ma sua madre rispose in tono che non ammetteva repliche. «È solo molto confusa».

Quando lo riferì a Stella, lei le disse: «Be’, dovrò chiedere, ma magari puoi venire a stare da me».

Cosa che, dopo quello che le ragazze definirono un gran baccano, accadde davvero. La madre di Stella disse di sì, poi Miss Rennishaw disse che ci voleva il consenso della madre di Louise, dopodiché la madre di Louise volle il numero di telefono di Mrs Rose... «Ma perché tutto questo?», si lamentò Louise. «È terribile il modo in cui ci trattano. Neanche fossimo due bambine piccole!».

«Sono completamente d’accordo. Soprattutto considerando che, se fossimo maschi, tempo un anno e ci considererebbero grandi abbastanza da andare in Francia a morire per la patria. Be’, è quello che farei io, almeno». Stella aveva diciotto anni, uno in più di Louise.

«In casa tua si parla molto di politica?», le domandò in treno.

«Si parla molto di tutto. Parlano così tanto che non gli resta il tempo di sentire quello che hanno da dire gli altri, e poi si accusano a vicenda di non ascoltare. Non fare quella faccia. Noi staremo per conto nostro».

I Rose abitavano in un vasto e cupo appartamento a St John’s Wood. Era al terzo piano e vi si arrivava con l’ascensore, una specie di gabbia che emetteva molti cigolii inquietanti quando si muoveva. La porta aveva una griglia di ferro davanti a una vetrata istoriata. Fu aperta da una signora bassa e tarchiata, che a Louise fece l’impressione di una persona malata, stanca perfino della propria stanchezza. Aveva gli occhi neri cerchiati da un alone appena più chiaro e una bocca su cui pareva pesare una tragica rassegnazione. Quando vide Stella, sorrise e le mise affettuosamente una mano sulla spalla prima di darle un bacio. «Lei è mia zia Anna», disse Stella. «La mia amica Louise Cazalet».

«Al contrario. Quante volte ti ho detto che deve essere la persona più anziana a sapere per prima a chi viene presentata?». La madre di Stella spuntò fuori dal buio corridoio che pareva estendersi all’infinito.

«È una bambina», mormorò zia Anna e poi, dopo aver fatto un cenno a Louise, superò la madre di Stella e si ritirò.

«Come stai, Louise? Sono davvero felice che ci sia tu a tenere compagnia alla mia bambina questo fine settimana. Accompagna Louise nella sua stanza, Stella. Si pranza fra un quarto d’ora. Papà torna apposta».

«Tradotto vuol dire: “Non azzardarti a fare tardi”», mormorò Stella. «Hai fatto caso che non dicono mai semplicemente quello che hanno da dire?».

Ciò nonostante, in un battibaleno fu pronta e aspettò Louise fuori dalla sua stanza.

«Tua madre è francese?».

«Dio mio, no. È di Vienna».

«È davvero bellissima».

«Lo so. Andiamo. È arrivato papà... ho sentito la porta d’ingresso».

La condusse in un vasto soggiorno pieno di divani e poltrone dalle imbottiture tondeggianti, librerie protette da sportelli di vetro e un pianoforte a coda. Tutta una parete era decorata da enormi specchi dalle cornici quadrate di fronte ai quali, su due tavoli dai ripiani di marmo, stavano due busti di gesso raffiguranti Beethoven e qualcun altro che non seppe riconoscere. Le alte finestre della parete opposta erano in parte oscurate da tende di velluto tirate da spessi cordoni di seta guarniti di nappine, che lasciavano intravedere ulteriori tende di elaborato pizzo bianco. Dietro la grata ardevano i carboni, e la fiamma pareva distante e opaca nell’affollata penombra. Faceva un gran caldo. Stella la prese per un gomito e la guidò in mezzo alla fitta mobilia fino al lato opposto della stanza, dove Mrs Rose attendeva in piedi accanto al marito, molto più basso di lei.

«Lei è Louise, papà».

Mentre le stringeva la mano, Mr Rose disse: «Quando presenti una persona, Stella, devi dire il suo nome e cognome. La tua amica non è una cameriera».

«Lo è, a volte. È una delle cose che facciamo a scuola».

«Ah ah!». La risata gli uscì simile a uno sbuffo. «Peter è in ritardo. Come mai?».

«Ha una prova, Otto. Ha detto di non aspettarlo».

«Be’, se lo ha detto lui... Prego, Miss Louise, andiamo a pranzo».

Le fece strada verso la stanza da cui erano entrati in soggiorno, dalla quale si accedeva a un locale più piccolo con una tavola riccamente apparecchiata: tovagliato bianco, posate d’argento, pesanti porcellane di foggia antiquata e rigide sedie dallo schienale alto e la seduta in velluto. Anche qui c’erano le stesse tende, e in più era illuminata da un grosso lampadario con i paralumi semicircolari di carta pergamena intorno a ogni lampadina. I genitori di Stella presero posto ai due capotavola, mentre le ragazze si sedettero ai due lati del padre. Dopo un momento fece il suo ingresso zia Anna, seguita da una camerierina che pareva sul punto di soccombere sotto il peso di un’enorme zuppiera posata su un vassoio che depose sul tavolo davanti a Mrs Rose, la quale poi procedette a scodellarne il contenuto col mestolo nei piatti che stavano disposti in una pila lì accanto. Louise non era abituata a mangiare la minestra. Il profumo era intenso e invitante, nel brodo galleggiavano degli gnocchi e lei non era certa di come andassero consumati.

Mr Rose se ne accorse subito. «Non hai mai mangiato i Leberkloss, Louise? Sono buonissimi». Prese una cucchiaiata con sopra uno gnocco e se la portò alla bocca. Louise lo imitò. Era caldissimo e lei, d’istinto, lo risputò nel cucchiaio. Se ne accorsero tutti, e Louise si sentì avvampare.

«È colpa di Otto. Riesce a mangiare la roba rovente come se niente fosse», disse con gentilezza Mrs Rose. Louise bevve un sorso d’acqua.

«Hai fatto bene a non ustionarti la bocca. Si rischia di non sentire più i sapori». E proprio mentre Louise pensava a quanto fosse stato gentile a dire questo, Mr Rose mise giù il cucchiaio con decisione e disse con voce tonante: «In questo brodo manca il sedano! Anna! Anna? Come si fa a dimenticare un ingrediente così importante?».

«Non me ne sono dimenticata, Otto. Non ne ho trovato. C’erano solo gambi di sedano bianco con le foglie tagliate. Che dovevo fare?».

«Preparare un altro tipo di brodo, naturalmente. Mi risulta che nel tuo repertorio ci siano non meno di quattordici tipi di minestra, molti dei quali, se non tutti, non richiedono le foglie di sedano. Non fare quella faccia, donna, non è una tragedia. Dico solo che non ha il sapore che dovrebbe avere». Riprese il coltello e sorrise a Louise: «Lo vedi? Basta una piccola critica e mi trattano come fossi un despota. Un despota, io!». Esplose in una sonora risata, a sottolineare l’assurdità della cosa.

Malgrado tutto, lui, come pure gli altri, si servì una seconda porzione di minestra e, mentre Stella veniva sottoposta a un serrato interrogatorio sulla scuola, Louise poté osservare in pace i genitori della sua amica: Mrs Rose, anche se era piuttosto vecchia – almeno quarant’anni – non era il tipo di donna di cui si dice che in passato era stata una bellezza: lei lo era ancora. Era molto alta, con i capelli grigi ondulati fermati da una parte con una forcina. Tutto nel suo viso era grande, ma di una tale grazia nelle proporzioni che sembrava di vedere un primo piano al cinema. Aveva due enormi occhi bruni distanti fra loro sotto un’ampia fronte con l’attaccatura dei capelli a V. Aveva gli zigomi come quelli di Stella, ma il suo naso, per quanto grande, non era ossuto come quello della figlia: era carnoso quanto basta, con le narici ben disegnate e svasate. Anche la bocca era grande e, quando sorrideva, l’armonia statuaria di quei lineamenti s’illuminava di una gaiezza che Louise trovò irresistibile.

Peter Rose arrivò nel momento in cui i piatti della minestra venivano ritirati e il padre stava dicendo a Stella che era un peccato che non sapesse leggere l’italiano, quando lui si era offerto mille volte d’insegnarglielo.

«Ti arrabbieresti subito e io mi metterei a piangere», disse Stella.

Louise si accorse che Mr Rose stava per prorompere in un nuovo scatto d’ira, che fu però scongiurato dall’arrivo di Peter. Entrò nella stanza e scivolò al suo posto come se volesse essere invisibile. Tutti gli occhi furono su di lui: subì un bombardamento di domande, rimproveri, attenzioni di varia natura. Era in ritardo: come mai era in ritardo? E le prove com’erano andate? Voleva un po’ di minestra – Anna gliel’aveva tenuta in caldo apposta – o preferiva passare subito alla carne? (La cameriera aveva messo in tavola un abbondante e saporito stufato). Non era andato a tagliarsi i capelli, anche se gli era stato fissato un appuntamento, ci sarebbe andato dopo pranzo... ipotesi che diede la stura a una raffica di suggerimenti su come avrebbe dovuto passare il pomeriggio. Doveva riposare. No, doveva fare una corroborante passeggiata. Doveva andare al cinema per distrarsi dal pensiero del concerto. Per tutto il tempo lui se ne stette seduto, con gli occhi miopi dietro le lenti spesse, l’abile mano bianchissima che spesso andava a tirare indietro la ciocca ribelle che continuava a ricadergli sulla fronte e un sorriso nervoso che affiorava subito prima che lui lo reprimesse. Disse di volere la minestra e zia Anna corse fuori dalla sala per prendergliela. Nello stesso momento suo padre osservò che, a quanto pareva, era talmente assorbito da se stesso e dal suo concerto da non avere nemmeno quel minimo di educazione per notare che avevano un’ospite. Era davvero sorprendente, brontolò con un tono che sarebbe stato adatto a pronunciare un monologo all’Albert Hall, come questi due ragazzi sembrassero del tutto ignari delle regole di buon comportamento, considerando poi la pena che i genitori si erano sempre dati per insegnargliele. Una figlia che rispondeva con impertinenza a suo padre e un figlio che ignorava del tutto la presenza di una signorina che era ospite in casa loro! Se ne rendeva conto, Sophie? Ma la moglie si limitò a sorridere e continuò a servire lo stufato. E Anna? «Ma Otto, sono bambini...». Si rivolse allora a Louise che però, imbarazzata e a disagio, cominciò ad arrossire: se ne accorse e la risparmiò.

Peter disse: «Salve! So che ti chiami Louise. Stella mi ha parlato di te».

Mentre mangiavano lo stufato accompagnato da un contorno di cavoli rossi (un’altra cosa che Louise non aveva mai assaggiato in vita sua) e dell’ottimo purè di patate, il padre di Stella la sottopose all’ennesimo interrogatorio su come lei e la sua amica avrebbero trascorso il fine settimana.

«Andremo al concerto di Peter, naturalmente».

«Ti piace la musica?».

«Oh, sì! Mi piace molto».

«Il nonno di Louise era un compositore», osservò Stella.

«Ah sì? E chi era?».

«Si chiamava Hubert Rydal. Credo fosse un compositore minore».

«Davvero? Non credo che mi piacerebbe», disse masticando con accanimento, «se i tuoi figli, parlando di me, dicessero che ero un chirurgo minore, Stella. Dovrebbero avere solide competenze mediche per pronunciare un tale giudizio».

«Volevo dire solo che è così che lo definiscono». Louise si sentì avvampare di nuovo e, peggio ancora, sentì le lacrime spuntarle agli occhi al ricordo di quanto gli aveva voluto bene, al ricordo del suo volto serio e del suo naso aquilino e della barba bianchissima e di quei tristi, innocenti occhi azzurri che si assottigliavano fino a sparire in una travolgente risata quando succedeva qualcosa di buffo, al ricordo di come le prendeva la mano – «Vieni con me, piccolina» – e la portava da parte per darle qualche regalino di nascosto dalla nonna, che invece non rideva mai, al ricordo dei suoi baci... «È stata la prima persona che è morta tra quelle che conoscevo», disse con voce malferma, poi alzò gli occhi e vide Mr Rose guardarla con viva tenerezza e solidarietà.

Sorrise quando i loro sguardi s’incrociarono, un sorriso strano che Louise avrebbe definito cinico se non fosse stato per l’affettuosità e l’empatia che pure, in qualche modo misterioso, trasmetteva. «Una nipote affezionata. E domani, Stella? Cosa proponi di fare con la tua ospite?».

Stella disse a bassa voce che sarebbero andate a fare spese.

«E la sera?».

«Non lo so, papà. Non ci ho pensato».

«Bene, allora. Vi porterò a teatro. E poi a cena. Vi divertirete», deliberò, e poi rivolse un sorriso feroce a tutti i commensali.

Furono tolti i piatti e venne servito un vassoio con vari tipi di formaggio.

Louise, per la quale formaggio voleva dire solo cheddar per bambini e domestici oppure Stilton per gli adulti (ma a Natale lo mangiavano anche quelli della sua età), restò incantata da quella varietà. Mrs Rose se ne accorse e osservò: «Il padre di Stella adora il formaggio. E molti suoi pazienti lo sanno».

Stella disse in tono giudizioso: «Il formaggio è razionato, papà. A scuola ce ne danno solo due once a settimana. Pensa se tu dovessi accontentarti di così poco!».

Peter disse: «Ai concerti della National Gallery servono formaggio e sandwich all’uvetta».

«È per questo che ci vai, ingordo d’un ragazzo?».

«Certo che sì! Non ho nessun interesse per la musica. Però adoro l’uvetta!». Lo disse imitando il modo di parlare di sua sorella.

Nel frattempo Louise notò che nessuno mangiava molto formaggio all’infuori di Mr Rose, il quale ne prese tre tipi diversi, li tagliò in piccoli pezzi, li cosparse di abbondante pepe nero e poi se li ficcò in bocca.

I formaggi furono poi sostituiti da un’elaborata preparazione di sottilissima pasta sfoglia, dall’aria deliziosa, al cui interno c’erano mele e spezie varie e alla quale Louise, anche se sapeva di aver già mangiato troppo, non poté resistere né del resto ne ebbe la possibilità, giacché Mr Rose, con la scusa che non si poteva rifiutare lo strudel di Anna, disse alla moglie di darne a Louise una fetta enorme. Durante il dessert scoppiò una lite furiosa fra Peter e suo padre riguardo alcuni compositori russi che Mr Rose liquidò in tono sprezzante come autori di musichette sdolcinate adatte alle fiabe, il che fece arrabbiare Peter che si mise a balbettare e a gridare e rovesciò un bicchiere d’acqua.

Solo dopo che fu servito del caffè scuro in piccole e sottilissime tazze rosse e dorate, a Louise e Stella fu permesso di ritirarsi per conto loro, non senza altre domande e rilievi critici su come avrebbero trascorso il pomeriggio.

«Andiamo davvero a fare una passeggiata?», domandò Louise. Dopo quel pranzo esagerato avvertiva un po’ di sonnolenza e il pensiero del freddo pungente l’atterriva.

«Santo cielo, no! L’ho detto solo perché è l’unica cosa su cui di solito non hanno niente da obiettare. Ce ne andiamo di qui e poi troviamo qualcosa di bello da fare, al chiuso!».

Alla fine presero il 53, andarono in Oxford Street e trascorsero delle ore da Bumpus dove, dopo essersi guardate intorno ridendo, decisero di regalarsi un libro a vicenda. «Una cosa che crediamo che l’altra dovrebbe leggere a ogni costo».

«Ma io non so cosa tu abbia letto e cosa no».

«Se mi proponi qualcosa che ho già letto, ne sceglierai un altro». Ma non fu necessario. Stella scelse per Louise MadameBovary. «Lo avrei preso in francese, ma non mi pare che tu lo legga molto bene», disse, e Louise, il cui francese era pressoché nullo ma aveva sempre cercato di non darlo a vedere a Stella, non protestò. Dopo penose indecisioni, Louise scelse Ariel di André Maurois, Penguin, edizione tascabile. Ebbe un momento d’imbarazzo per questo, perché MadameBovary costava due scellini e Ariel solo mezzo scellino, ma sapeva bene che Stella non avrebbe mai dato peso a questa differenza. «Parla di Shelley», le disse, e Stella rispose: «Oh, bene! Non ne so molto su di lui». Tornarono a casa in autobus e decisero di scriversi a vicenda una dedica sui libri una volta arrivate, poi si misero a enumerare tutte le cose orrende che le altre ragazze della scuola si sarebbero scambiate al loro posto. «Rossetti, talco, ciondoli da appendere al braccialetto, quadernini su cui segnare i compleanni della gente!». L’elenco continuò finché Louise, pensando a Nora, disse che era sbagliato sentirsi tanto superiori.

«E perché no? Lo siamo. Non ci vuole molto del resto. Voglio dire... le hai viste?».

«Lo sai, Stella, che per le idee democratiche che hai sei davvero arrogante!».

«No, non è vero. Dico solo le cose come stanno. Tu sei talmente conservatrice che sei abituata a considerare certa gente inferiore e ti sembra gentile mentire al loro riguardo. Io no».

«Ma c’è differenza fra quanti hanno avuto delle opportunità e non le hanno sfruttate e coloro che invece non ne hanno».

«Sì, c’è differenza. Ecco perché disprezzo tanto le nostre compagne di scuola. Quasi tutte sono molto più ricche di noi e le loro famiglie potevano non badare a spese per la loro istruzione, e invece alla maggior parte della gente – e alle ragazze soprattutto – non importa un bel niente di studiare come si deve. Prendi i tuoi, per esempio! I ragazzi vanno tutti in scuole dove imparano almeno il greco e il latino, e tu hai avuto solo un’istitutrice!». Stella era stata alla St Paul, uno dei pochi istituti dove si prendeva sul serio l’educazione delle ragazze, e Louise sapeva che, se avesse voluto andare all’università, sarebbe stata in grado di farlo: non le mancava certo la preparazione.

«Miss Milliment ha fatto del suo meglio. Era solo troppo buona con noi, ci ha permesso di essere pigre. Io di certo lo ero». Aveva cominciato a rendersi conto di quante cose non conosceva: i classici, le lingue, l’economia politica, gli eventi storici recenti... la vastità della sua ignoranza le fece orrore.

Stella si affrettò a guardarla. «Tu non avrai problemi. Tu vuoi conoscerle, le cose. E poi sai quello che vuoi. Beata te...».

«Mio padre», disse più tardi, mentre facevano il bagno insieme prima di vestirsi e andare al concerto di Peter, «dice che le ragazze devono avere un’istruzione pari a quella dei maschi, perché solo così non annoieranno i loro mariti e i loro figli. O loro stesse, se non dovessero avere né l’uno né gli altri».

«È buffo. Credevo che i tuoi parlassero sempre di politica, a tavola. Ero terrorizzata».

«Lo fanno spesso. Oggi non era giornata, tutto qua. Credo che papà non volesse mettere in ansia Peter prima del concerto».

E così avevano pensato bene di litigare riguardo ai compositori russi, pensò Louise, ma non lo disse. Era una novità per lei osservare le cose e farsene un’idea per conto suo: a casa le pareva di aver sempre dato tutto per scontato. Era un segno sicuro del fatto che stava crescendo, diventando più grande e – si augurò – più interessante.

La famiglia sembrava vivere di discussioni. Ve ne fu una fra Stella e sua madre in merito al vestito che Stella aveva deciso di mettersi per il concerto. Non si trattava di un vestito, in effetti, bensì di un semplice maglione abbinato a una gonna a scacchi con le pieghe, bianca e nera. Sua madre disse che non era abbastanza elegante per l’occasione. Alzarono la voce al punto che da una delle innumerevoli porte che si aprivano in corridoio spuntò la testa di Mr Rose, che si lamentò di non riuscire a sentire nemmeno i suoi pensieri con quel baccano. Poi però si unì di buon grado al parapiglia per dissentire da sua moglie circa l’abito di velluto verde bottiglia che lei trovava più adatto e insistere invece su uno di seta color panna che, protestò Stella, era vecchio di mille anni e le andava corto. Entrambi i genitori chiamarono in causa quelli che secondo loro erano i gusti di Peter, sui quali tuttavia non erano d’accordo. Mrs Rose disse che Peter si sarebbe vergognato di vedere arrivare sua sorella al suo concerto vestita come se dovesse andare a fare la spesa. Mr Rose replicò che gli sarebbe dispiaciuto vederla apparire in un abbigliamento chiaramente pensato per attirare l’attenzione su di sé, come l’abito di velluto color verde bottiglia. Stella disse che con la seta color panna avrebbe fatto morire dal ridere gli amici di Peter. Sopraggiunse zia Anna e propose una camicetta di seta rosa da abbinare alla gonna a scacchi bianca e nera. La proposta incontrò, per una volta, un rifiuto unanime e zia Anna si appoggiò al muro emettendo lievi gemiti di disperazione. Mr Rose, sebbene non stesse proprio gridando, scandiva le parole in quel tono irritato che, pensò Louise, si usa per far capire le cose a un idiota o a uno straniero. «È semplicissimo. Ti metterai il vestito di seta, come ti è stato detto». A quel punto sia Stella sia sua madre ebbero un moto di sconforto; Stella scoppiò in lacrime, sua madre prima si produsse in una serie di pesanti sospiri, poi andò in camera sua e tornò con un abito di lana verde chiaro che posò davanti alla figlia, con le lacrime che le scendevano sul bellissimo viso. «Otto! Otto? Questo non potrebbe essere la soluzione al problema?».

Lui le guardò entrambe: l’espressione opportunamente implorante della moglie e il mutismo risentito della figlia. E va bene, concesse infine. Era stufo della questione: dopotutto che gliene importava di come si vestiva sua figlia? Era grande abbastanza da potersi rendere ridicola, se era questo che desiderava. La cosa non lo riguardava. Si domandava anzi il perché di tanto chiasso sull’argomento. Fece il sorriso stanco di chi nella vita ne ha subite troppe e chiuse la porta lasciando Louise e Stella col vestito di lana verde in mano. Mrs Rose sospirò ancora e imboccò in fretta il corridoio, col viso ringiovanito.

«Senti... ma io cosa devo mettermi?», domandò nervosamente Louise a Stella.

«Quello che vuoi. A loro non importa cosa ti metti tu».

Louise stentava a crederlo, ma non aveva portato molto con sé e il vestito migliore voleva tenerlo in serbo per il teatro: restava uno scamiciato di tweed con la camicetta color panna che le aveva regalato zia Rach per Natale.

Il pensiero del Natale le diede un senso di disagio, di tristezza. Lo aveva trascorso come tutti gli anni a Home Place e, sebbene ognuno facesse del suo meglio perché sembrasse un Natale come gli altri, non lo era stato, ed era difficile dire cosa ci fosse di diverso, almeno in ciò che contava veramente. Ognuno aveva appeso la calza, ma dentro non erano stati messi i mandarini e Lydia aveva pianto credendo che si fossero scordati della sua. Niente mandarini, niente arance, niente limoni, perciò non ci furono le tortine alla crema di limone che la Duchessa faceva sempre il giorno di Santo Stefano: piccole cose che però messe insieme facevano la differenza. La casa poi sembrava più fredda, l’acqua calda scarseggiava perché la caldaia consumava troppo carbone, e la Duchessa aveva messo lampadine a più basso voltaggio per migliorare l’oscuramento, disse, e risparmiare energia elettrica. Peggy e Bertha, le cameriere, si erano arruolate nella WAAF e Billy era andato a lavorare in fabbrica. Il giardino era diverso: non c’erano più le aiuole di fiori, McAlpine adesso ci coltivava le verdure. Lo si vedeva arrancare con le ossa scricchiolanti, lamentandosi dei reumatismi che andavano sempre peggio; la Duchessa aveva cercato di affiancargli una ragazza, ma la prima candidata se n’era andata dopo appena una settimana: non sopportava McAlpine, che si rifiutava di parlarle e si lamentava di lei non appena gli voltava le spalle. I cavalli erano stati dati via a eccezione dei due più vecchi, cosicché Wren, lo stalliere, faceva i lavori che capitavano come spaccare la legna, alimentare la caldaia, aiutare a verniciare il tetto della serra. Portava sempre le sue ghette di cuoio lucido e quel berretto di tweed color noce moscata che, come aveva osservato una volta Polly, non si accordava affatto col suo colorito rubizzo, ma era molto invecchiato e sempre più spesso lo si vedeva parlare e piagnucolare da solo. Dottie era stata promossa cameriera e Mrs Cripps dovette accontentarsi di una sguattera molto più giovane che, come ripeteva in continuazione, era più d’intralcio che d’aiuto. Il Generale ci vedeva ancora meno che durante l’estate, e adesso si faceva portare a Londra tre volte a settimana da zia Rach che in ufficio gli faceva anche da segretaria personale, come diceva lei scherzandoci su. Zia Zoë era incinta e aveva sempre la nausea, oppure stava sdraiata sul divano con la faccia verdastra. Zia Sybil, che alla fine era dimagrita, era spesso irritabile soprattutto con Polly, secondo la quale stava viziando Wills a morte, ed era sempre in pensiero per zio Hugh, che perciò era costretto a stare in pensiero per lei. Per non parlare di sua madre! Certe volte Louise pensava che Villy la odiasse: sembrava non voler sapere niente di lei, della scuola, delle sue amicizie; criticava l’aspetto della figlia e i vestiti che comprava con l’indennità di vestiario che aveva ottenuto da poco (quaranta sterline l’anno in cui doveva far rientrare tutto, ripeteva sua madre con un tono di voce che, alle orecchie di Louise, significava: anche gli assorbenti). Non voleva che si lasciasse crescere i capelli, il che tuttavia era necessario per un’aspirante attrice, nel caso in cui avesse dovuto interpretare una donna anziana con la crocchia; la sgridava appena la coglieva a fare qualcosa che non fosse utile, come apparecchiare la tavola; voleva mandarla a letto a orari ridicoli e in sua presenza parlava di lei con altre persone come se fosse una piccola criminale o una ritardata, dicendo che non ci si poteva fidare delle sue promesse, che era completamente presa da se stessa, che era così maldestra che c’era da chiedersi che cos’avrebbe combinato se davvero fosse riuscita a calcare le scene. Quest’ultima critica era quella che le bruciava di più, e la tensione era giunta al culmine il giorno di Santo Stefano, quando Louise aveva rotto la teiera di porcellana preferita della Duchessa. Dal beccuccio era uscita un po’ d’acqua bollente che le era finita sulla mano sinistra, e in un attimo una pioggia di acqua, foglie di tè e pezzi di porcellana si era abbattuta sul pavimento. Era rimasta ferma, mortificata, tenendosi la mano ustionata con l’altra e fissando il pavimento e, prima che chiunque altro aprisse bocca, si era sentita la voce sarcastica di sua madre, una pessima imitazione del modo di parlare della sua amica Hermione Knebworth: «Davvero, Louise, sei come un elefante in una cristalleria». C’erano degli estranei a quel tè: Louise era avvampata e, sapendo di essere sul punto di piangere, era uscita dalla stanza con la vista già annebbiata, e passando aveva fatto cadere un libro poggiato su un tavolinetto.

Non aveva fatto neanche la metà delle scale quando sentì la voce glaciale della madre che la richiamava. «Dove credi di andare? Va’ in cucina a prendere uno straccio, una scopa e una paletta per rimediare al pasticcio che hai combinato».

Tornò indietro a prendere l’occorrente e rientrò in salotto, raccolse i pezzi di porcellana dal pavimento, spazzò via le foglie di tè e asciugò finché Eileen, che era stata mandata a preparare dell’altro tè, non venne ad aiutarla, mentre sua madre si esibiva in una serie di variazioni sul tema della sua goffaggine. «È l’unica allieva della scuola per signorine ad aver fatto tre trimestri vista la quantità di stoviglie che ha rotto durante i primi due!». Ci fu un momento di imbarazzo tra i presenti, perché nessuno sapeva cosa dire dopo un’esternazione del genere, e quando Louise ebbe finito di pulire, la mano le doleva ormai molto. Riportò a Eileen scopa e paletta e andò in cerca della Duchessa per scusarsi con lei, ma non la trovò. S’imbatté invece in zia Rach, che stava cucendo le fettucce con il nome sui vestiti di Neville per la nuova scuola. «Non so dove sia, tesoro. Che è successo? Sembri abbattuta».

Louise scoppiò a piangere. Zia Rach si alzò, chiuse la porta, la fece sedere sul divano. «Alla zia puoi raccontare tutto», disse e Louise così fece.

«Mi odia! Davvero, non c’è altra spiegazione... davanti a tutta quella gente! Mi ha trattata come se fossi una bambina di dieci anni un po’ scema, e questo suo modo di fare mi rende ancora più maldestra di come potrei essere se solo stesse zitta!». Vi fu una pausa, poi continuò: «Non mi dice mai una parola gentile». A sentire questo, zia Rach le strinse più forte la mano, ma era la mano sbagliata. Zia Rach la guardò, poi andò a prendere la cassetta del pronto soccorso; accese la lampada a spirito che la Duchessa usava per il tè, scaldò la paraffina, aspettò e la usò per cospargere la scottatura, cosa che all’inizio fece un gran male ma poi, quando la zia le mise la benda, cominciò darle sollievo.

Quand’ebbe finito di medicarla, Zia Rach le disse: «Cara, non è vero che ti odia. Devi tenere a mente quante difficoltà deve affrontare in questo periodo, con tuo padre sempre assente. Marito e moglie dovrebbero stare insieme, e se non possono farlo a soffrire è spesso la donna, perché è quella che rimane a casa e non ha idea di cosa stia capitando al marito. Devi cercare di comprenderla. Alla tua età bisogna cominciare a rendersi conto che i genitori non sono solo genitori ma anche persone, con i loro problemi. Ma questo credo che tu lo abbia già capito».

E Louise, che invece non ci aveva mai pensato, disse che sì, lo capiva. Da quel momento si era sforzata di vedere le cose in quei termini e anche adesso, mentre si allacciava la camicetta di seta che le aveva cucito zia Rach, pensava a come doveva essere brutto per la mamma vedere la propria madre perdere il dono dell’intelletto ed essere costretta a portarla in una casa di cura. E poi vivere praticamente da sola in Lansdowne Road senza sapere quando papà avrebbe ottenuto una licenza, cosa che non sembrava accadere tanto spesso: suo padre organizzava la difesa di una base aerea a Hendon. Era stato con loro solo un paio di giorni a Natale, il che era più di quanto fosse toccato a zio Rupert, che di licenze dalla Marina non ne aveva avuta neanche una.

Il concerto le piacque più di qualunque altro a cui fosse stata. Questo, pensò, fu in parte perché conosceva il pianista (o, almeno, ci aveva pranzato assieme) e in parte perché il Duke era pieno di genitori, parenti e amici dei musicisti e in sala c’era un’euforia insolita.

Fu eseguita un’overture, poi ci fu una pausa mentre il piano veniva portato in scena, dopodiché il presentatore riapparve insieme a Peter, il quale sembrava volersi fare piccolo piccolo nella sua giacca a coda di rondine. Eseguì il terzo concerto di Rachmaninov, quello con la lunga, misteriosa melodia d’apertura. Nel momento in cui cominciò a suonare, Peter parve trasformarsi in un’altra persona. A pranzo non le era parso per niente il tipo che potesse avere quei poteri: la tecnica, l’attenzione totale alla musica nel suo insieme. Dopo il concerto, cominciò a provare una nuova soggezione nei suoi confronti.

* * *

Il giorno dopo andarono a fare spese.

«Tu i tuoi genitori li vedi come persone?», domandò a Stella.

«A volte, quando sono con altre persone. Ma quando siamo io e loro e basta, non tanto. Il fatto è che loro sono troppo genitori. Non gliene importa niente di quanti anni ho».

«Ma non fai mai caso a come si comportano l’uno con l’altra?».

«Sì, ma il loro rapporto consiste nel fare la mamma e il papà. È questo che fanno insieme, sempre».

«Se davvero è come dici, non sarà bello per loro quando tu e Peter sarete grandi».

«Non farà alcuna differenza. Perfino zia Anna fa sempre la zia».

«Ha sempre vissuto con voi?».

«Buon Dio, no! È venuta da noi un’estate: suo marito non l’aveva potuta accompagnare per qualche ragione che non ricordo... lo zio Louis fa l’avvocato a Monaco... e poi ha ricevuto da lui un telegramma che diceva solo: “Non tornare”. Lei voleva andare lo stesso, ma lui ha telefonato a mio padre e, dopo la telefonata, mio padre ha detto che la zia doveva fare quello che le era stato detto».

«Perciò è con voi dalla scorsa estate?».

«Dall’estate precedente. È terribile per lei, perché quell’anno si era sposata sua figlia, e adesso ha avuto un bambino e zia Anna non lo ha mai visto».

«Ma perché?».

«Mio padre lo sa, ma non vuole dirlo. Ha provato a far venire qui zio Louis, ma senza successo. Cucina per noi perché non ha denaro, e mio padre dice che le fa bene avere sempre da fare».

«Però non sembra che abbia fatto di tutto per raggiungerla. Tuo zio, intendo».

Stella fece per dire che non era vero, poi si morse il labbro e restò zitta.

«Non vuoi parlarne?».

«Ci sei arrivata, finalmente! No, non voglio parlarne».

«Va bene, non m’importa». Il sarcasmo di Stella la ferì molto.

Erano in autobus, sedute sulla parte anteriore e dirette ai grandi magazzini Peter Jones in Sloane Square. Louise sentiva che l’uscita sarebbe stata rovinata se non avessero fatto la pace prima di arrivare a destinazione. Proprio mentre pensava questo, Stella le posò la mano sul ginocchio e disse: «Scusami. Non volevo essere brusca. La ragione principale è che ha i genitori molto anziani e una sorella che si prende cura di loro. Capito? Ora, che cosa ci compriamo?».

E tornarono a un argomento di conversazione che ricorreva spesso tra loro nelle ultime settimane. Potevano comprare un solo capo di buona qualità ciascuna, e per tutto il semestre si erano misurate l’altezza sullo stipite della porta per vedere se avevano finito di crescere. Stella aveva finito, Louise no.

«Potresti comprarti una gonna, se ne trovassi una con un orlo sufficiente».

«Non ne fanno così, di questi tempi». Louise pensò ai vestiti di quando era piccola, con centimetri e centimetri di orlo, perfino corpetti con una quantità di stoffa tale da poterli riadattare fino all’età adulta. «Mi piacerebbe una bella giacca, da abbinare un po’ con tutto».

«Guardiamo bene tutto il negozio prima di scegliere».

Restarono nel negozio così a lungo che Stella dovette telefonare a casa per dire che non tornavano per pranzo. Era chiaramente in pensiero per le reazioni che avrebbe suscitato, ma per fortuna le rispose zia Anna. La conversazione ebbe luogo in tedesco, e solo in seguito Louise venne a sapere che Stella aveva detto che avevano incontrato una loro compagna di scuola con la madre e che avevano insistito per invitarle a pranzo. «Perciò adesso, se vogliamo mangiare, dobbiamo andare al ristorante», disse Stella quand’ebbe finito. Avevano entrambe un discreto appetito, ma nessuna delle due voleva sprecare la propria preziosa indennità in cibarie. «E poi papà stasera ci offrirà una cena coi fiocchi», disse Stella. Gli acquisti durarono a lungo perché non riuscivano a decidersi, e inoltre ognuna concedeva all’altra tutto il tempo che voleva per provare i vari capi. Alla fine Louise comprò un abito di lana leggera di un verde chiaro simile a quello delle foglie, Stella una giacca coi bottoni d’ottone. Poi Louise decise di comprare anche i pantaloni di lino di un intenso color terracotta che aveva adocchiato poco prima e che costavano solo due sterline perché erano una rimanenza delle svendite invernali. «Sono dei Daks. Li ha disegnati Simeon Simpson», disse Louise con orgoglio. Le stavano davvero bene, pensò Stella con invidia. A suo padre sarebbe venuto un colpo se li avesse visti: non ammetteva che una donna portasse i pantaloni. Quando glielo disse, Louise replicò che anche sua madre li avrebbe probabilmente trovati ridicoli, ma che invece erano molto adatti a una persona destinata a diventare un’attrice. Stella allora decise di comprare le scarpe che desiderava da tempo, dei sandali rossi con grosse zeppe di sughero. «A casa non ne saranno entusiasti», disse. Ormai affamate, si comprarono due etti di cioccolata Rowntree’s Motoring e la mangiarono in autobus, tornando a casa.

«Che bella gita abbiamo fatto! Non c’è nessuno migliore di te con cui fare spese, Louise».

Louise arrossì di piacere a quel complimento, e rispose: «Vale anche per te».

Tornare in quell’appartamento fu come entrare in una caverna ignota, pensò Louise, con quell’atmosfera cupa e misteriosa, gli specchi incorniciati d’oro, i ciondoli di vetro colorato che pendevano lucenti dai lampadari veneziani le cui piccole lampadine illuminavano a giorno il lungo corridoio. Profumo di cannella, zucchero e aceto, e il profumo di Mrs Rose che pareva quasi avere una consistenza palpabile; dal soggiorno uscivano le note aeree e dondolanti di Papillon di Schumann.

«Papi non c’è!», esclamò Stella. Louise non capì da cosa lo avesse dedotto, ma il suo sollievo e la sua contentezza erano evidenti. «Dobbiamo mostrare i nostri acquisti a mia madre».

«Tutti?».

«Direi di sì, dal momento che papi è fuori. Lei va pazza per i vestiti!».

Mrs Rose era distesa sul divano avvolta in uno scialle di seta nera con sopra ricamati fantasiosi fiori dai colori vivaci. Aveva una frangia di seta lunghissima che s’impigliava dappertutto: ai lunghi orecchini – di un genere che la maggior parte della gente indosserebbe di sera, pensò Louise –, agli anelli che aveva alle dita, alla guarnizione a treccia del bracciolo del divano e alla costa del libro che stava leggendo. Si posò un dito sulle labbra e poi disse a voce bassissima: «Tuo padre è fuori!». Nella sua voce c’era lo stesso tono complice ed eccitato che aveva usato Stella. «Cos’avete mangiato di buono dalla vostra amica?».

«Oh, del pasticcio di pesce, niente di speciale. E un dolce di pane e burro». Si mise in ginocchio accanto a sua madre, la baciò più volte e le tolse il libro di mano: «Di nuovo Rilke! Lo conoscerai a memoria, ormai».

Peter smise di suonare. «Noi invece abbiamo mangiato la lepre e il cavolo rosso che cucina zia Anna. E anche quei pancake con le mele cotogne», disse. «Forza, vediamo cos’avete comprato».

«Vogliamo una bella sfilata di moda!», esclamò Mrs Rose.

«Non abbiamo comprato chissà cosa».

«Se tua madre non approva che porti i pantaloni, non le piacerà nemmeno che li porti io», disse Louise mentre s’infilava dalla testa il vestito di lana verde chiaro.

«È diverso. Comunque chi non approva è mio padre. Mutti è di vedute più ampie».

«Va’ prima tu».

«No, devi andare prima tu. Sei l’ospite».

In seguito Louise rifletté su quanto fossero diversi i Rose dalla sua famiglia. L’idea di sfilare in abiti nuovi di fronte ai suoi familiari – di fronte a sua madre – la faceva ridere, ma non rise. L’unica in famiglia con cui sarebbe stato possibile fare una cosa del genere era zia Zoë, che infatti, Louise lo sapeva, era criticata alle spalle perché badava tanto al suo aspetto e ai vestiti. Mrs Rose le osservò entrambe prima da lontano e poi da vicino, e disse: «Davvero carino», riferendosi all’abito verde, ammirò la giacca di Stella, non prese posizione riguardo ai pantaloni. Non le piacquero le scarpe di Stella, ma disse che anche a lei sarebbero piaciute alla sua età. Il contributo di Peter consistette nel suonare a mo’ di celia brani di musica che gli sembravano appropriati all’occasione: Greensleeves e la Marciamilitare per Louise, Chopin e Offenbach per sua sorella.

Poi tutti si ritirarono per un po’ di vero riposo prima vestirsi per la serata a teatro, che prevedeva, per la gioia di Louise, Rebecca,laprimamoglie con Celia Johnson e Owen Nares. «Seguito da cena al Savoy», disse Peter. «Spero che voi ragazze non vi siate abbuffate troppo a pranzo».

«Non troppo, no», replicò Stella. Quando tutti si furono ritirati, Stella sgattaiolò in cucina e prese del latte e qualche biscotto allo zenzero. Si stesero sui letti e si misero a leggere i libri che si erano regalate, cercando di far durare a lungo i biscotti.

Sdraiata sul letto vicino a Stella, Louise pensò a quanto era fortunata e a come, dopotutto, la guerra non avesse fatto dei grandi danni alla sua vita. «Una delle cose che preferisco dell’avere un’amica», disse, «è che con lei puoi fare tutto quello che vuoi e non devi per forza parlare».

Stella non rispose e Louise vide che si era addormentata. Allungò la mano e le accarezzò i bei capelli neri e soffici. Ti voglio bene, pensò senza dirlo. Era magnifico essere libera: uscire di casa, conoscere gente diversa che non faceva parte della sua famiglia. Poteva succedere qualunque cosa, pensava, qualunque cosa! E io voglio che accada, di qualunque cosa si tratti. Non voglio sposarmi, voglio dedicarmi solo a diventare l’attrice più brava che esista. Resteranno di sasso, a casa. Sarò l’unica dei Cazalet a diventare famosa. La sua famiglia era così mediocre! Non erano interessanti come i Rose. Si limitavano a infilare un giorno dietro l’altro senza che accadesse mai niente: non andavano all’estero, e se non fosse stato per loro lei avrebbe girato in lungo e in largo, per accumulare esperienze importanti. Invece no. Tutto quello che facevano i Cazalet era sposarsi, andare in ufficio e mettere al mondo figli. Non s’interessavano nemmeno lontanamente alle arti, con l’eccezione, dovette ammetterlo, della musica. Ma quando era stata l’ultima volta che sua madre aveva letto un dramma di Shakespeare? O di chiunque altro? Suo padre, poi, lui non leggeva affatto. Era incredibile come riuscisse a procedere nella vita senza alcun tipo di nutrimento intellettuale. Forse stava a lei salvare Polly e Clary da quell’arido deserto borghese. L’avrebbe fatto, non appena avesse raggiunto l’età giusta. Gli altri erano troppo piccoli, oppure ormai delle cause perse, come i suoi genitori. Con loro non si poteva avere una conversazione decente su un argomento di qualche importanza – come lo stato dell’arte teatrale, la poesia o anche la politica –, bastava considerare quante cose sapeva Stella di cui loro non avevano idea! Era pronta a scommettere che non avevano mai riflettuto sulle classi sociali, sulla democrazia e su quello che era giusto per la gente. Ma se le cose fossero andate davvero come pensava Stella, sarebbe stato un duro colpo per loro. Niente più servitù! Come se la sarebbero cavata senza i domestici? Almeno lei sapeva cucinare, cosa che non poteva dirsi di nessuno dei suoi parenti. Se davvero ci fosse stata una rivoluzione dei ruoli sociali, con ogni probabilità sarebbero morti di fame. Cominciò a provare per la sua famiglia una strana pena rabbiosa: era tutta colpa loro ma quel pensiero non avrebbe reso più sopportabile la batosta, come lei ben sapeva per averlo sperimentato in prima persona. Tuttavia, visto il vuoto totale in cui conducevano le loro esistenze, era probabile che fossero troppo storditi per accorgersi del cambiamento: per esempio, invece di innamorarsi in maniera viscerale e appassionata come era accaduto a Giulietta o a Cleopatra – che del resto era già vecchia quando si era innamorata di Antonio –, provavano gli uni per gli altri un affetto tiepido e incolore, perciò anche una gigantesca rivoluzione sociale sarebbe stata poca cosa ai loro occhi. Non avevano esperienza degli estremi; ecco, pensò, e quello invece è proprio il tipo d’esperienza che voglio fare io. Questo è il punto.

«Lo è solo in parte», le disse Stella mentre si passavano il deodorante sotto le ascelle dopo aver fatto il bagno. «Voglio dire, non puoi vivere costantemente al culmine della gioia o del dolore. E comunque tutti quelli che hai nominato sono morti per amore», aggiunse. «Ed è assurdo amare qualcuno al punto da morire».

«Hanno avuto sfortuna, tutto qui».

«La tragedia non è questione di sfortuna. La tragedia è quando non si prendono in considerazione tutti gli aspetti di un problema, di solito l’indole della persona. La tragedia proprio non fa per me».

Come al solito si ritrovò spiazzata dalle argomentazioni di Stella, che considerava la persona più intelligente che avesse mai conosciuto.

Si radunarono nel soggiorno per bere un bicchiere di champagne accompagnato da piccole tartine di pane tostato con del pesce salato sopra. Avevano tutti un’aria molto elegante: Peter e Mr Rose in giacca da sera, Mrs Rose in un abito romantico e svolazzante di chiffon nero pieghettato, Stella in un vestito di taffetà color vino con la scollatura quadrata e le maniche strette fino al gomito e Louise (profondamente grata a Stella che le aveva consigliato di portarsi un abito da sera) col suo vecchio vestito di seta color corallo che le fasciava bene i fianchi e aveva una specie di rinforzo sopra il sedere.

«Ma che splendide signore mi accingo a portar fuori stasera!», esclamò Mr Rose con tale enfasi che tutte si sentirono subito un po’ più belle. Peter fu mandato a chiamare un taxi, tutti s’infilarono cappotti e mantelli e le signore salirono in ascensore con Mr Rose. A Peter invece fu detto di andare a piedi. «Sorridi», disse il padre di Stella a Louise mentre erano in ascensore. «Perché?».

«Sono tanto felice», rispose lei senza pensare.

«La migliore delle ragioni», disse lui. In un certo senso deve essere un ottimo padre, pensò Louise.

In taxi, Peter si mise a stuzzicarle dicendo che si sarebbero di certo innamorate di Owen Nares, che faceva de Winter.

«E perché dovremmo, di grazia?», domandò Stella reagendo con stizza.

«Fa quest’effetto alle donne. Sono tutte pazze di lui. Anche le signore anziane, quelle col vassoio del tè posato sulle ginocchia».

«Allora bisogna che stia attenta anch’io», disse Mrs Rose, e subito suo marito le prese la mano e disse: «Per me, amica cara, non potrai mai essere vecchia...».

«Perché come quando il tuo viso io mirai prima, bello mi sembri...», continuò Louise.

«Va’ avanti».

Louise lo guardò e arrossì. «Hanno tre inverni freddi scosso dai boschi a tre estati il vanto...4». E recitò il sonetto fino alla fine.

Vi fu un breve silenzio ammirato, poi Mrs Rose si posò due dita sulle labbra e sfiorò le mani di Louise. Mr Rose disse: «Questo è avere cultura. Ecco di cosa parlo. Prendi nota, Stella. Tu non avresti saputo recitarlo fino alla fine».

E Stella disse: «Certo che no. Louise è straordinaria. Conosce Shakespeare praticamente a memoria».

E Louise, leggermente inebriata dal successo, ribatté: «Ma io so solo questo. Non è nulla rispetto a tutte le cose che sa Stella».

Ma con quella frase le sembrò solo di rinforzare l’ammirazione che aveva suscitato nei Rose.

Come se tutto questo non bastasse a darle il capogiro, scoprì che i suoi ospiti avevano riservato un palco, cosa che non le era mai accaduta prima. I suoi optavano di solito per la prima galleria, ma lei aveva sempre nutrito in segreto il desiderio di sedere ai primi posti, in platea. Ma un palco! Lusso e romanticismo insieme: il solo fatto di essere lì le dava un senso di importanza. Il suo posto era davanti, con Mrs Rose e Stella, e sulla mensola rivestita di velluto davanti a lei era posato un programma. Mrs Rose aprì un piccolo astuccio di cuoio da cui estrasse un grazioso binocolo da teatro in smalto rosa e, appena Louise manifestò la sua ammirazione, glielo offrì subito. «Guarda la gente che arriva. Certe volte è molto divertente», disse. Il binocolo era portentoso: riusciva a vedere l’espressione sulle facce delle persone mentre entravano nel teatro, cercavano il proprio posto, incontravano gli amici, ridevano, chiacchieravano... C’era suo padre. Suo padre? Era proprio lui. Aveva acquistato un programma, aveva detto qualcosa alla ragazza che li vendeva, la quale aveva replicato con un sorriso, e poi si era allontanato e aveva cinto la vita di una signora che lo stava aspettando. Indossava un abito nero molto scollato: Louise riusciva a vedere il solco fra i seni, e poi la mano si chiuse per un istante su uno di essi. La signora disse qualcosa e sorrise, lui chinò il capo e le diede un rapido bacio sulla guancia. Poi s’incamminarono per il corridoio che conduceva in galleria e si sedettero in terza fila. Tutto si fece confuso e si affrettò a guardare da un’altra parte. Avvertì una sensazione di gelo alla base del collo e per un secondo le parve di svenire, ma si sforzò di non farlo. Il desiderio di guardare ancora – non poteva essere davvero suopadre – faceva a gara col terrore di vedere di nuovo lei. Invece era lui. Ricordò quel che le aveva detto sua madre al telefono: «Papà non c’è, pare che non gli diano mai una licenza...». Non doveva assolutamente farsi vedere, ma come? Gli spettatori sui palchi erano sempre osservati. Per fortuna suo padre non aveva il binocolo da teatro, né prendeva quelli a pagamento perché diceva che erano inutili. Voltò lievemente il capo per guardarli ancora. Il binocolo ora lo aveva Stella, ma vedeva benissimo le loro teste vicine, chine sul programma. Si coprì metà della faccia con la mano e si voltò verso il palcoscenico. Nell’intervallo poteva proporre a Peter di prendere il suo posto in prima fila, e allora sarebbe stata in salvo, o almeno meno esposta di adesso. Fino ad allora però doveva restare immobile, con la mano a coprirsi il lato sinistro della faccia e comportarsi come se niente fosse. Perché l’altro rischio, se ne rese conto allora, era che i Rose si accorgessero che qualcosa non andava.

«Stai tremando. Hai freddo?», domandò Stella.

«Un po’. Potrei avere uno scialle in prestito?».

Peter le passò quello della madre, e Louise se lo mise intorno alle spalle anche se, per la verità, aveva caldo. «È solo che non vedo l’ora che inizi lo spettacolo».

«Eccoti accontentata», bisbigliò Mr Rose mentre le luci in sala cominciavano a spegnersi.

Il resto della serata si svolse come un brutto sogno, con la differenza che sembrò molto più lungo. Durante il primo atto si sforzò di prestare attenzione a quanto accadeva in scena, ma la consapevolezza che lui era lì in quello stesso teatro a guardare lo stesso spettacolo, al fianco di quella sconosciuta che doveva essere la sua amante (altrimenti perché mai avrebbe dovuto mentire a sua madre a proposito delle licenze?), era troppo sconvolgente per essere messa da parte. Nel primo intervallo qualcuno propose di andare a sgranchirsi le gambe, ma lei rifiutò – sarebbero di certo andati al bar della prima galleria, dove probabilmente ci sarebbero stati anche quei due – e disse che preferiva rimanere a leggere il programma. Così la lasciarono seduta in grandi ambasce in fondo al palco, a scartare l’uno dopo l’altro disperati progetti di fuga. Non aveva denaro con sé, perciò non poteva lasciare un biglietto e prendere un taxi per tornare all’appartamento dei Rose. Era improbabile che zia Anna avesse i soldi per pagarle il taxi, dal momento che non aveva potuto nemmeno permettersi di essere lì con loro. Né poteva dire che si sentiva male, perché allora qualcuno si sarebbe sentito obbligato ad accompagnarla a casa, e lei non se la sentiva di rovinare la loro serata con una bugia. No, ai Rose non doveva dire nulla. Le doleva la testa e doveva andare in bagno, ma non sapeva dove si trovasse e temeva di incontrare lui che tornava dal bar, perciò restò dov’era.

Fu un errore. Durante il secondo atto il bisogno si fece così urgente che non riusciva a pensare a nient’altro. Inoltre avevano insistito perché restasse in prima fila, e così temeva di causare troppo trambusto alzandosi per uscire, dato che Mr Rose e Peter avrebbero dovuto alzarsi per permetterle di aprire la porta del palco. Durante il secondo intervallo però non ebbe scelta, e Stella disse che veniva anche lei. Al bagno delle donne c’era la fila.

«Che momento, quando lei scende giù dalle scale col vestito di Rebecca!», stava dicendo Stella. «E anche quella vipera di Mrs Danvers non è affatto male, ti pare? Louise? Che ti prende?».

«Niente. È solo che mi scappa da morire». Indicò la porta del bagno.

«Oh, scusate. Vi dispiace? La mia amica sta per sentirsi male». Le facce delle presenti passarono da un’espressione di lieve disappunto a una di autentico allarme, e non appena uno dei gabinetti si liberò fu lasciato a Louise. Vi restò per un po’ di tempo perché, passato l’agognato sollievo, aveva cominciato a piangere sommessamente. Trovò il suo minuscolo fazzoletto da bambina e si asciugò gli occhi, poi tentò di soffiarsi il naso in un pezzo di carta igienica, che però non era del tipo che si prestasse a quell’uso.

Quando uscì, si trovò faccia a faccia con la sconosciuta. Si fissarono per una frazione di secondo: aveva gli occhi color giacinto e una piccola, singolare ciocca bianca che sfuggiva dalla pettinatura a corna d’ariete che andava tanto di moda. La donna le sorrise – aveva del rossetto color ciclamino sulla lunga bocca sottile – e la superò, diretta al bagno. Non poteva certo averla riconosciuta, ma Louise aveva colto un lampo di... sorpresa, interesse?, attraversare rapido quegli occhi stupendi. Stella venne fuori dall’altro bagno e Louise si affrettò a cambiare espressione.

«Va meglio?».

«Molto meglio». Non voleva parlare con Stella finché non fossero state fuori di lì. Adesso temeva di trovare suo padre che aspettava da qualche parte in corridoio. «Va’ prima tu. Ti raggiungo fra un minuto». E siccome il guardaroba era pieno di altra gente in fila, Stella acconsentì.

Louise uscì e guardò a destra e a sinistra, ma non le parve che lui fosse lì. «Sei stata grande a farmi passare avanti!», disse.

«Vero? Mi aspettavo che ti mettessi a fare dei versacci dentro al bagno per sostenere la mia versione, invece niente».

Stavolta, insistendo, riuscì a fare a cambio di posto con Peter, ottenendo anche un sorriso di ammirazione da Mrs Rose per la sua generosità, sebbene, pensò mortificata, si trattasse di tutt’altro.

Poi, terminata la rappresentazione, le venne il terrore di incontrarli fuori dal teatro, dove tutti si sarebbero affollati per prendere un taxi. Fu salva grazie all’oscuramento: era quasi impossibile vedere qualcuno tanto bene da riconoscerlo in viso. Dopo cominciò a preoccuparsi della possibilità di incontrarli al Savoy. Suo padre ci andava spesso dopo il teatro, perché alla mamma piaceva ballare. Scoprì allora che le era intollerabile pensare a sua madre, tradita e ingannata, che credeva alle sue bugie... o forse non ci credeva affatto? Magari sapeva tutto e soffriva, ed era proprio questo a rendere così difficili i rapporti con lei? Le era troppo penoso pensare a queste cose in presenza di tutta quella gente.

Quando arrivarono al Savoy e si sedettero al loro tavolo, dopo che ebbe perlustrato con lo sguardo la grande sala e verificato che i due non erano lì, decise finalmente di rilassarsi. Bisognava che si ricomponesse, che mostrasse di divertirsi: chiunque s’intendesse un po’ di recitazione sapeva che era possibile. Così si mise a chiacchierare, bevve tutto d’un fiato, senza pensare, il bicchiere di vino rosso che le fu versato e poi si accorse di non avere affatto appetito. Scelse del pollo freddo, che le parve il piatto meno impegnativo, e fu bonariamente presa in giro per una scelta così prevedibilmente inglese. Un paio di volte nel corso della cena sorprese su di sé gli occhi di Mrs Rose, uno sguardo furtivo e indagatore che la fece vacillare per un attimo nella sua messinscena, ma non si arrese: se sorrideva abbastanza non le avrebbero fatto domande. Lasciò quasi tutto il pollo, le fu offerto un gelato e quello riuscì a mangiarlo. Alla fine, pagato il conto e chiamato un taxi, uscirono sulla strada buia.

«Grazie davvero», disse. «Mi sono divertita tantissimo».

«No, no», fece Mr Rose, ma non sapeva dire se intendeva che non doveva ringraziarlo o che sapeva che invece non si era divertita per niente.

Solo il giorno dopo, sul treno diretto a scuola, Stella la interrogò.

«Che succede?».

«Non succede niente, Stella. Davvero».

«Oh, be’. Se intendi raccontarmi bugie, non ti farò altre domande. Se poi davvero non ti va di dirmelo, va bene anche così. Certo, mi dispiacerebbe, perché credevo che noi due ci raccontassimo tutto, ma comunque non ti farei altre domande. Allora?».

«Qualcosa c’è. Non posso dirtelo. Un po’ vorrei farlo», aggiunse. «Ma sento che sarebbe... sleale, ecco».

Stella tacque alcuni istanti. Poi disse: «Va bene. Se sei certa che non c’è niente che io possa fare».

«Nessuno può farci niente».

«I miei sono tremendamente in pensiero per te. Gli sei proprio simpatica. Sei la prima persona che porto a casa che fa loro una così buona impressione. Il che è una fortuna, altrimenti non mi avrebbero permesso di venire da te per le vacanze. Non vedo l’ora di vedere la tua casa in campagna e di conoscere tutto il clan!».

«Come sai che i tuoi erano in pensiero per me?».

«Me l’hanno detto, naturalmente. Del resto era ovvio. Perfino Peter si è accorto che qualcosa non andava, e lui non è famoso per la sua perspicacia».

«Oh». Provò un moto di sconforto al pensiero che la sua performance fosse stata tanto scadente.

«Mia madre ha pensato che non stessi bene o che ti stesse venendo il ciclo, mio padre invece si è messo a farneticare che dovevi aver subito qualche shock». Gli occhi grigio verde di Stella la osservavano con attenzione.

Louise non trovò di meglio che rifugiarsi nella rabbia. «Ho detto che non voglio parlarne! Accidenti!».

Quella sera chiese il permesso di telefonare a sua madre.

«Cara! Va tutto bene? È successo qualcosa?».

«Niente. Volevo solo sapere com’era andato il fine settimana con la nonna».

«È stato spaventoso, credimi. Non voleva lasciare zia Jessica che, poveretta, non ne poteva più. Aveva preso l’abitudine di svegliarsi in piena notte e chiamare Jessica perché voleva fare colazione. Poi, quando finalmente siamo riuscite a infilarla in macchina coi bagagli, si è messa in testa di andare a casa sua. E a Tunbridge Wells c’è voluta una vita per farla scendere dall’auto. Ho dovuto tenderle un trabocchetto: le ho detto che ci fermavamo lì a prendere il tè con delle persone. Non sai che pena, lasciarla lì...». La voce le si spense e Louise percepì lo sforzo che faceva per non piangere.

«Oh, mammina cara, è terribile. Mi dispiace tanto!».

«Sei stata molto cara a chiamare. Dicono che si ambienterà. Lo fanno tutti».

«E tu come stai?».

«Oh, sto bene. Sono tornata a casa, mi sono fatta un bel bagno abbondante, non i cinque centimetri d’acqua della Duchessa, mi sono versata del gin e adesso vado a prepararmi un uovo. Tu hai passato un bel fine settimana con la tua amica?».

«Bellissimo. Siamo andati a un concerto. E a teatro». Louise fece una pausa, poi, col tono più naturale che le riuscì, disse: «Notizie di papà?».

«Nessuna. A quanto pare lo fanno lavorare sodo. Dice che, essendo a capo della difesa, non può mai abbandonare l’aerodromo. Del resto, è quello che desiderava. La sua seconda scelta dopo la Marina, come zio Rupe».

«Capisco».

«Adesso dobbiamo riattaccare, cara, o andremo tutti in rovina. Ma grazie per aver chiamato. Hai avuto un bel pensiero».

Ma non era vero, non capiva affatto. Se poi questo migliorasse o peggiorasse le cose Louise non avrebbe saputo dirlo. I sentimenti che provava di solito per sua madre erano stati spazzati via da una terribile pena per lei. Se suo padre era caduto preda di una passione incontrollabile – cosa che non sarebbe dovuta succedere alla sua età! –, poteva accadere qualunque cosa! Poteva perfino chiedere il divorzio da sua madre e andarsene con quella donna. Si sforzò di pensare a qualche divorziato di sua conoscenza e alla fine le venne in mente quell’amica di mamma, Hermione Knebworth. Il suo divorzio era stato una cosa così fuori dal comune, e anche così brutta a quanto si diceva, che la gente evitava di parlarne; l’unica informazione che era riuscita a carpire a sua madre in proposito era che, secondo lei, non era stata tutta colpa di Hermione. La mamma però era diversa da Hermione. Non possedeva un negozio di moda, non aveva talento per gli affari e non se ne andava sempre in giro tutta elegante. Se suo padre avesse voluto divorziare, se l’avesse lasciata, che cos’avrebbe fatto? Per iniziare una carriera era di certo troppo vecchia. Le balenò in testa l’immagine di sua madre ridotta come la nonna dopo la morte del marito: tutto il tempo seduta su una grande sedia, sprezzante verso ogni gioia e desiderosa di essere già morta. La colpa sarebbe stata tutta di suo padre. Anzi, era già colpa sua. Si ricordò quello che le aveva detto zia Rach a proposito della sua età, quando ci si rende conto che i genitori non sono solo genitori ma persone e che avere a che fare con delle persone è assai più complicato che avere a che fare con dei semplici genitori. Ai genitori uno doveva semplicemente reagire, non doveva preoccuparsi per loro. Stavano lì e basta. Il che non escludeva che potessero farti passare dei brutti momenti, ma almeno, comunque andassero le cose, non dovevi sentirti responsabile per loro. Io non voglio essere responsabile per mio padre: lo odio, pensò. Ogni volta che andava con la mente a quella prima immagine dei due amanti a teatro, rivedeva la mano di suo padre sul seno di quella donna e riconosceva in quel gesto qualcosa che aveva sperimentato in altre occasioni, qualcosa a cui non voleva ripensare. E allora capì che, per quanto avesse cercato di reprimere quel sentimento o di non riconoscerlo come tale o di non pensarci, in verità l’aveva odiato da sempre, dopo quella sera in cui avevano tolto i denti alla mamma, poverina, e Louise era rimasta sola con lui e aveva sentito la sua mano sul suo seno. Perlopiù si era limitata a evitarlo: quando era presente sfuggiva il suo sguardo, rifiutava i complimenti, gli rispondeva male e lo ignorava, o meglio cercava di fingere di ignorarlo: in verità era sempre dolorosamente consapevole della sua presenza. Molti litigi con sua madre erano nati proprio dall’atteggiamento scostante che aveva nei confronti del padre, come quella sera terribile in cui erano andati a vedere LateJoys di Ridgway, il bellissimo spettacolo di varietà con Leonard Sachs nei panni di un uomo d’affari spiritoso e mondano, con un tipo bizzarro di nome Peter Ustinov nel ruolo di un cantante d’opera che raccontava di un frammento finora sconosciuto di una canzone di Schubert – ZissPoorCreatureisVeryFondofNymphs – e poi di colpo si metteva a cantare le tre battute che lo componevano. Era andato tutto molto bene e si erano fatti grandi risate. Ma poi erano andati al Gargoyle Club, suo padre le aveva chiesto di ballare e lei aveva rifiutato dicendo che non le piaceva ballare e che non se ne parlava proprio. Il padre era rimasto male e la madre era andata su tutte le furie. Alla fine avevano ballato loro due e lei era rimasta a guardarli in un angolo, in preda a un profondo disagio: avrebbe ballato con chiunque al mondo ma non con lui. L’episodio aveva rovinato la serata.

Per il resto del semestre, mentre imparava a fare la pasta choux, a disossare il pollo, a chiarificare il brodo e a fare un colloquio con una cameriera, mentre insieme a Stella leggevano libri e lei provava la sua parte per l’audizione e si lavavano i capelli a vicenda e inventavano battute che poi le facevano piegare in due dal gran ridere, mentre Stella le insegnava parecchie cose sull’inflazione che aveva colpito la Germania e sull’ingiustizia del Trattato di Versailles e sul perché non avesse senso essere pacifisti quando una guerra era già in corso («Va bene come atteggiamento preventivo, capisci», le disse. «Un po’ come le medicine alternative: una volta che hai un proiettile nella gamba, bisogna tirarlo fuori e basta») e a Louise girava la testa per lo sforzo di seguire le sue agili analogie, mentre faceva queste cose e viveva la sua amicizia, tornò spesso a quello che fra sé chiamava l’orribile segreto e si lasciava andare a fantasie, sogni a occhi aperti di lei che rimetteva a posto ogni cosa. Immaginava di andare da quella donna e dirle che lui aveva già una moglie e che perciò non avrebbe mai potuto sposarla, che era un bugiardo e che i bugiardi raccontano bugie a tutti e la prossima vittima sarebbe stata lei. Poi andava da suo padre e lo minacciava di raccontare tutto alla mamma se non avesse promesso di lasciare quella donna (queste, con delle variazioni, erano le sue principali fantasie), e poi il sogno a occhi aperti più bello di tutti: i suoi genitori che si abbracciavano felici, sorridenti, e le dicevano che dovevano solo a lei la loro felicità... come potevano ringraziarla? Era la figlia più matura e meravigliosa che ci si potesse augurare: sua madre le diceva anche che era bella, suo padre lodava il suo coraggio e la sua perspicacia... queste fantasie avevano il retrogusto amaro della cioccolata rubata: dopo avervi indugiato provava sempre un po’ di vergogna e di nausea.

Nonostante tutto, alla fine dell’ultimo semestre, si era in qualche modo assuefatta alla situazione e la prospettiva di avere Stella a Home Place, insieme a quella dell’audizione – ormai mancavano solo tre settimane –, le dava la sensazione che la vita, tutto sommato, non fosse poi tanto male.

2 Il Women’s Royal Naval Service (wrns) era il ramo femminile della Marina britannica, fondato nel 1917 e assorbito dalla Royal Navy nel 1993. Le militari erano chiamate comunemente wren. L’Auxiliary Territorial Service (ats) era la branca femminile del British Army. Fondato nel 1938 come corpo di volontarie, è esistito fino al 1949, quando è stato assorbito dai Women’s Royal Army Corps.

3 Louise cita Amleto, Atto iii, Scena i, in W. Shakespeare, Idrammidialettici, trad. it. di Eugenio Montale, Milano, Mondadori, 1977.

4 W. Shakespeare, Sonetti, Sonetto 104; trad. it. di Luciano Serpieri, Milano, BUR, 2004.