Si guardarono in cagnesco. Poi Teddy disse: «Ho capito. Vuoi la guerra».
S’inserì Simon: «Christopher è obiettore di coscienza. Non può volere la guerra».
«Sta’ zitto, Simon!». Ecco, adesso li aveva contro tutti e due, pensò Simon.
Christopher disse: «Io non voglio la guerra. Tu cosa vuoi?».
Teddy parve colto di sorpresa. «Un accordo. Un buon accordo. Devo pensarci. I vostri biscotti sono tutti mollicci, dovevate metterli in una scatola di latta».
«Lo sappiamo, ma le abbiamo finite. Simon, prendi la roba che abbiamo portato e mettila nella tenda. Teddy e io dobbiamo parlare».
Potete parlare anche con me qua fuori, pensò Simon. Lo indispettiva essere trattato come un marmocchio, con Christopher che gli diceva di stare zitto e gli dava ordini di fronte a Teddy. Mi viene da piangere dalla rabbia, pensò. Ed era davvero sul punto di scoppiare in lacrime. «Tanto sento tutto quello che dite anche da dentro», disse obbedendo, ma quelli non gli risposero.
Teddy disse che aveva capito benissimo il perché di tanta segretezza: non volevano che gli adulti sapessero del loro rifugio, ma se lui, Teddy, non avesse ottenuto quello che voleva, sarebbe andato di filato a spifferare tutto. Christopher gli diede del bastardo, e Teddy replicò che anche Christopher era stato un bastardo e che lui lo stava solo ripagando con la stessa moneta. Non aveva ancora detto cos’era che voleva, lo incalzò Christopher. Be’, disse Teddy, voleva essere il capo, di qualunque cosa si trattasse. Christopher poteva essere il primo ufficiale e Simon il soldato: un risarcimento per averlo tenuto fuori dal progetto. E poi voleva sapere in che cosa consistesse esattamente il progetto. Subito Christopher rispose: niente.
«Come sarebbe, niente? Non avete messo insieme tutta questa roba per niente. E poi, se proprio volete saperlo, quella tenda è mia».
«Non è vero!». Simon uscì dalla tenda, fuori di sé per quella sfacciata bugia. «Il Generale l’ha regalata a tutti. È tanto mia quanto tua».
«In ogni caso non è di Christopher».
«C’è spazio per tutti e tre».
«Non ha importanza. Tu puoi dormire fuori. Sei un soldato semplice, dopotutto».
«Ma stai cambiando tutto il gioco!».
«Ah sì? E com’era prima, il gioco?».
Christopher si fece calmo e freddo e disse: «Va bene. Ci hai detto le tue condizioni. Ci penserò e domani ti dirò se le accetto o no. È meglio se le metti per iscritto».
«Non vuoi dirmi cosa stavate per fare?».
«No. E se dici a qualcuno di questo posto, non te lo dirò mai».
Teddy lo fissò. «Vuoi fare a botte?».
«Non particolarmente».
«Non particolarmente. E che vorrebbe dire, eh? Che hai paura? Scommetto di sì. Sei un vigliacco. Un codardo».
«Non è vero!».
Simon venne fuori ginocchioni dalla tenda. I due si scambiavano occhiate di fuoco. Teddy era rosso in viso, Christopher pallidissimo dalla rabbia. Poi Teddy tirò fuori il coltellino a serramanico e ne estrasse la lama più grossa. Gesù!, pensò Simon, non vorrà mica assalirlo con un coltello, Christopher è disarmato. Non può fare una cosa del genere!
Quello che fece fu camminare spedito verso la tenda, squarciare il tetto e aprirvi un grosso buco. Con un grido inarticolato di collera, Christopher gli si scagliò contro.
Fu una lotta ad armi pari, pensò Simon. Anche se Christopher aveva un anno più di Teddy, era di costituzione meno robusta, e in più Teddy faceva pugilato a scuola. Christopher però aveva le braccia più lunghe e si batteva con tutte le forze, cercando di fargli perdere l’equilibrio e di gettarlo a terra: ogni volta che Teddy si avvicinava abbastanza da colpirlo veniva afferrato e mandato lungo disteso. Entrambi comunque erano accecati dalla furia, e un paio di pugni di Teddy planarono sulla faccia di Christopher. Cominciò a sanguinargli il naso e un occhio aveva un aspetto strano.
La rissa finì perché Christopher riuscì ad afferrare l’avversario per la spalla destra, la sollevò e la torse e lo scagliò a terra con una violenza tale che Teddy restò senza fiato. Stette alcuni secondi a fissare il cugino ansimando, poi si diresse verso il torrente per lavarsi la faccia. Quando fu in grado di parlare, disse: «Va bene. Le mie condizioni te le ho dette. Se non le accetti entro le undici di domani, sarà guerra dichiarata». Si alzò massaggiandosi la spalla destra e s’incamminò. Non si voltò nemmeno a guardare Simon.
Seguì un silenzio. Simon raccolse il coltello di Teddy e andò a guardare la tenda. Lo squarcio non era tanto grande: sarebbero riusciti a ricucirlo o a chiuderlo col tappetino che stava sulla base della tenda, in modo che l’acqua, in caso di pioggia, non rovinasse la roba che c’era all’interno. Poi raggiunse Christopher, che era in ginocchio presso il ruscello. Si era tolto la camicia e ci si stava asciugando la faccia: aveva la schiena bianca e bitorzoluta, non sembrava per niente uno capace di uscire vincente da una rissa.
«Sei stato davvero forte», disse Simon. «L’hai battuto».
Christopher smise di tamponarsi la faccia e Simon vide che, oltre all’occhio tumefatto e al rivolo di sangue che aveva ripreso a scorrergli dal naso, stava anche piangendo. Gli si accucciò accanto. Gli piaceva consolare le persone quando piangevano. «È un peccato che abbia trovato il rifugio», disse. «Ma non lo dirà a nessuno, ci scommetto. Vuole entrare nel gioco. La tenda la rammenderemo».
Ma Christopher si pulì il naso con il dorso della mano, stette a osservare la striscia di sangue sulle nocche e disse: «Io dovrei essere contro la violenza! E invece ho cominciato una rissa!». Nell’occhio sano aveva una tale disperazione che era quasi meglio guardargli l’altro, quello tumefatto.
«Veramente ha cominciato lui. Ma almeno abbiamo le sue condizioni da prendere in considerazione».
«Sì, è vero. Negozieremo».
Simon non replicò. L’unica negoziazione possibile secondo lui era accettare le condizioni dettate da Teddy.
* * *
Quella sera a Mill Farm c’erano undici persone sedute a tavola, perché Villy aveva invitato anche Rupert e Zoë, in modo da evitare che il povero Edward si ritrovasse circondato dal suo parentado femminile, più Miss Milliment. Voleva coinvolgere anche Teddy, pensando di fare cosa gradita a Christopher, ma quest’ultimo si era dimenticato di dargli il messaggio e ormai era tardi. Judy, Lydia e Neville erano a letto, almeno in teoria. In realtà, con Ellen che aiutava Emily a fare i piatti in cucina, si erano messi a giocare a un chiassoso ospedale dove Lydia era la paziente (varicella), Judy l’infermiera e Neville, essendo il solo maschietto, il dottore. Ma anche così, con undici persone intorno al tavolo lungo e stretto, servire le verdure non era cosa semplice, come Phyllis – appena rientrata da Londra – ebbe modo di toccare con mano.
Villy aveva sistemato sua madre fra lei e Jessica. Lady Rydal si era comportata per tutto il giorno come se la morte di zia Lena, che non aveva mai visto in vita sua, fosse un evento luttuoso che la toccava personalmente rendendole penoso anche il semplice scendere a cena (rigorosamente in nero), una concessione coraggiosa a fronte della quale le erano dovute ammirazione e sollecitudine. Jessica fece egregiamente la sua parte adottando l’atteggiamento pacato e vagamente religioso che ci si aspettava da lei e che mandava su tutte le furie sia Christopher sia Nora: il primo perché aborriva ogni sorta d’impostura, la seconda perché trovava blasfemo fingere al cospetto di Dio. Villy aveva inoltre fatto in modo che Edward fosse seduto fra Angela e Zoë, sperando che la loro compagnia lo distraesse dall’età media degli altri commensali, ma Angela, con addosso un informe abito grigio e senza un filo di trucco sul volto, era così taciturna e smunta che sua madre si preoccupò. «Non starai mica covando la varicella?». Ma lei disse di no, che aveva solo un brutto mal di capo. Zoë, che di solito flirtava (in maniera assolutamente rispettabile, s’intende) con Edward, sembrava piuttosto giù di corda, e Edward dovette cercare un argomento di conversazione nell’occhio nero di Christopher. «Hai preso una bella botta, ragazzo. Come hai fatto?». E Christopher spiegò per la tredicesima volta che era caduto da un albero. Nora sapeva che non era vero e si chiedeva cosa fosse successo in realtà. Deve aver fatto a botte, pensò. Christopher era capace di dare in escandescenze, anche se non durava mai molto. I commensali più vivaci, inaspettatamente per Villy, furono Rupert e Miss Milliment, che parlarono con trasporto di pittori francesi e di arte in generale. Rupert, che aveva incontrato la Milliment una volta sola quando Clary aveva cominciato a frequentare le sue lezioni, era stupefatto da quella insolita signora vestita coi colori di una banana matura che conosceva e ammirava tutti i suoi artisti preferiti. Louise invece, seduta di fronte a loro, non riusciva a staccare gli occhi dai frammenti di spinaci e pesce che in quantità crescente rimanevano incastrati nelle pieghe fra i menti di Miss Milliment. Cercò di attirare la sua attenzione facendole discretamente il gesto di pulirsi, ma era impossibile a quella distanza. Fu Nora a gattonare sotto il tavolo e a spuntare di fronte alla signorina porgendole il tovagliolo e dicendole: «Ero scesa dalla sedia per raccogliere il mio tovagliolo e a quanto pare ho trovato anche il suo. Con il pesce ci vuole proprio, non trova?».
Miss Milliment capì immediatamente e si passò il tovagliolo sulla faccia e poi anche, dopo averci riflettuto un secondo, sulle lenti appannate dei piccolissimi occhiali dalla montatura d’acciaio.
«Grazie, Nora».
E Louise, furiosa perché quello stratagemma così discreto e brillante non era venuto in mente a lei, s’inserì subito nella conversazione dicendo: «Però le piace anche la pittura cinese, vero Miss Milliment? Ricorda quel meraviglioso disegno di tre pesci alla mostra che ci portò a vedere?».
«Ma certo, Louise. Era uno dei tuoi preferiti, vero? Un magnifico disegno a inchiostro, semplice e perfetto. Credete...», disse poi abbassando la voce, «...che porteranno via i capolavori delle gallerie londinesi, per metterli in un posto sicuro? Sarebbe un tale sollievo».
«Se scoppia la guerra, intende?», rispose Rupert. «Credo che metteranno molta roba nei sotterranei. O nei rifugi antiaerei».
Edward rivolse un’occhiata torva al fratello. Non gli piaceva che si parlasse della Situazione di fronte alle donne anziane e ai bambini. «Non importa cosa fai, quello che conta è non spaventare i cavalli», disse. Nel linguaggio segreto dei Cazalet voleva dire sta’ zitto.
Ma Louise, che di questo non era al corrente, subito cinguettò: «È una frase di Stella Campbell, però lei si riferiva a qualcosa di più proibito. Di certo non la guerra».
«Chi era Stella Campbell?», domandò Zoë, e Rupert la guardò stupefatto, non tanto perché non lo sapeva ma perché lo aveva ammesso in pubblico.
«Un’attrice, ma di tanti anni fa. Lo capisci dal fatto che non c’erano le macchine a motore».
La tavola venne sparecchiata e un grosso vassoio con due pudding di frutta fu depositato da Phyllis di fronte a Villy.
«Evviva», fece Rupert. «Il mio pudding preferito. Dovresti mettere una bistecca su quell’occhio», aggiunse poi rivolto a Christopher, il quale, notò Nora, assunse un colorito verdastro solo a sentirlo dire.
«Che cosa disgustosa!», esclamò allora lei. «E poi per cena c’era del pesce. Non credo che avrebbe funzionato».
«Non saprei», fece Louise pensosa. «È sempre meglio di un pesce marcio sbattuto in un occhio».
«Che sciocchezza», osservò Miss Milliment che aveva bevuto un bicchiere di vino e non era del tutto in sé, vale a dire che si sentiva bene. «Qualunque cosa è meglio di quello».
«Una medusa in un occhio sarebbe peggio», disse Nora ridacchiando.
«È un’idea davvero schifosa». Angela si voltò verso la nonna in cerca di approvazione, ma Lady Rydal, il cui doppio giro di perle di cristallo di rocca stava oscillando pericolosamente a pochi centimetri dal pudding, recuperò la sua postura eretta e disse: «Angela, mia cara, le ragazze beneducate non usano parole come schifoso. Dovresti dire disgustoso, se è questo che intendi».
«Prendi un po’ di panna», disse Edward ad Angela, e le fece l’occhiolino, ma lei era talmente mortificata che non ci fece nemmeno caso.
* * *
Clary e Polly stavano consumando una cena tutt’altro che piacevole nella loro camera. Clary stava molto meglio, anche se certe pustole le davano ancora prurito, però si annoiava. Aveva scritto cinque novelle quel giorno – ne aveva in cantiere sette, una per ognuno dei peccati capitali – e adesso era troppo stanca per fare qualcosa d’interessante. Polly stava facendo un tale sforzo per non parlare della guerra con Clary che non riusciva a trovare nessun argomento di conversazione. Oscar era il padrone assoluto della stanza. Nonostante la generosa ciotola di rigaglie e latte che gli era stata servita, aveva fatto intendere chiaramente che preferiva di gran lunga la cena della sua padrona. E lo stesso pareva pensare a proposito del letto: Polly lo aveva più volte tirato su di peso e messo sul giaciglio che gli aveva preparato, ma il gatto aveva aspettato che lei mollasse la presa per saltare giù, mettendo in chiaro che non intendeva dormire lì sopra. Poi si era seduto e aveva cominciato a detergersi con cura le zampine dalle punte biancastre e a passarsi di tanto in tanto la lingua sul folto pelo grigio dei fianchi, anche se non c’era traccia di sporcizia. Quando Polly lo chiamò per nome, si bloccò e la fissò coi suoi occhi turchesi, poi saltò sul letto di Clary e si piazzò con disinvoltura sul suo quaderno.
«Non mi dà fastidio», disse Clary. «Anzi, mi piace».
«Ma se non va a dormire nel suo letto, credi che almeno userà il suo bagno?». Gli aveva preparato una scatola con dentro della carta di giornale e della carbonella presa dalla caldaia della serra e l’aveva sistemata in un angolo poco in vista della stanza. Il gatto non si era interessato nemmeno a quella.
«Vedrai che ci andrà. I gatti sono animali molto puliti». Vi fu un silenzio durante il quale entrambe osservarono Oscar che pian piano chiudeva gli occhi e prendeva sonno. Polly si accorse che Clary la guardava con aria supplice e imbarazzata. Sa qualcosa, pensò. Se davvero sa qualcosa, è giusto parlarne.
«Stiamo pensando alla stessa cosa?», le disse.
«Perché? Tu a che stai pensando?».
«Prima tu».
«Be’», esordì Clary arrossendo, «si tratta della lussuria, veramente. Qualcosa ne so, ma poco. Non è che la cosa m’interessi in sé, ma è uno dei sette peccati capitali. Tutti gli altri li ho già trattati nei miei racconti, eccetto la gola. Di quella parlerò in una novella su un maiale che si trasforma in bambino. Oppure il contrario, non ho ancora deciso. E poi c’è quello».
«Quello cosa?».
«Quello che ti ho appena detto. La lussuria. Tu che ne pensi?».
«Be’», disse lentamente Polly. «Mi fa pensare all’Antico Testamento. Alle tigri. Sai, la tigre che muore dalla voglia di mettere le zampe sulla sua preda».
«Oh, Poll, per favore! Non credo che una tigre che vuole solo mangiare commetta un peccato capitale. Non può trattarsi di questo. Voglio dire, in che cosa consiste? Quand’è che uno commette il peccato di lussuria? E come ci si sente? Uno scrittore queste cose deve saperle. Tutti gli altri peccati li conosco per esperienza».
«Scommetto che non è vero».
«E sbagli. Io invece scommetto che li conosci anche tu». Scartabellò il quaderno in cerca della sua lista. «Sta’ a sentire. Superbia. Quando ho scritto quella storia sulla nascita di Gesù dal punto di vista di un locandiere, ho pensato che fosse la storia più bella che fosse mai stata scritta. Gola. Una volta ho regalato a Zoë una scatola di cioccolatini alla viola e alla rosa e li ho sostituiti tutti con delle praline al cocco stantie. Ovviamente i cioccolatini me li sono mangiati tutti. Invidia. Invidio te e Louise perché avete ancora la mamma. Spesso, anzi, quasi sempre. Avarizia, ero troppo avara per comprare a Neville una scatola di plastilina più grande. Con il resto mi sono presa un cactus per me. Accidia...».
«Va bene, va bene», la fermò Polly. «Non c’è bisogno che continui. Tutte queste cose le ho fatte anch’io».
«La lussuria no, però».
«A meno che non sia possibile commettere lussuria senza accorgersene. E considerato con che facilità si possono commettere tutti gli altri, potrebbe benissimo essere successo. È buffo, no? Si direbbe che i peccati mortali siano più difficili da commettere».
«Non c’è da stupirsi se ci sono guerre, omicidi e cose così! La gente commette peccati mortali ogni giorno. Io credo che abbia a che fare coi corpi. La lussuria, voglio dire, e in tutta onestà non c’è niente che mi interessi di meno».
«Eccetto gli animali», disse Polly accarezzando la sua amata bestiola. «Sei preoccupata per la guerra?», aggiunse col tono più casuale possibile.
«È per questo che hai chiesto a tuo padre di portare qui Oscar?».
Polly fissò sua cugina, confusa. «Sì», ammise. «Però per piacere non dirlo a nessuno».
«Be’, se davvero scoppiasse la guerra, resteremmo tutti qui per chissà quanto tempo, altro che varicella. Non sarebbe per niente male!».
«Non è possibile! Tu non capisci. Sarà mille volte peggio della guerra precedente. Tu non lo sai. Non sai del gas velenoso. Butteranno molte più bombe rispetto all’altra volta e vivremo tutti nei rifugi sotterranei. Ci saranno dappertutto filo spinato e ratti! La guerra non sarà lontano, da qualche parte giù in Francia, sarà ovunque, anche qui! E continuerà finché non saranno tutti morti! Io lo so!». Stava piangendo, ormai del tutto incurante della possibilità di spaventare Clary e anzi forse decisa a spaventarla, per avere almeno qualcuno con cui condividere la sua angoscia. Ma Clary non era spaventata affatto.
«Stai lavorando di fantasia», le disse. «Lo faccio spesso anch’io». Si mise in ginocchio sul letto e abbracciò Polly. «Ci sono io. E c’è Oscar. Non ci sarà nessuna guerra. E anche se ci fosse, pensa alla storia passata. Abbiamo sempre vinto noi».
E sebbene nessuna di quelle affermazioni fosse davvero confortante, Polly si sentì un poco rassicurata. Si soffiò il naso, e decisero insieme che avrebbero cercato “lussuria” nell’enciclopedia del Generale, oppure avrebbero chiesto lumi a Miss Milliment.
«Lei sa tutto. Di sicuro saprà anche questo», dichiarò Clary. E Polly, mentre portava al piano di sotto il vassoio della loro cena, si sentì serena, almeno più serena di come si era sentita nelle ultime ventiquattro ore.
* * *
Dopo cena, mentre la Duchessa e Sid stavano ancora eseguendo la loro sonata di Brahms, Hugh fece a sua moglie il consueto segnale con cui le diceva che desiderava ritirarsi in sua compagnia. Appena fuori dal salotto la prese per mano e salirono al piano di sopra, diretti prima di tutto al piccolo spogliatoio in cui Wills dormiva di un sonno voluttuoso, con le coperte buttate da una parte e una gamba per aria. Sybil lo coprì con un gesto delicato. Le sue palpebre ebbero un fremito, poi emise un sospiro. Sybil raccolse il bambolotto che giaceva in terra e glielo adagiò accanto.
«Da dove spunta quello?».
«Glielo ha regalato Judy. Era suo. Si chiama Golly Grullo. È il suo giocattolo preferito».
«Un nome azzeccato, per uno con quella faccia».
«Sembra anche a me». Spense la luce e andarono nella stanza adiacente. «Che c’è caro? Qualcosa ti preoccupa?».
«Sì», replicò lui. «Edward dirà che sono un allarmista, ma Londra ormai ne è piena. Tutti devono avere una maschera antigas. Domani andremo a prenderle anche noi».
«Oh, Dio! Dove?».
«A Battle, probabilmente. Alla Church Hall, secondo il Generale. Lo saprà con certezza domani mattina. Lui la pensa come me».
«Ci saranno quelle per i bambini piccoli?». Cominciava ad aver paura. «Perché altrimenti io...».
«Ma certo che ci sono».
«Non gli piacerà. Si spaventerà a morte, poverino».
«Andrà tutto bene. Ma dobbiamo pensare agli altri ragazzi. Non voglio che abbiano paura. Polly ha già capito».
«Perché?».
«Altrimenti non mi avrebbe chiesto di portarle Oscar. A te non ha detto niente?».
«No... Hugh...». Era seduta sul bordo del letto. «Oh Dio, Hugh, credi davvero che...».
«Non lo so. Ma dobbiamo essere preparati a tutto».
«Ma è una cosa che nessuno vuole! È ridicolo! Un incubo! Dovremmo entrare in guerra per la Cecoslovacchia?».
Hugh cercò di spiegarle il motivo per cui sì, dovevano farlo, ma vedeva che i suoi discorsi non avevano senso agli occhi di lei. Alla fine, dopo aver diligentemente annuito a quelle vane spiegazioni, lei gli chiese: «Se dovesse succedere, che cosa vuoi che faccia?».
«Starai qui coi ragazzi. Poi vedremo».
«E tu? Non posso lasciarti a Londra, da solo».
«Cara. Non so dove sarò».
«Che vuoi dire?».
«Può darsi che venga richiamato per qualche genere di mansione. Non preoccuparti. Probabilmente un incarico d’ufficio». Abbassò gli occhi sul braccio mutilo. «Non sono più i giorni di Nelson. Oppure, se parte Edward, io resterò per mandare avanti l’azienda insieme al Generale. Ci sarà bisogno di legname».
«Parli come se fossi sicuro che succederà!».
«Cristo santo! Mi hai chiesto che cosa farò se dovesse succedere! È quello che sto cercando di dirti».
Sybil parve così affranta che lui le andò vicino e la sollevò in piedi. «Mi spiace, tesoro. Sono molto stanco. Andiamocene a dormire».
Quando furono insieme nel buio, tenendosi per mano come facevano spesso, lei disse: «Almeno Simon non ha ancora l’età per partire».
E Hugh, grato che lei potesse chiudere gli occhi con quel pensiero confortante, replicò con fervore. «Nemmeno lontanamente».
* * *
«...è così, credimi!».
«Sciocchezze, mia cara. Aveva solo un po’ di mal di testa».
«Non è questo. Quella è innamorata di te».
«Gesù, ma è praticamente mia nipote!».
«Hai dipinto il suo ritratto per tutti questi giorni, come hai fatto a non accorgertene?».
Rupert la prese sottobraccio. «Be’, non me ne sono accorto. Dici sempre che gli uomini queste cose non le vedono. Io sono un uomo».
Stavano risalendo la collina verso Home Place. Il cielo era scuro, coperto; un velo sottile di nebbia aleggiava sopra il campo di luppolo che una volta apparteneva a Mill Farm. Dopo un silenzio di ragionevole durata, Rupert aggiunse: «E poi è una bambina. Ha solo diciannove anni».
«Io quanti anni avevo quando ci siamo sposati?».
Lui si fermò. «Dio santo, Zoë! Va bene. Non c’è nessuna ragione al mondo per cui io non debba essermi innamorato di lei: ha diciannove anni, è bella e tu sei stata via per diversi giorni. Ma il fatto è che non è successo. Comunque, nemmeno io ho idea di cos’hai combinato quando eri a Londra».
«Te l’ho detto. Sono uscita con una ragazza che veniva a scuola con me». E affrettò il passo, precedendolo lungo il vialetto.
Gesù, adesso si arrabbierà e metterà il broncio, pensò lui, e la raggiunse. «Stavo solo scherzando», le disse. «So che è stata dura con tua madre. Ti ammiro tanto per essere stata così generosa ed essere rimasta accanto a lei così a lungo. Ti sarai annoiata molto. Hai fatto bene a uscire con la tua amica».
Erano arrivati al cancelletto bianco che immetteva nel prato, verso l’ingresso principale. L’attirò a sé e vide che aveva gli occhi lucidi.
«Una così bella ragazza...». Ma lei lo guardò come se per la prima volta non avesse voglia di sentire quella frase.
«È tutto quello che sono», disse. «Non c’è nient’altro!». Si voltò e corse in casa senza aspettarlo.
Mentre chiudeva il cancello e la seguiva – senza fretta – Rupert pensò che accudire un’ammalata, cosa che non aveva mai fatto prima, doveva averla davvero prostrata. Poi però si ricordò che aveva dormito tutto il pomeriggio. Forse dovevano venirle le sue cose. Ma le aveva avute poco prima di andare a Londra, perciò ci sarebbe voluta almeno un’altra settimana. No, non era quello.
Poi si domandò se per caso Zoë non avesse ragione riguardo ad Angela; che stupido a non accorgersene, se era vero. Ma se anche lo avesse saputo, che poteva farci? Probabilmente era solo una fase. Poi si rese conto di quanto quel pensiero fosse ipocrita. Era quello che la gente più grande diceva a proposito dei sentimenti o comportamenti sconvenienti dei più giovani: come se anche loro non fossero soggetti a fasi... che razza di parola, poi! Almeno Zoë non gli aveva domandato che cosa avesse deciso a proposito della possibilità di entrare nell’azienda di famiglia, il che era un sollievo perché lui era ancora in alto mare e, se avevano ragione Hugh e il Generale, presto qualcun altro avrebbe deciso per lui. Sarebbe stato chiamato al fronte, o forse prima in qualche campo di addestramento.
Rimuginando, si ritrovò davanti alla porta di Clary e volle controllare che stesse bene prima di andare a dormire. Ma un cartello appeso alla porta diceva: «C’È OSCAR IN CAMERA. PER FAVORE NON APRITE LA PORTA DI NOTTE». E chi diavolo è Oscar? Non lo sapeva. Stette in ascolto per alcuni secondi, ma dalla stanza non venne un suono. La casa era immersa nel silenzio. Se lui fosse partito, chi si sarebbe occupato di Clary? Sarebbe rimasta in quella casa e avrebbe avuto Miss Milliment che – ne aveva avuto la conferma dopo cena – le era molto affezionata. Andò in bagno, orinò e poi si affacciò alla finestra aperta. C’era uno strato di foschia bianca sopra l’orto, e l’aria odorava vagamente di fumo di legna freddo; un gufo emise un grido spettrale, simile al suono di una sirena, poi tacque e lo rifece due volte. Se fosse stato solo, sarebbe andato a dare un’occhiata al suo quadro per vedere se era finito, anche se ne era quasi sicuro, ma a volte era difficile sapere quando fermarsi. Isobel sarebbe venuta con me a guardarlo, pensò, e la seppellì un’altra volta, perché il pensiero di lei gli dava sempre la sensazione di commettere un qualche tradimento che proprio non poteva permettersi. Solo quando era ormai prossimo alla porta della camera da letto – e stava preparandosi un discorso di scusa nel caso in cui lei gli avesse tenuto il muso o se l’avesse trovata a gironzolare mezza nuda per la stanza chiacchierando procace –, si concentrò su quella frase che gli aveva detto Zoë quando lui aveva cominciato a dirle quanto era bella. «Sono solo questo!». Una verità terribile e gravida di conseguenze, ma lui non poteva portarne il peso al suo posto. Un empito d’amore protettivo rivestì come un’armatura il suo senso di lealtà: se avesse ripetuto una cosa di quel genere, le avrebbe detto che non era vero.
Quando entrò in camera, il buio era completo eccetto che per la piccola abat-jour accesa dalla sua parte del letto e lei era sotto le coperte, così immobile e silenziosa che Rupert pensò che dormisse. Quando si coricò anche lui e le toccò la spalla, lei si voltò e gli si gettò tra le braccia senza dire una parola.
* * *
Il sabato mattina successivo la Duchessa si svegliò come al suo solito mentre le prime luci dell’alba cominciavano a filtrare dalle tende di mussola bianca, proiettando un’ampia striscia sul suo lettino bianco, stretto e duro. Si alzò un istante dopo essersi svegliata: quella di crogiolarsi a letto era una mollezza moderna che disapprovava, così come considerava superfluo e perfino decadente il tè appena svegli. Indossò la vestaglia e le pantofole azzurre e andò in bagno, dove si lavò con l’acqua tiepida: l’acqua calda era un’altra delle cose che usava con parsimonia. Rovinava l’impianto, e poi lei rimaneva nella vasca solo il tempo necessario per lavarsi. Tornata in camera, si sciolse la treccia, che durante il bagno aveva raccolto sopra la testa, e si diede cinquanta vigorosi colpi di spazzola. Come a sua figlia, le piaceva vestirsi di azzurro e i suoi abiti erano più o meno sempre gli stessi, nella versione estiva e in quella invernale: una gonna di jersey blu scuro, una camicetta di seta o di cotone di una tonalità più chiara e un cardigan. Si mise un paio di calze grigio chiaro e delle scarpe basse, con due cinturini.
Poi si sedette al tavolino da toeletta, rivestito di mussola bianca ma pressoché vuoto a eccezione del set di spazzole di tartaruga con le sue iniziali in argento, comprendente una spazzola, un pettine, un calzascarpe e un allacciaguanti, e si tirò su i capelli. Aveva una bella carnagione, una fronte spaziosa sopra la quale ripiegava i capelli, un viso a forma di cuore senza traccia di doppio mento. Era stata una gran bellezza e a settantuno anni era ancora una donna straordinariamente piacente, ma era anche del tutto incurante del proprio aspetto, lo era sempre stata, e si guardava allo specchio solo per controllare se aveva i capelli in ordine. Come tocco finale si allacciò al polso l’orologio d’oro che le aveva regalato William alle nozze e appuntò sotto il cinturino un piccolo fazzoletto bianco con l’orlo di pizzo per nascondere la minuscola voglia violacea che aveva sul polso. Poi si mise al collo la catenina d’argento con la croce di madreperla e zaffiri. Era pronta per la giornata. Per tutta la durata delle abluzioni e della vestizione, la sua mente aveva lavorato a svariate liste, ancora molto incomplete, di cose che andavano fatte quella mattina. Disfece il letto per arieggiarlo – abitudine risalente ai tempi in cui i materassi erano imbottiti di piume e andavano arieggiati ogni giorno –, poi aprì completamente le finestre così da cambiare aria alla stanza e scese in soggiorno, dove era abituata a fare colazione prima del resto della famiglia con tè indiano e pane tostato, una fetta spalmata di burro e un’altra di marmellata: mettere entrambe le cose su ogni fetta per lei era uno spreco inconcepibile. Con la seconda tazza di tè in mano, prese una busta usata dalla scrivania e cominciò a stilare liste su diverse colonne. Con quindici persone in casa – senza contare la servitù, che però andava messa in conto quando era il momento di fare provviste – la gestione domestica diventava un’impresa impegnativa. Sarebbe andata a Battle con Tonbridge subito dopo aver parlato con Mrs Cripps dei menu del fine settimana. Hugh e Edward si apprestavano a portare tutti a Battle per prelevare le maschere antigas, ma la Duchessa si rese conto solo in quel momento che dovevano andarci anche i domestici: quando poteva fare a meno di Mrs Cripps? Subito dopo pranzo, decise.
Poi c’era da andare a prendere la sorella di Sid alla stazione, non ricordava a che ora. Sid e Rachel potevano dare una mano. Prendere i lettini da campo, per esempio, che adesso giacevano accatastati nell’ingresso, e portarli nel campo da squash, dove almeno non li avrebbero avuti fra i piedi; oppure potevano dare i tocchi finali all’appartamento dove prima alloggiavano i Tonbridge e che lei aveva risistemato in previsione di un possibile sovraffollamento. Aveva finito di cucire le tende a macchina il giorno prima. Prima di prendere decisioni al riguardo, tuttavia, doveva assicurarsi che William non avesse davvero invitato ventiquattro persone a dormire nel campo da squash; sperava ardentemente di no, ma del resto per quale altro motivo uno dovrebbe comprare ventiquattro brandine? Non si era posto il problema delle lenzuola, dei cuscini, delle coperte, ma del resto era un uomo e c’era da aspettarselo. Comprare le lenzuola voleva dire andare a Hastings e ordinarle, ed era improbabile riuscire ad averle prima della settimana a venire. E la settimana a venire, era possibile che fossero già in guerra. Di nuovo!
La Duchessa apparteneva a un sesso e a una generazione la cui opinione non era richiesta se non per malattie infantili e faccende casalinghe, ma questo non voleva dire che non avesse preoccupazioni più serie: semplicemente, queste facevano parte del vasto repertorio di argomenti di cui non si parlava e men che meno si discuteva tra donne, e non perché, come nel caso delle funzioni corporee, fosse sconveniente, ma perché era del tutto inutile che le donne s’interrogassero sulla politica e sulle vicende del genere umano. Le donne sapevano che il mondo era governato dagli uomini, che il potere lo avevano loro e che, dal potere corrotti, alla minima provocazione mettevano mano alle armi per averne di più, mentre le donne erano costrette a patire le peggiori ingiustizie. Le sue sorelle nubili, per esempio: erano state educate, come lei, in vista del matrimonio, ma anche quella carriera, l’unica considerata rispettabile, le condannava alla dipendenza dagli uomini, che potevano sceglierle oppure no, e Dolly e Flo, poverine, nessuno le aveva volute. E, una volta sposata, quale donna sana di mente avrebbe voluto mandare i figli maschi in Francia, com’era successo l’ultima volta a Edward e Hugh? Non si aspettava di veder tornare nessuno dei due, e aveva vissuto per quattro anni e mezzo in preda a un’angoscia segreta, perché i figli degli altri risultavano tutti uccisi o dispersi. Quando le avevano detto che Hugh era stato ferito e che sarebbe tornato a casa invalido, si era chiusa in uno sgabuzzino dove nessuno potesse vederla, a Chester Terrace, e lì aveva pianto prima di sollievo, poi di angoscia perché Edward era ancora al fronte e infine di rabbia per l’abominevole paradosso di aver versato lacrime di sollievo per un figlio la cui salute poteva essere rovinata per sempre. Di certo stavolta Edward era troppo vecchio per partire, ma si sarebbero presi Rupert e forse, se il conflitto fosse durato abbastanza a lungo, anche Teddy, il maggiore dei suoi nipoti. E dire che lei doveva ritenersi fortunata, perché nel 1914 William aveva già quarantaquattro anni e, nonostante le sue insistenze, era stato giudicato troppo vecchio per arruolarsi. Per questo, per canzonarlo, i figli gli avevano dato il nomignolo di Generale.
Il tè le si era freddato e le sue liste erano a un punto morto. Ne iniziò un’altra. Si ritrovò a pensare alla penuria di beni di ogni genere che c’era stata la volta precedente. Sapeva che fare incetta di provviste era sbagliato; però qualche dozzina di barattoli a chiusura ermetica per la frutta e della colla di pesce per conservare le uova e del sale per i fagiolini, che quell’anno avevano raccolto in quantità, non costituivano accaparramento, si disse. Dopo averci pensato un po’ aggiunse alla lista anche un pacchetto di aghi per la macchina da cucire. Poi decise di smettere. La casa ormai si riempiva di suoni, voci di bambini, le domestiche che apparecchiavano la tavola per la colazione nell’ingresso, la radio accesa nello studio di William che doveva essere già tornato dalla cavalcata mattutina, il pianto del piccolo Wills e, all’esterno, McAlpine che falciava il campo da tennis. Sembrava impossibile che si fosse sull’orlo di un’altra guerra. Chiamò Eileen col campanello perché portasse del tè caldo per suo marito e per le sue sorelle, che stavano scendendo a passo lento bisticciando sommessamente tra loro, un modo di fare che indispettiva terribilmente William. Prese le sue liste, si avvicinò alla finestra e lanciò un’occhiata nostalgica al giardino roccioso dove avrebbe volentieri trascorso la mattinata se non avesse avuto tante cose da fare. Rachel e Sid stavano arrivando dal vialetto accanto; resistette alla tentazione di raggiungerle, ma loro la videro e si diressero verso casa. Rachel sapeva che non era saggio lasciare William a fare colazione da solo con le zie, e Sid era tanto cara da leggergli ogni mattina il «Times» per compensare la conversazione di Flo e Dolly, che a volte era insopportabilmente vacua. Sid era un tesoro, la Duchessa adorava suonare con lei. Aveva sentito dire che sua sorella era una guastafeste, ma non erano certo tempi in cui ci si poteva scegliere gli ospiti. Da come camminava Rachel, capì che aveva mal di schiena: quell’andatura incerta, un po’ sbilenca. Non era il caso che si mettesse a spostare letti, ma c’erano decine di altre cose che poteva fare e che di sicuro avrebbe fatto. Era una gran fortuna avere Rachel in casa: lei naturalmente era rimasta nubile per scelta, ed era felice di aiutare suo padre e di dedicarsi alle opere di beneficienza. Era libera di fare quello che voleva, perciò non c’era paragone fra lei e Dolly e Flo.
Quando arrivò Eileen con il tè e il pane tostato, si rese conto che le sue sorelle per qualche motivo non erano ancora lì, il che voleva dire che avevano abbordato William nel suo studio, impedendogli di ascoltare le notizie delle otto. Andò alla finestra e chiamò Rachel proprio nel momento in cui Dolly e Flo entravano nella stanza. Il loro passo era come di consueto rallentato da gigantesche borse piene di lavori al punto croce e al piccolo punto e da borsette quasi altrettanto grandi in cui tenevano vari medicinali, sciarpe, occhiali, fazzolettini bianchi spruzzati di acqua di lavanda e quadrati di chiffon scolorito legati a piume di cigno impregnate di quella cipria color pesca che a Dolly piaceva tanto nonostante desse alla sua carnagione, che già di suo ricordava una fragola ammuffita, una sfumatura color malva piuttosto spettrale. Avevano ascoltato il notiziario, ma di notizie non ce n’erano state. «Il caro William però teneva la radio al contrario, perciò era difficile sentire», disse Flo. Era un po’ dura d’orecchio e la si sentiva spesso formulare quel genere di teorie.
«È pronta la colazione in sala da pranzo?», domandò la Duchessa a Eileen.
«Mrs Cripps sta facendo i piatti, Madam».
Rachel e Sid fecero il loro ingresso e subito Dolly domandò a Rachel di fare gli onori di casa, un invito che, se fosse stato presente, avrebbe infastidito William oltre ogni dire, sia per il tono con cui veniva pronunciato sia perché era del tutto superfluo. Era naturale e scontato che, in assenza di sua moglie, fosse sua figlia a versare il tè. Raccolse le sue liste, uscì dalla stanza e andò in cerca di Mrs Cripps.
* * *
Quando Hugh radunò il primo gruppo di ragazzi da portare a prendere le maschere antigas, Christopher e Teddy non si trovavano da nessuna parte ma del resto, con Sybil, Wills, Polly, Simon, Neville e Lydia, la macchina era già piena. Quando si era fermato a Mill Farm a prendere i piccoli, Hugh aveva convenuto con Edward che questi avrebbe portato un altro contingente composto da Nora, Louise, Judy, Angela e i due ragazzi attualmente dispersi. Villy disse che sua madre, Jessica, Miss Milliment, Phyllis ed Eileen sarebbero andate con lei quando fosse uscita per comprare la carne e altre provviste.
Hugh rispose con pazienza a un fuoco di fila di domande, almeno quando uno dei bambini non lo faceva al posto suo.
«Che odore hanno?».
«Sciocco! Che odore vuoi che abbiano? Sanno solo di aria».
«E tu che ne sai? Come fa Polly a saperlo, zio Hugh?».
«Lo so perché papà ha respirato il gas durante la prima guerra e io ho letto dei libri al riguardo».
«Ce l’avevi la maschera antigas, zio Hugh?».
«Sì».
«E perché hai respirato il gas, se avevi la maschera? Non servono a niente, allora».
«Be’, il gas è rimasto nell’aria per molto tempo. Ogni tanto bisognava togliersele. Ad esempio per mangiare».
«Non si può mica non mangiare!».
«Sì che si può. Potremmo trovarci a dover scegliere tra stare a digiuno e diventare magri magri oppure morire gassati. Tu che sceglieresti, zio Hugh?».
«Non essere stupido, Neville!».
«Io sono tutto tranne che stupido. Solo una persona molto stupida può credere che io sia stupido. Solo una persona molto ma molto stupida...».
«Basta così, Neville», disse Sybil con fermezza, ottenendo l’effetto desiderato.
«E comunque non dovrete indossare le maschere. Sono solo per precauzione».
«Che vuol dire precauzione?».
«Vuol dire fare una cosa prima che ce ne sia bisogno», disse prontamente Neville. «Io personalmente non ho mai capito a cosa serva», aggiunse in tono adulto, ancora scottato dal fatto che gli avessero dato dello stupido.
«Sei molto silenziosa, Poll», disse Hugh, ma la macchina era troppo affollata per delle confidenze private, e lei rispose: «No, no, per niente».
Sul sedile posteriore dell’auto, lei e Simon si scambiavano occhiate anch’esse silenziose: qualcosa lo preoccupava. Una volta, anni prima, lei avrebbe saputo che cosa lo angustiava senza doverglielo chiedere, ma ormai era in collegio da tanto tempo che lei non era più in grado d’indovinarlo, né lui le faceva più alcuna confidenza.
Lydia e Neville continuavano a chiacchierare di gas velenosi: che odore avessero, se fossero visibili, e Hugh disse loro che un tipo di gas odorava di geranio. «La lewisite», disse Polly d’impulso, pentendosene all’istante.
Al posto di guida, Hugh alzò le sopracciglia e scambiò un’occhiata con Sybil. Poi spiegò: «È molto improbabile che usino quel tipo di gas, Polly. L’ultima volta è risultato poco economico. Ci devono essere precise condizioni atmosferiche e così via. Se saremo tutti dotati di maschere antigas, sarà completamente inutile».
«Sai quale sarebbe una buona idea?», interloquì Neville. «Pensa se i tedeschi lanciassero dai loro aerei dei fogli di carta moschicida lunghi centinaia e centinaia di metri! Le persone ci resterebbero attaccate come mosconi e non riuscirebbero a liberarsi... starebbero lì ad agitare le gambe e le braccia finché non morirebbero. È un’ottima idea», ribadì come se fosse stato qualcun altro a proporlo.
«Se non stai zitto», proruppe furioso Simon, «ti cambio i connotati!».
E Neville, che non sapeva cosa fossero di preciso i connotati, tacque rispettosamente. Sybil e Hugh convennero in modo tacito di far finta di non aver sentito, con la differenza che Hugh pensò che Simon avesse paura del nuovo collegio, mentre Sybil temette che stesse covando la varicella. Di solito era un ragazzino calmo, di buon carattere, considerò mentre cullava tra le braccia Wills. Poi pensò con angoscia al momento in cui avrebbe dovuto svegliarlo per mettergli una maschera antigas.
* * *
Dopo la lite a Teddy restò addosso una rabbia tale che non riusciva nemmeno a pensare a tutta quella faccenda. Era come scoperchiare una fornace accesa: la collera lo divorava, avrebbe voluto uccidere Christopher ed era pieno di disprezzo nei confronti di Simon. Era abituato a essere il capo in ogni loro impresa e Simon, di due anni più piccolo di lui, era sempre stato il suo fedele secondo, felice di obbedirgli in tutto e per tutto. Le estati precedenti, quando Christopher era venuto a stare da loro, aveva sempre qualcosa che gli impediva di giocare con i cugini (del resto non era bravo) oppure, come diceva sua madre, di fare troppo, anche se lui non aveva mai capito cosa ciò significasse. Perciò passava il tempo a leggere, e Teddy e Simon giocavano di tanto in tanto qualche partita a carte con lui a titolo simbolico per poi trascorrere le loro giornate facendo lunghe gite a cavallo, andando in spiaggia, giocando a bike polo, a tennis, a squash o a uno dei giochi di famiglia a cui le ragazze giocavano ancora e che piacevano anche a loro, pure se fingevano di disprezzarli. Invece quell’anno Simon se l’era svignata con Christopher, aveva mentito a Teddy circa il motivo per cui non giocava più con lui e non gli era mai passato per la testa di invitarlo a partecipare. Aveva fatto di tutto per farsi dire da Simon di che si trattasse ma, poiché Simon, sull’orlo delle lacrime, aveva continuato a ripetere che era un segreto di Christopher e che non poteva dirglielo, Teddy aveva deciso di mettergli il muso e di non rivolgergli più la parola. Ma più Simon si rifiutava di vuotare il sacco, più lui ardeva di curiosità: doveva trattarsi di una cosa grossa e seria, se suo cugino era così risoluto a mantenere il segreto. Decise di andare nel bosco quella mattina presto, per saperne di più. Sapendo qual era la posta in gioco, sarebbe stato in grado di negoziare meglio a proprio vantaggio. Così sgattaiolò fuori dalla stanza quando Simon ancora dormiva, convinse una delle cameriere a fargli dei grossi panini con la marmellata e s’incamminò verso il bosco.
Era molto umido e il lungo prato pullulava di conigli. Sarebbe stato bello avere il fucile, ma suo padre gli aveva proibito di sparare quando era da solo. Poi si ricordò di aver visto un arco e delle frecce nella tenda, la sua tenda, pensò in tono di sfida, tanto più arrabbiato in quanto in fondo sapeva che non era vero e che la tenda era stata regalata a tutti. Che stupidaggine, pensò, regalare a tante persone una cosa che andava bene al massimo per due. E comunque era la sua tenda, perché l’avevano sempre usata solo lui e Simon, ed era più sua che di Simon perché lui era il maggiore.
Trovò l’arco e le frecce. Non erano molte; doveva averle fabbricate Christopher perché Simon non avrebbe saputo da dove cominciare, e doveva ammettere che erano davvero ben fatte, complete di piume d’oca rifilate con cura e con le punte leggermente bruciate e poi affilate. Decise di fare un po’ di pratica prima di tirare ai conigli, e fu una buona idea perché l’uso dell’arco si rivelò più difficile di quanto si fosse aspettato. Per giunta, continuava a perdere le frecce. Per le prime non si diede troppa pena ma poi, quando si ritrovò con le ultime due, si mise a cercare con più attenzione; era difficile individuarle nel folto del sottobosco, in mezzo ai rami caduti e alle foglie secche. Dopo che le ebbe lanciate e perse tutte, tornò alla radura e aprì la tenda per vedere se ne trovava delle altre. Già che c’era, si mise alla ricerca di qualcosa da mangiare, sembrava passato un secolo dalla sua colazione a base di pane e marmellata. Trovò delle uova e una padella, e decise di accendere un fuoco. C’era un punto in cui ne avevano già accesi. Raccolse un po’ di rametti e strappò i fogli da un quaderno che trovò nella tenda. Mentre Teddy si dava da fare, e prima che avesse avuto il tempo di esplorare per bene la tenda, arrivò Christopher. Era in largo anticipo sull’ora del loro appuntamento, che era previsto per le undici.
* * *
La sera prima Christopher non era riuscito a mangiare molto: oltre al mal di testa, aveva due incisivi malfermi e quando provava a mordere qualcosa i denti gli si muovevano causandogli una leggera nausea. Si era ritirato scusandosi non appena aveva finito ed era salito, non visto, nella sua camera. Si era buttato di peso sul letto, senza accorgersi che c’era sopra un cappello, ormai malamente schiacciato. Cercò di sistemarlo ma quello non ne voleva sapere e tornava ad appiattirsi nonostante i suoi sforzi. Alla fine lo mise su una sedia in un angolo buio, dove il proprietario non lo avrebbe ritrovato fino all’indomani mattina, e proseguì lungo il disimpegno che portava nel bugigattolo dove gli avevano sistemato un letto. Ma non riuscì a prender sonno. Un obiettore di coscienza come si deve non perdeva le staffe: lui invece si era avventato contro Teddy senza pensarci un secondo, il che era gravissimo. Ma come si poteva restare calmi? Che doveva fare con lui? Raccontargli tutto? Sapeva che Teddy non sarebbe stato solidale con il loro piano di fuga e di certo avrebbe rivelato a tutti il nascondiglio. Del resto, ora che l’aveva trovato, era probabile che lo rivelasse comunque, no? Dovevano forse spostare il campo? Gli pareva un’impresa quasi impossibile: c’erano volute due settimane per mettere insieme tutta quella roba e il posto era perfetto. E poi il campo andava allestito lungo il torrente, perciò comunque sarebbe stato facile per Teddy rintracciarlo se l’avesse trasferito. Si sorprese a pensare al singolare. E Simon? Già dalla riunione sulla varicella, aveva capito che Simon non aveva messo tutto se stesso nella loro avventura. A lui interessava soprattutto evitare il collegio, evento già rimandato a causa della varicella, senza contare che Simon sembrava convinto che in caso di guerra le scuole sarebbero state chiuse e lui non ne avrebbe mai più vista una. Così, nonostante avesse continuato a comportarsi come se fossero in due in quell’impresa, aveva cominciato ad abituarsi all’idea di proseguirla da solo. Poteva trovare un altro torrente in un’altra foresta... ma gli restava poco tempo, e per giunta sapeva già che non avrebbe trovato un luogo adatto se non a distanza considerevole.
Gli parve di esser rimasto sveglio tutta la notte a rimuginare su questi problemi senza soluzione, ma invece doveva essersi addormentato perché si svegliò che erano le sette e trenta, ben oltre l’ora a cui si svegliava di solito, e scendendo di sotto trovò i domestici che facevano colazione. Prese una manciata di cereali dalla scatola e si mise in marcia verso il bosco.
Si era svegliato con la netta e improvvisa sensazione che una soluzione c’era. Doveva esserci per forza. La gente pacifica alla fine la spuntava sempre. Bastava essere concilianti e persuasivi, usare insomma le armi che aveva a disposizione. Che buffo modo di dire, pensò Christopher. Le armi erano proprio l’ultima cosa con cui desiderava avere a che fare, e in ogni caso non ne possedeva. Quello col fucile era Teddy.
Avrebbe cercato di capire che cosa voleva Teddy, o almeno che cosa voleva più di tutto, poi avrebbe trovato il modo di accontentarlo e ogni cosa si sarebbe aggiustata, pensò mentre risaliva la strada. Se voleva la tenda e parte delle provviste, bene: si poteva spartire tutto. Oppure voleva Simon come compagno di tenda? Simon era di gran lunga il più piccolo e si adeguava alle decisioni dei più grandi. Perciò Teddy poteva prendersi Simon. Se ciò che voleva era il posto, avrebbero trovato un accordo anche per quello. Se avessero stilato un patto, una specie di trattato, e Teddy lo avesse firmato, poi avrebbe dovuto attenervisi e certamente lo stesso valeva per lui. Si sarebbe scusato per averlo aggredito e per aver perso il controllo, e lo avrebbe trattato con grande ragionevolezza e tutte le intenzioni di trovare un accordo equo.
Quello a cui davvero non era preparato era trovare Teddy nel rifugio segreto, non certo nel luogo del loro appuntamento, che era al canile, e molto prima delle undici. Quando scoprì che Teddy aveva usato il suo arco e disperso tutte le frecce, sentì montare la rabbia tremenda e inammissibile che ben conosceva ma stavolta la represse, riuscendo perfino a porgere al cugino le sue scuse per la rissa del giorno prima e dicendogli che avrebbe messo per iscritto le sue richieste, come si fa in una trattativa seria. Entrato in tenda, vide che dal suo prezioso quaderno, dove aveva tutte le liste e gli appunti, erano state strappate delle pagine e che mancavano alcune liste. Un’altra prova. Mandò giù quell’ennesimo sfregio nonostante la rabbia – non era difficile accendere un fuoco senza usare della carta, se uno sapeva come – e si sedette per ascoltare le condizioni di Teddy, scoprendo che rispetto al giorno prima si erano misteriosamente inasprite...
* * *
Quando Eileen entro col tè del mattino, Zoë si svegliò ma tenne gli occhi chiusi mentre la cameriera posava con cura il vassoio sul comodino, tirava le tende e mormorava che erano le sette e mezzo. Rupert, accanto a lei, era ancora immerso nel sonno. Zoë si mise seduta e versò il tè per entrambi. Muoversi le procurava delle fitte, era ancora indolenzita, e quando avevano fatto l’amore la sera prima le aveva fatto male, anche se era sicura di essere riuscita a nasconderlo a Rupert. Se avesse dovuto sopportare solo quello, un po’ di dolore, sarebbe stato niente, pensò. In fondo se lo meritava. Ma c’era ben altro: lui era così fiducioso, così tenero, così attento al suo piacere, e lei non aveva saputo ricambiarlo che con un mucchio di bugie. Aveva provato gratitudine, dolore e un senso di abiezione. L’abisso fra il suo corpo e il suo cuore sembrava incolmabile, e c’era una cosa sola che desiderava: confessare. Dirgli tutto, ricevere una punizione e poi ricominciare da capo. Ma non poteva dirglielo, non poteva dirlo a nessuno: se fosse stata semplicemente violentata avrebbe potuto, ma non si era trattato di violenza, nemmeno lontanamente, e lei non poteva mentirgli, così come non poteva rivelargli la verità. È questo il mio castigo, pensò. Dover vivere il resto della vita nella menzogna.
«Cara! Che aria cupa hai! Che ti prende?».
Mentre si voltava per passargli la tazza, Zoë sentì le lacrime pizzicarle gli occhi.
«Non sono stata buona con mamma», disse, ben sapendo che anche questo era vero.
Rupert prese la tazza. «Scommetto che non è vero. Sei stanca morta. Se ti portassi la colazione a letto?».
Zoë scosse il capo, esasperata da tutte quelle premure.
«Ho pensato che forse ti farebbe piacere venire con me a Hastings, questa mattina. Devo comprare dei colori e anche qualche pennello, se si trova qualcosa di decente». Rupert sapeva che a lei piaceva fare brevi passeggiate con lui, da soli.
«Forse potrei aiutare la Duchessa a sistemare la casa sopra il garage. Rachel ha detto che c’è ancora molto da fare e che bisogna finire entro oggi». Un’intera mattinata da sola con Rupert era più di quanto potesse sopportare.
«Ma cara, che cosa potresti fare? Detesti quel genere di cose, lo sai. Sono certo che Rachel non si aspetta il tuo aiuto».
«No, certo». Nessuno si aspettava niente da lei del resto, pensò infelice.
«Be’, potrai decidere dopo colazione. Io vado a cercar fortuna in bagno. Tu vuoi farlo? Il bagno, intendo».
«No. L’ho fatto ieri sera».
Aveva dei lividi sulle sommità delle braccia e non voleva che lui li vedesse. Quando fu uscito, si alzò e si vestì in fretta con un vecchio paio di pantaloni sportivi e una camicia di Rupert e si tirò indietro i capelli con un nastro di chiffon nero. Poi si sedette al tavolo da toeletta, riflettendo sul fatto che il giorno prima a quell’ora era nell’appartamento di sua madre a fare i bagagli chiedendosi come avrebbe fatto ad affrontare suo marito. E adesso, ventiquattr’ore dopo, era tornata alla sua vita coniugale come se nulla fosse successo, in quella stanza arcinota che un tempo le era parsa antiquata e banale, mentre adesso la carta da parati adorna di enormi fantasiosi pavoni, le tende di cotone a motivi cachemire, lo spesso centrino bianco che rivestiva il tavolo da toeletta, i semplici mobili di legno di rosa, le stampe indiane, il liso tappeto turco e le assi dipinte e tirate a lucido, tutto questo le risultava familiare, rassicurante e perfino lussuoso al confronto con la raffinatezza logora dell’appartamento di sua madre. Quanto aveva odiato quella casa e quella che l’aveva preceduta, prima di sposarsi! Solo ora le veniva in mente che forse non piacevano nemmeno a sua madre e che l’indigenza le aveva impedito di procurarsi le cose che le piacevano, quali che fossero. E l’unica causa di quell’indigenza era lei. Sua madre era andata a lavorare perché lei potesse frequentare una buona scuola, e aveva sempre speso per i vestiti e gli svaghi di Zoë molto di più di quanto avesse mai speso per se stessa. Ho preso quello che c’era da prendere e poi me ne sono andata, pensò. Non sono mai stata gentile con lei, non le ho mai dimostrato un po’ di riconoscenza. Si rese anche conto, con una certa vergogna, che sua madre, man mano che diventava più vecchia e più fragile, aveva cominciato a temerla, e che lei lo sapeva e ne aveva approfittato perfino con compiacenza, diradando visite, telefonate, qualsiasi forma di elementare premura. Doveva cambiare. Ma come? Le venne in mente la formula che usavano Villy e Sybil e qualche volta la Duchessa quando qualcuno dei ragazzi faceva qualcosa di sbagliato: è solo una fase, ma si riferivano a un comportamento in particolare e per giunta a dei bambini! Lei aveva ventitré anni e le pareva di dover cambiare tutto di sé.
Rupert, di ritorno dal bagno, annunciò: «Mi serve un’altra camicia. A questa mancano ben tre bottoni... sembro un selvaggio con le vesti stracciate».
«Te li riattacco io».
«Non ti preoccupare. Può farlo Eileen».
«Credi che non sappia ricucire un bottone?».
«Ma no, certo. È che di solito si occupa Eileen di queste cose». Si stava infilando nei pantaloni i lembi di un’altra camicia. «Dicevi sempre che odiavi rammendare».
«Un bottone però lo posso cucire!», protestò lei, un attimo prima di scoppiare in lacrime.
«Zoë, tesoro! Che cosa c’è?». Non disse insomma, ma lei percepì il fastidio nel suo tono di voce.
«Mi consideri una perfetta incapace! Pensi che non sappia fare niente!».
«Non è vero».
«Quando prima ho detto che volevo dare una mano nella casa sopra il garage, tu non volevi. E adesso non posso nemmeno cucirti un bottone sulla camicia!».
«Credevo che queste cose non t’interessassero. Ma naturalmente puoi farle, se vuoi».
«Posso voler fare una cosa anche se non ne ho molta voglia», disse Zoë sapendo, mentre lo diceva, che la frase non suonava esattamente come avrebbe voluto.
«Va bene, tesoro. Fa’ pure tutto quello che non ti va di fare, se è quello che desideri», accondiscese lui. «Sei molto cara e volenterosa, devo dire. Vogliamo andare a fare colazione?».
* * *
«Ti fanno somigliare a un cavallo... ma non molto...».
«A uno di quei cavalli che hanno un sacco di roba sul muso e gli si vedono solo gli occhi e il naso, come durante le crociate», spiegò Nora.
«Il fatto è che non ti fanno respirare». Neville sibilava ancora, seduto al tavolo della merenda: durante il viaggio di ritorno, una volta prese le maschere antigas, aveva avuto un attacco d’asma.
«A me piace tantissimo! Mi fa sembrare così diversa».
«Fanno sembrare diversi tutti».
«Miss Milliment forse no», disse Lydia in tono pensoso. «Immagino sarà difficile per un tedesco dire se la porta o no».
«Lydia, basta così», la redarguì Ellen. «Passa il pane imburrato a tuo cugino».
«Mamma dice che se le portiamo cinque minuti ogni giorno ci abitueremo». Nora aveva capito che Neville aveva paura e voleva infondergli un po’ di coraggio.
«Io dovrò indossarla sempre, tranne che per mangiare. Non si può mangiare con la maschera addosso. E nemmeno baciare qualcuno».
«Bevi il latte, Neville».
Lui obbedì e poi disse: «Un lato positivo c’è. Quando le prozie avranno le maschere, non potremo baciarle».
«Oh, poverine!», esclamò Judy in tono affettato.
«Parli bene tu! Non sono mica le tue prozie. Le hai viste le loro facce?».
«Somigliano a fragole marce», sbottò Neville. «Tutte mollicce e bluastre... con la muffa pelosa».
«Solo una delle due», precisò Lydia. «L’altra è... è come baciare un grosso biscotto per cani. È tutta dura e ruvida, piena di buchi».
«Basta così, Lydia».
«Perché dici sempre basta solo a me e a Neville mai?».
«Lo dico a tutti e due. Basta così».
Intervenne Judy: «Con zia Lena era come baciare un budino. Con Grania invece...».
«Sta’ zitta», l’interruppe severamente Nora. «Zia Lena è morta. Non devi parlare di lei».
Nel silenzio stupefatto che seguì Nora versò una tazza di tè da portare a Louise, che si era messa a letto col mal di testa.
* * *
Il caldo era davvero soffocante, o almeno così pareva a Miss Milliment mentre risaliva piano, procedendo a zigzag, la collina di Home Place dopo il tè in compagnia di Angela. Dopo la trasferta per prelevare le maschere antigas, si era resa utile leggendo a Lady Rydal le parti del «Times» che erano di suo interesse, ovvero gli annunci mortuari, il quotidiano bollettino su quanto avveniva nella casa reale e alcune lettere. Aveva espresso a Viola e Jessica il desiderio di andare a trovare Clary e Angela si era offerta di accompagnarla su per la collina. Era una ragazza molto graziosa, somigliava in modo impressionante a sua madre quando aveva la sua età (Miss Milliment era stata l’istitutrice di Viola e Jessica quando avevano rispettivamente diciassette e diciotto anni), ma sembrava più riservata, mentre Jessica era stata sempre una giovane estroversa, piena di buon umore e allegria. Provò a farle qualche domanda sulla sua esperienza in Francia, ma Angela non sembrava propensa a parlarne e Miss Milliment pensò che probabilmente, vista l’età, Angela doveva essersi innamorata di qualche giovanotto francese da cui aveva dovuto separarsi, e cambiò argomento in maniera discreta.
«Tuo zio mi ha detto che ti ha fatto un ritratto. Mi piacerebbe proprio vederlo».
E Angela, che stava camminando qualche passo avanti, si bloccò di colpo e si voltò dicendo con foga: «Oh, magari! Questa mattina sono andata a posare, e mi ha detto che il quadro è finito. A me però non sembra affatto finito! Sarei contenta di sapere cosa ne pensa lei».
Così entrarono dalla porta principale, attraversarono una stanza dove Mrs Cazalet, con un cappello in testa, cuciva a macchina delle tende e poi un enorme vestibolo in cui stavano allestendo il tavolo per la cena dei bambini, imboccarono un corridoio e lei per poco non inciampò perché aveva una scarpa slacciata (i lacci non erano abbastanza lunghi per un doppio nodo), poi superarono una porta rivestita di panno verde ed entrarono in una stanza oblunga e scura con un tavolo da biliardo e un bovindo giù in fondo. Il quadro era lì. Un ritratto interessante, pensò Miss Milliment. Sembrava aver colto il paradossale miscuglio di ardore e languore di una giovane donna – quella postura di attesa passiva – e notò che la bocca, di solito il tallone d’Achille dei ritrattisti, in questo caso non era stata un grosso problema grazie al fatto che Angela aveva la bocca di sua madre, di taglio preraffaellita ma finemente disegnata, un caso lampante di natura che imitava l’arte e che sollevava l’artista dal compito di percepire creativamente... del resto, i ritrattisti alla moda avevano sempre imposto certi vezzi alle loro figure: le bocche a bocciolo di rosa di Lely, per esempio...
«Vede che cosa intendo? La pelle sembra tutta chiazzata! Mi ha voluta così, coi capelli lisci».
«Credo che solo l’artista debba decidere quando un quadro è finito», opinò Miss Milliment. «Non è un bene che un pittore lavori troppo su un ritratto. Io lo trovo molto interessante. Dovresti essere onorata di aver fatto da modella».
«Oh, ma lo sono! Sono certa che sia un artista straordinario. Ma del resto, ci vogliono anni e anni per diventarlo, no? Forse dovrebbe...».
«Può darsi che decida di fare un’altra seduta».
«Sì, sono certa di sì. Oh, Miss Milliment, ha una scarpa slacciata».
E una calza mi sta già scendendo giù per la gamba, pensò l’anziana donna guardando le spesse pieghe di tessuto all’altezza della caviglia.
«Vuole che gliela allacci?».
«Grazie, cara. Sarebbe davvero gentile da parte tua».
Angela s’inginocchiò e le allacciò la scarpa, pensando: Poveretta! Mi domando come riesca a farlo da sola.
E a Miss Milliment, che ogni mattina e ogni sera combatteva quella battaglia da sola, seduta sul letto e con il piede posato su una sedia, venne un’idea improvvisa. «C’è una cosa che forse tu puoi spiegarmi», disse. «Per Natale Louise mi ha regalato una scatola di una cosa chiamata talco. L’ho portata con me, dato che con la Situazione in corso nessuno sa quando potrà tornare a casa, ma non so quale sia il suo utilizzo». Angela, rialzatasi in piedi, apparve sconcertata.
«Ho provato a metterlo sul viso», insistette Miss Milliment. «Ma non mi è parsa una buona idea».
Adesso Angela era semplicemente stupefatta. «Non è per il viso, Miss Milliment. È per il corpo. Si usa dopo il bagno».
«Per il corpo... dopo il bagno». Ripeté l’altra con convinzione, ancora più lontana di prima dal capire a cosa servisse quella roba. «Grazie, Angela. Mi indichi la camera di Clary, adesso?».
E Angela l’accompagnò fin davanti alla porta, poi si mise a gironzolare per la casa sperando di incontrare Rupert da solo, senza Zoë.
* * *
Il treno di Evie era in ritardo, il che andava benone dato che Tonbridge era arrivato in ritardo anche lui. Era stata una giornata pesante, gli era toccato portare tutte le domestiche a prendere le maschere antigas. Mrs Cripps era stata contenta di viaggiare al suo fianco, ma la infastidivano molto le ragazze sedute dietro e le zittiva con severità appena aprivano bocca, salvo poi sentirsi a disagio per il silenzio che seguiva a ogni parola da lei pronunciata all’indirizzo di Mr Tonbridge, che ormai quando erano soli chiamava Frank. Si era perciò limitata a qualche osservazione inconfutabile sul tempo, con la quale Tonbridge si dichiarava istantaneamente d’accordo: ormai mancava poco, ci sarebbe stato un altro temporale prima di sera; certo, a nessuno piaceva la pioggia, ma del resto un bell’acquazzone avrebbe ripulito per bene l’aria e avrebbe rispedito tutti i raccoglitori di luppolo a Londra, che era il loro posto.
Poi era ripartito per Battle, ed era andato fino al binario per incontrare Miss Evie Sidney, dato che Miss Rachel non era venuta con lui. La donna aveva con sé la valigia più pesante che gli fosse mai capitato di dover trasportare, ed era alquanto contrariata che le sue ospiti non fossero venute a prenderla. Tonbridge le riferì il messaggio che gli era stato affidato: Miss Rachel si era fatta male alla schiena spostando dei mobili e Miss Sidney stava ancora portando il necessario nell’abitazione che le era stata assegnata, dato che la casa grande era già piena. Ma una volta riferito il messaggio, la donna sembrava ancora offesa. Oh, be’. Lui aveva l’ordine di accompagnarla fino all’ingresso principale e poi di portare i bagagli al suo alloggio. Poi sarebbe andato a prendersi un tè.
* * *
William aveva avuto una giornata produttiva. I due edifici che sorgevano lungo la mulattiera a un centinaio di metri dalla strada che conduceva da Mill Farm a casa sua e che erano rimasti sfitti per quasi un anno dopo che l’ultima inquilina, una certa Mrs Brown, era morta, erano in vendita. C’era voluto un po’ di tempo per trovare il proprietario e alla fine era saltato fuori che si trattava di York, il contadino che possedeva la fattoria poche centinaia di metri più avanti. Mr York era il tipo d’uomo che non apre bocca se non è strettamente necessario e non aveva mai fatto menzione di quelle due proprietà, ma William, che aveva messo gli occhi sulle due case durante le sue cavalcate mattutine, l’aveva scoperto grazie a Sampson, il suo fedele capomastro, il quale gli aveva confermato, fregandosi già le mani, che se le case fossero restate vuote troppo a lungo non ne avrebbero certo ricavato beneficio. Così William era andato a trovare York, che al momento era intento a fare qualcosa, con grande lentezza, nella stalla delle vacche.
Alla vista del vecchio Cazalet, Mr York appoggiò il forcone allo stipite della porta della stalla e si fermò a vedere che succedeva. Quando Mr Cazalet gli disse che era lì per quelle case, l’uomo disse: «Ah», e poi senza proferire parola condusse l’ospite in casa. Passarono per il retro: l’ingresso padronale veniva usato solo per matrimoni e funerali, l’ultima volta che era stato aperto era stato quando era morta sua madre. Non si era sposato, si diceva, perché la sua fidanzata era entrata nello stagno con gli stivali di gomma ed era annegata. Una certa Miss Boot gli governava la casa, una donna il cui aspetto non era tale da suscitare idee sconvenienti, e nella casa regnava la massima sobrietà. Superarono il retrocucina, dove Miss Boot stava preparando il burro (era alta, arcigna, con un’ombra di barba), e poi per la cucina, in cui regnava un odore di cibo pronto e di camicie stirate, e imboccarono un corridoio lastricato che li condusse in salotto, un piccolo ambiente protetto dagli scuri in cui aleggiava l’odore del lucido per mobili e del Flit, usato con prodigalità per sterminare i mosconi che infatti giacevano sui davanzali come uvette bruciacchiate cadute da un dolce. William fu fatto accomodare sulla poltrona migliore e alcune delle imposte furono aperte a illuminare un piccolo pianoforte verticale in noce con degli spartiti sistemati sul leggio, altre tre poltrone e un focolare protetto da un piccolo parascintille di ferro, sopra il quale campeggiava una riproduzione incorniciata dell’Ultimo sguardo all’Inghilterra.
Le case. Ah, sì. Non aveva ancora pensato a cosa farne. Le aveva ereditate da sua madre, di cui Mrs Brown era una buona amica, e poi certo, anche lei di guai ne aveva avuti. Aveva messo al mondo quattordici figli, o forse quindici, non lo sapeva più nemmeno lei. Quando era morta i figli erano ormai grandi, e quelli ancora piccoli erano andati a stare con la zia a Hastings. Il momentaneo eccesso di loquacità sembrava averlo prostrato e poggiò la testa sullo schienale annuendo a se stesso.
In quel momento fece il suo ingresso Miss Boot, reggendo un vassoio con due tazze di tè indiano forte schiarito dal latte intero e un piattino di biscotti allo zenzero, che posò su un tavolinetto piuttosto malfermo collocato tra il padrone di casa e l’ospite. Poi, lanciando un’occhiata di fuoco agli stivali di Mr York – non erano ammessi in casa, figurarsi in salotto –, se ne andò.
Le case. Be’, ecco, dipendeva da cosa aveva in mente di proporgli Mr Cazalet. William spiegò che intendeva comprarle e trasformarle in abitazioni per una parte della sua famiglia. Ah. Mr York mise quattro zollette di zucchero nella propria tazza. Vi fu un silenzio durante il quale William poté sentire in modo distinto il ticchettio sibilante di un piccolo orologio nero sulla mensola del camino. Aspettò che York avesse terminato di mescolare il tè prima di fargli un’offerta. Seguì un altro silenzio, che Mr York trascorse ruminando sulla somma proposta: cinquecento sterline, una quantità di denaro superiore a qualunque somma avesse mai posseduto. York vide spuntare come d’incanto un tetto nuovo sulla stalla, un nuovo porcile, un telone cerato sopra il pagliaio sul retro, una falce, un’escavatrice per lo stagno, un toro di proprietà per fecondare le vacche e la riparazione del cancello del campo grande, dove avrebbe potuto portare le pecore, e poi costruire quella serra che Miss Boot desiderava tanto fuori dalla cucina...
«Spero voglia pensarci un po’ su».
«Vedremo».
«C’è un’altra cosa».
Doveva aspettarselo che ci fosse qualche fregatura. «Lo so. I tetti vanno riparati...».
«Non si tratta di questo. Vorrei anche un po’ di terra sul retro degli edifici. Oltre la siepe del giardino, voglio dire».
«Ah!». Le costruzioni erano una cosa, non gliene importava poi tanto, ma con la terra il discorso cambiava. Non voleva vendere le sue terre.
«Non parliamo di molto terreno. Un acro. Il necessario per un orto».
«Oh, be’. Questa è un’altra faccenda. La terra è tutta un’altra faccenda».
I dolenti occhi marroni fissarono William, meditabondi. «Il terreno è buono, lassù».
Non era vero. O almeno non allo stato attuale. Era tutto invaso di cardi, tane di conigli e cespugli di rovi. William però ritenne saggio non contraddirlo. Si limitò a mettere sul piatto altre cinquanta sterline e, sebbene restarono intesi che York ci avrebbe pensato, sapevano entrambi che la decisione era già presa.
«D’accordo, York. La prego di rispondermi entro domani. Vorrei concludere la faccenda in fretta, capisce? Potremmo trovarci presto nel mezzo di un’altra guerra». E nella mente di York sfilarono nitide le immagini degli anni terribili che aveva trascorso in Francia, sempre bagnato e terrorizzato: aveva visto fare a degli esseri umani cose che lui non avrebbe tollerato di veder fatte a delle bestie; la terra era un ammasso di ratti e pidocchi e fango e sangue, tutto per colpa di quei porci dei tedeschi. Disse: «Ma io non ci torno laggiù, nemmeno per tutto il tè della Cina».
William si alzò in piedi. «Stavolta saranno loro a venire da noi, pare», disse.
York gli lanciò un’occhiata per capire se il vecchio lo stesse prendendo in giro, ma vide che non era così.
«Se mettono piede sulla mia terra, ne pagheranno le conseguenze», dichiarò senza scomporsi. William lo guardò stupito: diceva sul serio.
* * *
«Ti dico io cosa faremo: pregheremo», disse Nora con un fervore che stupì Louise.
Erano distese sui rispettivi letti, dopo aver cenato; le tende erano aperte così da consentir loro la visione dei lampi che tagliavano in due il cielo e poi contare il tempo che passava fino al manifestarsi del tuono.
«E tu credi davvero che serva a qualcosa?».
«Ma certo che serve. Non si ottiene sempre quello per cui si prega, ma pregare è sempre utile».
«Di certo non volere la guerra è un desiderio giusto. E allora, se le preghiere funzionano, perché Dio permette che ci siano le guerre?».
Nora, che conosceva bene il disagio di dover rispondere a quel genere di obiezioni, disse: «Be’, non tutte le guerre sono uguali. Magari, pregando, faremo in modo che la guerra non sia troppo terribile. Comunque sia, io domani vado in chiesa, e vorrei tanto che venissi anche tu».
«Va bene. La nostra è una famiglia poco religiosa. Si va in chiesa solo per Natale e ai battesimi».
«Non va in chiesa nemmeno la Duchessa?».
Louise scosse il capo. «Solo a Natale. Suo padre era un uomo di scienza, sai. Non credono nella fede. Dovremo andare a piedi. Nessuno ci darà un passaggio».
«Potremmo andare in bicicletta».
«Sì. Ti avverto, però. Se vado in chiesa prima di colazione, potrei anche svenire. A meno che non abbia mangiato qualcosa prima».
«No, non puoi farlo. Se mangi non puoi fare la comunione. Hai fatto la cresima, vero?».
«Certo. Col vescovo di Londra, anni fa. Nella chiesa dove ti danno dei quadratini di pane, non l’ostia come nel resto di Londra».
«Meglio così. Deve essere pane. Come ti senti?».
«Meglio. Non mi sembra più di avere un ferro da stiro che mi scende giù per lo stomaco, comunque. Se scoppia la guerra, ci andrai lo stesso a quella scuola di cucina?».
«Non ne ho idea. Ma mi pare che, se scoppiasse davvero la guerra, sarebbe una perdita di tempo».
«Non tanto quanto imparare a recitare», disse Louise sconsolata. Vedeva la sua carriera andare in fumo. In tal caso, poteva dunque arrendersi alla sua paura di lasciare casa? No, perché aveva altre ragioni per voler andare via. Con Nora non poteva parlarne. Nora mise la sveglia alle sei e mezza. I tuoni ora erano più vicini e le tenevano sveglie, ma si erano dette che entrambe amavano i temporali, perciò lasciarono le tende aperte.
* * *
Quella di Simon era stata una giornataccia. Dopo che Teddy si era rifiutato di rivolgergli la parola, aveva cercato Christopher, ma l’aveva trovato che era ormai ora di pranzo e di pessimo umore. Gli aveva detto che la situazione con Teddy era peggiorata da tutti i punti di vista, che lui stava cercando di sistemare le cose e dove accidenti era stato lui, Simon, per tutta la mattina? In effetti Simon si era messo a letto perché aveva mal di testa e poi si era addormentato, ma al suo risveglio si era sentito ancora peggio. Dopo pranzo Christopher lo aveva portato al canile e gli aveva riferito le nuove condizioni. Lo lasciavano fuori da tutto, pensò Simon, lo trattavano come se lui non contasse niente, dopo tutta la fatica che aveva fatto per scarrozzare su e giù tutta quella roba. Era diventato una specie di servo della gleba, e Christopher non si dimostrò nemmeno particolarmente grato che non avesse spifferato nulla del suo piano a Teddy. Andò a finire che litigò con Christopher, il quale gli disse che ormai non poteva più tirarsi indietro, doveva restare e fare come gli veniva detto. Sentì di odiarli entrambi, rivolse a Christopher le peggiori parole e poi corse a nascondersi. Fu facile, perché conosceva gli anfratti del posto molto meglio di suo cugino, il quale del resto rinunciò presto a cercarlo. Quando lo vide allontanarsi verso la strada, uscì dal folto delle piante di fagiolini e trovò McAlpine con un diavolo per capello perché nascondendosi gli aveva calpestato alcune piante. Scappando da McAlpine entrò in casa e salì le scale diretto in camera. Poi gli venne in mente che forse c’era già Teddy. Così andò in camera di sua madre, che di solito nel pomeriggio era vuota, ma invece lei era lì. A leggere distesa sul letto.
«Simon! Devi bussare quando entri nella camera di un altro».
«L’ho dimenticato. E poi ero convinto che non ci fossi».
«Perché sei entrato, allora?».
«Volevo solo...».
«Chiudi la porta, tesoro».
Senza volere, la chiuse rumorosamente. Lei drizzò la schiena. «Non sbatterla! Sveglierai Wills».
«Wills», borbottò lui. Picchiò il piede contro la gamba di una sedia. Non pensava che a Wills. Dalla mattina alla sera.
«Simon, che succede? Dimmelo». Mise giù i piedi. «Vieni qui. Sembri agitato». Gli posò la mano sulla fronte e a lui spuntarono le lacrime agli occhi. Lo strinse a sé e lui affondò nel suo abbraccio, sentendosi meglio e peggio allo stesso tempo.
«Credo tu abbia la febbre, caro». Gli diede un bacio e lui le restò avvinghiato addosso come un granchiolino. «Hai paura della nuova scuola, vero? Si tratta di questo? Lo so che ti sembra spaventoso, ma ci sarà anche Teddy, lo sai. Non sarai da solo».
«Sì, invece! Teddy ormai mi odia. Sarà peggio, con lui!». Ora singhiozzava apertamente. «Davvero, ci ho pensato... non credo che lo sopporterò! Non voglio andare via. Non potrei andare a scuola di giorno come fa Christopher? Farò tutto quello che vuoi, ma non farmi andare. Ti prego!».
«Oh, tesoro! Io non sono certo contenta che tu te ne vada. Mi mancherai moltissimo! Ascolta, piccolo mio. Stenditi sul mio letto, così ti prendo la temperatura. Poi ne riparliamo».
Ma non ne riparlarono perché Simon aveva trentotto e mezzo di febbre e, poiché disse di non voler dormire in camera sua con Teddy, sua madre lo sistemò sul letto dello spogliatoio e gli portò una tazza di latte caldo e un’aspirina, poi andò a telefonare al dottor Carr. Quando tornò da lui, era febbricitante e mezzo addormentato.
«Scommetto che Wills non lo manderai alle scuole private...», borbottava. «Non gli ho detto niente... Questo deve ammetterlo...». Poi si addormentò.
Sybil si sedette a guardarlo, in preda a pensieri tristi e convulsi. Perché doveva essere allontanato per tanti anni da suo padre, da suo fratello, da sua sorella e soprattutto da lei? Perché i bambini dovevano essere per forza mandati via? Era andato in collegio a nove anni, e adesso ne aveva solo dodici. Perfino nel Medioevo i paggi venivano mandati in un’altra casa, dove una signora si prendeva cura di loro. Hugh stesso non aveva certo un buon ricordo del collegio: aveva odiato ogni singolo minuto, eppure anche lui sembrava condividere l’immutabile regola secondo la quale suo figlio dovesse passare per la stessa esperienza. Il commento di poco prima riguardo a Wills aveva colpito nel segno. Era vero che si era lasciata andare con quel terzo figlio, gli aveva riservato molte più attenzioni di quanto non avesse fatto con gli altri due. Così com’era vero che, quando Simon era partito per le scuole preparatorie, si era fatta forza cercando di apparire calma e mondana, ma la prima volta che l’aveva accompagnato a Waterloo a prendere il treno aveva pianto amaramente durante tutto il ritorno in taxi. Già allora intuiva che quello era l’inizio del loro addio. Perfino le lettere che gli scriveva in collegio erano allegre e distaccate, ed era diventato via via più difficile trovare qualcosa da scrivere: sapeva sempre meno che cosa lui avrebbe voluto leggere e, siccome non poteva parlare di quanto lui le mancasse, le sue lettere erano piene di chiacchiere di nessun conto. Invece nelle lettere di Simon, almeno i primi tempi, la nostalgia di casa era palpabile: Cara mamma, ti prego, riportami a casa. Non ne posso più. Tanto qui non c’è niente da fare; in seguito era passato a richieste di varia natura, ma soprattutto di cibo: Per favore, mamma, mandami altri sei tubetti di dentifricio. Quello che avevo ho dovuto mangiarlo! E poi bizzarre descrizioni degli insegnanti: Quando Mr Attenborough mangia il pane con burro e marmellata a colazione, gli fuma la testa. Oggi abbiamo saltato latino perché Mr Coleridge ha dato di matto un’altra volta. È finito in piscina mentre andava in bicicletta: stava fumando e leggendo ed è stato punto da una vespa, ma nessuno gli ha creduto. Aveva letto le sue lettere a Hugh, che si era fatto una risata e ne aveva dedotto che il ragazzo si stava ambientando. E in un certo senso era vero. Ma la scuola privata che avrebbe frequentato adesso era tutta un’altra cosa rispetto al collegio che Simon aveva frequentato fino ad allora, e avrebbe dovuto restarci per sei anni. Povero angelo. Almeno è troppo giovane per andare in guerra, si disse Sybil per la centesima volta, Polly è una femmina, Wills è piccolo e Hugh non può certo combattere. Mise un bicchiere d’acqua accanto al letto di Simon; poi si chinò a baciarlo con tenerezza quasi colpevole. Lui dormiva, e non c’era nessuno a guardarli.
* * *
Quella notte, che fu calda e senza vento, i tuoni si susseguirono a intervalli brevi fino all’alba, salutata da un forte temporale rinfrescante. Evie, nella casa sopra il garage, si addormentò solo allora e Sid, che era rimasta sveglia tutto il tempo a dare ascolto alle sue paure, poté finalmente andarsene con passo felpato nella cameretta accanto, infilarsi a letto e restare infine sola coi propri pensieri. C’erano stati degli impedimenti a spostare Miss Milliment nella casa sopra il garage che doveva dividere con Evie, così com’era stato deciso, e quest’ultima si era rifiutata di dormirci da sola. Aveva fatto tanto di quel baccano che Sid aveva deciso che il giorno dopo, costasse quel che costasse, avrebbe trasferito di peso Miss Milliment. Per Evie dover dormire lì era una specie di insulto. Non era minimamente grata per l’ospitalità che le veniva offerta e si era portata dietro i pezzi d’argenteria più inutili, pesanti e inguardabili avuti in eredità dalla madre, oltre alla quasi totalità del suo guardaroba. «Dopotutto, potremmo restare bloccate qui per mesi», disse. «Parli bene tu, che ti metti le stessa roba tutti i giorni e ti va bene così. Lo sai quanto ci tengo a vestirmi come si deve».
Sid aveva sofferto a lasciare Rachel in preda a quel brutto mal di schiena. Era venuto fuori che William aveva deciso di far evacuare la Casa dei Bambini, se le cose si fossero messe al peggio, e che i lettini da campo erano per il personale; Rachel allora aveva insistito per dare una mano a sistemarli nel campo da squash. La Duchessa aveva chiesto con garbo dove pensasse di far dormire i bambini, e lui aveva risposto che tanto erano piccoli e potevano essere sistemati in qualunque posto. Si poteva spostare il tavolo da biliardo dalla sala in cui si trovava, aveva aggiunto in tono vago. Ad ogni modo i lettini da campo erano stati il colpo di grazia per la schiena di Rachel, e per Sid era stato penoso lasciarla. Non poter dormire vicino a lei. Durante il giorno, avendone l’opportunità, Evie non le avrebbe lasciate sole un attimo, pensò in un moto di sconforto. Come ci si abitua in fretta alle cose! Solo una settimana prima l’idea di poter passare un giorno e una notte con Rachel le sarebbe parsa il paradiso in terra; ora era disperata perché non poteva stare con lei sempre. «Ringrazia per quello che hai», si disse. Ma in quel momento quello che aveva era Evie, la cui presenza non era certo tale da suscitare gratitudine in chicchessia. «Gioie e dolori», si disse come a tirarsi su; non sapeva con esattezza quali fossero le gioie e quali i dolori, ma sapeva per certo che i secondi sopravanzavano le prime.
* * *
Louise si svegliò mezz’ora prima del necessario perché la prospettiva di andare in chiesa la portava a mettere in discussione la propria condotta, e a tal proposito una delle cose che le piaceva meno era il fatto che ormai aveva smesso del tutto di parlare con Polly. Sapeva, e probabilmente era l’unica, quanto l’idea della guerra spaventasse Polly, ma non aveva dato alla cugina nessuna occasione di parlarne. Così, già che andava a prendere una seconda bicicletta a Home Place, decise di invitarla a venire in chiesa con lei e Nora.
Era una bella mattina, col sole che splendeva giallo in un cielo limpido e azzurro. La pioggia abbondante aveva ravvivato i pendii ripidi ai lati della strada, ragnatele imperlate d’acqua rilucevano precariamente appese alle felci grondanti, l’aria profumava di muschio e di funghi. Sul vialetto s’imbatté in Mr York che portava secchi fumanti di latte appena munto e gli disse: «Buongiorno, Mr York». L’uomo sorrise mostrando una spaventosa dentatura e le fece un cenno col capo. La porta principale di Home Place era aperta, le domestiche scuotevano i piumini, c’era odore di bacon appena cotto e in lontananza il rumore irregolare e cigolante del battitappeto. Salì con agilità le scale fino al primo piano e si diresse verso la camera di Polly e Clary. Quest’ultima dormiva, ma Polly era seduta sul letto con Oscar acciambellato placidamente ai suoi piedi. Aveva pianto. Si asciugò la faccia col dorso della mano e poi indicò il letto di Clary, come a metterla in guardia. Disse: «Simon ha la varicella».
«Non è per questo che piangi, vero?».
«No».
Louise si sedette sul letto e Oscar drizzò la testa, subito sveglio. Gli carezzò il pelo folto e lui la guardò come se la vedesse per la prima volta in vita sua.
«Sono venuta a chiederti se vuoi venire in chiesa con me e Nora. A pregare per la pace. Nora dice che è molto importante».
«Louise, come faccio? Te l’ho detto, non so neanche se credo in Dio».
«Non lo so nemmeno io, ma secondo me non è questo il punto. Voglio dire, se Dio esiste, si accorgerà delle nostre preghiere; se non esiste, non farà nessuna differenza».
«Ho capito cosa vuoi dire. Oh, è una tale crudeltà! Perché non fanno maschere antigas per gli animali? Ieri sera ho provato a mettere la mia a Oscar... ci entrava dentro tutto, non solo la testa, ma non c’era verso di allacciargliela. E poi lui non la sopporta. Non sono riuscita a tenercelo».
«Non puoi dargli la tua, perché, se serve a lui, vuol dire che serve anche a te».
«Serve a lui quanto a me. Comunque ho deciso di raccontare che l’ho persa per farmene dare un’altra. Dirò una bugia». Guardò Oscar con occhi pieni di pena. «Io sono responsabile per lui! È il mio gatto».
Tese la mano per accarezzargli il collo e lui si alzò in piedi, si stiracchiò e poi scese d’un balzo dal letto, producendo nell’atterrare un suono netto, come d’orologio. «Senti, Poll. È meglio che vieni. Non c’è altro che tu possa fare».
«Va bene».
Scese dal letto e fece per mettersi i vestiti del giorno prima, che erano posati su una sedia lì accanto.
«Non puoi venire coi pantaloncini corti».
«Oh, certo. Non ci avevo pensato».
Nel momento in cui era scesa dal letto, Oscar vi era tornato sopra e si era installato esattamente dove prima era la sua padrona, in cerca di un po’ di calma e tranquillità.
«Ti serve anche un cappello».
«Accidenti! Ci ho messo le conchiglie». E svuotando il cappello sul tavolo da toeletta svegliò Clary, la quale non appena ebbe saputo dove andavano volle unirsi a loro.
«Non puoi. Attaccheresti a tutti la varicella».
«Non è vero. E comunque hanno detto che ormai posso alzarmi».
«Non abbiamo un’altra bicicletta».
«Prenderò quella di Simon».
«Ti sentirai male», la mise in guardia Louise. «Ti puoi alzare, sì, ma non sei ancora uscita di casa».
Ma Clary stava già cercando gli abiti da indossare. «Anche se devo dire», opinò mentre si infilava dalla testa un vestito di cotone azzurro macchiato di succo di more, «che non credo che le preghiere funzionino quando uno non crede. Ma tanto vale provare», aggiunse quando vide le facce di Polly e Louise: Louise la fulminò con lo sguardo e Polly si accigliò, ricominciando ad angustiarsi.
«Non hai un cappello», disse Louise in tono malevolo.
Clary spostò lo sguardo da Louise, che portava una paglietta bianca col nastro blu scuro, a Polly, che ne aveva una con un motivo a girasoli e papaveri sul nastro: a lei Zoë non comprava cappelli, ed Ellen gliene sceglieva di così brutti che li perdeva apposta.
«Prenderò il berretto che usa papà per dipingere all’aperto, è nell’ingresso».
* * *
«Sedici tirocinanti, più la direttrice e suor Hawkins, oltre a trentacinque bambini sotto i cinque anni! Come gli è venuto in mente che possano starci tutti?».
Rachel, seduta rigida sul suo cuscino gonfiabile, posò la sua tazza di tè. «Duchessa cara, perché non ci parli direttamente?».
La lite a proposito del possibile trasferimento dell’intera Casa dei Bambini aveva imperversato per tutto il giorno, con una Rachel dolorante che faceva la spola da un genitore all’altro perché entrambi si rifiutavano di parlarsi: William perché non aveva tempo di star dietro a donnette che facevano un gran baccano per dei dettagli, la Duchessa perché tanto lui non la stava a sentire.
«Dice che Sampson installerà dei bagni chimici accanto al campo da squash».
«Oh, ne sono certa! Ma l’acqua non basterà mai».
«Dice che farà scavare un altro pozzo. Adesso è fuori che cerca l’acqua».
La Duchessa sbuffò. «Ti ricordi quanto tempo ci è voluto l’altra volta? Tre mesi!». Spalmò un po’ di burro su una fetta di pane. «E come crede che faremo a sfamare tutta questa gente? Me lo sai dire?».
Rachel tacque. Quando poche ore prima aveva posto la stessa domanda a suo padre, si era sentita rispondere che avevano a disposizione un’ottima cuoca e che comunque era risaputo che i bambini piccoli si nutrivano principalmente di latte. Poteva fornirglielo York, e se non bastava gli avrebbe comprato un’altra mucca.
La Duchessa stava prendendo il tè col cappello in testa, segno che era davvero arrabbiata. «Se crede che la Cripps possa cucinare per altre diciotto persone, senza contare i piccoli, be’, allora deve essere pazzo!».
«Si tratta di un’emergenza, mamma cara».
«Se Mrs Cripps si licenzia, quella sì che sarà un’emergenza».
«Del resto è possibile che tutto si risolva. Il primo ministro è tornato e finora non è successo niente. È un buon segno, no?».
«Io non credo che Mr Chamberlain sia il tipo d’uomo che discute di guerra la domenica», sentenziò la Duchessa. Non era chiaro se fosse un atto d’accusa o un elogio.
Vi fu un momento di silenzio, e Rachel ebbe modo di constatare quanto tutta la situazione apparisse surreale. Poi, domandandosi come mai fossero sole, disse: «Dove sono le zie?».
«A bere il tè con Villy e sua madre. Villy è molto brava in questo genere di cose».
«Lei e Sybil si sono offerte di dare una mano in cucina. E anche Zoë».
«Mia cara, nessuna di loro ha mai cucinato un pasto in vita sua. Magari avranno imparato a fare il pandispagna a scuola, ma dubito che questo basti».
E Rachel, che a sua volta non aveva mai preparato un pasto in vita sua e nemmeno si ricordava come si fa il pandispagna, dovette darle ragione.
* * *
Sybil fu stupita e commossa dalle attenzioni degli altri ragazzi nei confronti di Simon. Gli fecero visita a turno praticamente per tutto il giorno, sebbene l’ammalato non si mostrasse particolarmente grato. Ma viste le sue condizioni non gliene fece una colpa. Dopo pranzo gli rimboccò le coperte perché facesse un bel sonno e mise sulla porta un cartello perché non entrasse nessuno. Tuttavia, quando salì a portargli la merenda, trovò Lydia e Neville seduti uno da una parte e una dall’altra.
«Mi hanno portato un regalo. Non ho potuto mandarli via». Sybil notò che aveva il volto molto arrossato.
«Non avete letto il cartello?», domandò mentre li faceva scendere dal letto.
«No. Per leggere bisogna che mi concentri. Non mi viene naturale», disse Lydia, e Neville disse che per leggere una cosa doveva proprio volerlo. «Non succede quasi mai», aggiunse.
«Perciò se sul cancello di un campo ci fosse scritto “Serpenti velenosi. Tenersi alla larga”, voi morireste», disse Simon.
«No. La parola “serpenti” mi salterebbe agli occhi e mi metterebbe sull’avviso».
«E poi un campo è una cosa diversa da una camera, no?», aggiunse Lydia con aria superiore. «A domani Simon. Sarai pieno di pustole, immagino».
Quella sera Dottie, che fin dal mattino era stata più maldestra del solito e a detta di Eileen non aveva fatto che piangere, si riempì di macchie. Mrs Cripps si disse pronta a scommettere le sottane che era varicella. Parve prendere la cosa come un affronto personale e fu molto dura con la povera Dottie, che aveva appena rotto una salsiera e se ne stava tremante e irresoluta dinnanzi al mucchio di cocci e salsa, con lo scopino e la paletta in mano. «Be’, non stare lì impalata! Pulisci! Poi cambiati il grembiule e va’ a scusarti con Mrs Cazalet». Fu questo che udì Rachel quando, avvertita da Eileen, entrò in cucina. «E non usare la paletta! Passa lo straccio prima! Oh... Miss Rachel! Si è rotto un pezzo del servizio estivo della signora. Per non parlare della salsa, non ho certo il tempo di rifarla. E la ragazza sta male, per giunta. Come se non avessimo abbastanza problemi!».
Rachel guardò a turno la faccia luminescente della Cripps e il suo petto in tumulto, contenuto appena dalla pettorina sottile del grembiule a fiori, e si sforzò di usare un tono amabile.
«Oh, poverina!». Poi si rivolse suadente alle cameriere che osservavano la scena grate di non essere loro le colpevoli – del resto avrebbero preferito farsi licenziare che aiutare Mrs Cripps in cucina. «Magari una di voi potrebbe cortesemente pulire, perché credo proprio che Dottie debba mettersi a letto».
«Quello è il suo posto», approvò la Cripps. «Ma bisognerà trovare qualcuno, Miss Rachel. Capisco Hitler e tutto. Ma non posso mandare avanti la cucina senza un aiuto. Questo proprio non potete chiedermelo».
«Sì. Be’, ne parleremo domani, Mrs Cripps. Credo che Edie, giù a Mill Farm, abbia una sorella che potrebbe venire a darci una mano. Vieni, Dottie, ti accompagno di sopra».
Lasciò Peggy e Bertha a pulire e mettere in ordine e scortò Dottie, che ormai piangeva senza ritegno, nella piccola mansarda battuta dal sole.
Mentre la ragazza si spogliava, andò a cercare un termometro. Camminare le dava dolore, ma non c’era nulla che non gliene desse. Non vedeva l’ora di infilarsi a letto anche lei, dopo tutte le tensioni e le liti che si era trovata a dover gestire quel giorno. Aveva a malapena visto Sid, che aveva trascorso gran parte del pomeriggio a placare Evie che era scontenta di alloggiare nella casa sopra il garage insieme a Miss Milliment, mentre sua sorella se ne tornava in quella che Evie si ostinava a chiamare la casa grande. Fossero stati giorni normali, sarebbe andata di filato da Marly, il meraviglioso massaggiatore che riusciva sempre a rimetterla in sesto. Il pensiero che forse non ne avrebbe avuta la possibilità, né domani né i giorni a venire, l’atterriva. Ma era assurdo da parte sua preoccuparsi di simili inezie quando stava per scoppiare una guerra. Se davvero avessero evacuato la Casa dei Bambini, le sarebbe toccato ricomporsi e organizzare pasti e servizi sanitari, anche se il solo pensarci la faceva sentire esausta. Avrebbe voluto dire far traslocare gli attuali inquilini di Mill Farm per farci stare in qualche modo tutti i piccoli e le bambinaie, sistemando i ragazzi nel campo da squash. Non avrebbe avuto senso parlarne con la Duchessa o col Generale. La persona con maggior senso pratico era Villy, e d’altronde tutti quei rivolgimenti riguardavano principalmente la sua famiglia. E per giunta non c’erano solo i bambini. C’era anche l’anziana Lady Rydal: all’idea che si coricasse su una brandina nel campo da squash le venne da ridere, ma anche ridere le faceva male.
Tornò da Dottie, che ora giaceva col lenzuolo tirato fin sotto il mento e frignava sommessamente. La stanza era un forno. Ospitava la caldaia e rimaneva ben poco spazio per il lettino di ferro, la sedia di legno e il piccolo comò. La finestrella era chiusa e, quando domandò a Dottie se voleva che l’aprisse, la ragazza disse che non si apriva. Non si era aperta mai. La caldaia emetteva un gorgoglio intenso, irregolare. Non era un bel posto dove giacere da malati, pensò Rachel. Dottie aveva quasi trentanove di febbre. Rachel le sorrise per rassicurarla e le disse che Peggy o Bertha le avrebbero portato una caraffa d’acqua e un paio di aspirine. «Devi bere il più possibile, per far abbassare la temperatura. Chiamerò il dottor Carr perché venga a darti un’occhiata domani. Manderò anche qualcuno a sbloccare quella finestra. Adesso cerca di dormire un po’. Sei stata davvero brava a continuare a lavorare sentendoti male».
«Non l’ho fatto apposta, a romperla».
«Cosa? Ma no, certo. Ne parlerò io con Mrs Cazalet. Capirà che non ti sentivi bene».
Uscì dalla stanzetta e mandò una delle cameriere a prendere l’aspirina. «È bene che abbia anche un vaso da notte. Ha la febbre piuttosto alta, deve bere molta acqua. Ma sono certa di poter contare su du voi. Avvertitemi se ha bisogno di qualcosa. Il dottore verrà domani».
Bertha, che aveva grande stima di Miss Rachel, disse che avrebbe provveduto a tutto. L’imminente visita del dottore ebbe l’effetto di innalzare lo status di Dottie persino agli occhi di Mrs Cripps, la quale dichiarò all’istante che avrebbe messo a fare una bella cagliata per quella sera.
Rachel andò nella propria stanza e si stese sul letto, e nel farlo la schiena le fece un male tale che dubitò di riuscire a rialzarsi.
* * *
Dopo il silenzio Hugh domandò: «Come sta Oscar?».
«Sta bene». Non lo guardava, e per un po’ camminarono senza parlare. Era già scuro, il sole era tramontato, ma faceva caldo e l’aria era ancora ferma, grigiastra. «Che ne dici di una passeggiata, Poll?», le aveva proposto, al che lei si era alzata di buon grado dalla sedia e aveva detto che sarebbe andata prima a controllare Oscar, dopo si sarebbero visti sul prato davanti alla casa. Poi però si era come chiusa in se stessa; non l’avesse conosciuta bene, Hugh avrebbe pensato che gli stesse portando il muso. Le domandò dove desiderasse andare, lei disse che era lo stesso, così s’incamminarono verso il boschetto dietro casa e di lì verso il prato grande coi castagni, con lei che gli arrancava accanto quasi immemore della sua presenza.
«Sono stanco», fece Hugh quand’ebbero raggiunto i grossi alberi. «Sediamoci un po’».
Si sedettero poggiando la schiena sui tronchi e Polly restò in silenzio.
«Cos’è che ti preoccupa?».
«Niente».
«Io sento che c’è qualcosa».
«Perché, tu non sei preoccupato?».
«Sì. Sono molto preoccupato».
«Oh, papà! Anch’io. È la guerra, vero? Ci sarà un’altra guerra». L’angoscia nella sua voce lo colpì al cuore. Le mise un braccio attorno alle spalle; era tesa, contratta.
«Non si sa ancora. Forse. Dipende...».
«Da cosa?».
«Be’, da quello che Hitler ha detto a Chamberlain questa settimana. Se verrà raggiunto un accordo accettabile. Se i cechi potranno acconsentire».
«Ma devono farlo!».
«Come fai a sapere tutte queste cose, Poll?».
«Non le so. Non so se vogliono acconsentire o no. Voglio dire che devono farlo! Per impedire la guerra. Qualsiasi cosa pur di impedire la guerra!».
«Non dipende più solo da loro».
«E da chi, allora?».
«Da noi... e da Hitler, naturalmente».
«Ma tutti dicono che Mr Chamberlain vuole la pace. La pace vuol dire non fare la guerra».
«Sì, ma c’è un limite a quello che si può accettare pur di preservare la pace. E personalmente temo sia stato già superato».
«Io, personalmente, credo di no», ribatté lei risentita.
Hugh la guardò stupefatto: aggrottava la fronte a scatti, come faceva sempre quando si sforzava di mettere a fuoco un pensiero oppure di non piangere. Non sapeva quale dei due sforzi l’assorbisse adesso. Mise la mano sopra la sua e la strinse; lei si aggrappò alle sue dita, ma non ci furono lacrime. Emise però un sospiro, che a lui parve pieno di pena.
«A che pensi, Poll?».
«Mi chiedevo... come credi che sarà? All’inizio, intendo». Si voltò a guardarlo e Hugh si sentì vacillare di fronte al candore e all’intensità del suo sguardo.
«Non lo so. Forse ci sarà un attacco aereo. Probabilmente su Londra». Questo lo credeva davvero. «Non penso che adopereranno il gas, sai, nonostante la faccenda delle maschere». Di questo invece non era affatto sicuro. «Non credo ci sarà un’invasione o qualcosa del genere». Di questo era ancora meno sicuro, e si pentì subito di averlo detto. Magari lei non ci aveva pensato affatto, e lui voleva tranquillizzarla.
Ma Polly invece ci aveva pensato.
«Potrebbero mettere i carri armati sulle navi e sbarcare qui da noi, no? I carri armati vanno dappertutto». Guardò il boschetto alle loro spalle e anche Hugh vide, com’era certo lo stesse vedendo lei, un carrarmato sfondare e calpestare la fila di alberi: un terribile mostro animato.
«Ma noi abbiamo la Marina, sai? Non sarà mica così facile per loro. Adesso ascoltami, Poll, stiamo facendo un sacco di supposizioni. Non è detto che scoppi la guerra. Noi oggi abbiamo fatto un piano d’emergenza, nel caso in cui scoppiasse. E mi piacerebbe molto parlarne con te. Sei coraggiosa e piena di buon senso, potresti dare dei suggerimenti utili».
Era davvero entrambe le cose, rifletté Hugh più tardi, ripensando al commovente sforzo di Polly di mostrarsi all’altezza delle sue aspettative. Mentre tornavano verso casa, le era parsa un poco più serena. Gesù! Che razza di conversazione da avere con la propria figlia tredicenne, pensò mentre Polly andava a dar da mangiare a Oscar e lui si ritrovò solo. Allora prevalsero rabbia e senso d’impotenza: avrebbe dato la vita per lei, come per tutti gli altri del resto, ma le cose non erano così semplici, stavolta. Questa guerra avrebbe coinvolto i civili, gli innocenti, i giovani, i vecchi. E lui non aveva saputo proteggerla nemmeno dalla paura! Le tornò in mente la sua espressione mentre guardava gli alberi, rivide e risentì il carrarmato. Erano a nemmeno quindici miglia dalla costa.
* * *
«Mi dispiace che ti sia venuta la varicella».
«Va tutto bene». Guardò Christopher che se ne stava a disagio sulla porta. Tornarono a galla i vecchi sentimenti di affetto e amicizia: era stato un bel gesto da parte sua venire a trovarlo. «Come va con Teddy? Puoi dirmelo... tanto ormai lo odio».
«Vuole trasformare il campo in un fortino. Scavare una trincea tutt’intorno. Vuole giocare alla guerra».
«Non glielo permetterai, vero?».
«No, ma non so come impedirglielo. Dice che è il suo territorio, che l’invasore sono io. Vuole prendersi la nostra roba perché tanto è quasi tutta sua. La tenda, per esempio».
«Sei un obiettore di coscienza. Non puoi giocare alla guerra».
«Certo che no! Ma questo rovina tutti i miei piani. A quanto pare, tiro fuori il peggio da lui. E dopotutto tu non puoi scappare, sei malato».
«Lo so. Ma allora vuoi dirgli tutto?».
«Be’, se glielo dico magari terrà il segreto. Magari si convincerà e si unirà a me, invece di fare lo scemo».
«Perché invece non aspetti un po’? Potrebbe prendersi la varicella. O andare alla sua orribile scuola». Simon si sentiva molto orgoglioso che Christopher avesse detto la nostra roba e che gli avesse chiesto il suo parere sull’opportunità di raccontare tutto a Teddy. Inoltre il fatto di essere confinato a letto e di non poter fare nulla rendeva più facile dispensare consigli. «Io non gli ho detto niente, comunque», aggiunse in cerca di ulteriori conferme.
«Lo so, scemo. Starei qui a parlare con te di dirglielo, se tu gli avessi già raccontato tutto?».
«Scusa. Non ci ho pensato».
«Va bene, certo. Devi sentirti molto male». Simon si sforzò di sembrare molto malato. Christopher raggiunse il comodino e prese un chicco d’uva dal piatto. «È sempre lì!», disse esasperato. «A mangiare le provviste e a mettere tutto sottosopra. Si è portato pure il fucile!».
«Non può prenderlo se non c’è un adulto con lui. Potesti dirlo a zio Edward».
«Io non faccio la spia...». E s’interruppe perché in quel momento entrò zio Hugh. Aveva con sé una scacchiera.
«Ho pensato che ti andasse di fare una partita prima di cena», disse. «Ciao, Christopher. Ho interrotto qualcosa?».
«Oh, no», fecero all’unisono. Poi Christopher disse che comunque se ne stava andando.
Sistemata la scacchiera, Simon prese il pedone bianco dalla mano di suo padre e domandò: «Papà, se scoppia la guerra, dovrò andarci lo stesso a scuola?».
«Non lo so, ragazzo. La cosa ti preoccupa?».
«La scuola?».
«La guerra».
«Oh, no», replicò Simon spensierato. «Credo che sarà piuttosto divertente». Tutto sommato fu contento che suo padre avesse troncato il discorso: se doveva comunque andarci, era meglio non saperlo. Del resto sarebbero passate settimane prima che lo facessero alzare dal letto.
* * *
Quel lunedì Jessica lasciò Mill Farm alle nove per andare al funerale. Andarono con lei Angela e Nora; non era riuscita a convincere Christopher, mentre Judy a suo avviso era troppo piccola. Indossava l’abito bianco e nero di Villy e un cappello di paglia nero con il velo, molto adatto all’occasione. Il cappello era stato posato sul sedile posteriore accanto ad Angela, la quale, pallida e taciturna, si piegava a tutto senza fiatare e non aveva protestato nemmeno quando Nora aveva proclamato che quella volta toccava a lei sedersi davanti. Nora indossava la gonna e la giacca blu scuro e si era legata un nastro nero intorno al braccio. Angela si era lasciata vestire da Villy con un abito di lino nero e un bel soprabito bianco. Varie paia di guanti e borse dei colori appropriati erano state messe a disposizione dalla famiglia per l’occasione.
«Vi aspettiamo per cena», disse Villy mentre le salutava. «Telefonate se non riuscite a tornare in tempo», aggiunse. Nonostante Jessica avesse dichiarato che nulla poteva convincerla a restare lì per la notte, Villy sapeva che Raymond era capace di farle cambiare idea. «Non ci siamo portate niente per dormire», le aveva detto sua sorella ore prima. «Perciò nemmeno Raymond potrà pretendere che ci fermiamo», e le aveva sorriso maliziosa come a dire: So come trattarlo, io: lo assecondo sempre, ma poi gli metto i bastoni fra le ruote in modo tale che debba arrendersi. «Mi rinfaccerà che non sono stata previdente, questo sì», disse con rassegnazione. «Ci sono fin troppo abituata».
Fu un viaggio molto lungo, fino a Frensham e ritorno sulla loro vecchia Vauxhill (Jessica non aveva voluto prendere in prestito l’auto di Villy). Villy le salutò e poi tornò in casa a dare inizio alla tranquilla e piacevole giornata che Jessica tanto le invidiava. La sala da pranzo serviva per le lezioni, perciò il tavolo andava sgombrato al più presto dai residui della colazione. Dopodiché ci sarebbe stata l’interminabile procedura per far alzare e vestire sua madre: voleva fare il bagno, il che implicava dover tenere alla larga tutti quanti – compresi cameriere e bambini – dalla sua traiettoria giacché Lady Rydal aborriva che la si vedesse andare o venire dal gabinetto o dalla stanza da bagno. Si ricordò che i bambini non avevano i libri di testo, e li aggiunse alla lista delle cose che avrebbe preso il giorno dopo a Lansdowne Road. S’imbatté in Louise, immusonita per non essere potuta andare al funerale. «Non è giusto, non ci sono mai stata! Non sono mai stata damigella di nozze, non sono mai stata all’estero e non sono mai stata a un funerale. Tu mi impedisci di fare qualunque esperienza della vita!».
«Te l’ho detto cento volte. Non puoi andare al funerale di qualcuno che non hai nemmeno conosciuto».
«Non è mica colpa mia se non la conoscevo!».
«Va’ a Home Place e chiedi alla Duchessa della carta assorbente e una bottiglietta d’inchiostro. Ah, chiedile anche se ha dei quaderni o dei blocchi di fogli di carta».
«Non ne abbiamo bisogno. Clary ne ha un’infinità».
«Bene. Dille di portarli». Sentì un pianto soffocato al piano di sopra.
«Devo andare. Forza, Louise, in marcia!». E corse di sopra.
«Uffa! Non può telefonare? Va’ di qua... va’ di là... crede che io sia la sua schiava! Una schiava bambina».
E mentre risaliva la collina si calò nel ruolo della schiava: sottomessa e bellissima, con un pesante anello alla caviglia che usavano per incatenarla al muro la notte. I capelli neri lunghi fino alla vita. Erano tutti ammaliati dalla sua bellezza, ma i suoi padroni la trattavano peggio che se fosse stata un elefante da compagnia. Quando trovò la Duchessa era talmente compresa nella sua sottomissione e nella sua bellezza che non ricordava più il motivo per cui era arrivata fin lì. La Duchessa aveva cercato invano il Generale per dirgli di chiedere a Sampson di mandare qualcuno a sbloccare la finestra di Dottie.
«Dov’è andato?».
La Duchessa alzò lo sguardo dall’imponente mucchio di lenzuola tra cui stava scegliendo quelle da dare alle sorelle perché le rammendassero. «È fuori, cara. Altrimenti lo avrei trovato io. Probabilmente è dietro al campo da squash. Oppure giù alle case, sulla strada per la fattoria di York. Sbrigati. Dottie ha la varicella, non le fa bene stare così al chiuso».
Louise fece un primo tentativo al campo da squash, e lì trovò il nonno in compagnia di Christopher. Avevano ognuno in mano un bastone biforcuto e camminavano piano sul piccolo prato quadrato. Mentre Louise si avvicinava, Christopher gridò: «Ehi, guarda!». Fece un passo indietro e poi uno avanti, e il bastone sembrava volergli scappare di mano.
Louise pensò che facesse finta, invece il Generale si avvicinò e gli disse: «Fallo di nuovo, Christopher», e lui obbedì. Stavolta vide distintamente il bastone vibrare come spinto da una forza interna. «Che mi venga un colpo!», esclamò il Generale. Provò a fare lo stesso, ma non accadde niente. Si levò il cappello di feltro e lo mise in testa a Christopher. Gli stava grande e gli coprì gli occhi. Il Generale lo fece voltare e gli diede una piccola spinta. «Riprova». E Christopher, dopo aver mosso qualche passo incerto, ritrovò lo stesso punto e stavolta il bastone quasi gli saltò via di mano. Il Generale gli tolse il cappello e se lo rimise sul capo. Sorrideva. «Bravo, ragazzo!», gli disse. «Hai del talento. Il pozzo lo chiameremo come te». E Christopher si fece rosso.
«Posso provare?».
Il Generale porse il suo bastone a Louise. «Prova pure. No. Tienilo così. Con i pollici rivolti al centro».
Louise provò ma non accadde niente. Gli disse quello che doveva dirgli, poi il Generale la mandò alle stalle da Wren per chiedergli di andare a cavallo fino da Sampson perché mandasse qualcuno a casa. «Vediamo se riesci a trovare un corso d’acqua, ora», disse a Christopher. «Tu corri, da brava».
Brava! Adesso ne avrebbe avuto per tutta la mattina! E poi era grande per quel genere di faccende. Camminò verso le stalle il più lentamente possibile, e trovò Wren intento ad affilare le punte del forcone con una vecchia lima. Faceva un rumore terribile che le procurò un brivido. Lei riferì il messaggio del nonno, ma quello continuò a passare imperterrito la lima. «Mi ha sentito, Mr Wren?».
Lui s’interruppe. «Sì, ho sentito».
«Perché lo fa? Non servono punte molto aguzze per smuovere la paglia, o sbaglio?».
Lui le lanciò un’occhiata piena di ferocia e furbizia. «Lo vedremo, Miss, lo vedremo».
Si affrettò ad andar via. Wren non le era molto simpatico. Da quando era diventata troppo grande per andare sul pony, le aveva assegnato il vecchio grigio che lei non riusciva a controllare perché aveva la bocca dura come il ferro – il Generale lo aveva cavalcato per anni con la doppia briglia e lui aveva la mano pesante –, ma del resto era evidente che a Wren non importava molto della sua formazione atletica, e i suoi giri a cavallo erano diventati talmente noiosi che alla fine ci aveva rinunciato. Raggiunto il vialetto, vide Miss Milliment che si dirigeva verso Mill Farm insieme a Clary e Polly. Si ricordò che non aveva chiesto la carta e il resto della roba alla Duchessa e decise di andarci in quel momento, facendo tardi alla lezione. Era un peccato che non ci fosse anche Nora. Sarebbe stato bello averla lì, e invece adesso, senza di lei, le sarebbe toccata di nuovo la parte dell’intrusa. Con lentezza esasperata fece il giro della casa passando dal campo da tennis e si mise a cercare la Duchessa.
* * *
Un’altra giornata grigia e calda. Mrs Cripps fece bollire il latte per non farlo andare a male, ma il burro si scioglieva a tenerlo fuori dalla dispensa anche solo per pochi minuti. Edie, che lavorava a Mill Farm, aveva mandato sua sorella più piccola (molto più piccola) a dare una mano a Home Place, ma Mrs Cripps non era abbastanza in confidenza con lei da vessarla e in cucina, dove il caldo era tremendo per via dei fornelli accesi, l’aria era immobile e pesante perché dalla piccola finestra del seminterrato non entrava un refolo di vento. Emmeline pelò sette chili di patate novelle, lavò le stoviglie della colazione, strofinò con cura il ripiano della dispensa e la stufa, pulì e affettò quattro chili di fagiolini, lavò i piatti dello spuntino di metà mattina, imburrò due scatole per dolci, sbucciò, tolse il torsolo e affettò tre chili di mele Bramley per le torte da servire come dessert, apparecchiò per il pranzo della servitù, lavò i piatti e lavò anche tutti gli utensili che erano stati adoperati per preparare il pranzo, il tutto parlando solo se interpellata, e anche allora a bassa voce. Phyllis lo considerò un segno di rispetto e decenza, ma non le sfuggì che Mrs Cripps cominciava a risentire dello sforzo di non essere se stessa: si comportava con una tolleranza e un buon umore posticci che non potevano in nessun modo durare. Si trovava più a suo agio nei panni della martire per insufficienza di organico, condizione che le forniva anche la scusa per maltrattare qualche cameriera. Ma tant’era. Del resto era chiaro che Mrs Cripps abbaiava ma non mordeva, almeno nel caso di Dottie, visto l’ininterrotto flusso di spuntini appetitosi sistemati su un vassoio con due passerotti dipinti sopra che prendevano la via della mansarda. Una crostatina alla crema, del pane tostato, la cagliata messa a fare la sera prima, un uovo bazzotto e la parte finale di un rotolo con le uvette, tutto accompagnato da tazze di tè generosamente zuccherato, sfilarono dalla cucina alla stanzetta in soffitta, dove venivano puntualmente rifiutati perché Dottie era troppo sofferente per godere di quelle attenzioni. Bertha, mandata a riassettare la stanza per la visita del dottore, si offrì di farsi carico dello smaltimento delle cibarie: adorava stendersi a leggere romanzi d’amore sgranocchiando qualcosa. Aveva anche prestato a Dottie una camicia da notte, visto che Dottie ne aveva una sola e a Bertha non era parso il caso che il dottore la vedesse con quella addosso, perché le andava piccola e in generale non era molto presentabile. Dottie, che in vita sua non era mai stata visitata da un medico, si sentiva importante e un po’ atterrita. «Che cosa farà?», domandò a Bertha, la quale, non avendo neanche lei molta esperienza in materia, si limitò a dire che avrebbe fatto quel che doveva e che lei avrebbe aspettato fuori.
Uno degli operai di Sampson venne a sbloccare la finestra ma, essendo la stanza appena sotto il tetto, il caldo restò soffocante. «Prova a non sudare finché il dottore non va via», le consigliò Bertha, ma non fu possibile. Gli occhi le dolevano quando li muoveva, e poi che peccato tutta quella buona roba sprecata e quello starsene a letto a non far nulla! (Quest’ultima circostanza in realtà non le dispiaceva affatto). Bertha commentò che ognuno doveva farsi la frittata con le uova che aveva e Dottie, che non aveva idea di cosa ciò significasse, replicò che doveva essere così.
* * *
Zoë passò la mattinata a rammendare le lenzuola insieme alle zie.
«Sembra proprio di essere già in guerra», commentò placida Flo mentre si accomodava in grembo un pezzo di lenzuolo.
«Non mi pare che abbiamo rammendato lenzuola durante l’ultima guerra», obiettò Dolly.
«Questo perché hai una pessima memoria», replicò Flo. «Io ricordo benissimo che non facevamo altro che rammendare biancheria o altra roba».
«Altra roba!», sbuffò Dolly. Erano sedute davanti al tavolo a ribalta nella stanza dove veniva servita la colazione. Zoë si era unita a loro perché tutti gli altri a cui aveva chiesto di assegnarle un compito non avevano saputo cosa farle fare. La Duchessa invece non aveva avuto la più piccola esitazione e l’aveva messa subito al lavoro. «Saresti di grande aiuto, Zoë cara», aveva aggiunto, con gran soddisfazione di Zoë, che riuscì perfino a chiedere alla anziane zie di mostrarle quel che doveva fare. Naturalmente avevano metodi diversi: zia Dolly prediligeva le toppe, che ricavava da alcune federe ormai irrecuperabili; zia Flo invece praticava minuziosi rammendi sopra lo strappo e poi tutt’intorno. Zoë eseguì alla lettera le loro istruzioni e si accorse di essere brava. Le erano sempre piaciuti i lavori di cucito fine, aveva imparato da sua madre. Le zie non fecero che bisticciare con leggerezza per tutta la mattinata, ma Zoë non le stava nemmeno a sentire: aveva un nuovo senso di colpa con cui vedersela, ed era così disperata che non riusciva a interrompere un circolo vizioso di indecisioni. Non aveva usato contraccettivi con Philip – non gliene aveva dato la possibilità – e ora la tormentava il pensiero che poteva essere incinta. Peggio ancora, l’unico modo che aveva per salvare il suo rapporto con Rupert era dargli il figlio che desiderava. Il dilemma le si era presentato in tutta la sua drammaticità la prima sera dopo il suo ritorno, quando stava per prendere le sue solite precauzioni. Mentre allungava la mano per afferrare l’astuccio in cui teneva il diaframma, le era tornata in mente la sera precedente e con essa il fatto che non aveva usato nulla. Paura e senso di colpa allora l’avevano paralizzata: il pensiero di avere in grembo il figlio di Philip le faceva ribrezzo, ma d’altra parte, se era rimasta davvero incinta, era vitale che Rupert pensasse che il bambino era suo. Così non aveva usato niente neanche quella sera. E adesso, rifletté smarrita, se era incinta non avrebbe saputo di chi fino al momento del parto, anzi auspicabilmente nemmeno allora. Dio, perché l’ho fatto?, continuava a tormentarsi. Perché non ho semplicemente aspettato il prossimo ciclo per poi concepire un figlio con Rupert? La risposta era: perché aveva una gran paura di essere già incinta. Ma se così fosse stato, pensava ora, avrebbe potuto sbarazzarsene e ogni cosa sarebbe tornata al suo posto. Ma come? Il pensiero di chiederlo a Villy o a Sybil le era intollerabile, perché avrebbe dovuto spiegare quello che era successo. Già non era nelle loro grazie: se avesse raccontato di Philip avrebbero pensato che aveva veramente passato il limite. Potrei raccontare a entrambe o a una di loro che mi ha violentata, pensò. Il fatto che tutte le soluzioni che le venivano in mente la obbligassero a dire altre bugie era esasperante.
«Tu sei troppo giovane, Zoë, per ricordarti degli Zeppelin».
«Ma no che non è troppo giovane!».
«Ma Flo, doveva essere una bambina a quei tempi!».
«I bambini hanno buona memoria, sai, molto migliore della tua. Quando sei nata, cara?».
«Nel 1915».
«Ecco. Sentito?».
«Adesso dirai che era chiaro come il sole, vero? Proprio come diceva sempre papà».
La carnagione naturalmente color malva di Dolly s’incupì in una tonalità lavanda scuro mentre digrignava i denti. Zia Flo intercettò lo sguardo di Zoë e ammiccò platealmente; quell’espressione e il nastro rosso fra i capelli che le era andato di traverso la facevano somigliare a una specie di vecchio pirata, pensò Zoë, sollevata di riuscire a pensare a qualcos’altro almeno per un momento. La mattinata sembrava non avere mai fine, però. A un certo punto si ritrovò anche a pensare che Philip fosse il genere di persona che poteva prendere delle iniziative, nel momento in cui avesse saputo che lei era incinta e, sebbene avesse chiaro in mente il suo sguardo malizioso e sardonico, un piccolo germe di nostalgia le aprì un poco il cuore... forse non lo avrebbe più rivisto in vita sua...
«...davvero un gran caldo, mia cara. Vuoi che apra anche l’altra finestra? Dolly può sempre mettersi un’altra coperta sulle ginocchia. Lei ha sempre freddo, pare che il sangue non le vada in circolo. Che ragazzaccia a non portare i mutandoni di lana».
Zoë, che non aveva idea di come fossero fatti dei mutandoni di lana, sorrise, come ci si aspettava da lei, ma a quel punto zia Dolly si arrabbiò davvero, si alzò in piedi, camminò goffa fino alla finestra e l’aprì con un gesto nervoso. «Certe volte mi piacerebbe che tu evitassi di discutere della mia biancheria intima in pubblico! Certe volte, eh!», disse con il tono di chi è giunto al limite della sopportazione.
«Io non ho nessun problema a parlare della biancheria intima di chicchessia, se la conversazione lo richiede. I mutandoni di lana sono uno dei fatti della vita. Perché far finta che non esistano? Dolly possiede un’ipocrisia che posso definire solo vittoriana, io e Kitty non siamo mai state così...».
Benché non avesse appetito, Zoë salutò con gratitudine l’ora di pranzo.
* * *
Rupert dedicò gran parte della sua giornata a portare Rachel a Tunbridge Wells, dove risiedeva un tale che il dottor Carr gli aveva raccomandato come un vero prodigio in fatto di schiene malconce. Ci andava anche lui, aveva detto il dottore. Rachel soffriva così tanto che per una volta aveva acconsentito a recare un tale disturbo. Sid avrebbe voluto andare con lei ma Evie, avendo deciso che il modo migliore per protestare contro il fatto di essere stata scaricata nella casa sopra il garage era dare più fastidio possibile, disse di avere un terribile mal di testa, e non ci si poteva certo aspettare che i domestici le portassero il pranzo fin laggiù. «Perciò, naturalmente», disse Sid in un debole tentativo di sembrare allegra, «dovrò restare con lei. E invece vorrei tanto accompagnarti».
«Ma potrebbe occuparsene uno dei bambini, sono certa che non sarebbe un problema», obiettò Rachel. «Del resto non vorrà mangiare molto, se sta male».
«Te l’avevo detto che sarebbe stato un incubo averla qui».
«Lo so. Ma il punto non è più questo, o sbaglio? Non è il momento di pensare a noi stesse».
E quando mai sarebbe arrivato quel momento? Si domandò cupa Sid mentre guardava Rachel salire con smorfie di dolore sulla macchina di Rupert per poi allontanarsi. Più tardi il Generale la chiamò perché copiasse per lui il suo progetto di riconversione di due piccole case che stava acquistando. «Doveva farlo Rachel, ed è un lavoro che non può attendere». Così trascorse gran parte della giornata nello studio del vecchio, alle prese con un foglio di carta oleata sistemato sopra il disegno originale. Lui stette fuori quasi tutta la mattina, ma il pomeriggio Sid dovette leggergli il «Times», sorbendosi a intervalli regolari i lunghi racconti delle coincidenze straordinarie che avevano costellato la sua vita. Il vecchio le piaceva, ma si rese conto che era un tiranno.
Evie, dopo aver consumato una ricca colazione, spazzò via fino all’ultima briciola del sostanzioso pranzo che Sid le portò in camera, si lamentò che la sorella la evitava e domandò ripetutamente cosa facessero gli altri. S’informò per ben due volte su Rachel quasi non credesse che era andata a Tunbridge Wells, e allora Sid, che stava ritirando il vassoio del pranzo, perse le staffe: «Alzati ed esci, se vuoi sapere cosa fanno gli altri. Ti ho già detto stamattina che Rachel è andata a Tunbridge Wells per farsi curare la schiena. Se continui a comportarti così, dovrai tornartene a casa!». A darle la forza di parlare a quel modo fu il fatto che Evie le avesse rovinato la giornata. Evie si mise a piangere, cosa che Sid, che aveva il cuore tenero, di solito non riusciva a sopportare, ma stavolta non si lasciò commuovere. «Santo cielo, Evie! Non piangere e non mettere il muso. Puoi sempre andartene, se preferisci».
Evie allora fece per alzarsi dal letto. «Il mio posto è al fianco di Waldo!», dichiarò. «Se non sono con lui, non ha importanza dove io sia!».
* * *
«Ha detto che non le importa dove sarà». Villy stava versando alla sorella del whisky e soda. Avevano cenato tardi, dopo che bambini erano andati a letto.
«A me ha detto che vuole tornare a casa. Grazie, cara. Ah, che meraviglia!».
«Lo vorremmo tutti, ma credo sia meglio aspettare e vedere come evolve la situazione». Parlavano della madre, come facevano spesso perché su di lei erano sempre in perfetto accordo. Sebbene a nessuna delle due piacessero i commenti di Edward e di Raymond sul suo conto, tra loro si sentivano libere di parlare del suo carattere impossibile. Carattere che, quando invece erano in disaccordo, ravvisavano almeno in parte l’una nell’altra.
Jessica si stiracchiò, allungò le gambe sottili e si tolse le scarpe lasciandole cadere a terra. «Di solito non bevo whisky, ma dopo una giornata come questa...».
«Raccontami. Com’è andata?». A cena aveva avuto modo di ascoltare un resoconto alquanto vivido degli eventi del giorno, reso soprattutto da Nora.
«...e la povera zia Lena stava lunga distesa nella bara, in mezzo al soggiorno. Pareva una di quelle enormi, costose bambole che si vedono da Whiteley a Natale. Solo che lei era più pallida, certo. Il sangue aveva abbandonato le sue gote, immagino». A quel punto Angela si era alzata ed era uscita, mormorando frasi di disappunto. Louise era affascinata. «Ma non portava un abito da sera, vero?».
«Certo che no! Una camicia da notte bianca, con dei pizzi intorno al collo». E avanti su questa china, finché le due non erano state invitate a lasciare la tavola, cosa che comunque non vedevano l’ora di fare.
«Com’è andata? È stata una cosa penosa, davvero. In casa le imposte erano chiuse, per cui l’aria era irrespirabile e la gente inciampava su quelle sedie enormi, perché era buio. Poi al cimitero ha cominciato a piovere. Io ovviamente non conoscevo nessuno a parte il parroco, che ha fatto una predica davvero stucchevole. Sulla sua meravigliosa disponibilità alla vita... immagino si riferisse alla sua longevità. Come quando uno dice “che bel panorama” solo perché la vista è ampia, e magari non c’è niente di bello da vedere».
«Raymond come stava?».
«Oh, lui è stato commovente. Ci teneva davvero. Probabilmente era l’unico».
«L’altro nipote non c’era?».
«Oh no! Lui se ne sta tranquillo in Canada. Il che ci porta al testamento».
Villy drizzò la schiena. «No! Vuoi dirmi che l’hanno letto lì per lì, come nelle commedie?».
«In salotto, appena tornati dal cimitero. Naturalmente ho mandato le ragazze a giocare in giardino. Ha lasciato trentamila sterline all’altro nipote». Fece una pausa. «E il resto a Raymond: la casa, quello che c’è dentro e un bel po’ di soldi».
«Oh, cara! È magnifico! Raymond sarà al settimo cielo».