«È difficile dirlo. È diventato tutto rosso, ha tossicchiato e poi si è messo a fissare un punto davanti a sé, come se la cosa non lo riguardasse. Spero solo che non decida di andare a vivere in quella casa!».
«Non è una bella casa?».
«Oh, la casa va benissimo. Ma se ci trasferissimo lì, vorrebbe tenere tutte le cose della defunta zia e non mi permetterebbe di spostare niente. Quei quadri orripilanti, quattro per parete! E dappertutto quegli orrendi vecchissimi mobili vittoriani!».
Villy fu sul punto di dire: «Qualunque cosa è meglio della casa dove vivi adesso», ma sarebbe stato indelicato. Invece si alzò e riprese la bottiglia del whisky. «Ci vuole un altro bicchiere».
«Finirò per ubriacarmi!».
«Non importa. Domattina puoi dormire fino a tardi. Anche la mia è stata una giornataccia».
Jessica la guardò. In effetti aveva l’aria stanca. «Cara... che c’è?».
«Oh...». Forse è il momento buono, pensò, ma non so che idea si farebbe e poi non ho ancora deciso; del resto lei stessa non saprebbe che fare. «Oh, lo sai! Mamma e le sue tragedie. Organizzare le lezioni e i pasti, con le domestiche nervose perché non possono più sistemare il tavolo come viene più comodo a loro. Poi ho avuto una brutta telefonata con Edward dall’ufficio. Detesto litigare al telefono: lui non è lì davanti e può sbattere giù la cornetta in qualsiasi momento...». S’interruppe perché le tremava la voce. Jessica si alzò svelta e l’abbracciò.
«Villy, cos’è successo? Edward non avrà...». Si fermò. Non poteva essere lei a mettere sul tavolo una possibilità tanto terribile, doveva permettere a sua sorella di farle quella confidenza di sua volontà.
Ma Villy, esibendo quel sorriso da martire che l’aveva sempre fatta ammattire, disse solo: «Oh, non è stato niente. Io gli ho detto che domani vado in Lansdowne Road a prendere della roba e lui ha detto che ha già impegni per la sera, per cui non c’è ragione che io mi fermi la notte... Sono sfinita! Di sicuro lo sei anche tu, hai guidato per centocinquanta chilometri. E domani toccherà anche a me».
Jessica, mentre si scioglieva i capelli e si faceva le trecce per la notte, pensò che Villy aveva sempre fatto così: sembrava chiedere ascolto e solidarietà e poi, quando uno cercava di darglieli, si tirava indietro. Crede di apparire coraggiosa, ma in realtà ti fa sentire come se non ti ritenesse degna di confidenze serie. Ha preso da mamma: l’orgoglio e la convinzione che a lei tutto sia andato peggio che agli altri.
Una volta a letto però pensò che, se Raymond avesse avuto un’altra donna, anche lei avrebbe avuto grandi difficoltà a confessarlo a Villy, e allora si vergognò di esser stata tanto severa. A lei non sarebbe mai accaduto, certo: Raymond le era devoto in modo incondizionato. Si era preparata il letto e sapeva che era il momento di coricarsi, ma indugiò per un attimo, sorridendo al pensiero che presto avrebbe avuto lenzuola di lino o forse, se ne avesse volute, di seta. Angela sarebbe stata presentata in società come Raymond desiderava, sempre che ci fosse stata la stagione mondana. Che idea frivola! Doveva essere il whisky. Ma mentre la coscienza l’abbandonava, vide Nora partire per la scuola privata con il guardaroba interamente rinnovato, Judy che prendeva lezioni di equitazione e Christopher... quali erano i desideri di Christopher? Poteva avere ciò che voleva...
Villy si svestì in fretta, non desiderando altro che sprofondare nell’oblio del sonno, poi chiuse la porta e mise le due file di denti a bagno in un bicchiere pieno di Steradent che teneva molto vicino al letto (dormire senza dentiera era un lusso che poteva concedersi solo quando era sola), spense la luce e si ritrovò perfettamente sveglia, lucida e tesa. A ripercorrere più e più volte la conversazione al telefono e il modo in cui era finita. «Devo andare, cara. Mi cercano. Per la miseria, Villy, hai sentito cosa ti ho detto?». E lui aveva sentito cosa aveva detto lei? Qualcuno l’ascoltava mai? Qualcuno ascoltava mai qualcun altro? O erano tutti talmente assorbiti da se stessi da riuscire ad ascoltare solo ciò che li compiaceva? Non è il mio caso, si disse. Ho ascoltato Jessica stasera, e sono felice per lei. Finalmente, in un colpo solo, può smettere di fare economia su tutto! Che cosa le aveva detto di Edward quella sera, quando lei era stata sul punto di confidarle tutto? «Edward non avrà...». Bevuto, scommetto che voleva dire. Una supposizione tipicamente vittoriana. In questo ha preso proprio da mamma. Non le racconterei mai una cosa del genere. Edward beve spesso, ma per lui non fa la minima differenza: regge bene l’alcol, come suo padre. Bisogna che dorma, o domani sarò uno straccio. Ripassò le liste delle cose che doveva prendere da casa. Tutti i libri di testo per Miss Milliment, altre lenzuola, altri asciugamani eccetera. Un po’ di roba invernale per i bambini: a giorni avrebbe cominciato a far freddo, la casa non era riscaldata. La stufa elettrica che era nello sgabuzzino e le due a cherosene in soffitta. Aveva preso in considerazione una seconda visita da Bob Ballater, ma poi l’aveva scartata. Non ce n’era motivo: ormai era sicura e lui aveva già detto chiaramente che non poteva aiutarla. Hermione... Se scoppiava la guerra sarebbe diventato tutto più complicato, pensò. Potrei non riuscire ad arrivare a Londra o non trovare un pretesto valido per andarci. Sono in trappola, ecco. Prigioniera della situazione politica internazionale, delle opinioni altrui e del matrimonio. Non era nemmeno una di quelle persone che hanno bisogno di fare sesso di continuo. Potevo tranquillamente farmi suora oppure sposare uno di quei poveretti che hanno perso gli attributi in guerra. Non me ne sarebbe importato un bel niente. Avrei potuto adottare una delle sventurate creature di cui si occupa Rachel, un bambino rifiutato dai suoi genitori. Accese la luce, trovò il flacone delle aspirine e ne mandò giù un paio senz’acqua. La bocca le si riempì di un sapore amaro e asciutto, ma sapeva che così almeno si sarebbe addormentata.
* * *
«Sono dovuta venire adesso perché dopo ho lezione».
«Forza allora».
Polly si mise in ginocchio sul letto, abbracciò suo fratello e gli stampò dei baci sulla faccia piena di pustole. «Alitami in faccia».
Simon aprì la bocca e alitò con forza. «Sarebbe ancora meglio se ti leccassi la lingua».
«Ma che schifo! Tanto, se ci sarà la guerra, non avremo bisogno della varicella. Resteremo bloccati qui».
Polly rimase in silenzio. Lui si grattò distrattamente per un po’, poi disse: «Teddy si è comportato molto male. Non sono più suo amico».
«Simon! Che dici?».
«Sì! Ha rovinato una cosa che stavamo facendo io e Christopher».
«Che cosa?».
Simon seguitò a grattarsi per alcuni istanti, lottando contro il desiderio di raccontarle tutto. Non era fare la spia, perché Polly non era un’adulta; si annoiava a stare a letto e moriva dalla voglia di impressionarla. «Prometti di non dirlo, soprattutto ai grandi?».
«Certo. Mi chiedevo cosa stavate combinando. Clary e io vi abbiamo visto spesso fare su e giù, portando un sacco di roba. Non capivamo che razza di gioco fosse».
«Non stavamo giocando. Abbiamo piantato una tenda, nel bosco. Per scappare di casa».
«Scappare? E a che scopo?».
«Christopher odia stare a casa sua. È un obiettore di coscienza. Non crede nella guerra. Ma poi Teddy ha trovato la nostra tenda, l’ha saccheggiata e lui e Christopher hanno fatto a botte, e ora Teddy vuole essere il capo. Ma non sa che l’idea iniziale era scappare di casa».
«Simon, tu saresti scappato con lui?». Siccome Simon esitò, Polly aggiunse: «Sarebbe stata una crudeltà. Credo che mamma sarebbe morta dal dolore!».
«Lo so. E infatti non sarei fuggito davvero. Tanto ormai non posso farlo più. Ma per Christopher è diverso! Suo padre si comporta in modo terribile con lui e credo che sua madre abbia un carattere troppo debole per impedirglielo. Così Christopher ha pensato che era meglio andar via. È cominciata come una specie di gioco, poi è diventato una cosa seria... la storia della fuga, intendo. Io non l’ho detto a Teddy, anche se ha minacciato di torturarmi. Capito?».
«Ma tanto lo troverebbero, no? A un certo punto gli servirebbero cose come i cerotti o il dentifricio, e qualcuno lo vedrebbe quando va a prenderli».
«Abbiamo radunato di tutto. Era un campo vero e proprio, con provviste e scorte. Ma per Christopher non ha più senso andarci, Teddy lo troverebbe subito».
«Oh be’», fece Polly. «Gli toccherà lasciar perdere».
«Io non ci conterei. Probabilmente scapperà in un posto più lontano, e allora non lo troveranno di certo».
«Oh». Polly si fece silenziosa, poi gli disse di non grattarsi.
* * *
«Mamma! Che cosa mi metto? Apri la porta, mamma!».
Villy si svegliò di soprassalto. Si affrettò a mettersi la dentiera. In circostanze normali prima la sciacquava. Detestava il sapore dello Steradent.
«Che succede?».
«Che cosa mi metto per andare a Londra? La mia giornata in città», le ricordò lui in tono paziente.
Se n’era completamente scordata. Era stato deciso settimane prima che sarebbe andato a Londra in giornata, avrebbe pranzato con Edward al club e avrebbe passato il pomeriggio al cinema. L’idea iniziale era che andasse in treno, ma adesso naturalmente lo avrebbe portato con sé in macchina. Come mai ieri al telefono Edward non ne aveva parlato?
«Andiamo a vedere cos’hai», disse Villy.
Nella sua stanza regnava un caos totale, sebbene fosse perlopiù vuota. Il disordine si doveva in buona parte al fatto che il bastone della tenda si era staccato da uno dei supporti e pendeva di traverso sulla finestra, con la tenda ammucchiata sul pavimento.
«L’ho appena tirata e quello è venuto giù», spiegò Teddy quando vide sua madre guardare in quella direzione.
«Mettiti il vestito della domenica».
«Oh no, mamma! Mi sento uno scemo con quello addosso!».
«Bene. Allora cosa?».
Lui avrebbe voluto mettersi dei calzoni alla zuava di tweed di Harris, uguali a quelli che usava papà per giocare a golf, un panciotto giallo canarino come quello che usava il Generale per andare a cavallo e un cappello a cilindro grigio simile a quello che papà si metteva per andare ai matrimoni. Un paio di belle calze pesanti e scarpe color caramello. Fu inutile dirlo a lei. Era una vera frana in fatto di abbigliamento. Alla fine si accordarono su una soluzione ugualmente insoddisfacente per entrambi: calzoni grigi lunghi, una giacca sopra la camicia della domenica e poi una cravatta a foulard che gli aveva regalato Zoë a Natale, l’unico capo che gli piacesse tra quelli scelti, disapprovato invece da sua madre, che lo trovava troppo da adulti.
«Dove sono tutte le tue calze?».
«Le ho usate tutte per un esperimento», disse lui cupo. Era un argomento che non voleva approfondire.
«Mi accompagni alla stazione?», le domandò, dopo che lei gli ebbe preso un paio di calze di suo padre.
«Ti accompagno in macchina. Tanto devo andare a prendere della roba a casa».
«Bene! Allora vieni anche tu a pranzo e poi al cinema». Il suo evidente piacere a includerla nei suoi programmi la commosse. Le venne voglia di abbracciarlo.
«Non so se avrò tempo. Vedremo».
* * *
Christopher correva con le scarpe da ginnastica legate dietro il collo. Preferiva correre scalzo; considerava le scarpe un accessorio da usare solo per le emergenze, in caso di terreno davvero accidentato, cosparso per esempio di vetri o chiodi. Cardi e sassi non facevano né caldo né freddo ai suoi piedi callosi, e la sensazione dell’erba umida era così rinfrescante che avrebbe continuato a correre per ore. Stava percorrendo il solito tragitto verso il rifugio, solo che stavolta aveva la deliziosa consapevolezza che Teddy non sarebbe stato lì, che non sarebbe comparso all’improvviso a guastargli la giornata, ma se ne sarebbe rimasto tutto il giorno altrove. Aveva deciso di approfittare di quell’occasione per trasferire il campo; non poteva allontanarsi molto e aveva pensato di non portare con sé la tenda, per evitare che Teddy gli si mettesse alle calcagna, così prese solo lo stretto necessario lasciando il resto dov’era. Ma anche così c’era un sacco di roba da portare, e doveva pure decidere una volta per tutte dove stabilirsi. La meta più ovvia era l’altro versante del bosco, vicino allo stagno, almeno finché non avesse trovato un altro sito dove fosse presente dell’acqua. Il fatto di essere in grado di individuare l’acqua con il solo aiuto di un ramo di nocciolo era certamente un discreto vantaggio, ma del resto una cosa era trovare l’acqua, altra era scavare per portarla in superficie. Tuttavia il suo potere di rabdomante non cessava di stupirlo e affascinarlo: non aveva mai visto fare una cosa del genere, per tutti quegli anni il dono era stato nascosto in lui, intatto e sconosciuto. Chissà cos’altro sarebbe stato capace di fare. E chissà se esisteva un libro che elencasse i possibili poteri magici, in modo da controllare se ne aveva degli altri. Ma adesso non aveva tempo per verificare ipotesi. L’oggetto più difficile da trasportare, adesso che Teddy era via, era il telone impermeabile, e se non prendeva la tenda almeno quello era necessario. Vi si sarebbe avvolto per dormire in caso di pioggia, e già adesso il cielo sembrava prometterne. Era grigio, non si muoveva una foglia e c’era una nebbia lattiginosa; gli alberi si erano tinti di giallo oro e caramello. Le bacche di brionia passavano dal verde al rosso, i falsi frutti della rosa e i biancospini erano già maturi, le prugnole erano nere sotto la loro patina color lavanda intenso. Era un peccato che non fossero buoni da mangiare, ma almeno c’erano ancora i mirtilli, e i castagni erano carichi dei loro frutti nascosti dentro piccoli porcospini verdi. Erano ottimi arrostiti. Mentre si avvicinava al bosco vide un airone planare basso su una delle aree paludose che si estendeva su un lato: cacciava rane. Se gli uomini avessero dovuto impiegare le proprie energie per procurarsi il cibo come gli animali, non avrebbero avuto il tempo per inventare bombe e aeroplani. La semplicità e la verità di quel pensiero lo colpì tanto che sentì di doverlo diffondere, magari scrivere una lettera al «Times» oppure al primo ministro, che gli pareva una brava persona, per niente incline alla guerra. Ormai era arrivato all’accampamento: il torrente, l’isoletta, la riva ricoperta di muschio, ogni cosa gli dava un senso di casa. Ma non poteva esserlo. Aprì la tenda, strisciò all’interno, trovò un biscotto stantio e il suo quaderno e si mise al lavoro sulla sua lista di beni essenziali.
* * *
«...e poi all’una deve andare a pranzo con Mr Teddy».
«Santi numi, è vero! Me ne ero completamente scordato, Miss Seafang». Il suo sorriso aveva quella sfumatura che diceva: «Non so cosa farei senza di lei, Miss Seafang» che non mancava mai di scaldare il cuore alla segretaria.
«Mi dia dieci minuti prima di far entrare Hoskins».
«Molto bene, Mr Edward».
Gesù, sto proprio invecchiando, pensò Edward. Pranzare con Teddy voleva dire non poter andare al molo subito dopo, perché Teddy sarebbe voluto andare al cinema o a qualche spettacolo diurno e poi magari a prendere il tè da Gunter. E il suo piano era di andarci presto e poi, già che era di strada, scappare e Wadhurst e portare Diana a cena fuori. Era riuscito a levarsi dai piedi Villy, di sicuro ferendola, ma adesso si trovava in un bel pasticcio. Allontanò la sedia dalla scrivania e vi piazzò sopra entrambi i piedi, una posizione in cui riusciva a pensare meglio. Io almeno non suono il violino, si disse riferendosi a un eccentrico fratello minore del Generale che era venuto a lavorare nell’azienda di famiglia anni prima e che nelle ore d’ufficio non faceva che suonare il violino. Quando il Generale gli aveva fatto notare che la cosa non giovava molto agli affari, lui aveva replicato che sua moglie non voleva che suonasse in casa. Adesso viveva di rendita da qualche parte su al Nord. Quello era stato il suo ufficio, e in mezzo alle grandi noiose fotografie di uomini in pose fiere – ma comunque meschini in mezzo a tronchi enormi – c’era ancora un’immagine un po’ sfocata a cui Edward era segretamente affezionato, che ritraeva Szigeti in piedi col violino.
Ma ora aveva un problema da risolvere. Portare Teddy al molo? No, da lì non poteva riprendere il treno. E se fosse andato al molo subito dopo aver parlato con Hoskins? Meglio. Prima però doveva telefonare a Diana.
Non andò bene. Gli disse che era riuscita a trovare qualcuno che badasse al piccolo per tutto il giorno e che sarebbe venuta in città. Potevano vedersi a pranzo? Poteva almeno raggiungerla a casa sua più tardi, ma non troppo tardi perché poi lei doveva rientrare? Si accordarono per vedersi lì verso le sei, avrebbero cenato presto e poi lui l’avrebbe riaccompagnata. Avrebbe potuto proseguire fino Mill Farm e fare una sorpresa a Villy. Fece uno squillo a Miss Seafang perché facesse entrare Hoskins.
* * *
Quando Mr York andò a casa Cazalet per portare il latte, quel mattino, portò anche una lettera. Non ne scriveva una da quando sua madre era morta – a quei tempi non c’era ancora il telefono – e così, quando aveva tirato fuori l’occorrente per scrivere, aveva trovato il pennino arrugginito e l’inchiostro rinsecchito nella bottiglietta. Dovette chiederlo in prestito a Enid, che invece scriveva in continuazione: una lettera alla settimana, il che voleva dire un mucchio di soldi per i francobolli, dato che le lettere andavano spedite per posta affinché arrivassero a Broadstairs. Facevano cinquantadue pence all’anno, come spesso le ricordava. Poi gli toccò riflettere su cosa scrivere, e constatò con sconcerto che il foglio gli si sporcava d’inchiostro mentre rifletteva. Dovette cambiarne diversi. Alla fine decise di usare la matita con cui segnava le pinte di latte che consegnava ai Cazalet, per fare almeno una minuta.
L’inchiostro di Enid era viola – roba da donne – e decise di usare un tono molto serio e sbrigativo, per compensare.
«Gentile signore», esordì evitando di dover scrivere quel lungo e complicato cognome, «per quanto riguarda la terra sul retro delle case, posso vendergliela a sessanta sterline l’acro. Per quanto riguarda le case valgono gli accordi già presi. In totale fanno cinquecentosessanta sterline. Cordiali saluti, Albert York».
Mancava la data. Doveva essere il ventisette, perché quel giorno Arthur veniva a prendersi il vitello rosso, perciò scrisse quella data sull’ultima riga del foglio. Le buste si erano incollate e dovette aprirne una col vapore. Inoltre erano della misura sbagliata e dovette piegare più volte il foglio per riuscire a infilarcelo. Poi venne il momento di scrivere l’indirizzo, ma la cosa era del tutto superflua dal momento che avrebbe consegnato la lettera a mano, così scrisse solo: «Mr William». Quando ebbe finito erano quasi le dieci. E il tempo era pur sempre denaro.
Fece una breve sosta al gabinetto, che si trovava sul retro in fondo a un breve sentiero di mattoni. C’era odore di sedano dei prati, di urina e di disinfettante, ma almeno di sera non c’erano mosche. Quando uscì annusò l’aria: c’era vento da ovest, presto avrebbe cominciato a piovere. Si ripromise di far venire Dick Cramp, uno dei fratelli di Edie Cramp, perché lo aiutasse a spostare la paglia dal campo esposto a sud, prima che iniziasse il temporale. Poi spense la grossa lampada a olio della cucina e se ne tornò in camera al buio. Assoldare Dick gli costava meno che perdere la paglia. Cinquecentosessanta sterline! Il vecchio si era lasciato fregare. Poteva avere quelle case per molto meno, e se non avesse chiesto di più per la terra l’altro lo avrebbe capito. Era un forestiero, dopotutto. Non era della zona, va bene. Ma certo coi soldi non ci sapeva proprio fare.
Così la mattina successiva prese la lettera, se la infilò nella tasca del panciotto e la consegnò a Mrs Cripps, che la diede a Eileen perché la mettesse sul piatto di Mr Cazalet a colazione.
* * *
Teddy sedeva dritto tra i suoi genitori nella sala da pranzo riservata agli ospiti del club, con in mano un elegante menu che recava il guidone dello Yacht Club inciso in cima. C’era un’amplissima scelta per tutte e tre le portate: gamberi in salsa e salmone affumicato come antipasto (c’era anche zuppa, che noia... si domandò chi mai potesse ordinarla), e poi cotolette d’agnello, pasticcio di cacciagione, bistecca e un vasto assortimento d’insipide verdure, ma anche treacle tart, torta di mele e more, gelato. Alla fine optò per il pasticcio di cacciagione e i gamberi in salsa, perché dire agli altri ragazzi che il pasticcio di cacciagione al club di suo padre non era per niente male gli sembrava più mondano che dire lo stesso a proposito di cotolette d’agnello o bistecche. Non ci sarebbe stato bisogno di menzionare la treacle tart, che pure adorava: si sarebbe inventato di aver ordinato un qualche tipo di pudding. (La prima sera in collegio, dopo che le luci erano state spente, aveva luogo una lunga disamina delle leccornie consumate durante le vacanze, seguita in genere da commenti sagaci sul conto che era seguito). Fu un pranzo magnifico. Per una volta i suoi genitori lo tennero in considerazione e non s’immersero in qualche noiosa conversazione che a lui non poteva in nessun modo interessare; anche se, con tutta quella buona roba, probabilmente quella volta non ci avrebbe fatto molto caso. I gamberi in salsa furono serviti dentro una pasta al burro gialla, accompagnati da tre sottili triangoli di pane tostato, posati su un piattino e coperti da un tovagliolo bianco, solo per lui. Il pasticcio somigliava a un fetta di torta: fuori una crosta croccante, di un marrone brunito, e dentro, sotto un centimetro di deliziosa pasta bianca meno cotta, uno strato di soda gelatina marrone chiaro con pezzetti di carne di cacciagione, succosa e con un delizioso retrogusto selvatico. Gli furono serviti anche due bicchieri di sidro. La conversazione, come sempre con gli adulti, fu dominata dalle loro sciocche domande. «Come hai passato la mattinata?», gli chiese per l’appunto suo padre.
«Ho aiutato mamma a caricare la macchina. La nostra casa verrebbe rasa al suolo, se ci cadesse sopra una bomba?».
«Direi di sì, se la bomba fosse diretta proprio lì sopra».
«Allora per sicurezza porterò via la mia collezione di carte delle sigarette», disse. «Però è eccitante, vero? Io e mamma abbiamo visto che scavavano delle buche in Hyde Park. Non vorranno mica combatterla al parco, la guerra, vero? Se tu potessi arruolarti, voglio dire, se non fossi troppo vecchio, in quale corpo andresti? Io andrei nell’Aeronautica. Hanno un aereo nuovo fantastico. Si chiama Spitfire e va a trecento all’ora! Aspetta...». S’interruppe. «Forse addirittura cinquecento... comunque è l’aereo più veloce del mondo. Se non fossi troppo vecchio andresti anche tu nell’Aeronautica, papà?».
«Andrei in Marina. E non sono troppo vecchio».
«E mamma potrebbe fare l’infermiera», disse ansioso di includerla (visto che non se l’era presa troppo per la questione delle calze).
«Oppure potrei diventare una Wren6», suggerì Villy.
«Che roba è? Oh, grazie». Una cameriera gli aveva portato dell’altra panna.
«È la Marina femminile».
«Oh, secondo me sarebbe meglio se facessi l’infermiera», aggiunse in tono gentile. «Non credo che le donne dovrebbero andare sulle navi. Tu che ne dici papà? Le gonne in un sottomarino sarebbero una follia...». Allargò le braccia e rovesciò il sidro. «Mi dispiace!».
«È tutto a posto». Una cameriera venne ad asciugare il sidro versato, e Edward, vedendo che Teddy era piuttosto agitato, prese la parola: «Stamattina un tizio che lavora per noi è venuto a dirmi che si arruolerà nell’Aeronautica. È un tipo molto in gamba, sentiremo la sua mancanza».
«Però è quello che bisogna fare, no? Papà, se scoppia la guerra, credi che durerà abbastanza perché anch’io possa arruolarmi?».
«No di certo», rispose bruscamente Edward, incrociando lo sguardo di Villy.
«Possiamo prendere il caffè vicino alla porta?», domandò Villy. «Vorrei fumare».
«Sono le due passate. Puoi farlo anche qui se vuoi. Oppure possiamo andare vicino alla porta. Tu hai finito, Teddy?».
«A quanto pare sì». Poiché quella risposta non fece sì che gli ordinassero un’altra porzione di treacle tart si alzò insieme a loro e li seguì nella stanza dove avevano bevuto l’aperitivo prima di pranzo. Mentre l’attraversavano, un uomo molto anziano dal volto paonazzo e i capelli bianchi rivolse la parola a Edward: «Stasera ci sarà un comunicato di Chamberlain. Diremo la nostra... alla buon’ora! Il tuo ragazzo?».
Teddy fu presentato e si rivolse allo sconosciuto con l’appellativo Sir, dato che era vecchissimo.
«C’è anche la tua signora! Come stai, cara? Lascia che ti offra del porto. Lo devo a tuo marito. La scorsa settimana mi ha umiliato al biliardo».
Mamma non prese il porto, ma papà sì e gliene fece assaggiare un po’. «Ho bevuto anche del porto», avrebbe raccontato agli altri. «Non era per niente male!».
Bevvero del caffè di colore grigio da tazzine con rose gialle dipinte sopra, e Teddy cominciò a pensare che era ora di andare al cinema, ma all’improvviso mamma e papà s’imbarcarono in una di quelle discussioni di tipo pratico in cui non erano mai d’accordo su nulla. Venne fuori che mamma non sarebbe venuta con lui a vedere Scarface7, perché aveva troppe cose da fare, e papà doveva tornare al lavoro subito dopo la proiezione, così discussero per un’eternità di come sarebbe tornato nel Sussex. Poteva benissimo prendere il treno da solo, ma mamma insisteva che, se papà lo avesse accompagnato in macchina, lei avrebbe potuto caricare molta più roba da portare in campagna. Papà non sembrava molto incline a questa soluzione e alla fine fu deciso che Teddy avrebbe preso la metropolitana da Oxford Circus fino a Holland Park e si sarebbe incontrato con mamma alle sei, il che voleva dire che non ci sarebbe stato tempo per la merenda. Lo fece presente e tutto quello che sua madre riuscì a dire fu: «Ma se hai appena finito di ingozzarti!», come se questo c’entrasse qualcosa. Li lasciò che discutevano e andò in bagno, per trovarli al suo ritorno che non avevano ancora cambiato argomento. Quando se ne andò, mamma sfoderò quel suo sorriso allegro che tutto sembrava fuorché un sorriso e disse: «Divertiti!». Poi gli diede un bacio, cosa che le aveva chiesto mille volte di non fare in presenza di estranei, e quella sala era piena di gente. Dopo che fu andata via, si strofinò la faccia nel punto dove poteva avergli lasciato delle tracce di rossetto, e papà disse: «Bene! Adesso faccio una capatina in bagno, e poi sono tutto tuo», e tutto tornò facile e bello.
* * *
«Non ha importanza se non è domenica. Dobbiamo continuare a pregare».
«Non possiamo farlo in camera nostra?».
Nora scosse la testa.
«Conta di più se organizziamo una funzione. E poi più siamo e meglio è».
«Neville, Lydia e Judy hanno lezione».
«Va bene, non possiamo farci niente, ma Polly può venire. E anche Clary e Christopher. E anche Teddy, credo».
«Teddy è a Londra».
«Oh, capisco. Le cameriere allora».
«Le cameriere?».
«Siamo tutti uguali agli occhi di Dio», l’ammonì Nora con severità.
«Pensa che noia, poveretto».
«Louise, se ti azzardi di nuovo a fare dello spirito su una cosa così seria, non ti rivolgerò mai più la parola!».
«E va bene. La mia personalità ha molte sfaccettature, tutte le vere attrici sono così... non puoi aspettarti che siano tutte perbenino!».
«Se facciamo la funzione dopo la merenda potranno venire anche i piccoli e Miss Milliment».
«Ci mancano solo le nonne. E le due prugne secche». Era il nomignolo segreto che avevano affibbiato alle prozie.
«E perché no? Tutti dovrebbero avere la possibilità di partecipare. Chissà, può darsi che la Duchessa ci permetta di farla in salotto, così potremmo usare il pianoforte per gli inni».
Trascorsero il pomeriggio a organizzare la funzione, coinvolgendo anche Polly e Clary. La Duchessa concesse di buon grado l’utilizzo del salotto, a condizione che prendessero le sedie in sala da pranzo e poi le rimettessero a posto. Polly realizzò eleganti cartoncini d’invito e Clary li consegnò. «Devo darne uno anche a Mr Wren?», domandò preoccupata. Circolavano storie a proposito di Mr Wren, del colore della sua faccia e delle sue grida quando qualcuno disturbava il suo sonnellino pomeridiano nel fienile. «Lasciaglielo sopra i bidoni del mangime. Dovrà vederlo per forza».
«Ma io non credo in Dio», fu la replica di Evie quando Clary la trovò su un’amaca e le diede l’invito.
«Oh be’, non credo che tutti gli invitati siano credenti. Però credi nella pace, no?». E vedendo che Evie non era convinta nemmeno di questo la incalzò: «Immagino che almeno non ti piaccia Hitler... è lui quello che vuole la guerra».
«Certo, Hitler non mi piace. E va bene, hai vinto. Ci vengo».
Mrs Cripps disse: «Questa poi!», e aggiunse: «Grazie tante, ma non posso lasciare la cucina». Zia Jessica disse che sarebbe andata a prendere Grania in macchina. Papà stava dando lezioni di guida a Zoë e, quando la macchina si fermò sul vialetto, disse che sì, loro due sarebbero venuti senz’altro. Zia Sybil disse che partecipava volentieri, ma avrebbe dovuto portare con sé William. Le uniche due persone che non riuscì a trovare furono zia Rachel e Sid, che erano andate in piscina a St Leonard (un po’ scortese da parte loro, pensò Clary, non invitare i ragazzi, che di certo ci sarebbero andati con entusiasmo), e Christopher, che non si era fatto vedere per tutto il giorno. Mr McAlpine, che stava piantando i porri, s’interruppe per prendere l’invito e lo fissò inebetito per un certo lasso di tempo, così Clary gli disse cosa c’era scritto e lui scosse la testa restituendoglielo. Però sorrideva: evidentemente gli aveva fatto piacere riceverlo. Nel complesso l’iniziativa andò benone.
Nel pomeriggio piovve molto, con grande rammarico di Christopher e grande gioia dei porri. La pioggia mandò all’aria la nuotata che lo specialista di Tunbridge aveva prescritto a Rachel per la sua schiena, ma permise a Sid di passare un intero pomeriggio insieme a Rachel senza il rischio di veder spuntare Evie. Sid era alla guida della macchina di Rupert e disse che, con Rachel seduta accanto, avrebbe potuto andare avanti fino ai confini del mondo. «Sei talmente brava a guidare», disse Rachel. «Vorrei che mi permettessi di regalarti un’auto». Ma sapeva che Sid non voleva. «Un giorno o l’altro me ne comprerò una», diceva, e l’orgoglio la spingeva a usare il tono di chi finora non l’aveva fatto solo perché non ne aveva avuto il tempo. Dovevo comprargliela e basta, senza stare a parlarne, si rimproverò per l’ennesima volta Rachel mentre osservava il profilo severo di Sid: la fronte alta e un po’ sporgente, il sottile naso aquilino (come quello di un pellerossa, aveva commentato Sid la prima volta che Rachel lo aveva notato), la bocca larga dalle labbra sottili e ben disegnate, il collo eretto sopra il colletto con la cravatta annodata. Guidava con cautela, evitando gli scossoni. A St Leonard c’era una grande piscina all’aperto; a Rachel non piaceva l’idea di arrancare sui ciottoli della spiaggia di Cooden. Ma durante il viaggio il cielo passò da un innocente grigio chiaro a un blu livido e poi cominciò a piovere all’improvviso. Così alla fine andarono a vedere Le sei mogli di Enrico viii e presero il tè in una sala. Un pomeriggio incantevole, disse Rachel nonostante il film non le fosse piaciuto molto, se si escludeva Merle Oberon nel ruolo di Anna Bolena nelle prime scene. A Sid invece era piaciuta molto l’interpretazione di Charles Laughton.
«Non è strano? Ogni giorno viviamo sapendo di essere sull’orlo di un baratro, eppure continuiamo a fare tutto come se niente fosse». Prese la sigaretta che l’altra le porgeva e si allungò verso di lei per accendere. «Voglio dire... siamo qui, in una sala da tè, a mangiare pane tostato e pasticcini ripieni».
«Be’, mia cara, che altro potremmo fare? Nessuno di noi ha la più piccola possibilità di incidere sulla situazione».
«Intendi dire che non l’abbiamo mai avuta? O che magari l’avevamo, ma abbiamo eletto le persone sbagliate?».
«Non credo si tratti di questo. Il clima generale è nefasto: pregiudizi, ignoranza, compiacenza...».
«Ti riferisci a noi, ai tedeschi o a entrambi?».
«Oh, i tedeschi si trovano in una posizione diversa. Se la sono vista talmente brutta che volevano un cambiamento a tutti i costi».
«Credi vogliano davvero la guerra?».
«Credo che se la aspettino. La gente non lascia la propria casa e il proprio paese per nulla».
«Di chi stai parlando?».
«Degli ebrei», replicò Sid guardandola intensamente alla ricerca di un qualunque segnale di condiscendenza o disprezzo, e sperando di non trovarne.
«Ma questo non è accaduto! Non ne ho mai sentito parlare».
«Stanno lasciando la Germania dal ’36, diretti qui o negli Stati Uniti».
«Solo perché ne hai conosciuto qualcuno non vuol dire che...».
«Naturalmente. È un numero modesto a paragone di quelli che sono rimasti. Ma è un segno. Se io dovessi valutare la situazione, è un fattore che terrei in grande considerazione».
«Ma... Sid cara... questo è perché tu...». Cercò la formula migliore per dirlo. «Perché tu...».
«Perché sono mezza ebrea?», finì la frase Sid. «Forse hai ragione. Magari non si tratta di semplice buon senso, ma di semplice paura».
«Ora non ti seguo più».
«Be’, non importa». Di colpo si pentì di aver iniziato quel discorso: rischiava di diventare una conversazione urticante, piena di trappole che proprio non si sentiva in grado di affrontare con una persona che amava tanto.
Ma Rachel si sporse verso di lei e le prese la mano. «Sid! Non capisco, ma ti ascolto. Voglio sapere quello che provi».
Va bene, pensò Sid, ci siamo. E fece un bel respiro.
«I tedeschi hanno patito la guerra tanto quanto l’abbiamo patita noi. E in più si sono trovati indeboliti, umiliati, privati del loro esercito, costretti ad affrontare la crisi economica e un’inflazione incontrollata. E poi arriva uno che promette di restituirgli l’orgoglio nazionale, l’identità perduta. Un leader, e come tutti i leader un maniaco del potere, intenzionato a costruire un regime autocratico. Li arma, gli dà lavoro, le cose cominciano a funzionare e gli sembra che non ci siano limiti a quello che può fare. Adesso non è più solo un leader ispirato, ormai il suo potere è assoluto e l’unico modo per conservarlo è fare altre conquiste, portare a casa il bottino: la regione dei Sudeti, l’Austria. Ma un altro metodo che usano i tiranni per tenere uniti i sudditi è dar loro un nemico comune. E c’è sempre qualche minoranza razziale o religiosa in seno alla popolazione da usare a questo scopo: slavi, cattolici, hai capito di cosa parlo. Io credo che stavolta tocchi agli ebrei: due piccioni con una fava, potremmo dire. Il clima è quello giusto».
«Che intendi per clima giusto? Come fai a sapere cosa pensano i tedeschi degli ebrei?».
«Non lo so. Ma so cosa pensa la gente qui, e questa è una democrazia, non c’è un dittatore invasato al potere. Qui c’è un antisemitismo maturo. Si esprime con battute, condiscendenza, discriminazione ed eccezioni alla regola. “Di solito non mi piacciono gli ebrei, ma tu sei un’eccezione”. È così che funziona il pregiudizio. Oh, sì, e poi accusarci di manie di persecuzione quando ce ne accorgiamo e ne soffriamo! Siamo i capri espiatori ideali». Era passata al noi, e questo la faceva sentire meglio. «I mezzosangue spesso vedono più lontano».
Rachel la guardava senza parlare. Alla fine fu Sid a distogliere lo sguardo e Rachel disse: «Ti amo. Ti amo moltissimo».
Sid le accarezzò il viso con le dita. «E io ti amo, tra le altre cose, perché non ti sei messa a discutere».
«Non potrei. Quello che hai detto è tutto vero».
Quando uscirono dalla sala da tè e si ritrovarono in strada, Rachel cinse col braccio la vita di Sid e camminarono così per un buon tratto. La gente le guardava con curiosità, una coppia per poco non andò a sbattere contro di loro, ma Rachel non accennò mai a ritirare il braccio.
* * *
L’apparecchio radio del Generale venne spostato dallo studio al soggiorno, in modo che ci fosse spazio per tutti coloro che volevano ascoltare il comunicato del primo ministro. La questione di chi dovesse essere ammesso divideva gli animi: la Duchessa riteneva che non fosse un ascolto adatto ai bambini e Lady Rydal non lo riteneva adatto neppure alle ragazze. Nessuna delle signore anziane considerava necessaria la presenza dei domestici, ma Rachel e Sid andarono a prendere l’apparecchio che si trovava a Mill Farm e lo installarono nella saletta della servitù a Home Place. A Tonbridge fu assegnato il compito di metterlo in funzione, e la cena fu fissata a un orario che permettesse a tutti di ascoltare la trasmissione. Le sedie che erano state adoperate per la funzione (che era stata un successo, almeno fino al momento in cui Nora aveva invitato i presenti a promettere di rinunciare a qualcosa a cui tenevano in cambio della pace) furono sistemate nella stanza in modo che tutti, o quasi, avessero dove sedersi. I ragazzi, tranne i più piccoli e tranne naturalmente Simon, alla fine furono ammessi, si sedettero sul pavimento e ricevettero dalle madri la raccomandazione di starsene buoni e zitti per tutta la durata del discorso di Mr Chamberlain. Nessuno parlava. Rupert, seppur preoccupato quanto tutti gli altri se non di più, dal momento che lì dentro era l’unico nell’età e nelle condizioni di poter combattere, era tuttavia così affascinato dalla vista di tutta la famiglia riunita in silenzio che gli venne l’idea di ritrarli in un quadro. No, non sarebbe stato opportuno: nella visione dei Cazalet, l’arte aveva un suo posto e doveva limitarsi a quello.
Si concentrò dapprima su sua madre: la Duchessa sedeva dritta con gli occhi fissi sull’apparecchio radio, come se Mr Chamberlain si trovasse lì davanti e si stesse rivolgendo a lei personalmente. «Che situazione terribile, bizzarra, incredibile trovarsi a scavare trincee e distribuire maschere antigas per via di un dissidio in un paese remoto tra gente di cui non sappiamo nulla!». Guardò sua sorella distesa sul divano, con Sid seduta sul bracciolo accanto ai suoi piedi. Gli parve si guardassero, ma poi Sid le porse il posacenere perché potesse spegnere la sigaretta. «Non esiterei a fare un secondo viaggio in Germania se ritenessi che potesse essere di qualche aiuto». Guardò Polly e Clary sedute fianco a fianco sul pavimento abbracciandosi le ginocchia: Polly aveva l’aria cupa e si mordeva il labbro; Clary, sua figlia, guardava la cugina e piegò le ginocchia in modo da toccare quelle di lei. Polly alzò gli occhi e il viso di Clary fu attraversato da un rapido sorriso così pieno di affetto e di incoraggiamento che Rupert fu abbagliato dalla sua bellezza e dovette abbassare lo sguardo. Quando lo risollevò c’era la solita Clary con gli occhi fissi sul pavimento. Si era perso un passaggio del discorso. «Personalmente sono un uomo di pace, nel profondo dell’anima. Ho orrore del conflitto armato tra le nazioni...».
Lady Rydal, il profilo aquilino messo in risalto dalla luce della lampada, sedeva come incastonata nella poltrona, col gomito sinistro poggiato sul bracciolo e la mano dalle fattezze elisabettiane, adorna di grossi e sudici diamanti, posata sulla guancia pallida. Aveva sul viso un’espressione tragica che nessun altro al mondo sarebbe stato in grado di sostenere e che restò immutata per tutto il tempo in cui lui la guardò. Villy, seduta accanto a sua madre su una scomoda sedia da pranzo, aveva invece un’espressione naturale di pura stanchezza. Somigliava a sua madre solo nel modo in cui i brutti ritratti somigliano ai loro soggetti, pensò. «La vita, per chi ama la libertà, non sarebbe degna di essere vissuta...» (perciò farà la guerra, è questo che sta dicendo?) «ma la guerra è una cosa terribile e, prima di intraprenderla, bisogna essere sicuri al di là di ogni dubbio che la posta in gioco sia davvero importante». Gettò un’occhiata dall’altra parte della stanza: Angela lo stava guardando. Quando i loro sguardi s’incrociarono, lei arrossì. Gesù, pensò Rupert. Sta’ a vedere che Zoë aveva ragione! Zoë era seduta sul davanzale, vicino ad Angela. Le mandò un bacio e il cipiglio preoccupato le si addolcì in un’espressione di gratitudine che era abituato a vederle in volto solo quando le faceva un regalo. Quando posò lo sguardo su suo padre, il discorso era finito. «I bambini vengano a dare il bacio della buonanotte al nonno», disse. «E domani tutti a scavare un rifugio antiaereo. Mi era sfuggito di mente finché quel tizio non me l’ha ricordato».
* * *
Edward e Diana ascoltarono il comunicato in un pub. Si erano incontrati nell’appartamento di lei, dove si erano trattenuti per un po’ a bere la bottiglia di champagne che lui aveva portato. Poi lei aveva voluto prendere alcune cose che desiderava avere con sé, cosicché al momento di partire si erano dovuti porre il problema della cena. Edward aveva suggerito di cenare a Londra e poi partire, lei però era in ansia per il bambino e voleva trovare il modo di ascoltare il primo ministro alla radio. Decisero di cercare un albergo dove cenare mentre ascoltavano la trasmissione, ma quando giunsero a Sevenoaks l’unico posto che serviva la cena aveva già chiuso la cucina e nemmeno lo charme di Edward servì a persuaderli. Alla fine, fuori Tonbridge, trovarono un pub il cui proprietario si dichiarò disposto a preparargli due panini al prosciutto. Li fece accomodare in una saletta privata sul retro del locale, provvista di apparecchio radio. Per qualche motivo l’atmosfera tra loro non era serena. Edward si sentiva in colpa per come aveva trattato Villy ed era tutto teso al momento in cui, quella sera stessa, sarebbe tornato a Mill Farm per farle una sorpresa. Anche la trasmissione che stava per cominciare gli metteva una certa inquietudine, perché sentiva che ne sarebbero venute delle novità, in un senso o nell’altro. Diana, dal canto suo, appariva distratta, non del tutto consapevole di quante difficoltà avesse affrontato Edward per poter essere lì. Inoltre ce l’aveva ancora con lui per non averla raggiunta a pranzo ed era segretamente preoccupata che Angus telefonasse dalla Scozia proprio in quel lasso di tempo: e gli sarebbe sembrato strano non trovarla in casa. Aveva addotto una visita dal dentista come scusa per il suo viaggio a Londra, e in più sarebbe andata a prendere degli indumenti pesanti (la casa in campagna era umida e lei aveva sempre freddo), ma ormai era tardi e quelle scuse non bastavano più. Avrebbe preferito non fermarsi affatto. «Sarà sui giornali del mattino», disse a proposito del comunicato radio. «Devi mangiare qualcosa», era stata la replica di lui. Era bizzarro: per tutta la gravidanza, che era iniziata poche settimane dopo il loro primo incontro, lui era stato sempre gentile, generoso, pieno di premure. Quella sera invece, quando lei era davvero in ansia per essere stata così a lungo lontana da suo figlio e per aver dovuto mentire a sua cognata, sembrava determinato a farla arrivare ancora più tardi.
Cincischiò col panino, ne rifiutò un secondo, bevve in fretta il gin tonic. Si accorse che lo stava irritando e, volendo rimediare, ordinò un altro gin tonic. «Così ti voglio», disse Edward alzandosi per prenderglielo. Lei allora si ripassò il rossetto e si incipriò il naso. Quando Edward fu di ritorno coi bicchieri pieni, Diana gli domandò cos’avrebbe fatto nel caso in cui fosse scoppiata la guerra, e lui le rispose che sarebbe andato a combattere dove fosse stato necessario. «Dunque partiresti! Non ti rivedrei più!».
Edward disse che probabilmente invece si sarebbero visti più spesso, dal momento che non avrebbe vissuto in casa. «Avrei molta più libertà di movimento».
Continuerò a fare l’amante per anni, pensò lei. È quello che succede durante le guerre, ed è facile che lui trovi una donna più giovane. «Detesto tutte queste bugie, tutto questo nascondersi. Io credo nell’onestà, davvero».
«So che è così», le disse lui in tono affettuoso. «È una delle cose che amo di te». Le prese la mano e la baciò. Diana vide la palla tornare a lei e non poté far altro che raccoglierla.
Poi iniziò la trasmissione. Quando fu finita, Edward si tolse la sigaretta di bocca e disse: «Be’, che mi venga un colpo se adesso ne so più di prima. Tu che ne pensi?».
«A me pare che stesse cercando di darci la brutta notizia con delicatezza».
«Per Giove, credo tu abbia ragione. È ora di andare. Ti riporto da tuo figlio».
Si salutarono in macchina, vicino al cancello esterno della proprietà, perché Diana non voleva che sua cognata li vedesse. Si baciarono, e ognuno provò la sensazione che l’altro desiderasse un bacio appassionato, ma nessuno dei due era dell’umore adatto. La cosa non preoccupò minimamente Edward – dopotutto era appassionata a letto, e a lui questo bastava – ma preoccupò moltissimo Diana, che quella sera si rigirò a lungo fra le lenzuola, terrorizzata dall’idea di perderlo.
* * *
«Perciò capisci, papà, che dovevo dirtelo?».
Rupert la guardò accovacciata davanti al corto tubo coperto di muschio. Stavano riempiendo delle bottiglie alla fonte che si trovava ai piedi della collina, vicino Mill Farm. Aveva le braccia bagnate, una camicetta di cotone con uno strappo e una delle scarpette di tela aveva un buco da cui faceva capolino l’alluce. Non è mai vestita come si deve, pensò Rupert con una fitta di ansia. «Certo. È chiaro».
«Ecco, ora capisco perché si scrivono tante commedie sulla lealtà e la slealtà. Polly l’ha detto a me perché sono la sua migliore amica. Era molto preoccupata e me l’ha detto pregandomi di non dirlo a nessuno. Ma io credo che la situazione sia così seria che non si può ignorarla. Tu che ne pensi?».
«La penso come te». Gli passò una bottiglia piena e lui gliene diede un’altra da riempire.
«Dunque credi che potresti parlare con Christopher? Voglio dire, ha una madre che morirebbe dal dolore se lui se ne andasse. Polly dice che sarebbe terribile per lei».
«Ci penserò molto seriamente e poi prenderò una decisione».
«Credi che dovrei dire a Polly che te ne ho parlato?».
«Non ancora», replicò Rupert vedendola in ansia e ricordando la scena della sera prima, durante il comunicato radio.
«Voglio dire, se lei me lo chiede, naturalmente glielo dirò. Ma ho paura che si arrabbi o che non mi voglia più come amica. È la ragazza più onesta che conosca».
«Anche tu lo sei».
«Io? Be’, non quanto Polly. A te non pare la persona più carina del mondo? A parte Zoë, naturalmente».
Questo lo commosse al punto che dovette ridere. «Quella sei tu! Guardami, sono circondato da persone carine. Solo che per me tu non sei carina, Clary. Sei bellissima».
«Non dire stupidaggini, papà! Bellissima!». La vide assaporare il complimento. «Che idea!». Era arrossita fino alla radice dei capelli. «Bellissima io!». Cercò di nuovo di nascondere il compiacimento sotto il disprezzo di sé. «Non ho mai sentito una simile sciocchezza!».
* * *
Il Generale era serio quando aveva invitato tutti a scavare per costruire un rifugio antiaereo. Aveva scelto un punto tra il campo da tennis e l’orto, aveva sistemato paletti e corde per delimitarne il perimetro, aveva ordinato a McAlpine di mettere a disposizione ogni vanga o pala in suo possesso e aveva mandato Clary e Polly a radunare gli altri. Si unirono ai lavori anche Rupert, Sybil, Zoë e Sid. Furono esonerate solo la Duchessa, Rachel (a cui il Generale intendeva dettare delle lettere e che comunque non era in condizione di scavare per via del mal di schiena) ed Evie, che addusse la scusa di una spalla malconcia. Evie trovò però il modo di rendersi utile: passava le ore a rammendare con maestria – molto meglio di Zoë, che sembrava averci rinunciato – insieme alle due zie anziane, che nel frattempo deliziava con racconti perlopiù inventati della sua vita. Alle zie parve una persona interessante, con inclinazioni artistiche, e tutti gli altri erano felici di essersi liberati di lei. Tuttavia presto fu chiaro che solo un numero limitato di persone poteva scavare contemporaneamente, così Rupert stabilì dei turni. Le due ragazze che a quell’ora avevano lezione con Miss Milliment furono mandate a studiare. A Billy fu affidato il compito di tagliare via le radici che ostacolavano il lavoro, ma presto si ferì la mano in modo così serio che dovette essere spedito da Rachel perché gli lavasse e medicasse la ferita; ci volle del tempo perché la pelle del ragazzo era tutta incrostata di fango (McAlpine non controllava che si lavasse e lui non lo faceva mai).
«Ma guarda che imbranato!», fu la reazione del giardiniere quando vide la mano insanguinata di Billy. Aveva scavato per quasi un’ora, con un risultato pari a circa il doppio di quanto avevano fatto gli altri tutti insieme, e disse che doveva andare perché aveva del lavoro da sbrigare. L’impresa gli pareva nel complesso un capriccio da signori.
Anche Villy e Jessica si sottrassero ai lavori di scavo, perlomeno al mattino, perché dovettero andare a Battle a fare un mucchio di provviste per entrambe le case. Decisero che Jessica si sarebbe occupata delle abluzioni di Lady Rydal mentre Villy andava a Home Place per prendere la lista delle cose che occorrevano lì. Villy, che la mattina soffriva di nausee, ne fu sollevata: la trasferta a Londra del giorno prima era stata terribile, si sentiva ancora esausta. Solo durante il pranzo con Teddy si era resa conto che Edward non aveva sentito quando lei gli aveva annunciato al telefono di aspettare un figlio. Era incredibile, ma era così. Prima, aveva avuto una di quelle mattinate frustranti in cui non riusciva a essere efficiente quanto avrebbe voluto. La casa era un disastro... be’, non proprio un disastro, ma c’erano molte cose da sistemare. Cambiò le lenzuola del loro letto, che nessuno aveva rifatto. E raccolse ben quattordici camicie sporche dalla cesta nello spogliatoio di Edward, che decise di portare nel Sussex per lavarle. C’era una lettera di Edna che diceva che non sarebbe tornata al lavoro, perché sua madre stava ancora poco bene e non la voleva tanto lontana. Meglio così, pensò Villy. Non si sarebbe sentita tranquilla a lasciare quella povera ragazza sola in casa con la minaccia incombente degli attacchi aerei. O di un attacco aereo: era possibile che ne bastasse solo uno. Teddy l’aiutò a caricare in auto l’argenteria, i libri di scuola e gli spartiti. Poi si cambiò per il pranzo, a cui andò piena di risentimento per il modo in cui Edward aveva accolto la notizia. In seguito, scoprendo che in realtà non l’aveva ricevuta affatto, si sentì frustrata e arrabbiata per essersi agitata tanto e perché naturalmente non poteva dirlo adesso di fronte a Teddy. E siccome non poteva dirglielo, non fu capace di dire nient’altro. Teddy però si era divertito, e nessuno dei due si era accorto di niente.
Dopo averli lasciati al club, guidò lentamente da Knightsbridge a Hyde Park Corner e, proprio quando si trovò accanto alla casupola verde dove si diceva che i tassisti si giocassero tutti i loro guadagni mentre si rifocillavano, decise di punto in bianco di andare al negozio di Hermione, giusto per vedere cosa c’era. Dopotutto non le sarebbe capitata tanto presto un’altra occasione e, vista la situazione, era possibile che Hermione avesse qualche bel capo in saldo.
Non ne aveva, ma si mostrò felice di vedere Villy. «Ma che piacere!», esclamò con la sua voce seducente e un po’ strascicata, capace di far sembrare divertente qualunque cosa dicesse. «Torno giusto da un pranzo noiosissimo con Reggie Davenport, e mi preparavo a un pomeriggio altrettanto noioso, e adesso eccoti qua! Cosa posso fare per te, mia cara?».
«Non so. Sono passata solo per dare un’occhiata e tirarmi su il morale».
«Sei capitata al momento giusto. Ho dei capi autunnali semplicemente divini. La gente quest’anno non si decide a tornare dalle vacanze. Se ne stanno rintanati in campagna per colpa di Mr Schickelgruber».
«Chi?».
«Hitler, mia cara. È questo il suo vero nome. Era un imbianchino, pensa. Voglio dire, come si fa a prendere sul serio uno così? È privo di qualunque charme...». Schioccò le dita e dai recessi del negozio sbucò all’istante Miss McDonald. «Guardi chi è venuta a trovarci! Che cos’abbiamo per Mrs Cazalet?».
«Posso comprare una cosa soltanto, Hermione».
«Ma certo, mia cara. Anche mezza, se vuoi».
Un’ora e mezza dopo Villy uscì dal negozio con un grazioso abitino di lana nera con ricami lucenti su colletto e polsini e una grossa cintura dalla fibbia con i lustrini, un completo di tweed azzurro giacinto dal taglio molto classico e raffinato, un soprabito grigio scuro di flanella con inserti di finto astrakan nero – «visto così sembra una tenda, lo so, ma indossato cade una meraviglia! Provalo» – e un vestito a maniche lunghe di crêpe con il collo a cappuccio, il cui colore somigliava a quello della marmellata di more, osservò Villy riscuotendo grandi applausi per quella similitudine. «Dobbiamo ricordarcene, vero, Miss McDonald? Molto meglio di prugna!». Risalì in macchina in un misto di estasi e senso di colpa. Aveva speso quasi sessanta ghinee, ma adorava ogni singolo capo che aveva acquistato, e guidò in direzione di Lansdowne Road sentendosi leggermente ubriaca. Solo quando si fu rimessa in viaggio si rese conto che di tutta quella roba per l’inverno sarebbe riuscita a indossare solo il cappotto, capace di nascondere la pancia fino alla fine. L’idea che aveva vagamente accarezzato – di chiedere a Hermione se conosceva un dottore – le era subito uscita di mente. Del resto sarebbe stato impossibile, con Miss McDonald sempre presente. Gli altri vestiti avrebbe potuto metterli una volta avuto il bambino. Erano mesi che non comprava niente, e aveva passato ore di puro, frivolo piacere. A Edward non sarebbe importato, era sempre così generoso in fatto di acquisti di abiti, sebbene non si mostrasse mai interessato quanto lei avrebbe voluto. Le venne in mente che quella volta avrebbe potuto mostrare i suoi abiti nuovi a Jessica, dato che adesso anche lei poteva permettersi dei bei vestiti. E non ho preso un solo abito da sera, concluse per dare almeno un tocco di morigeratezza alla faccenda.
Il resto della giornata invece era stato un vero inferno. Aveva caricato la roba in macchina da sola perché Teddy era in ritardo: Edward lo aveva lasciato in Leicester Square e lui aveva sbagliato nel cambiare treno. Si mise a piovere forte proprio mentre partivano, e Teddy le raccontò per filo e per segno tutto quello che era capitato a Paul Muni durante il film, un resoconto noioso e oltretutto incomprensibile. Arrivarono a Mill Farm che erano ormai le otto, ed ebbero appena il tempo di cenare che ci fu il comunicato radio. Finito il quale dovette scaricare la macchina e poi, proprio quando stava finalmente per andare a letto, arrivò senza preavviso Edward, con l’aria di farle una gradita sorpresa. Il tale con cui doveva andare a cena abitava non troppo lontano, così aveva pensato che le avrebbe fatto piacere che tornasse.
«Non andiamo subito a dormire», disse. «Mi preparo un whisky e soda. Per te?».
«No, grazie». Tornò a sedere sul divano.
«Mi pare che Teddy si sia divertito».
«Sì, mi ha detto che ha passato un bel pomeriggio».
«Jessica è ancora qui?».
«Sì. Ieri è andata al funerale. Raymond ha ereditato una bella sommetta e una casa».
«Che bella notizia! Speriamo che non li butti via». Vi fu un momento di silenzio, poi Edward disse: «Oggi a pranzo ho avuto la sensazione che fossi arrabbiata. È così, vero? Di che si tratta?».Villy capì che era nervoso dal fatto che aveva cominciato a grattarsi l’attaccatura delle unghie. Le sue dita erano spesso in uno stato penoso. Edward temeva le scenate più di qualunque altra cosa.
«Lo ero, sì. Un po’. Ieri ho cercato di dirti una cosa e tu mi hai praticamente attaccato il telefono in faccia. Poi oggi ho capito che non hai sentito cosa ho detto».
Lui si era fatto molto silenzioso. «Di che si tratta?».
Villy fece un gran respiro: «Ti ho detto che sono quasi sicura di aspettare un altro figlio».
La fissò per alcuni istanti e lei gli lesse in volto lo stupore e anche una specie di sollievo. Poi s’illuminò tutto. Sorrise, si alzò e l’abbracciò. «Buon Dio! Tu me l’hai detto e io non ho sentito? C’erano dei lavori in strada, Miss Seafang mi stava dicendo qualcosa e mi cercavano sull’altra linea. Mi spiace, cara, avrai pensato che io sia un bruto insensibile!».
«Sei contento?».
«Ma certo che sono contento», disse con trasporto. «Un po’ sorpreso, devo dire. Credevo prendessi precauzioni».
«Le prendo infatti. Evidentemente non sono bastate».
«Buon Dio!», esclamò di nuovo, poi vuotò il bicchiere e si alzò. «Meglio andare di sopra, che ne dici? Sarai stanca morta». Le prese la mano e l’aiutò ad alzarsi in piedi.
Mentre si spogliavano, Villy disse: «Mi sento un po’ troppo vecchia per ricominciare con un neonato».
«Ma che dici, mia cara? Tu non sei troppo vecchia». La baciò con affetto. «Ti ci vuole una bella dormita. Io dovrò alzarmi presto. Non preoccuparti per me, domani mattina».
Adesso, mentre camminava su per la collina verso Home Place e ripensava a tutto questo, si accorse che a Edward non era nemmeno passato per la mente di chiederle se lo desiderava o no, un altro bambino. Aveva dato per scontato che lo volesse. «Quello che è fatto è fatto», disse fra sé. «Tanto, se scoppia la guerra, potremmo saltare tutti per aria».
* * *
Dopo pranzo si mise a piovere, il che, pensò Louise, le avrebbe esonerate dal loro turno di scavo, previsto per il pomeriggio. «Laviamoci i capelli», suggerì. Aveva letto che il rosso d’uovo faceva un gran bene ai capelli ed era ansiosa di provare. Nora, a cui non importava niente dei propri capelli, disse che era uno spreco di uova, ma Louise ribatté che gli albumi li avrebbero usati per fare le meringhe, dunque non c’era nessuno spreco. «Faremo le meringhe, perciò non si può dire che sprechiamo le uova», disse. Così Louise lavò i capelli di entrambe. Quelli di Nora erano molto sporchi, e Louise li lavò con acqua talmente calda che finì per cuocere l’uovo, e per toglierlo dovette usare dell’altro shampoo. Non sapevano dove asciugarsi, perché il caminetto in salotto non era stato ancora acceso; si stesero sui rispettivi letti con gli asciugamani in testa e il maglione addosso, per non prendere il raffreddore.
«Ti ricordi, durante la funzione, quando hai proposto che ognuno rinunciasse a una cosa a cui tiene in cambio della pace?», disse Louise. «Secondo te come mai nessuno sembrava disposto a farlo?».
«Non lo so. Mia madre ha detto che sono cose personali. Ma poi come si fa a dire che non volessero? Comunque mamma ha detto che sono stata invadente e arrogante».
Louise la guardò con tanto d’occhi. L’invadenza e l’arroganza non erano difetti romantici, come lo erano un temperamento infiammabile e l’eccessiva franchezza (detta anche mancanza di tatto), e lei non si sarebbe mai sognata di ammetterli pubblicamente.
«Guarda quanto sono belli adesso i tuoi capelli! Tutti lucidi e splendenti», disse Louise.
«Oh, be’. Non ha molta importanza, perché quando entrerò in convento me li taglierò. Potresti sbarazzarti anche tu della tua vanità», aggiunse.
«Sono vanitosa? La mia faccia non mi piace molto». Passava ore davanti allo specchio a provare pettinature e cosmetici e a studiare le espressioni che le donavano di più. Nora glielo ricordò e le disse che quella era vanità, ne era abbastanza certa.
Fu allora che Louise si convinse che doveva tornare sulla decisione che aveva preso, di rinunciare alla scuola per signorine con Nora per paura di andar via da casa. In caso di pace ci sarebbe andata, ma se fosse scoppiata la guerra non ce ne sarebbe stato bisogno. Disse a Nora che aveva preso una decisione, ma non volle dirle di che si trattava.
«Non devi dirmelo per forza», replicò Nora. «Scrivilo su un foglietto e mettilo nella mia scatola delle matite. L’ho svuotata apposta».
«L’hai fatto, alla fine?».
«Certo. Ho chiesto a Polly e a Clary. Poi a Christopher, perfino ad Angela. A Teddy no: non mi pare che gli importi molto se scoppierà o no la guerra».
«Simon?».
«Lascialo perdere. Adesso scrivi il tuo voto. Oh, l’ho chiesto anche a Miss Milliment. Mi è davvero simpatica. Ha detto subito di sì. Non come gli altri adulti che dicono sempre vedremo, forse, chissà».
«E i piccoli?».
«A loro non l’ho ancora chiesto. Lo farò dopo la merenda».
Neville, Lydia e Judy, tutti e tre segretamente gongolanti per essere stati convocati a una riunione, anche se capirono presto che oltre a loro c’erano solo Nora e Louise, si misero in riga di fronte a Nora, seduta dietro il tavolo in sala da pranzo con la scatola bene in vista e fogli e matite a portata di mano.
«Io non ho niente a cui rinunciare», disse Neville mettendo le mani avanti.
«Il tuo trenino», lo corresse Lydia.
«Quello mi serve! Non si può rinunciare a qualcosa di cui si ha bisogno!».
«Non ne hai bisogno. Io non ho un trenino e vivo benissimo», sentenziò Judy.
Neville si voltò verso di lei. «Tu sei solo una bambina!», disse con disprezzo. Vi furono alcuni secondi di silenzio. Poi Nora disse: «Va bene. Se non vuoi rinunciare a qualcosa, puoi fare qualcosa. Un lavoro, qualcosa di utile».
«Aiutare Tonbridge a lavare le macchine!», annunciò Neville, «Ecco cosa farò».
«Ma se glielo chiedi sempre!», disse Lydia con tono pieno di biasimo. «E lo sai che non vuole. Non credo che abbia capito qual è il punto», disse alle altre.
«Lasciamo stare Neville. Tu cosa farai?».
«Dunque...». Lydia serrò gli occhi e si mise a far dondolare la sedia. «Io... metterò da parte tutte le mie paghette e le regalerò ai poveri! Ecco cosa farò». Aprì gli occhi e si guardò intorno per vedere l’effetto della sua dichiarazione. «Va bene come rinuncia, no?».
«Benissimo», disse Nora. «Ecco il tuo foglio. Solo che devi specificare quante settimane di paghetta sei disposta a offrire».
«Oh, un anno almeno», disse Lydia. Quello slancio di prodigalità le aveva dato un po’ alla testa. «Un anno, sì».
«Come farai a trovare un povero a cui dare i soldi?», domandò Neville con aria torva.
«È facile. Fermerò qualcuno per strada e gli chiederò se è povero. Se mi dice di sì gli do i soldi».
Alla fine fu suggerito a Lydia di donare la sua paghetta ai bimbi poveri dell’istituto di zia Rach.
Judy, che secondo Lydia era un po’ copiona, disse che avrebbe fatto lo stesso anche lei. Erano entrambe chine sul tavolo a scrivere, e Nora guardò Neville.
«Ecco cosa farò!», disse lui alla fine. «Andrò dalle prozie e darò loro un bacio due volte al giorno. A ognuna delle due, su entrambe le guance. Per tutto il tempo che staranno qui».
Non del tutto appropriato, ma le ragazze convennero che quello era il massimo che potevano aspettarsi da lui.
* * *
Certe volte cambiarsi fa l’effetto di un pisolino, ricordò a se stessa Miss Milliment mentre cercava con fatica il proprio impermeabile tra i molti appesi ai ganci nell’ingresso di Mill Farm. La cena era finita e il suo piano era di svignarsela senza farsi notare, risalire la collina e andare a letto presto, perché si sentiva piuttosto spompata, per usare un’espressione che era stata cara a suo fratello. Ma anche molto fortunata e piena di gratitudine, beninteso. Tutto era diverso laggiù, e naturalmente non mancava qualche piccolo problema, ma nulla che il tempo e l’abitudine non potessero risolvere. Uno dei peggiori però era che aveva sempre i piedi umidi, circostanza per cui doveva incolpare solo se stessa, dal momento che non si era disturbata a far risuolare le scarpe. Sono proprio come Rosamond in The Purple Jar8, pensò, con la differenza che io non ho usato i miei soldi per comprarmi qualcosa di eccentrico e inutile: ho semplicemente non uno ma due paia di scarpe in condizioni pietose. Il giorno dopo avrebbe chiesto a Viola se poteva andare a Battle, dove sicuramente sarebbe stato possibile acquistare degli stivali di gomma.
Pronta per affrontare il tragitto a piedi nella pioggia, aprì il pesante chiavistello di ferro della porta e scoprì che non pioveva più, anche se il terreno era molto bagnato. Con l’ombrello e la copia del «Times» che Lady Rydal aveva finito di leggere, si avviò con passo malfermo su per il viale. Era una sera buia, senza vento, senza stelle; di tanto in tanto un albero veniva scosso da un brivido e la investiva una pioggia di gocce pesanti. C’erano anche molte pozzanghere, che lei naturalmente non vedeva. La cara Viola si era offerta di accompagnarla in macchina, ma a Miss Milliment era sembrato eccessivo approfittare di una simile offerta; presto si sarebbe abituata a quel tratto di strada, che del resto non era lungo. Quel giorno aveva avuto con Viola una breve chiacchierata sul suo salario, allietata da un buon bicchiere di sherry. Era stata davvero generosa: si era rifiutata categoricamente di addebitarle il costo del suo soggiorno, sapeva da sé che aveva già un affitto da pagare, aveva pure insistito che la tariffa di due sterline e dieci scellini a settimana per allievo sarebbe restata invariata per tutti i ragazzi, anche i tre più piccoli, in quanto – lei lo sapeva bene – ognuno di loro comportava la stessa quantità di lavoro (il che era assolutamente vero, ma molti datori di lavoro si rifiutavano di ammetterlo), e aveva aggiunto che le spese di viaggio che aveva sostenuto le sarebbero state rimborsate con l’assegno del primo mese. Perciò avrebbe guadagnato diciassette sterline a settimana. «Dunque non ha più scuse, Eleanor. Deve comprare un paio di scarpe nuove, oltre agli stivali di gomma».
E poi era in campagna! Annusò l’aria, il delizioso profumo di foglie bagnate; le ricordava l’infanzia, le camminate verso casa dopo aver decorato la chiesa per occasioni speciali come la Festa del Raccolto, le cene a base di pane tostato e grasso d’arrosto e le serate passate a leggere per papà. A lui piaceva che nel suo studio ci fosse la penombra, per via di un problema agli occhi, e questo le rendeva difficile la lettura. Uno dei suoi preferiti era La Rivoluzione francese di Carlyle, un vecchio volume che Eleanor aveva trovato a una svendita in chiesa, ma era stampato in caratteri assurdamente piccoli e papà riteneva che ai giovani gli occhiali non servissero, il che si era rivelato nel suo caso del tutto falso. Una delle prime cose che aveva fatto dopo che lui era morto era stato farsi misurare la vista, e gli occhiali avevano prodotto qualcosa di prodigioso, prossimo al miracolo: notava cose di cui prima non si sarebbe mai accorta! Risaliva a quel periodo il suo interesse per i quadri, perché adesso li vedeva. Che scoperta meravigliosa era stata. E com’era fortunata ora! Amava insegnare, voleva bene alle sue tre ragazze ed era felice di accogliere anche la figlia della cara Jessica, Nora, anche perché era evidente quanto Louise le fosse affezionata. E poi i tre piccolini: Neville la faceva morir dal ridere, ma sarebbe stato trattato esattamente come le ragazze, non ci sarebbero state differenze. Era piacevole pensare alla piccola camera da letto che l’attendeva nella casa sopra il garage. Le sorelle Brontë si stupirebbero nel vedere quanto mi sto divertendo, pensò mentre imboccava il vialetto d’ingresso di Home Place. Le erano venute in mente le Brontë perché aveva assegnato alle ragazze Villette come lettura per le vacanze. Louise lo aveva già letto, ma Miss Milliment le aveva detto di leggerlo di nuovo e di leggere anche Il professore, in modo da poter mettere a confronto le due opere. Polly non leggeva quanto Louise, né tanto in fretta, ma aveva un bell’intuito, mentre Clary... Clary, ormai ne era certa, era speciale. I racconti che le aveva dato da leggere quando era a letto con la varicella l’avevano lasciata stupefatta. C’erano in quegli scritti una forza, una capacità di messa a fuoco, una precocità che erano ben al di sopra di quanto ci si aspetta da una bambina di tredici anni. Per alcuni aveva scelto soggetti e argomenti che erano al di là delle sue forze, ma Miss Milliment era stata attenta a non criticarla, le aveva corretto solo la grammatica, la punteggiatura e l’ortografia, e solo dopo aver detto quanto le fossero piaciute le storie. Non è bene interferire, si disse, pur non avendone mai avuta l’intenzione. Il processo creativo, di cui sapeva poco o nulla, era per lei qualcosa di sacro: molte persone erano state rovinate da troppe attenzioni di natura errata. Per Clary era un processo naturale, e tale doveva rimanere. La mancanza d’interesse da parte della famiglia avrebbe giocato a suo favore.
Le apparve la casa: finestre quadrate piene di una luce dorata, i rumori dei domestici che rigovernavano mentre passava accanto alla cucina. Quando arrivò al suo alloggio e cominciò a salire le scale, l’effetto dello sherry che aveva bevuto prima di cena aveva cominciato a svanire e, proprio mentre accarezzava l’idea di fare un cruciverba a letto, si rese conto che sul giornale avrebbe trovato solo notizie relative alla Situazione, all’abisso terribile su cui l’Europa si stava affacciando e che lei aveva bellamente ignorato per tutto il tragitto di ritorno. Si era così persa nella contemplazione dei bordi d’argento della nube che si era scordata della nube stessa. Se scoppiava la guerra... ma la guerra sarebbe scoppiata di certo, era solo questione di tempo. Pensò ai meravigliosi Renoir della Rosenberg and Helft Gallery che tante volte aveva ammirato quell’estate, e pregò che fossero spostati al più presto.
* * *
Hugh entrò nell’ufficio di Edward poco prima dell’ora di pranzo; erano d’accordo per andare a mangiare assieme. Mrs Seafang, in piedi accanto alla scrivania mentre Edward le passava le lettere man mano che le firmava, gli rivolse un discreto sorriso di benvenuto.
«Ci vorrà un attimo, vecchio mio. Siediti».
Ma Hugh, che era stato seduto tutta la mattina, continuò a vagare per l’ampia stanza dai pannelli di legno di cocco alle pareti, apparentemente intento a esaminare i banali dipinti che vi stavano appesi. Mrs Seafang lo guardò preoccupata. Sembrava terribilmente stanco, più del solito: era quello che sua madre avrebbe chiamato un apprensivo cronico, un’indole che poteva essere davvero stancante. Risvegliava in lei un sentimento materno, a differenza di Edward che le ispirava tutto un altro genere d’impulsi. Tornò a guardare il proprio capo. Quel giorno indossava un abito gessato di un grigio chiarissimo, con una camicia bianca a righine sottili e una cravatta di seta giallo limone con minuscole strisce. Dal taschino della giacca fuoriusciva l’angolo di un fazzoletto di seta dal motivo giallo, grigio e verde scuro. I capelli leggermente ricciuti erano pettinati con la brillantina e dalla sua persona si levava al più piccolo movimento un leggero, eccitante profumo di sigari e acqua di lavanda. Teneva la mano sinistra sul tavolo, a esibire l’anello con lo stemma della famiglia – un leone piuttosto logoro ma nondimeno rampante – e il gemello d’oro gli brillava sul polsino da cui fuoriusciva il polso irsuto, adorno di un orologio elegante e virile. Con la mano sinistra firmava le lettere, nella sua grafia pesante e un po’ trasandata, con la penna stilografica. Questa sembrava non funzionare bene; la scosse un paio di volte, poi si rivolse a Miss Seafang: «Miss Seafang, mi sono sporcato un’altra volta». Al che lei, sorridendo appena, estrasse un’altra penna dalla tasca del cardigan. Cosa mai avrebbe fatto senza di lei?
«A che ora devo dire che sarà di ritorno, Mr Edward, se la cercano?».
«Non torna», s’intromise Hugh. «Lo porto al molo».
Edward guardò suo fratello e alzò le sopracciglia. Hugh lo ricambiò con una delle occhiate ostinate ma miti che erano tra le sue espressioni abituali.
«Tiranno...», disse. «Oggi sarò al molo, Miss Seafang».
Bracken li condusse al club di Hugh, che distava dal fiume meno di quello di Edward. Sulla strada si fermarono a comprare l’«Evening Standard», i cui titoli si riferivano al viaggio del primo ministro di quel mattino.
«Dobbiamo cogliere il fiore della sicurezza da questo cespuglio di ortiche...», lesse a voce alta Edward. «Qui siamo più nel tuo campo che nel mio... che accidenti vuol dire?».
Hugh diede un’alzata di spalle. «Che non ha molte speranze, ma ci proverà, direi», disse Hugh. «Questa volta ci saranno anche Mussolini e Daladier. Vuol dire che siamo alla stretta finale».
«E che differenza fa che ci siano anche quei due? Se Hitler ignora le ragioni del nostro primo ministro, perché mai dovrebbe prendere in considerazione le loro?».
«Be’, immagino che nessuno di loro desideri una guerra, perciò sarebbero tre contro uno, no?».
Edward non replicò. Si stava chiedendo come mai Hugh volesse andare con lui al molo, ma non si discutevano quelle questioni in presenza dei dipendenti.
Quando furono seduti nella buia sala da pranzo che, coi suoi pilastri di marmo e i suoi soffitti altissimi, faceva apparire minuscoli i suoi occupanti, mangiando sogliola di Dover e bevendo vino bianco del Reno, Edward disse: «Andiamo, vecchio mio. Sputa il rospo. Chiaramente si tratta di una cosa su cui credi che non sarò d’accordo».
«Allora, due cose. Prima di tutto, i tronchi». E si lanciò a illustrare il suo progetto di spostare sul fiume Lee tutti i tronchi di maggior valore, in modo da portarli al sicuro in caso di attacco nemico. «Se li lasciamo lì dove sono – e sono proprio accanto alla segheria – e dovessero esserci degli incendi, andrebbe tutto in fumo. Potremmo perdere la segheria, certo, ma quella si può sostituire. I tronchi no».
«Ma il fiume è soggetto alle maree ed è anche stretto. Non credo che le autorità ci consentiranno di bloccarlo».
«Possiamo fare domanda all’Autorità Portuale di Londra per delle chiatte su cui adagiare i tronchi, ma li conosci: ci metterebbero una vita e nel frattempo potrebbe accadere di tutto. Se li buttiamo nel fiume e basta, sarà più facile ottenere le chiatte, perché serviranno a liberare il passaggio».
«Ma ci servirà una gru per farlo».
«Ne ho già una. L’ho ordinata ieri. Arriverà oggi pomeriggio».
«Ne hai parlato con il Vecchio?».
«No, mi è sembrato meglio farlo e poi dirglielo. Ma credo che dovremmo esserci anche noi. Potrebbero fare pasticci, o qualcuno potrebbe venire a dire che non possono farlo e allora s’interromperebbero».
«Se ti sei sbagliato, avremo speso un sacco di soldi, senza parlare del fatto che ci saremo inimicati le autorità, tutto per niente. Voglio dire, se non dovesse esserci la guerra...». Edward s’interruppe e scoppiò in una risata. «È ridicolo! Questa idea dovevo averla io e tu dovevi fare delle obiezioni! Che diavolo ci è preso? Mi arrendo. È un’idea geniale».
* * *
Seguitarono a discutere di lavoro. Hugh voleva assumere un altro guardiano notturno per il molo: Bernie Homes faceva quel lavoro da oltre vent’anni, nessuno sapeva quanti ne avesse di preciso ma era di certo troppo vecchio, a detta di Hugh, per assumersi la responsabilità di custodire il magazzino sotto un attacco aereo. Edward disse che licenziarlo era fuori discussione, così decisero di assumere una persona più giovane perché lo affiancasse. Poi c’era la questione delle esercitazioni antincendio o semplicemente antiraid aereo, non solo per il personale del molo ma anche per quello degli uffici. Se ne resero conto al molo, mentre aspettavano che gli uomini legassero le estremità dei tronchi con delle catene e che fissassero il cavo d’acciaio che le collegava tra loro, che facessero passare il gancio della gru nell’anello fissato al cavo e dessero inizio alla lunga manovra necessaria a sollevarli e poi a calarli nel fango – c’era bassa marea – dove s’immergevano producendo bolle gassose e un lezzo di alghe marce e gasolio. Ci vollero ore. Alle cinque e trenta avevano sganciato nel fiume sedici tronchi, il manovratore della gru disse che ne aveva abbastanza e comunque avevano già occupato tutto il tratto di fiume di loro spettanza. Edward suggerì di proseguire in senso contrario alla corrente, ma Hugh disse che questo li avrebbe messi in cattiva luce nel momento in cui le autorità portuali avessero visto quel che stava avvenendo. Perciò decisero che per quel giorno era abbastanza, andarono nelle rispettive abitazioni per farsi un bagno e poi si rividero a casa di Hugh, dove la cameriera aveva preparato un pasto frugale. Ascoltarono il notiziario delle nove alla radio, ma non c’erano novità, a parte il fatto che la Conferenza di Monaco era ancora in corso. Hugh telefonò a Sybil per dirle che l’indomani sera l’avrebbe raggiunta comunque fossero andate le cose, e Edward pensò che forse doveva fare lo stesso con Villy. «Tutto bene?», s’informarono l’uno dell’altro dopo aver telefonato. Decisero di bere un whisky e di andarsene a dormire.
«Louise è preoccupata per la guerra?», domandò con noncuranza Hugh.
«Non lo so, vecchio mio. Non ne ho la più pallida idea. Non mi pare, comunque. Polly invece sì?».
«Sì, abbastanza». Edward notò che gli era partito il tic alla tempia. Vuotò il bicchiere. «Hugh, ascoltami. È stata una giornata lunga e tu ti preoccupi troppo. Vedrai che Polly sta benissimo, ne sono certo. Ti preoccupi troppo», ribadì con autentico affetto, stringendo la spalla del fratello per dare un tono virile a quell’esternazione, poi se ne andò.
Hugh, mentre saliva lentamente le scale per andare a dormire, si domandò che cosa volesse dire troppo. Troppo per lui? Troppo rispetto alla Situazione? Non avevano affrontato il secondo problema di cui aveva fatto cenno a pranzo, e cioè il fatto che presto Edward avrebbe dovuto arruolarsi lasciando lui, Hugh, con tutta l’azienda sulle spalle. A meno che Rupert non avesse deciso di venire a lavorare nell’azienda. Ma era probabile che anche Rupert partisse per il fronte. Gli stava venendo il mal di testa, così prese una pillola in modo da addormentarsi prima che diventasse troppo forte.
* * *
Il venerdì mattina il Generale, avendo preso atto il giorno prima che la costruzione del rifugio antiaereo non faceva progressi apprezzabili (c’era chi scavava con pale di legno), ordinò a Sampson di destinare due operai ai lavori di scavo. «Non posso occuparmi dei bagni chimici e del rifugio allo stesso tempo», protestò Sampson, ma fu una perdita di tempo. «Sciocchezze, Sampson, sono certo che può farcela!».
Quella mattina Till venne da Battle a consegnare una dozzina di fornelletti da campo. Fu dato a Tonbridge l’ordine di togliere le auto dal garage, che probabilmente sarebbe stato trasformato in una cucina. Dalla sue stalle Wren osservava la scena gongolante. «Prima la casa, adesso il luogo di lavoro. Presto gli daranno il benservito». Odiava Tonbridge, l’aveva sempre odiato.
E quella mattina Miss Milliment diede a Polly il compito di disegnare una mappa dell’Europa scrivendo nella sua bella grafia i nomi delle varie nazioni. Certo, ormai la mappa era datata, perché non teneva conto delle recenti acquisizioni di Hitler, che l’insegnante si premurò di spiegare ai suoi allievi. Sentiva che era importante che i ragazzi capissero almeno in parte quel che stava accadendo, che avessero un’idea chiara del nuovo assetto geografico.
Mrs Cripps passò la mattinata a spennare e sventrare due coppie di fagiani da cucinare per cena; macinò anche alcuni resti di lombo di manzo per il pasticcio, fece del pandispagna, più di trenta tortine alle prugne, due grossi vasi di crema all’uovo, due pudding di riso, della salsa al latte, un dolce di prugne e una gran quantità di pastella con cui friggere le salsicce per il pranzo dei domestici, due torte di meringa al limone e quindici mele ripiene al forno per la cena padronale. Inoltre supervisionò la cottura di una ragguardevole quantità di verdure: patate per il pasticcio, cavoli da accompagnare alle salsicce, carote, fagiolini, spinaci e anche due zucche di dimensioni grottesche coltivate da McAlpine, che per quelle zucche vinceva il primo premio ogni anno. Una volta Rupert aveva detto a Rachel che erano l’equivalente vegetale di certe sfacciate cartoline delle località di mare, un paragone che a Mrs Cripps non sarebbe mai venuto in mente.
Tutti erano insomma intenti alle loro occupazioni abituali con l’eccezione di Rupert, che stava prendendo rapidamente coscienza del fatto di non averne. Aveva detto di sfuggita a Zoë che a Clary servivano vestiti nuovi, al che lei, del tutto inaspettatamente, era andata a Battle con Villy e Jessica a comprare del tessuto con cui cucire un vestito. E proprio mentre si compiaceva di quel gesto, si ricordò quello che Clary gli aveva detto il giorno prima a proposito di Christopher. Non aveva ancora fatto niente al riguardo. Si trovava nella sala da biliardo, il suo studio, a fissare assente il ritratto di Angela con la sensazione che mancasse qualcosa, e passò alcuni minuti a domandarsi con chi poteva parlare dei propositi del ragazzo. A Christopher stesso? Ma lo conosceva appena, e se lo prendeva per il verso sbagliato rischiava di peggiorare la situazione. La cosa più ovvia era parlarne con Jessica, ma quello che aveva detto Clary in proposito – che avrebbe dato di matto – lo rendeva dubbioso. Ma certo: Rachel. Quando era in difficoltà, la prima persona a cui si rivolgeva era sua sorella. Andò a cercarla, ma la Duchessa lo informò che Sid l’aveva accompagnata a Tunbridge Wells a fare le sue terapie. Sorelle... pensò. E gli venne in mente di parlarne con Angela. Le era parsa così piena di buon senso quel giorno, quando le aveva esternato i suoi dubbi in ambito lavorativo. Era più grande di Christopher, ma non di molto: era probabile che il ragazzo desse retta a lei più che a chiunque altro. Era sempre lì nei dintorni.
La trovò che leggeva distesa sull’amaca, nel frutteto. Indossava una gonna bianca e la camicia verde chiaro che le aveva prestato per farle il ritratto. Non lo sentì arrivare, e Rupert temette di averle fatto prendere uno spavento, perché quando la chiamò fece un piccolo sobbalzo e il libro le cadde sull’erba.
«Scusa», disse lui raccogliendolo. «Non volevo spaventarti, davvero». Diede un’occhiata al libro. «Sonetti dal portoghese? Oh! Elizabeth Barrett Browning. Sono belli? Li ha tradotti lei?».
«No. Li ha scritti. Per Robert. Lo chiamava così: il mio piccolo portoghese. Forse perché aveva i capelli neri e gli occhi scuri».
Ci fu un breve silenzio in cui Rupert pensò che avrebbe fatto meglio a ritrarla distesa sull’amaca, poi Angela disse: «Ci sono novità?».
«No. Per quanto ne so. Ti stavo cercando perché c’è una cosa di cui vorrei parlarti. Facciamo una passeggiata?».
«Oh sì! Andiamo». Scese svelta dall’amaca dimenticando il libro.
«Dove vorresti andare?».
«Oh... è lo stesso. Dove preferisci».
«Bene, allora andiamo in un posto dove nessuno c’interrompa».
«Oh sì!», disse lei di nuovo.
«D’accordo. C’è un bell’albero caduto dall’altra parte del bosco, dietro la casa», disse. «Ci portavo sempre Clary a giocare a quelli che lei chiamava naufragi. Andiamo».
* * *
Teddy non sapeva che fare di se stesso. Dopo quella magnifica giornata a Londra, gli sembrava che in campagna non ci fosse proprio niente d’interessante. Il vero problema era che non aveva nessuno con cui passare il tempo: Simon non faceva che grattarsi ed era molto irascibile. Certo, avevano litigato, ma se fosse stato lì in giro, Teddy avrebbe trovato il modo di fare la pace. Quella mattina tornò al rifugio. Sembrava lo stesso eppure in qualche modo diverso, desolato, non certo un posto dove fosse piacevole stare da soli. Christopher non c’era. Gli venne l’idea d’impersonare un imperatore romano e di prendere Neville, Judy e Lydia come suoi schiavi. Loro all’inizio si mostrarono bendisposti, ma quando arrivarono al rifugio Teddy si accorse che il loro atteggiamento era tutt’altro che deferente.
«E perché dobbiamo fare sempre quello che dici tu?», domandò Neville.
«Già, perché?», gli fece eco Judy.
Spiegò loro cos’era un imperatore, e subito Lydia si proclamò regina. Saccheggiarono le provviste senza chiedere il permesso, e quando gli ordinò di raccogliere legna per il fuoco si dispersero e non si fecero vedere per un bel pezzo. Gli venne l’idea di erigere una diga nel torrente e cercò di coinvolgerli nell’impresa, ma loro si annoiarono subito e presto se ne andarono. «Ehi!», gridò mentre si allontanavano. «Prima che ve ne andiate!». Lydia e Neville, arrivati alla siepe di noccioli, si fermarono e si voltarono. «Ho dimenticato di dirvi che questo è un posto segreto».
«No, per niente. Noi lo conosciamo», obiettò subito Neville.
«Voglio dire che è segreto per tutti gli altri».
«E allora?», fece Judy in tono altezzoso e irritante.
«Dovete promettere che non ne parlerete con nessuno, tutti e tre».
«È una tale noia che non credo interessi a nessuno», disse Lydia.
«Sì. È tutto già fatto», aggiunse Neville. «A noi piace costruirlo, un rifugio. Ne abbiamo fatti un sacco. Dovevi chiamarci prima, all’inizio».
Non c’era proprio niente da fare con quei tre. Provò con le minacce, ma non sembrarono granché impressionati. «Non puoi toglierci la paghetta. Non puoi farci andare a letto prima».
«Però ha una pistola», fece Lydia. «Potrebbe spararci».
«Sì, così quando se ne accorgono verrai impiccato», disse Judy. «E non credo che dispiacerà a nessuno, nemmeno a tua madre, visto che avrai sparato a tua sorella».
«Che stupidaggini dite? Certo che non ti sparo, Lyd, e nemmeno a voialtri! Ascoltate: vi darò una carta della mia collezione, una ciascuno, se manterrete il segreto».
«Una carta!», sbuffò Neville. «Ci crede dei polli!».
Alla fine dovette promettere un gelato e due carte per ciascuno. Se ne andarono.
«Però, Teddy, credo che dovresti giocare con quelli della tua età», fu il colpo di grazia di Lydia prima di allontanarsi. Un residuo di orgoglio gli impedì di seguirli. Restò a braccia conserte a guardarli mentre camminavano sul prato chiacchierando tra loro, e quando si voltò il posto gli parve più solitario che mai. Sarebbe stato molto meglio se non avesse litigato con Christopher. Non c’era nessun altro della sua età. Be’, a scuola ne avrebbe avuti a volontà. Il secondo anno sarebbe andato meglio del primo. Almeno non ci sarebbe stato il problema delle mille regole di cui nessuno ti parlava se non quando le violavi senza saperlo; non avrebbe dovuto subire tutte quelle angherie. Riaffiorarono tutti insieme i brutti ricordi: lo avevano legato nella vasca da bagno che si andava riempiendo lentamente e lui si era quasi congelato, sapendo che se non venivano a slegarlo sarebbe annegato; lo avevano percosso con un asciugamano bagnato e annodato (era successo nel semestre estivo, nell’ora di nuoto); gli avevano messo degli escrementi nel letto; le aveva buscate due volte, e questa era stata del resto l’unica cosa che aveva mitigato le angherie. Un solo amico, una matricola come lui, bravissimo lanciatore. Di tutto questo non si poteva parlare. Nel corso di quell’anno aveva imparato che i forti sottomettevano i deboli, e si era riproposto di diventare forte, in modo da essere lui a sottomettere gli altri. Lo squash, lo sport in cui era più bravo, non gli era stato d’aiuto: le matricole non giocavano a squash, ma quell’anno invece avrebbe giocato. Per tutta l’estate aveva finto con se stesso di aspettare con ansia l’inizio delle lezioni, ma non era vero. Quello che aspettava con ansia era il momento in cui sarebbe diventato troppo grande per la scuola, e allora, se ci fosse stata ancora la guerra, si sarebbe arruolato e sarebbe diventato il miglior pilota militare del mondo. Adesso aveva quattordici anni, perciò ne mancavano quattro.
* * *
«Non potremmo dare una breve occhiata e poi ripiegarli tutti?».
«Louise! È un segreto sacro!».
«Va bene, era solo un’idea. Quanti ne abbiamo finora?».
«Ci siamo tu e io. I tre bambini. Christopher e Angela».
«Come diavolo hai fatto a convincere Angela?».
«Non ha importanza. Non interrompermi. Miss Milliment, Simon, Ellen. Alle cameriere l’ho chiesto, hanno detto che la trovano una bella idea ma che non sanno cosa impegnare. Poi zia Sybil, zia Rach, mia madre e tua madre. Zio Rupe. Ho provato a dirlo a Grania; lei ha detto che sarebbe felice di dare la vita per evitare la guerra, ma naturalmente non va bene».
«Perché no?».
«Primo perché ne sarebbe felice davvero, secondo perché è troppo vecchia per suicidarsi. Troverò un modo gentile per dirglielo».
* * *
Mentre camminavano verso casa riuscì a tenere un contegno normale e dignitoso, come se niente – o niente d’importante – fosse accaduto, o come se qualsiasi cosa fosse successa fosse ormai risolta. Raggiunto il vialetto, gli disse che doveva tornare a Mill Farm per pranzo e lui disse: ma certo. Poi la fermò mettendole una mano sulla spalla e disse: «Mi dispiace davvero tanto. Sono stato cieco a non accorgermene. Sei una splendida persona, troverai un brav’uomo». Ci fu un attimo di silenzio, Angela aveva il volto rigido e teso come se portasse una maschera. Poi le disse: «Non ti dimenticherai di Christopher, vero?».
Scosse il capo, sorrise nella maniera che le parve più appropriata e rispose: «No. Certo che no», poi si voltò e s’incamminò svelta su per il viale. Sentì il rumore del cancello che si chiudeva e i passi di lui che s’inoltrava nel giardino senza aver indugiato nemmeno un istante, ma non si voltò. Proseguì lungo il vialetto, ma non poteva ancora tornare a casa. Perciò svoltò a sinistra sul sentiero che portava alla fattoria di York e, arrivata a un cancello, lo scavalcò, percorse ancora qualche metro in mezzo alle stoppie e si gettò a terra. I singhiozzi trattenuti vennero fuori a ondate penose e mute. Il dolore la riempiva come se in lei non ci fosse mai stato altro. Quando i primi spasmi si placarono cominciarono i pensieri, le parole. Quello che aveva detto lui, quello che aveva detto lei. E poi, la vergogna più cocente, quello che lei aveva pensato mentre scendeva dall’amaca, tanto tempo prima. «C’è qualcosa di cui vorrei parlarti». Come aveva potuto credere che fosse arrivato il momento che tanto attendeva? Che lui fosse sul punto di dichiararle il suo amore? Ora non le veniva in mente nessuna giustificazione a tanta follia, eppure l’aveva creduto. E poi, dopo, quando ancora le restava la possibilità di star zitta, perché non lo aveva fatto? Come le era venuto in mente di prendergli la mano e farlo voltare verso di sé? «Ti amo. Sono perdutamente innamorata di te», gli aveva detto, e adesso le restava l’immagine della faccia di lui che s’illuminava prima di comprensione e poi... sì, di orrore, seguito in fretta da una gentilezza compassionevole che l’aveva ferita più di tutto il resto. Ormai era troppo tardi per fermarsi. Era venuto fuori tutto. Glielo aveva detto perché poteva scoppiare presto una guerra, lui poteva restare ucciso e in ogni caso sarebbe partito e lei non lo avrebbe più rivisto. «Non sopportavo l’idea che partissi senza sapere», gli aveva detto quando già rimpiangeva amaramente quella dichiarazione. E adesso piangeva come aveva pianto prima, solo che non c’erano le braccia di lui intorno alle sue spalle. Perché l’aveva abbracciata, aveva cercato di consolarla dicendole tutte le inutili sciocchezze senza significato che si dicono in questi casi: l’avrebbe superata, era così giovane, aveva tutta la vita davanti a sé (come se una vita intera con tutto quel dolore fosse una prospettiva confortante!). Tutto ciò che aveva detto non era servito che a sminuirla, a umiliare ogni suo sentimento. Cercando di convincerla che quel suo amore era qualcosa di effimero, le aveva tolto tutto ciò che aveva. «Io a te non l’avrei mai detto!», lo aveva redarguito lei tra le lacrime. Questo lo aveva zittito. L’aveva tenuta stretta finché il pianto non si era placato, le aveva dato il suo fazzoletto. Poi le aveva detto quanto l’ammirava, che magnifica persona era per lui, ma non ricordava molto di quei discorsi. Aveva detto anche che era tanto più vecchio di lei, che era sposato, che tutte queste cose lei le sapeva e alla fine aveva detto che gli dispiaceva molto e che non sapeva cos’altro dire, e lei aveva capito che era vero. Si era soffiata il naso. «Il fazzoletto tienilo». Erano tornati indietro senza dirsi una parola. E poi, raggiunta la strada, lui aveva aggiunto: «Non ti dimenticherai di Christopher, vero?». Come aveva potuto? Invece se n’era dimenticata. Aveva ascoltato quei discorsi su Christopher nella trepidante attesa di ciò che si aspettava dovesse seguire. Si ributtò a faccia in giù, e le lacrime caddero dritte nella terra.
* * *
Quando Polly e Clary tornarono a Home Place per pranzo, finita la lezione, trovarono la porta della loro camera aperta e Oscar scomparso.
«C’è il cartello alla porta!», fece Polly sull’orlo delle lacrime. «Lo può leggere chiunque!». Dopo una frenetica ma accurata perlustrazione della stanza, si ritrovarono sul pianerottolo per decidere il da farsi.
«Deve essere stata una delle cameriere», disse Clary.
«Sì, ma dove può essere andato? Forse sta cercando di tornare a Londra. I gatti fanno queste cose».
«Io lo cerco in cucina. È molto attratto dal cibo. Tu guarda su questo piano».
Clary scese di sotto, superò il vestibolo e la porta rivestita di panno verde che portava nei locali riservati alla servitù, ma non fu accolta bene.
«No, Miss Clary, noi non ci siamo andate», dissero le cameriere mentre Mrs Cripps, nello stato di affannosa concitazione che sempre precedeva il servizio in tavola, le rispose urlando: «Via di qua, Miss! Conosce le regole. Niente bambini in cucina mentre stiamo servendo!».
«Non potrei solo cercarlo?».
«No, non può. E comunque non è qui. Quante volte ti ho detto di mettere i piatti delle verdure a scaldare, Emmeline? Adesso dovrei passarli sotto l’acqua calda. Guardi Flossy, Miss. Non sarebbe contenta di avere un altro gatto che si aggira per la cucina. Adesso via di qui, sia brava».
Clary lanciò un’occhiata a Flossy, che se ne stava acciambellata sul davanzale, rotonda e voluttuosa come un cappello di pelliccia, e la gatta, che si accorgeva sempre se qualcuno la guardava, alzò la testa; Clary indietreggiò di fronte a quello sguardo fermo e ostile.
«L’hai trovato?», gridò dalla base delle scale.
«No». Il viso pallido di Polly comparve sopra la balaustra. «Chi ha potuto essere così avventato da lasciare la porta aperta?».
Quasi tutti gli adulti erano nello studio del Generale ad ascoltare il notiziario, ma trovò suo padre e Zoë in soggiorno. Erano in piedi accanto al tavolo a ribalta, intenti a esaminare del tessuto che Zoë estraeva da un involto. Papà aveva un bicchiere in mano.
«Oh, Clary! Vieni a vedere», le disse.
«Adesso non posso guardare, papà. Un vero idiota ha lasciato aperta la porta della nostra camera, così Oscar è scappato e adesso non riusciamo a trovarlo!».
Zoë allora smise di liberare il tessuto dalla carta che lo avvolgeva e disse: «Oh, cielo. Temo di essere stata io!».
«Tu?». Clary la fissò. Tutti i sentimenti che covava nei confronti di Zoë e che non aveva mai espresso perché erano troppo cattivi le vennero su per la gola all’improvviso come un conato di vomito. «Tu! È proprio da te, idiota! Hai fatto scappare il gatto di Polly! Ti odio. Sei la persona più stupida che abbia mai conosciuto!».
Prima che potesse dire altro, suo padre la prese per un braccio e le disse: «Come osi rivolgerti a Zoë in quel modo? Chiedi scusa immediatamente!».
«No!». Lo guardò furente. Non le aveva mai parlato così prima ed ebbe un brivido di terrore.
Zoë disse: «Mi dispiace tanto, davvero». E Clary pensò: No, non è vero. Lo dici solo per far piacere a papà.
«E perché saresti andata in camera mia?».
«È andata a prendere uno dei tuoi vestiti, perché ha comprato della stoffa per fartene uno nuovo», le rispose papà, e lei, sentendo nel suo tono un empito d’amore che non era per lei, subito replicò: «Scommetto che lo fai solo per far piacere a papà, vero?», e guardò con ostilità la matrigna sforzandosi di tener viva la collera.
Zoë invece alzò gli occhi dal tavolo, la guardò dritta in faccia e disse con semplicità: «Sì, so quanto ti vuole bene... perciò, sì, hai ragione».
A Clary sembrò la prima cosa vera che mai avesse detto, e fu troppo. Era ormai abituata al risentimento e alla gelosia, anche se da un anno teneva quei sentimenti congelati in una fragile tregua e non poteva disfarsene per una sola frase. Non sapendo cosa dire si coprì il volto con le mani e scoppiò a piangere, cosicché l’apparecchio ai denti, che si era molto allentato, le cadde di bocca e finì sul tavolo. Papà l’abbracciò e Zoë raccolse l’apparecchio e glielo restituì dicendo: «Non è poi così brutto, se non devi tenerlo in bocca». Nessuno rise, e andò bene così.
Oscar fu ritrovato solo nel tardo pomeriggio, e Polly saltò il pranzo per cercarlo. Quando Clary si unì a lei dopo mangiato, aveva già perlustrato tutta la casa, le stalle – e qui aveva sfidato Mr Wren, che le aveva gridato contro ma era troppo assonnato per alzarsi («È ricaduto giù che ancora strillava») –, la casa sopra il garage, il campo da squash, tutti i vari capanni incluso quello sudicio del carbone, vicino alla serra.
«Mi fa male la gola a forza di chiamarlo», si lamentò Polly.
«Se si è allontanato, è possibile che si sia stancato e si sia messo a dormire da qualche parte», suggerì Clary. «Sono certa che lo troveremo». Lo disse soprattutto per dare animo a entrambe, ma Polly ci credette subito. In fondo al viale c’era una grossa, vecchia sequoia, e non appena l’ebbero raggiunta sentirono il miagolio. Pareva si fosse arrampicato molto in alto, perché sulle prime non riuscirono a vederlo, ma rispondeva a ogni chiamata.
«Vorrebbe scendere», disse Polly. Clary suggerì di prendere del cibo, dato che notoriamente i gatti ne sentivano l’odore anche a grandi distanze. Andò perciò a prendere qualcosa mentre Polly cercava di arrampicarsi sull’albero. Ma i rami più bassi erano comunque troppo alti. Quando Clary tornò con un piattino di pesce, trovò la sua amica in lacrime.
«Non ce la fa! Vorrebbe scendere, ma ha paura», disse. Allungarono il piattino verso di lui e lo chiamarono. Udirono un rumore di unghie che grattavano, come se stesse cercando di venir giù, ma di lui nemmeno l’ombra.
«Che succede?».
Non avevano sentito arrivare la bicicletta. Teddy era andato a fare un giro per conto suo. Quando gli dissero quel che era accaduto, lui replicò: «Te lo tiro giù io».
«Oh, Teddy, davvero sei capace?».
Ma nemmeno lui arrivava ai rami più bassi. «Ho un’idea. Tenete ferma la bicicletta, io salgo sulla canna e così dovrei arrivarci». Funzionò. «Non è tanto in alto. Lo vedo», disse Teddy. «Il problema è che non posso scendere giù con lui in braccio. Ahi!». Poi disse: «Una di voi vada a prendere un cesto o una sporta e anche un lungo pezzo di corda».
E andarono, ma ci volle un po’ di tempo. Si procurarono subito la sporta, ma fu meno facile mettere le mani su della corda. Alla fine ne trovarono un pezzo nel capanno degli attrezzi. Polly tornò da Teddy per spiegargli come mai ci mettessero tanto. Teddy fu molto gentile, disse che tanto aveva una barretta di cioccolato e, proprio mentre Polly si ricordava di aver saltato il pranzo, gliene lanciò un pezzo dal ramo su cui era seduto.
Legarono una delle estremità della corda ai manici della sporta. Poi Teddy dovette scendere fino al ramo più basso per prenderla. «Mettete il resto della corda dentro la sporta. Anzi, no, provate a lanciarmi l’estremità». Fecero diversi tentativi, e proprio quando stava per perdere la pazienza – le ragazze erano delle frane nei lanci – Clary fece un gran bel tiro e lui riuscì ad afferrare la corda. Il resto sarebbe stato facile, pensò. Legò la corda a un ramo e si arrampicò fino al punto in cui stava Oscar, ma aveva sottovalutato l’impresa di far entrare il gatto nella sporta. Oscar uggiolò e gli fece qualche brutto graffio, ma alla fine Teddy riuscì a infilarlo nella sporta e iniziò a calare la corda. E fu finita.
«Oh, Teddy, sei stato bravissimo!». Polly lo abbracciò. «Non lo avremmo mai preso senza di te», aggiunse Clary. Stava cercando di tenere ben stretti i manici della sporta, ma Oscar riuscì comunque a mettere fuori la testolina sdegnata.
«Vuoi che lo porti io?», si offrì Teddy, raggiante di essere celebrato come un eroe.
Clary stava per dire che non ce n’era bisogno, che ci avrebbero pensato loro, ma Polly disse: «Sì, grazie. Sono stanca morta e non vorrei che scappasse di nuovo».
Clary portò a mano la bici di Teddy, tornarono a casa tutti e tre insieme e irruppero nel salotto, dove sembravano essersi riuniti tutti quanti e dove Clary annunciò: «Lo abbiamo trovato! Teddy è stato...», ma s’interruppe subito perché c’era un’atmosfera diversa, tutti sorridevano contenti e festosi e la Duchessa disse: «Mr Chamberlain è tornato a casa, bambini», e vedendo la faccia di Polly aggiunse: «Ha telefonato tuo padre da Londra, Polly. Mi ha chiesto di dirlo soprattutto a te. La pace è stata raggiunta con onore». Allora Clary vide Polly farsi bianca come porcellana, roteare appena gli occhi e svenire.
* * *
«Che le avevo detto, Mrs Cripps? Tra il dire e il fare...».
«È proprio vero. Non si può mai dire», convenne lei. Stava avvolgendo le prugne appena scottate nel bacon, per gli angeli a cavallo da servire dopo il fagiano. «Le va un’altra focaccina, Mr Tonbridge?».
«Perché no? Be’, come dicevo, non tutto il male... perlomeno adesso potremo tornare alla normalità». Mrs Cripps, che per parte sua non se ne era mai allontanata, si dichiarò d’accordo. Per lui questo significava prima di tutto liberare il garage da tutti quei fastidiosi fornelletti; per lei significava riavere in cucina Dottie non appena avesse smesso di grattarsi. Quella sera fu la prima in cui lui la portò al pub, il che era tutto fuorché normale, e lei si divertì molto.
* * *
«L’accordo firmato ieri, così come il Trattato Navale anglo-tedesco, è da considerarsi il simbolo della volontà dei nostri due popoli di non entrare mai più in guerra l’uno contro l’altro». Hugh, seduto in macchina accanto a Edward, stava leggendo il giornale della sera che aveva acquistato per strada mentre tornavano nel Sussex.
«Nient’altro?».
«C’è anche questo: Siamo determinati a far sì che la consultazione diventi il metodo privilegiato di risoluzione di qualunque controversia possa sorgere fra i nostri due paesi e a proseguire nel comune sforzo affinché non vi siano più fonti di conflitto, garantendo così la pace in Europa».
Edward emise un grugnito. Poi disse: «Un uomo davvero in gamba, il vecchio Chamberlain. Non credevo ce l’avrebbe fatta».
«Be’, la pace a tutti i costi è sempre stato il suo obiettivo. Solo che non vedo dove sia l’onore. Soprattutto per i cechi».
«Andiamo! Volevi che si evitasse la guerra, no? Non sei mai contento. Accendimi una sigaretta, per piacere».
Hugh gliel’accese. Quando Edward la prese, disse: «Almeno avremo il tempo di riarmarci. E anche nella peggiore delle previsioni questo è un bene, ti pare?».
«Se ci riusciamo».
«Dio santo, Hugh! Su col morale! Pensa a quanto ci divertiremo a tirare fuori dal fiume tutti quei tronchi».
«E a lisciare il pelo all’Autorità portuale». Hugh sorrise. «Un vero spasso!».
* * *
«Tu credi che quelli che hanno messo il loro voto nella scatola lo rispetteranno?», domandò Louise mentre lei e Nora facevano il bagno, quella stessa sera.
«Non lo sapremo mai, credo». Nora si stava strofinando distrattamente sempre la stessa parte del braccio. «Potremmo chiederglielo, il che li farebbe sentire obbligati, ma non sapremo mai la verità. È una cosa che riguarda la coscienza di ognuno. Io il mio lo rispetterò».
«Ci diciamo i nostri?». Louise moriva dalla voglia di sapere quale fosse il voto di Nora. Che c’era di peggio che farsi monaca?
«Va bene. Prima tu».
«No. Prima tu».
«Io ho promesso che, se non fosse scoppiata la guerra, sarei diventata infermiera invece che suora». Guardò Louise sondando la sua reazione. «Capisci? Non desidero fare l’infermiera, mentre invece desidero molto diventare una suora».
«Ho capito». Non era vero: le sembravano entrambi mestieri orribili. Ma tant’era.
«E tu?».
«Io», esordì Louise con aria modesta, «ho giurato che, se non scoppiava la guerra, sarei venuta con te al collegio per signorine».
Nora sbuffò. «Credevo ci saresti venuta comunque!».
«Nient’affatto. Mi basta una notte fuori per morire di nostalgia! Magari a te sembra una stupidaggine, ma per me è un grosso sacrificio».
«Ti credo». Nora la guardò con benevolenza. «Ma ti passerà presto». Una stupida frase da adulti, pensò Louise, che da Nora proprio non si sarebbe aspettata.
* * *
Angela aspettava al cancello in fondo al viale di Mill Farm, per parlare da sola con Christopher. Era rientrata subito dopo la telefonata di Edward che annunciava a Villy la grande notizia, a cui lei restò indifferente, a parte un vago senso di gratitudine per il fatto che lui non sarebbe dovuto partire per la guerra. Poi era salita in camera sua e aveva chiuso la porta a chiave. Solo allora si era ricordata di Christopher ed era scesa ad aspettarlo. Lo vide arrivare dalla collina, lui la raggiunse e la salutò, e stava per tirar dritto ma Angela lo fermò. «Aspetta. Devo dirti una cosa». E cominciò, ma fu interrotta nel punto in cui gli diceva di non potergli rivelare in che modo lo avesse saputo.
«Ci sono novità riguardo alla guerra?».
«Oh, sì. Non ci sarà».
«Fiuu!». Dopo aver sospirato di sollievo le disse: «Non c’è bisogno che continui, allora. Se non c’è la guerra non posso scappare. Era il mio voto. Sai, per la scatola di Nora».
«Il tuo voto?».
«Certo. La promessa. Tu non ne hai fatta una? Ma che succede? Ange?». Pensava di averle versate tutte, ma le lacrime ricominciarono a scorrerle copiose dagli occhi. Christopher le cinse le spalle, dandole piccole pacche nel tentativo di tirarla su.
«Ange! Povera Ange, che succede?», continuava a dire.
«Chris, sono tanto triste! Non puoi nemmeno immaginare quanto soffro», gemette aggrappandosi a lui.
«Non ti ho mai vista così», disse lui. «Deve essere una cosa terribile. Mi dispiace». Lugubri immagini del ritorno a scuola, di papà che gli si rivolgeva sarcastico e litigava con mamma a causa sua avevano già cominciato a scorrergli davanti agli occhi. «Almeno non ci sarà la guerra. Quella sarebbe stata la cosa peggiore», le disse mentre l’immagine del suo nuovo piccolo rifugio vicino allo stagno si trasformava nel mero ricordo di un passatempo estivo. Gli venne un’idea. «La tua promessa è molto dura da rispettare, a proposito?».
«Oh, non se ne fa più niente. Non ha più senso», rispose lei, e la pena nella sua voce lo toccò nel profondo. Le prese la mano.
«Dobbiamo solo essere buoni l’uno con l’altro», le disse. Lei alzò lo sguardo per osservarlo – era più alto – e vide che aveva le lacrime agli occhi. Fu il primo, piccolo conforto.
* * *
«È tempo di prendere una decisione», disse Rupert mentre lui e Zoë si cambiavano per cena.
«È questo che hai avuto per la testa tutto il giorno?».
«Oh be’, no. Non solo questo». E come aveva fatto spesso nel corso della giornata, ripensò al difficile, imbarazzante, penoso confronto tra lui e quella povera ragazza, con la sensazione di non averlo gestito nel modo giusto anche se proprio non gli riusciva di immaginare quale potesse essere, il modo giusto. Non voleva parlarne con Zoë: sentiva che sarebbe stato sleale nei confronti di Angela, e inoltre non era affatto certo di come l’avrebbe presa... Be’, meglio non approfondire.
«Io mi atterrò alla tua decisione». Si era inginocchiata davanti all’armadio alla ricerca di un paio di scarpe. Aveva già detto quella frase, ma adesso suonava diversa, così come Zoë gli era sembrata diversa quella mattina, con Clary. Stava diventando una persona la cui opinione era da tenere in conto, proprio adesso che Rupert aveva smesso di aspettarselo e di desiderarlo.
«L’hai già detto», le rispose in tono irritato, senza pensare. Ma quando lei si alzò, vide che non aveva la solita espressione offesa o imbronciata, ma sembrava anzi contrita, e allora si vergognò.
«Scusami, tesoro».
«Non ti preoccupare». Andò al tavolo da toeletta e prese a spazzolarsi i capelli.
«Veramente», disse andando a tentoni, «oggi è successo qualcosa che mi ha turbato. No, non si tratta di Clary. Un’altra cosa. Ma non mi va di parlartene. Va bene?».
Lei guardò Rupert riflesso nello specchio, senza dire niente.
«Insomma», proseguì lui. «A volte, anche in un matrimonio, ci possono essere cose... cose che non minacciano in nessun modo la coppia, di cui non c’è bisogno di parlare. Non sei d’accordo?».
«Vuoi dire che possono esserci segreti e che non c’è niente di male in questo?».
«Qualcosa del genere, sì».
«Sì. Sono felice che la pensi così», disse lei. «Sono certa che hai ragione». Si alzò in piedi, prese il vestito di lana rosa dallo schienale della sedia e se lo infilò dalla testa, poi gli diede le spalle perché glielo allacciasse. «Non contano gli altri», disse Zoë. «Contiamo solo noi». Quando la fece voltare per baciarla, lei ricambiò il bacio con ardore ma senza il consueto languore infantile e lui pensò per un attimo che la bambola di seta che fino a poco prima aveva detestato adesso, per qualche perverso motivo, gli mancava.
«Voglio che tu sia tutto per l’uomo che ti sta vicino», disse all’improvviso. Solo poco tempo prima lei lo avrebbe guardato di sotto in su sbattendo le ciglia e avrebbe detto: «E chi è quell’uomo?». «Io», avrebbe risposto lui trascinandola a letto.
Adesso invece Zoë assunse un’aria sinceramente preoccupata e disse: «Ma Rupert, io non so se sono capace».
«Non importa. Ho appena deciso di diventare un uomo d’affari».
Lei gli rispose quasi compita: «Tuo padre ne sarà molto contento». Gli diede una piccola spinta. «Corri a dirglielo».
* * *
William se ne stava seduto nello studio con un bicchiere di whisky in mano. Era solo, e per una volta era contento così. Come sempre la porta era aperta in modo da far entrare i suoni familiari della casa: rubinetti che si aprivano, porte sbattute, voci di bambini, tintinnii di posate che venivano portate sui vassoi in sala da pranzo, il suono del pianoforte e del violino – Kitty e Sid, senza dubbio. Aveva ascoltato le notizie delle sei insieme a Rachel e Sid, poi le aveva congedate. Era molto stanco. L’immenso sollievo che aveva provato dopo la telefonata di Hugh da Londra era stato seguito da una ridda di dubbi che non voleva condividere con la famiglia. C’era qualcosa in quella vicenda – quella transazione – che lo insospettiva, anche se non riusciva a dire cosa. Le motivazioni del primo ministro erano impeccabili: era un uomo perbene e onesto. Ma questo poteva essere del tutto inutile se si aveva a che fare con gente non altrettanto perbene e onesta. Almeno stavano guadagnando tempo. Sarebbero servite quantità inaudite di legno dolce e di legno duro, perché di sicuro avrebbero cominciato a costruire navi. Aveva tolto Sampson dai bagni chimici e dal rifugio e l’aveva messo al lavoro sulle due nuove case. La lettera di York lo aveva divertito. Il vecchio era convinto di averci guadagnato, ecco perché aveva avuto la faccia tosta di chiedergli altri soldi per la terra: non si era reso conto che per lui, William, le case valevano molto di più e che avrebbe sborsato altre duecentocinquanta sterline se fosse stato necessario. Be’, adesso erano contenti entrambi. Sapeva di aver fatto arrabbiare Kitty con la faccenda degli evacuati, che ormai non aveva più ragion d’essere, ma si sarebbe fatto perdonare. Le avrebbe comprato un nuovo grammofono, uno di quei grossi arnesi con il corno, e tutti i dischi delle sinfonie di Beethoven eseguite da Toscanini, le avrebbe fatto piacere. E poi Rupert si era presentato poco prima per dirgli che accettava il posto nell’azienda. Perché allora non era contento? È che sono quasi cieco, e la cosa proprio non mi va giù, si disse prendendo la bottiglia e versandosi altro whisky. Per quella sera aveva scelto un buon porto, un Taylor del ‘21. Ormai gliene era rimasto poco. Tutto aveva fine. Aveva smesso di andare a cavallo per via della vista che peggiorava. Se n’era fatto una ragione. E ricordava l’ultima volta che aveva passato un paio d’ore con... come si chiamava... Millicent Greenway... no, Greencroft, nel suo appartamento a Maida Vale. Una donna di tutto rispetto. «Non importa», gli aveva detto quell’ultima volta. «Si vede che non è giornata». Le aveva fatto recapitare una cassa di champagne insieme alle solite venticinque sterline. E si era rassegnato a fare a meno anche di quello. A Kitty non era mai piaciuto il sesso, il che era naturale per una donna tirata su come si deve. Poteva continuare ad andare in ufficio, anche se sarebbero rimasti in campagna e della casa in Chester Terrace aveva già deciso di sbarazzarsi. Al lavoro non doveva rinunciare, ancora. E la guerra era scongiurata.
* * *
«Quando viene a trovarmi mio padre, ti dispiacerebbe lasciarci soli?».
«No, certo», disse Clary. Aveva una certa soggezione di Polly perché non aveva mai assistito a uno svenimento e, del resto, Polly aveva anche la febbre e si temeva stesse covando la varicella. Perciò, non appena arrivò Hugh, lei andò a trovare Simon.
«Ciao, piccola. Ho saputo che non stai bene». Si sedette sul bordo del letto. «Io la varicella l’ho già avuta, perciò posso darti un bacio», le disse. Scottava. Oscar era acciambellato accanto a lei.
«Allora, Poll. È una bella notizia, no?».
«Bellissima», replicò lei. «Lo sai che oggi Oscar si è perso? Lo abbiamo trovato sopra un albero. Clary e io abbiamo tenuto ferma la bici di Teddy che...». E gli raccontò tutta la storia.
«Alla fine lo hai ritrovato». Hugh carezzò la testa di Oscar, che ronfò di rimando. «Perciò è andato tutto bene».
«Sì», rispose Polly con indifferenza. «In un certo senso sì. Ma in un altro senso no, per niente».
«Di cosa stai parlando?».
«Si tratta di quella scatola di Nora, quella dove abbiamo messo i nostri voti nel caso in cui non fosse scoppiata la guerra. E adesso bisogna rispettarli. Almeno, io sento di doverlo fare».
«Vuoi dirmi qual è il tuo voto?».
«Sì, vorrei», fece lei pensosa. «Ma non voglio che lo sappia nessun altro».
«Va bene».
Si posò le dita a croce sulle labbra e lei disse: «Oh no, papà, quanto sei antiquato!».
«Sono vecchio», ammise lui. «Non posso farci niente». Si guardarono e scoppiarono in una risata, e Polly sembrò di nuovo se stessa.
«Insomma, è cominciata che siamo andate in chiesa. Inizialmente io non volevo andarci perché, vedi, non so ancora se credo o no in Dio». Lanciò un’occhiata al moncherino rivestito di seta nera e proseguì: «Anzi no, non ci credo. Nora ha detto che, se pregavamo perché non scoppiasse la guerra e la preghiera veniva esaudita, mi sarei dovuta ricredere. Perciò quando abbiamo scritto le promesse ho pensato che, se non scoppiava la guerra, dovevo cominciare a credere in Dio, ed è questo che ho scritto sul biglietto che poi ho messo nella scatola».
S’interruppe e, pensando che ci fosse dell’altro, lui disse: «Dunque?».
«Io mi sento uguale a prima! Non provo nessuna fede. Come si fa a costringersi a credere in una cosa? Far finta non serve a niente. E di sicuro è sbagliato».
«Concordo con te che non serve a niente».
«Tu ci credi in Dio?».
«Ehm... Polly, in effetti non lo so».
«Ma ci avrai pur pensato!», lo sgridò. «Alla tua età!».
«Sì. Be’, no, non ci credo».
«Voglio dire... metti che io comincio a credere in Dio e poi scoppia la guerra». Ecco il punto, pensò Hugh: non ci crede.
«Polly, non ci sarà nessuna guerra. Siamo in pace, adesso».
«Lo so. Ma tu puoi promettermi solennemente che non ce ne sarà mai una?».
«No».
«Vedi? Oh, quanto vorrei aver promesso qualcosa di più semplice, tipo rinunciare allo zucchero nel tè!».
«Potresti fare uno scambio».
«Ma papà! Sarebbe un imbroglio».
«Be’, io credo che se tu ogni sera dici di voler credere in Dio, se esiste, Dio ti sentirà».
«Io non voglio credere».
«Allora puoi dire di desiderare di voler credere. Non vedo cos’altro tu possa fare».
«E tutto il resto andrebbe avanti come sempre?».
«Sì».
«Va bene», disse. «È questa la vita di tutti i giorni, no? Fare come sempre».
«Ti sembra una cosa noiosa?».
«Lo sembra, a dirlo, ma quando ci sei dentro non lo è affatto».
Le diede un bacio e lei gli disse: «Papà! Lo sai qual è la cosa che più mi piace di te? Che hai un sacco di dubbi. Non sei sicuro di niente». Hugh era sulla porta quando aggiunse: «Ti ammiro molto per questo».
* * *
Clary incontrò Zoë e Rupert mentre andavano di sotto, si fermò e disse: «Oh, ciao, Zoë! Sei davvero carina. Il rosa ti dona molto». Stava rispettando il voto che aveva depositato nella scatola. Ora le sarebbe toccato farlo ogni giorno. Ogni giorno doveva dirle una cosa come quella. Quando aveva formulato la promessa, aveva pensato di inventare semplicemente delle cose da dirle, ma ora, dopo che Zoë era stata onesta con lei, sentiva di dover essere onesta a sua volta e di doverle dire la verità. Significava insistere giorno dopo giorno sulla sua bellezza, perché doveva ammettere che Zoë era davvero splendida. Del resto non le veniva in mente nient’altro. Basterà farle dei complimenti per il suo aspetto, pensò.
* * *
«Scommetto che lei lo sapeva che la guerra non sarebbe scoppiata!», borbottò Neville scontroso, dando a Nora tutta la colpa del duro compito che l’aspettava.
«Sì, però le prozie andranno via presto e tu sarai libero. Per noi è molto peggio».
«Sì», disse Judy. «È proprio così».
«Ti immagini non avere la paghetta per un anno intero? Doversi accontentare per ben dodici mesi dei regali di Natale e di compleanno?».
«Per me solo sei, veramente», precisò Judy. «Ho cambiato idea poco prima di mettere il biglietto nella scatola». Lydia la guardò con disprezzo e Judy arrossì.
«Per noi sarebbe stato meglio se fosse scoppiata la guerra», disse Neville. «Non mi sarebbe dispiaciuto per niente. Aeroplani e carrarmati dappertutto... mi piacciono un sacco!».
«È una stupidaggine, Neville! Potevi morire».
«Non è vero. Dal cielo un tedesco non sarebbe riuscito a vedermi perché sono troppo piccolo».
Ci fu un momento di silenzio. Poi Neville disse: «Possiamo non mantenerle e basta. Far finta di aver scherzato».
«Non possiamo!», esclamarono in coro le ragazze, ma lui capì che non dicevano sul serio.
«Io posso eccome!», dichiarò. «Voi fate come vi pare».
* * *
«Be’, Miss Milliment, un lieto fine così non ce lo eravamo immaginato, viste le ultime terribili settimane».
«No davvero, Lady Rydal». Un breve sorriso le arricciò la piccola bocca e poi sparì fra le pieghe del doppio mento. Conosceva Lady Rydal da molti anni e sapeva che i lieti fini non erano il suo forte.
Entrò Villy. Portava un bellissimo abito nero. «Non vi è stato ancora versato da bere!».
«Non volevo mettere in imbarazzo Miss Milliment». Era la maniera più delicata che Lady Rydal avesse saputo escogitare per far notare a Viola che era fuori luogo offrire alcolici a una governante, anche se a causa di circostanze straordinarie costei si ritrovava a cenare con la famiglia. Era sua convinzione che la democrazia non dovesse finire nelle mani sbagliate. Ma Viola non volle cogliere il suggerimento.
«Sono certa che Miss Milliment muore dalla voglia di un goccio di sherry», disse porgendo un bicchiere a entrambe.
«Morire forse è troppo, mia cara, ma lo bevo con molto piacere». E sorseggiò il vino con un sorriso grato.
Lady Rydal, sentendosi messa da parte, guardò con disgusto l’abbigliamento color banana di Miss Milliment. Doveva essere roba che si comprava nei negozi.
«Polly è a letto con la varicella», annunciò Villy. «Devo dire che spero che la prendano tutti».
«In quel caso lei resterebbe senza allievi, Miss Milliment», osservò Lady Rydal. «Del resto immagino che le manchi la sua confortevole casetta, dove ha tutte le sue cose», aggiunse convinta di dire la cosa più gentile del mondo.
La stanza si riempì in fretta e la festa ebbe inizio con le due bottiglie di champagne portate da Edward; eppure a tratti, durante la serata e durante la cena che fu lunga e festosa – nonostante Lady Rydal –, piena di risate e affetto e allegria, soprattutto verso la fine, quando uscì senza farsi notare diretta al suo alloggio, Miss Milliment pensò a casa sua. Pensò alla sua camera buia dove mancava il riscaldamento nonostante la fortuna che aveva speso per il contatore del gas, al letto bitorzoluto e alle coperte sottili e dure, alla solitaria lampadina appesa al soffitto con un paralume di ceramica bianca, troppo lontana dal letto per essere utile alla lettura (d’inverno passava le serate sotto le coperte, perché era il modo più semplice per scaldarsi), al linoleum danneggiato in più punti dove rischiava ogni giorno d’inciampare, alle pareti color caffè con una greca di arance e pere. Pensò alla finestra con le tendine di tulle grigio, da cui non era dato vedere altro che una schiera di case identiche a quella in cui viveva lei, niente alberi, niente che nutrisse gli occhi nelle lunghe serate che, dopo aver consumato la sua cena solitaria, trascorreva senza compagnia e senza distrazioni, fino al momento di prepararsi il suo bicchiere d’acqua calda e mettersi a dormire. Tutte queste cose premevano alle porte della sua coscienza gettando un’ombra sull’allegria, la festa, i volti amici, il calore e il conforto che la circondavano. Forza Eleanor, non farti prendere dalla malinconia. Pensa alla fortuna che hai avuto a poter vivere questa meravigliosa vacanza: questo luogo magnifico, la campagna, questa famiglia accogliente. È stata una vera oasi, ma non può durare a lungo.
Nella casa sopra il garage trovò Evie, la porta della sua camera aperta e tutta la sua roba sparsa in giro con le valigie aperte.
«Me ne vado a casa domani», annunciò. «Ho telefonato al mio caro amico e ora so che c’è bisogno di me a Londra. Me lo aspettavo. Sapevo che non ci sarebbe stata nessuna guerra, ma mia sorella non mi dà mai retta. Vuole sempre aver ragione lei». Sembrava euforica e molto agitata.
Miss Milliment le augurò buon viaggio ed entrò nella sua stanza. Restò per un po’ in piedi alla finestra, a godersi l’aria dolce, umida e tiepida sul viso. C’era un profumo di legna bruciata e di pini, probabilmente veniva dal boschetto dietro la casa. Persisteva in lei un senso di malinconia, e pensò che fosse perché aveva tanto desiderato vedere il mare, a soli quindici chilometri da lì, e ormai non ne avrebbe avuta più la possibilità. Sì, doveva essere questo. Non puoi aspettarti che tutto vada nel modo che tu desideri, Eleanor. Che meraviglioso profumo di pino! Lo aveva notato solo quel giorno, poco prima di cena, quando era andata a onorare il voto depositato nella scatola di Nora: aveva preso il pacchetto di lettere ingiallite, le aveva infilate nel vecchio, sudicio sacchetto da tabacco di seta che era stato di suo padre e aveva seppellito tutto in una piccola tomba che aveva scavato con le sue mani nel terreno soffice e pieno di foglie secche. Così almeno, alla sua morte, non ci sarebbero stati occhi curiosi e freddi a frugare con condiscendenza nei suoi ricordi.
Era da molto tempo che pensava di farlo, ma non era facile. Aveva così pochi ricordi di lui e, dopo tanti anni, anche quelli si erano fatti distanti, sfocati, frammentari. Restavano solo quei cimeli, ormai al sicuro nella terra, a impedire ai suoi ricordi di trasformarsi in fantasie spettrali. Ora che non poteva più rileggere le sue lettere, sapeva che la memoria di lui sarebbe svanita del tutto. Già l’invenzione aveva cominciato a scalzare il ricordo: aveva cominciato a pensare a lui come a una figura ipotetica, non reale. Non voleva trasformare la sua vita in una brutta biografia.
Chiuse gli occhi ripensando alla sera prima che lui partisse per il Sudafrica, quando l’aveva portata in giardino, le aveva preso la mano e le aveva declamato i versi finali di Dover Beach:
Ah, love, let us be
true
To one another! for the world which seems
To lie before us like a land of dreams,
So various, so beautiful, so new...9
Le parve magicamente di risentire la sua voce pacata, un po’ stridula e pedante (non pronunciava bene la R)... poi non ricordò più come proseguisse la lirica, e mentre tendeva le braccia nel buio la voce tremolò e si spense.
Era tutto finito.
5 Si tratta della voluta storpiatura di un verso di Amleto: «Un mese appena; prima che invecchiassero le scarpette con cui seguì la salma come una Niobe in lacrime» (Atto i, Scena 2, in W. Shakespeare, I drammi dialettici, trad. it. di Eugenio Montale, Milano, Mondadori, 1977).
6 Il Women’s Royal Naval Service (wrns) era il ramo femminile della Marina britannica, fondato nel 1917 e assorbito dalla Royal Navy nel 1993. Le militari erano chiamate comunemente Wren.
7 Il riferimento è al film Scarface – Lo sfregiato del 1932, diretto da Howard Hawks e Richard Rosson. L’omonimo film del 1983 di Brian De Palma è liberamente ispirato a questa prima versione cinematografica.
8 Si tratta di un notissimo racconto della scrittrice anglo-irlandese Maria Edgeworth (1768-1849). La piccola Rosamond spende il denaro destinato all’acquisto delle scarpe nuove per comprare un vaso di vetro viola da cui è molto attratta. Si accorgerà con delusione che l’oggetto non è fatto di vetro colorato, ma contiene semplicemente del liquido scuro. Il racconto è parte della raccolta di novelle per bambini The Parent’s Assistant (1796).
9 «Ah, amore, restiamo fedeli / l’uno all’altra! Perché il mondo, che sembra / stendersi dinnanzi a noi come una terra fatta di sogni, / così varia, così splendida, così nuova...». Matthew Arnold, Selected Poems and Prose, a cura di D. Thompson, Londra, Heinemann, 1971. Traduzione nostra.