Tarda estate
1938
Chissà perché deve comportarsi sempre peggio ogni volta che dobbiamo partire, tornò a domandarsi Jessica. E dire che l’avevano invitato. Edward e Villy erano stati come sempre davvero gentili, ma lui non aveva accettato. Tuttavia, e questa era la cosa peggiore, non si era nemmeno fatto da parte: sarebbe venuto il secondo fine settimana di vacanza, e quella promessa aveva preso i contorni di una minaccia incombente, senza che ciò togliesse a Jessica la sensazione di essere sul punto di abbandonarlo deliberatamente. Ma non poteva certo dire di no a due settimane di vacanza in campagna gratis per i bambini. E poi, se doveva essere onesta con se stessa (come peraltro era convinta di essere sempre), non le dispiaceva affatto la prospettiva di un po’ d’aria buona, di non dover cucinare, di non doversi preoccupare di far tornare i conti e di sfamare quattro figli con un appetito tale che il solo pensarci la sfiniva, per non parlare poi del bucato da fare e da stirare. Che sogno, starsene seduta su un bel prato a sorseggiare gin e lime mentre qualcun altro cucinava per lei!
Ed eccolo lì di nuovo, in piedi sulla porta della camera da letto, che aspettava con ostentata pazienza che lei chiudesse la valigia. Insisteva ogni volta per caricare lui la macchina, una gentilezza con cui mirava chiaramente a suscitare in lei un senso di colpa. Anche usando il portabagagli sopra il tettuccio, bastava che tutti e cinque facessero la loro parte; lui però dovette farla sembrare una manovra militare, insistendo che tutte le valigie fossero portate accanto alla macchina prima che iniziassero le operazioni di carico.
«Mi spiace, caro», gli disse lei nel tono più allegro di cui fu capace.
Lui sollevò la valigia e alzò le sopracciglia. «Si direbbe che tu debba stare via per almeno sei mesi». Lo diceva ogni volta, e lei aveva smesso da tempo di spiegargli che per sei mesi o per quindici giorni serviva la stessa quantità di roba. Mentre lo guardava zoppicare pesantemente giù per le scale reggendo la valigia, avvertì un familiare miscuglio di pietà e senso di colpa. Povero Raymond! Odiava il suo lavoro di tesoriere presso una grande scuola locale: era un uomo a cui serviva l’attività fisica per tenere alto l’umore, e quella gamba gliela precludeva del tutto. Era cresciuto in mezzo ad agi che ora invece gli erano negati, se si escludeva l’incerta eredità di una zia biliosa che a intervalli regolari minacciava di cambiare idea e di lasciargli, invece che i denari, la sua collezione di quadri: un Watts, un Landseer e oltre cinquecento orrendi acquerelli dipinti dal suo compianto marito. Il fatto era che seppure li avesse avuti, i soldi, in mano sua non sarebbero durati: li avrebbe sperperati in qualche progetto bislacco e irrealizzabile. Non era bravo a trattare con la gente, s’innervosiva facilmente e perdeva le staffe nei momenti meno opportuni, ma, d’altra parte, non avendo alcun senso degli affari, gli serviva un socio. Tra non molto, prevedeva Jessica, avrebbe lasciato il lavoro e si sarebbe lanciato in qualche nuova avventura, per finanziare la quale avrebbero dovuto vendere la casa e andare a vivere in un altro posto ancora più economico e meno adeguato. Non che quella casa le piacesse (un gioiellino bifamiliare in stile Tudor, l’aveva definita una volta per strappare una risata a Edward): era stata eretta subito dopo la guerra da certi speculatori come parte di una nuova cintura edilizia lungo la strada principale diretta a East Finchley. Aveva stanze piccole e brutte, corridoi così angusti che a camminarci con un vassoio in mano uno si scorticava i gomiti, e poi c’erano già crepe nei muri, i telai delle finestre a battente si erano deformati e lasciavano entrare la pioggia e in cucina c’era un puzzo costante di umidità. C’era un giardinetto lungo e stretto sul retro, in fondo al quale Raymond aveva costruito un capanno nel periodo in cui si era messo a coltivare funghi. Adesso lo usava Judy per ricevere i suoi amici – una vera fortuna averlo, perché, in quanto ultima nata, le era toccata la stanza più piccola, dove non c’era spazio per nient’altro oltre al letto e un comò.
«Jessica! Jessica!».
«Mamma! Papà ti cerca».
«Mamma! C’è il lattaio. Vuole i soldi».
Pagò il lattaio, mandò Christopher a dire alle ragazze di sbrigarsi, andò in salotto per controllare di aver chiuso il pianoforte e di averlo coperto con l’apposito panno perché non prendesse troppo sole, disse a Judy di andare in bagno e infine, quando le parve di aver fatto tutto il necessario, uscì dalla porta d’ingresso per imboccare il sentiero sconnesso che conduceva al cancello a motivi intricati. Il cancello ora era aperto con Nora seduta sopra, e lì accanto erano in corso le operazioni di carico.
«L’obiettivo, Christopher, nel caso tu non l’abbia capito, è fare in modo che le valigie non scivolino giù».
«Lo so, papà».
«Lo sai? Lo sai? È incredibile allora che non ti sia venuto in mente di far girare le corde dentro i manici! Bisogna dedurne che tu non sia particolarmente sveglio».
Christopher si fece rosso, salì sul predellino e si mise a infilare le corde nei manici. Mentre guardava le sue braccia bianche come carta uscire dalle maniche arrotolate e la falda della camicia che gli usciva dai pantaloni mentre si allungava, Jessica provò un moto d’affetto e di odio insieme: eccoli, suo figlio e suo marito, intenti a fare uno del suo meglio e uno del suo peggio. Alzò gli occhi a guardare il cielo: l’azzurro di poco prima aveva ceduto il passo a un grigio lattiginoso, non tirava un alito di vento, e le venne il timore che nel Sussex li attendesse un temporale.
«Sembra perfetto», disse. «Dov’è Angie?».
«Di sopra che aspetta. Non voleva stare ad aspettare fuori al caldo», rispose Nora.
«Be’, valla a chiamare. Mi pareva di averti detto di dire a entrambe di scendere».
«Sono certo che l’ha fatto, cara. Ma la conosci, Angie. Chiamale tu, Nora».
Judy, la più piccola, venne fuori spontaneamente. Raggiunse Jessica e le fece cenno di chinarsi, perché potesse dirle qualcosa all’orecchio. Jessica obbedì.
«Ci ho provato, mamma, ma non è uscita nemmeno una goccia».
«Non fa niente».
Angela, con indosso un completo di lino che si era cucita da sola, prese a incedere lenta lungo il vialetto. Si era messa le scarpe bianche e indossava un paio di guanti bianchi di cotone: sembrava che andasse a un matrimonio. Jessica, ben sapendo che tutto questo serviva a fare impressione su zia Villy, non disse niente. Angela aveva appena diciannove anni, e da un po’ di tempo si era fatta sognante e piena di pretese. «Perché non siamo più ricchi?», piagnucolava quando la paghetta – o indennità di vestiario, come la chiamava lei – non le bastava e Jessica si rifiutava di aumentargliela. «I soldi non sono tutto», le aveva detto una volta che era presente Nora, la quale subito aveva ribattuto: «No, però è sempre qualcosa, no? Voglio dire, non è niente».
Adesso Raymond li stava salutando. Baciò la guancia pallida e restia di Angela – papà era tutto sudato e lei odiava il sudore – e poi quella di Nora, che gli si appese al collo con foga mettendolo di buon umore. «Sta giù», le disse. Diede una stretta violenta alla spalla di Christopher, il quale borbottò qualcosa e si sbrigò a salire sul sedile posteriore.
«Ciao, papà», gli disse Judy. «Vedrai che starai benissimo con zia Lena. Salutami Trottie». Trottie era il carlino di zia Lena; un nome davvero poco azzeccato, aveva osservato Nora, dato che Trottie, grasso com’era, di certo non aveva mai trottato in vita sua.
Angela prese posto con circospezione sul sedile davanti.
«Potevi anche chiedere», osservò Nora.
«Sono la più grande. Non devo chiedere».
«Oh, ma davvero! Non so come ho fatto a scordarmene!». Un’imitazione quasi perfetta del tono di suo padre quando diventava saccente e sarcastico, pensò Jessica. Lo baciò sul volto caldo e umido e gli rivolse il meccanico sorrisetto di intesa che in realtà lo faceva infuriare.
«Be’, spero vi divertiate più di me», disse.
«Siamo in tanti, perciò vedrai che lo faremo», replicò allegra Nora. Era brava ad avere l’ultima parola senza perdere la sua aria amabile.
Poi partirono.
* * *
Da qualche giorno Louise aveva l’impressione che, qualunque cosa facesse, sua madre tendesse a interromperla perché si dedicasse a qualcos’altro, senza domandarsi se la cosa la interessasse o se ne avesse voglia in quel momento. Quella mattina le fu impedito di andare alla spiaggia con zio Rupert, Polly e Clary perché stavano arrivando i suoi cugini e, secondo sua madre, sarebbe stato da maleducati non essere lì a salutarli.
«Non credo proprio che loro mi troverebbero maleducata».
«Non m’interessa quello che credi», disse in tono brusco Villy. «Inoltre, sono certa che non hai messo in ordine la tua stanza».
«Non ce n’è bisogno».
Per tutta risposta Villy prese sua figlia per un braccio e la portò a passo di marcia al piano di sopra, nell’ampio solaio che Louise avrebbe diviso con Angela e Nora.
«Lo sapevo», disse. «Il solito porcile». Aprì con un gesto nervoso un cassetto dov’erano stipati alcuni vestiti mezzi usati di Louise e altre cose.
«Quante volte ti ho detto che è disgustoso mettere le mutande insieme al resto?». Riesce a farlo sembrare disgustoso per davvero, pensò Louise. Riesce sempre a farmi sentire così, sembra quasi che mi odi. Quindi estrasse del tutto il cassetto dalle guide e ne rovesciò il contenuto sul letto.
«E vale anche per i libri. Gesù, Louise, che libro è quello?».
«S’intitola Chin P’ing Mei. Parla della Cina del XVI secolo», rispose lei imbronciata ma segretamente in allarme.
«Oh». Villy sapeva che le ragazze stavano studiando la Cina con Miss Milliment e che adesso le appassionava qualunque cosa avesse a che fare con l’Estremo Oriente; Sybil le aveva detto della sempre più vasta collezione di steatiti in camera di Polly, e la stanza di Louise straripava di piccole, disastrate imprese di ricamo. «Allora, metti tutti i libri sulla mensola. Sistema tutto per bene, da brava, e poi magari vai a prendere qualche rosa da disporre sul tavolo. A proposito, liberalo, il tavolo, bisogna far posto per le cose di Angela. E spicciati, Phyllis deve venire a preparare i letti». E se ne andò, con grande sollievo di Louise, che decise di mettere in ordine in modo ineccepibile e poi di andare a leggere sull’amaca vicino allo stagno delle anatre. Sebbene non capisse molto di quel che era scritto sul libro cinese, sapeva che conteneva cose che sua madre di certo non avrebbe approvato. Parlava soprattutto di sesso, ma di un tipo di sesso assai misterioso di fronte al quale Louise, che aveva intrapreso quella lettura proprio per informarsi sull’argomento, era rimasta più perplessa che mai. Ma in quel libro l’affascinavano anche il cibo e i vestiti e altre cose. Inoltre era lunghissimo, e il numero di pagine era il suo criterio principale quando acquistava libri di seconda mano, perché come paghetta settimanale prendeva ancora soltanto mezzo scellino ed era costantemente a corto di letture.
Era la prima vacanza che trascorrevano a Mill Farm, la proprietà che il Generale aveva comprato e lasciato ai figli come alloggio estivo per le loro famiglie. Stavolta, siccome veniva zia Jessica con i cugini, l’avrebbe occupata la sua famiglia, con l’aggiunta di Neville ed Ellen per far compagnia a Lydia. Gli altri stavano tutti a Home Place, nella casa principale, ma ci si vedeva tutti i giorni. Mill Farm era un edificio bianco di mattoni, rivestito di assi di legno e con il tetto di tegole. Vi si accedeva da un vialetto fiancheggiato di castagni, che terminava in un’ampia curva scenografica di fronte alla porta d’ingresso. Accanto al vialetto, in prossimità della casa, c’era un prato recintato che un tempo doveva essere stato un frutteto, perché vi erano ancora alcuni vecchissimi peri e ciliegi, e in una piccola fossa vicino al lato del prato che dava sul vialetto c’era lo stagno delle anatre, interdetto ai più piccoli perché Neville ci era caduto dentro il primo giorno. Era uscito fuori tutto verde di lenticchie d’acqua, come il Re Drago di Dove finisce l’arcobaleno, aveva osservato Lydia, una rappresentazione che era andata a vedere come regalo di Natale e che l’aveva spaventata a morte. La casa era stata una fattoria fino a poco prima che il Generale la rilevasse. C’erano solo quattro camere da letto e due mansarde al piano superiore, e una vasta cucina e un soggiorno a quello inferiore, perciò in sei mesi il vecchio aveva progettato e fatto edificare un’ala sul retro: altre quattro camere da letto e due bagni di sopra, e di sotto un ampio soggiorno e uno studiolo assai buio affacciato sulla vecchia stalla. La casa era stata provvista di energia elettrica, ma l’acqua veniva da due pozzi, uno dei quali si era già prosciugato, senza contare che dal rubinetto dell’acqua fredda della cucina era uscito qualcosa che si reputava fosse pelo di coniglio. Dell’arredamento si era occupata la Duchessa, perciò i muri erano tutti bianchi e proliferavano gli stuoini di cocco, il chintz a vaghi motivi floreali e i paralumi in pergamena. C’erano camini nel soggiorno e in sala da pranzo, una stufa nuova in cucina e un piccolo focolare nella camera da letto vecchia, che era anche la più bella, ma per il resto non c’era riscaldamento. Di certo non era una casa dove stare in inverno, aveva pensato Villy vedendola per la prima volta. Era piena di roba di cui le famiglie avevano voluto sbarazzarsi: baldacchini di ferro, un paio di bei pezzi d’arredamento che Edward aveva preso a Hastings da Mr Cracknell, alcuni dipinti di Rupert e un vetusto grammofono custodito in un armadietto di lauro, con tanto di corno e uno scomparto pieno di dischi che i bambini suonavano a rotazione nei giorni di pioggia: The Teddy Bears’ Picnic, The Grasshoppers’ Dance, The Gold and Silver Waltz e infine il preferito di Louise: Noël Coward che cantava Don’t Put Your Daughter on the Stage, Mrs Worthington. I bambini la cantavano sempre quando gli adulti li costringevano a fare cose che a loro non piacevano: era diventata, secondo la definizione di Villy, la loro Marsigliese. C’erano ancora numerose vecchie fattorie dietro la casa, alle cui spalle i campi di luppolo davano vita a mirabili geometrie.
Villy aveva portato con sé Emily, la cuoca, e Phyllis, e ad aiutarle veniva una donna reclutata sul posto, Edie, che arrivava ogni giorno in bicicletta e faceva gran parte del lavoro. Nanny aveva lasciato il suo incarico a primavera, quando di mattina Lydia aveva cominciato a frequentare la scuola di Miss Puttick e, poiché si era deciso che Neville stesse a Mill Farm con loro per giocare con Lydia, Ellen era venuta con lui ed era responsabile di entrambi i piccoli. Il che lasciava Villy relativamente libera di andare a cavallo, giocare a tennis, esercitarsi al violino – che studiava con grande impegno da un anno –, leggere Uspenskij e riflettere su cose come i sentimenti negativi, a cui sentiva di essere particolarmente incline, fare giardinaggio e andare a Battle a fare la spesa per i loro interminabili pasti in famiglia. Quel giorno Edward, che si era preso un fine settimana lungo, era andato a Rye per giocare a golf con Hugh. Quando fosse tornato a Londra, lei e Jessica avrebbero invitato la madre a passare con loro la settimana entrante. Era un evento epocale, o almeno era una cosa che Villy sentiva di dover fare: così Lady Rydal avrebbe potuto vedere i nipoti tutti insieme. Sapendo però quanto fosse stanca Jessica, aveva fatto in modo che avesse una settimana libera prima che arrivasse la madre. Non era convinta della scelta di lasciare Edward a Londra con la sola Edna a provvedere alle sue necessità, ma lui aveva detto che avrebbe mangiato spesso al club, e in effetti era vero che usciva molto. Lei non vedeva l’ora di avere Jessica tutta per sé. Raymond doveva raggiungerle a un certo punto, ma avevano lo stesso un bel po’ di tempo da trascorrere insieme per parlare di tutto. Per tutto intendeva il marito di Jessica e Louise, che negli ultimi tempi si era fatta piuttosto esasperante. Villy cominciava seriamente a chiedersi se non avrebbe fatto meglio a mandarla in collegio. Dopo tre semestri, Teddy le era sembrato molto migliorato, tranquillo, educato, un po’ taciturno forse, ma era comunque meglio così che chiassoso; niente a che fare con Louise, che era egoista, volubile e concentrata unicamente su se stessa. Solo un anno prima, si sarebbe talmente entusiasmata per l’arrivo dei cugini che l’idea di andare in spiaggia non l’avrebbe sfiorata nemmeno; e ormai era grande per tenere le proprie cose in quello squallido disordine. Non appena le si chiedeva di fare qualcosa, metteva il broncio. Edward prendeva sempre le sue parti, la trattava come fosse un’adulta: per il suo compleanno le aveva regalato una camicia da notte davvero fuori luogo, la portava a teatro e a cena – loro due soli – e la teneva fuori fino a tardi, cosicché la mattina dopo sembrava un orso con l’emicrania. La presentava in giro come la sua figlia maggiore non sposata, una cosa che irritava profondamente Villy, anche se lei per prima non ne capiva il motivo. Be’, i quindici anni erano un’età difficile; in fondo era solo una bambina. Se solo Edward l’avesse trattata come tale...
* * *
«Credo stia per scoppiare un’altra guerra». Hugh non lo stava guardando, e parlava nel modo pacato e casuale che usava per le cose serie.
«Gesù! E che cosa te lo fa pensare?».
«Be’, guarda cosa sta succedendo! I tedeschi hanno occupato l’Austria. Hitler che se ne va in giro a parlare del potere e della superiorità del Terzo Reich. E poi le voci su tutte queste ragazze che vengono qui come cameriere, che pare siano state addestrate a fare propaganda. Per non parlare delle parate militari. Un governo non investe tanto in armamenti, se non ha intenzione di combattere. E gli ebrei che vengono qui, perlopiù nullatenenti».
«E perché credi che lo facciano?».
«Avranno capito che lui non li vuole intorno».
«Precisamente. Su questo non lo biasimo. Anche per noi gli affari andrebbero meglio, se ci fossero un po’ meno ebrei». Edward era fermamente convinto che qualunque loro successo negli affari andasse ascritto a lui e al Vecchio, mentre ogni insuccesso era dovuto ai nefasti traffici degli ebrei. Era una nozione più che un pensiero, una di quelle massime che traggono la loro verità dal fatto di essere ripetute più e più volte. Hugh non condivideva questo modo di pensare, o meglio era del parere che i concorrenti ebrei fossero più bravi di loro e che non ci fosse nessuna ragione per cui non dovessero esserlo. Restò in silenzio.
«Comunque gli ebrei sono perfettamente capaci di badare a loro stessi», concluse Edward. «Non dobbiamo certo preoccuparcene noi. Certi ebrei mi piacciono comunque... Sid, per esempio, una gran brava persona».
«Quando glielo hai detto, lei ha risposto che deve essere per via del fatto che è ebrea solo per metà».
«Proprio così! È una che sa scherzarci su».
«Tu sapresti scherzare sul fatto che certa gente ce l’ha con te solo perché sei inglese?».
«Ma certo! Il maggior pregio degli inglesi è l’autoironia».
Però, pensò Hugh, sceglievano loro di cosa ridere: l’estrema discrezione, la mancanza di emozioni nelle situazioni di emergenza (che chiamavano coraggio) e...
«Stammi a sentire, vecchio mio. So che sei davvero preoccupato. Ma vedrai che i crucchi non si metteranno contro di noi. Non dopo l’ultima volta. Un tale al club mi diceva che la roba che stanno costruendo, i carrarmati, le autoblindo e via dicendo, è tutta ferraglia scadente. Serve solo per le parate».
Erano seduti al circolo sportivo di Rye, dopo la loro partita. Hugh, malgrado amasse giocare, non lo faceva spesso per via della mano mancante, e non era certo in forma. Edward però insisteva per giocare con suo fratello e faceva sforzi ben dissimulati per sbagliare quando tirava in buca e cose simili, per non vincere troppo facilmente. Disse: «Ad ogni modo tu hai già fatto ampiamente la tua parte», e si rese conto nello stesso istante di aver detto la cosa più sbagliata.
Dopo un breve silenzio Hugh disse: «Non crederai davvero che mi stia preoccupando solo per la mia pelle». Lo vide impallidire, segno del fatto che era molto alterato.
«Non intendevo questo. Volevo dire che non credo che scoppierà un’altra guerra, e che comunque, se mi sbaglio, stavolta toccherà ai più giovani. Io di sicuro non parto volontario!».
«Bugiardo», disse Hugh con un debole sorriso. «Adesso mangiamo».
Mangiarono due grosse porzioni delle ottime uova strapazzate per cui il club era famoso, seguite da formaggio e sedano con una pinta di birra. Parlarono di affari e discussero dell’idea del Vecchio di far diventare Rupert socio dell’azienda. Secondo Hugh era una buona idea, secondo Edward no. Il padre aveva un’energia inesauribile: stava scrivendo un articolo su come classificare il legno fotografandone la grana e, dopo aver ultimato la costruzione di un campo da squash a Home Place per la famiglia, stava considerando l’idea di far costruire anche una piscina, oltre a fare ogni giorno su e giù dall’ufficio nonostante non ci vedesse più tanto bene e Tonbridge si rifiutasse di salire in macchina con lui alla guida; del resto, osservò Edward, guidava allo stesso modo in cui andava a cavallo: tenendo la destra. «È pur vero che la gente dei dintorni ormai ci si è abituata».
«Certo, se la vista gli peggiora ancora, non potrà più prendere il treno da solo».
Hugh, che si stava accendendo una sigaretta, si bloccò e disse: «Ma non può nemmeno andare in pensione. Ne morirebbe».
«È vero. Di sicuro, fosse per lui, in pensione non ci andrebbe mai».
Sulla via del ritorno, Hugh domandò: «Com’è Mill Farm?».
«A me va benissimo. Villy dice che d’inverno sarà una ghiacciaia ma i bambini ne vanno già pazzi. Naturalmente, lei avrà più da fare che a Home Place. Sai, faccende domestiche...».
«Immagino».
«Oggi arrivano Jessica e i bambini. La prossima settimana viene anche la vecchia caporalessa. Credo che per l’occasione farò in modo di non esserci».
«Vuoi stare da me? Sarò da solo».
«Grazie, vecchio mio, ma credo che me ne starò tranquillo. Venerdì sera è la sera di Amami, se capisci quello che intendo. Non questo venerdì, ovviamente».
Quest’allusione – sibillina solo per alcuni – alla réclame di uno shampoo voleva dire che Edward si vedeva con una donna, un fatto di cui non parlavano mai apertamente ma di cui Hugh era comunque al corrente. Edward aveva sempre avuto molte donne: quando si era sposato, Hugh aveva pensato che quella fase fosse finita (a lui, dopo aver sposato Sybil, non sarebbe mai venuto in mente di cercare altre donne), e invece non molto tempo dopo, un paio d’anni forse, aveva notato alcune piccole cose che gli avevano dato da pensare. Certe volte Edward se ne andava presto dall’ufficio, oppure Hugh lo sorprendeva a parlare al telefono e lui assumeva di colpo un tono reciso e professionale, una volta si era soffiato il naso in un fazzoletto con una grossa macchia color ciclamino e quando si era accorto che Hugh lo guardava, avvedendosene a sua volta, aveva appallottolato il fazzoletto con un goffo sorriso e lo aveva buttato nel cestino della carta straccia. «Povero me, che sbadato!». E Hugh, dapprima indignato per Villy, era arrivato a provare pena per entrambi.
«Be’, se sei d’accordo, verrei via con te lunedì mattina, così posso lasciare la macchina a Sybil».
«Ma certo, vecchio mio. Posso anche venirti a prendere per andare in ufficio, queste mattine».
In primavera, Hugh e Sybil avevano traslocato in una casa più grande a Landbroke Road, a due passi da dove abitavano Edward e Villy. La nuova casa aveva comportato una spesa notevole, quasi duemila sterline, e naturalmente, essendo più grande, c’erano voluti anche altri mobili, così Hugh non aveva comprato la piccola macchina per Sybil di cui pure avevano parlato.
«Ti ricordi quando il Vecchio ci portava in vacanza a Anglesey con la sua prima macchina? Noi stavamo seduti dietro e non facevamo che riparare forature!».
Edward rise. «E ci riuscivamo a malapena! Meno male che eravamo in due».
«E la Duchessa si metteva sempre quella veletta da automobilismo».
«Adoro le donne con la veletta! Quei cappellini col velo abbassato fin sul naso... Hermione la portava sempre. Le dava quell’aria di mistero, davvero irresistibile. Non c’è da stupirsi che tutti volessero sposarla. Tu ti sei fatto avanti con lei?».
Hugh sorrise. «Certo che mi sono fatto avanti. E tu?».
«Altroché! Disse che avrebbe sposato il ventunesimo che glielo proponeva. Mi sono sempre chiesto chi fossero gli altri».
«Immagino che in buona parte siano morti».
Edward, che non voleva che si parlasse di guerra perché trovava che l’argomento rendesse Hugh morboso, si affrettò a dire: «Non credo che il fatto che fosse già sposata abbia scoraggiato i pretendenti».
«Parla per te!».
«È quello che sto facendo. Mi riferisco a dopo il suo divorzio, naturalmente». Hugh gli lanciò un’occhiata ironica. «Naturalmente».
* * *
«Sarebbe potuta venire, se lo avesse voluto davvero».
«Tu dici?».
«Ne sono certa. Louise di solito riesce a fare quello che vuole. Io credo che non le interessi seriamente neanche il museo».
Clary si sforzò di mostrarsene rammaricata, ma non lo era davvero. Da quando andava anche lei alle lezioni di Miss Milliment, passava gran parte del suo tempo con le cugine, che erano sempre state amiche del cuore, ma lei adesso voleva avere Polly come sua amica del cuore e perché questo accadesse bisognava spodestare Louise. Così disse: «È cresciuta molto quest’anno... è tutta forme». E si lisciò con orgoglio il torace piatto.
«Non è mica colpa sua». Polly era indignata.
«Lo so. Il problema non sono le forme. Ma il suo comportamento. Mi tratta come fossi una bambina piccola».
«Un po’ lo fa anche con me», ammise Polly. «Comunque le ho detto che per il museo ci saremmo riunite dopo la merenda. I suoi cugini arrivano oggi, ma probabilmente andranno a giocare a tennis. Potremmo farlo dopo».
«Sono ancora convinta che dovevi essere tu il presidente. Dopotutto, è stata un’idea tua».
«Louise è la più grande».
«Secondo me questo non conta. È stata un’idea tua. Mettiamolo ai voti! Se io voto per te e tu voti per te, lei dovrà rassegnarsi».
«Non sono certa che sia una procedura corretta».
Erano a Camber, sdraiate sulla sabbia piatta in riva al mare con le onde fresche che gli solleticavano piacevolmente i piedi. Avevano pranzato da poco. Rupert era l’unico adulto (Zoë aveva mal di testa e non era venuta) e aveva costruito un vasto e complicatissimo castello di sabbia, a detta sua per far giocare Neville e Lydia, ai quali però il gioco era venuto presto a noia.
«Non possiamo farci niente», gli aveva spiegato Lydia.
«No, non è un castello buono per giocare», aveva fatto eco Neville. «Costruiamone uno nostro!».
E così fecero. Lo costruirono troppo vicino al mare, cosicché la struttura cedette presto, loro litigarono pacatamente e poi ne fecero un altro troppo lontano, cosicché, per quanta acqua Neville portasse col secchiello per riempire il fossato, questo si asciugava in pochi secondi.
Rupert sapeva benissimo di averlo costruito per suo piacere, e aveva continuato imperterrito a rifinire con la spatola le merlature delle torri. Sembrava completamente assorbito ed era esattamente quello che voleva: riappropriarsi della meravigliosa, totale dedizione al momento presente che spesso osservava nei bambini. «Quando dipingo...», fece per dire, ma si bloccò subito, inquieto. Non aveva realizzato un solo quadro. Dopo una giornata d’insegnamento era stanco, s’impigriva, e i bambini assorbivano gran parte del suo tempo libero, per non parlare di Zoë. Il fatto era che a Zoë non piaceva vederlo dipingere: in qualche modo preferiva avere per marito un pittore che non dipingeva. Ne aveva avuto la certezza l’ultimo Natale, quando lui aveva espresso il desiderio di trascorrere dieci giorni con un vecchio amico con cui aveva studiato alla Slade: Colin possedeva uno studio come si deve, e avevano deciso di condividere per un po’ modella e atelier, sennonché Zoë si era messa in testa di andare a sciare a Saint Moritz con Edward e Villy e aveva strepitato a tal punto per andarci che alla fine lui aveva ceduto. Non c’era tempo e non c’erano soldi per fare entrambe le cose. «Non capisco perché non puoi dipingere in Svizzera, se proprio devi farlo», aveva detto, irremovibile.
Era stata una vacanza singolare, con diverse gradite sorprese. Era davvero troppo costosa per le sue tasche, e solo alla fine se n’era reso conto, dopo che le spese si erano accumulate senza dare nell’occhio. Edward aveva pagato per tutti: le bibite, le cene, i regali per i bambini, la seggiovia, il noleggio dei pattini per Zoë che preferiva pattinare, e tante altre cose simili. E poi era stato incredibilmente gentile con Zoë, restando a farle compagnia a bordo pista mentre lui e Villy sciavano. Che splendida sciatrice era Villy: intrepida, elegante, velocissima. Rupert non era riuscito a stare al passo con lei, ma gli piaceva la sua compagnia. La tenuta da sci donava molto al suo fisico androgino, e si era messa anche un berretto di lana rosso carminio che la faceva sembrare giovane e affascinante a dispetto dei capelli striati di grigio. Una volta, mentre erano in seggiovia, lui aveva ammirato per un po’ i pendii d’un bianco accecante dai riflessi violetti, il cielo azzurro sgombro da nubi e gli alberi che parevano fatti d’inchiostro nella valle sotto di loro, si era voltato per esclamare quanto tutto ciò fosse meraviglioso e, vedendo l’espressione del suo viso, non aveva detto niente. Sedeva col gomito poggiato al bracciolo di ferro, una mano guantata premuta contro una guancia, le sopracciglia spesse e molto più scure dei capelli aggrottate fin quasi a toccarsi e le palpebre semiabbassate, come a nascondere l’espressione degli occhi; la bocca – che a lui era sempre sembrata bella anche se non sensuale – era contratta in una piega tormentata. «Villy?», aveva detto con voce incerta. Lei si era voltata.
«Devono togliermi tutti i denti», disse. «Il dentista mi ha scritto stamattina». Ma prima che lui potesse prenderle la mano, se ne uscì con un penoso sorriso di circostanza e disse: «Oh, ma che vuoi che sia! I denti nuovi mi dureranno cent’anni».
Rupert aveva provato pena per lei. «Mi dispiace tanto», le disse.
«Non ne parliamo più».
Volle fare un ultimo tentativo. «Va bene, ma dev’essere terribile per te».
«Mi ci abituerò».
«L’hai... l’hai già detto a Edward?».
«Non ancora. Non credo che gliene importerà. Lui del resto se li è fatti estrarre quasi tutti».
«Per una donna è diverso». Osservò Rupert. Stava cercando di immaginare la reazione di Zoë a una notizia di quel genere. Gesù! Per lei sarebbe stata la fine del mondo.
«Per una donna è tutto diverso. Chissà perché», disse Villy.
Erano arrivati in cima. Non si dissero altro e l’argomento non fu più toccato.
Le serate le passavano a cena e a ballare. Entrambe le donne adoravano ballare ed era difficile tirarle via dalla pista, mentre Rupert, con tutta quell’attività fisica all’aria aperta, si domandava come facessero gli altri – Edward in particolar modo – a stare in piedi. Verso mezzanotte, lui sveniva dal sonno mentre Zoë insisteva per restare finché l’orchestra non smetteva di suonare. Alla fine tutti e quattro arrancavano fino alle loro stanze adiacenti al primo piano dell’albergo e si fermavano in corridoio: Edward baciava Zoë, Rupert baciava Villy e infine le due cognate accostavano le guance per la frazione di secondo richiesta dal protocollo di famiglia, poi si separavano. Zoë, che si stava godendo quella vacanza così tanto che il suo entusiasmo si stava trasformando in una forma di rimprovero verso di lui (se era questo a farla felice, perché non gliene dava di più?), allora si liberava delle scarpe, si toglieva il vestito nuovo rosso scarlatto e cominciava a vagare per la stanza con addosso un pagliaccetto verde chiaro e gli orecchini di strass che le aveva regalato lui a Natale; si sedeva ai piedi del letto per sfilarsi le calze e poi passava al tavolo da toeletta per legarsi i capelli con un grosso fermaglio di tartaruga e mettersi la crema, il tutto chiacchierando vivacemente e rievocando con calore gli episodi della giornata, mentre lui, già coricato da un pezzo, la osservava soddisfatto di vederla così allegra e felice.
«Sei contento o no che abbia insistito per venire qui?», gli aveva detto una sera.
«Sì», rispose lui, fiutando il pericolo.
«Edward stamattina parlava della possibilità di andare tutti insieme nella Francia del Sud quest’estate. Lui e Villy hanno trascorso la luna di miele laggiù e io non ci sono mai stata. Che ne pensi?».
«Sarebbe bellissimo».
«Lo dici col tono di chi non ha nessuna intenzione di andarci».
«Cara, non possiamo permetterci due soggiorni all’estero in un anno. E poi non possiamo lasciare i bambini un’altra volta».
«Ma se stanno benissimo con la tua famiglia!».
«Non possiamo pretendere troppo da Hugh e Sybil».
«Credevo che la Francia del Sud fosse un posto perfetto per dipingere».
«Certo che lo è. Solo che quest’anno noi non possiamo permettercelo. Inoltre, se mi prendessi una vacanza per dipingere, si tratterebbe solo di questo. Non di una vacanza come la immagini tu».
«Che cosa vorresti dire, Rupert?».
«Voglio dire», disse lui, già stanco del suo stesso risentimento, «che in una circostanza di quel tipo vorrei dipingere sempre. Non portarti al mare, a fare una scampagnata o a ballare tutta la notte. Vorrei lavorare».
«Dio mio! Ti prendi davvero sul serio, sai?», ribatté Zoë.
«Per niente, invece. Se mi prendessi sul serio, come dici tu, dipingerei comunque. Non mi farei scoraggiare né da te né da chiunque altro».
Zoë ruotò sulla sedia di fronte alla toeletta. «Che cosa vorrebbe dire chiunque altro?».
«A te non piace vedermi dipingere, Zoë».
«Che cosa vorrebbe dire chiunque altro?».
C’era stato un breve silenzio: adesso la stupidità di sua moglie cominciava a spaventarlo. Poi, prevedendo che stava per ripetere quell’ottusa domanda, disse: «Volevo dire che non mi lascerei scoraggiare da niente. Né da te né da nient’altro. Ma va tutto bene. Tanto io non sono serio. Non lo sono mai».
«Oh, caro!». Gli si precipitò accanto e si sedette sul letto. «Oh, caro! Sembri così triste, e io ti amo tanto!». Gli cinse il collo con le braccia, e i suoi capelli setosi e profumati gli ricaddero sulla faccia. «Non m’importa se siamo poveri, davvero! Non ho bisogno di niente quando sono con te! Posso cercarmi un lavoretto, se vuoi. Sarebbe utile, no? Sono convinta che tu sia un pittore fantastico. Davvero!». Poi aveva sollevato il capo per guardarlo, e nel suo sguardo c’erano adorazione e sincero rammarico.
Mentre la prendeva tra le braccia e la tirava a sé nel letto, scoprì con uno stupore misto a tristezza e gratitudine che il suo amore per lei non dipendeva, come sovente aveva temuto, dalla sua ammirazione nei suoi confronti. Più tardi, mentre la guardava dormire, pensò: io l’ho sposata, e lei mi ha sempre dato tutta se stessa. Sono stato io a inventarmi una parte di lei, qualcosa che esisteva ma che lei non mi mostrava. Invece mi sbagliavo: non c’è nessun lato nascosto. La scoperta lo lasciò stupefatto e addolorato; poi cominciò a pensare che, se lui l’avesse amata abbastanza, lei sarebbe cambiata. Non era ancora in grado o non era ancora disposto a dire a se stesso che ciò era altamente improbabile se non impossibile; si aggrappò piuttosto alla più conciliante idea che, se era discutibile che una persona potesse cambiare grazie all’amore, di sicuro nessuno cambiava senza di esso.
Dopo quella sera scoprì anche che le intuizioni in se stesse non incidono né sugli atteggiamenti né sulla condotta: ci vollero invece piccoli o piccolissimi sforzi costanti, ma a volte negli ultimi mesi, quando lei faceva quelle cose che lo innervosivano o lo annoiavano e che, da quando stavano insieme, non era mai riuscito ad accettare, Rupert riusciva a provare anche un po’ di tenerezza nei confronti di Zoë, ed era diventato molto protettivo. A volte, anzi spesso, come gli era accaduto quella sera, aveva provato invece risentimento verso i limiti di lei e rabbia verso se stesso per non averli colti immediatamente.
«Papà! Che bel castello! Papà, senti, faresti il leone marino per Polly? Non intendo adesso», si affrettò a precisare Clary. «Lo so che ti serve il divano per tuffarti, e non abbiamo nemmeno i calzini per fare i pesci. Che ne dici di farlo dopo la merenda?».
A Natale i bambini avevano dato agli adulti voti da uno a dieci valutando la capacità di farli ridere, la generosità e la capacità di non essere dei guastafeste, e Rupert aveva ottenuto il massimo quanto a capacità di farli ridere, un risultato di cui Clary andava immensamente fiera; la sua imitazione del leone marino e quella del gorilla, presto promosso al rango di King Kong, erano assai ammirate; la ripetizione, aveva osservato Villy, era il motore della comicità, finché si parlava di bambini.
«Polly mi ha già visto fare il leone marino».
«Un sacco di tempo fa, zio Rupe. Davvero, l’ho quasi dimenticato».
«Va bene. Dopo la merenda, allora. Una volta sola. Credo sia ora di andare».
«Va bene. Possiamo fermarci a prendere un gelato per la strada?».
«Credo proprio di sì. Chi rimette a posto?».
«Noi!», dissero in coro. Rupert si sedette su una duna e si fumò una sigaretta guardandole lavorare. Era felice che Clary avesse legato così tanto con Polly e anche le lezioni di Miss Milliment stessero dando buoni frutti. Adesso che aveva Polly come amica, si comportava molto meglio in casa, era meno gelosa di Neville, meno suscettibile con Zoë e soprattutto meno possessiva con lui. Stava diventando grande. Aveva la stessa età di Polly, ma non sembrava. Erano cresciute molto entrambe, quell’anno, ma mentre Polly si era sviluppata in modo uniforme ed era diventata già una bellezza, coi capelli color rame di Sybil, la carnagione bianco rosata, piccoli, lucenti occhi azzurro scuro e un paio di lunghe gambe eleganti, Clary era cresciuta tutta in altezza ed era magra come un fuscello. I capelli castani, tagliati ancora con la frangetta, erano liscissimi, il viso era olivastro, certe volte con borse scure sotto gli occhi, che erano stupefacenti come quelli di sua madre: color del mare, candidi, penetranti. Erano il suo punto forte. Il naso era un po’ rincagnato e, quando sorrideva, c’era un vuoto laddove avevano dovuto toglierle un dente. Il dentista aveva detto che ne aveva troppi, di quei vuoti, così le aveva messo un apparecchio che faceva un gran male e che serviva a ravvicinarli. Le braccia erano secche come rami e aveva i lunghi piedi ossuti dei Cazalet. Ed era diventata maldestra nell’ultimo anno: inciampava, la roba le cadeva di mano, come se non si fosse ancora abituata alle sue nuove misure. «Clary, vieni un attimo qui. Ho voglia di abbracciarti», disse.
«Oh, papà! Già muoio di caldo!». Ma ricambiò il suo abbraccio e anzi gli stampò un bacio sulla fronte con tale energia che sentì sulla pelle il metallo dell’apparecchio.
«Muori di caldo!», la canzonò. «Tu muori sempre di caldo o di freddo o di stanchezza o di fame. Non ti senti mai normale, come tutti gli altri?».
«Qualche volta, ma di rado», rispose lei spensierata. «Oh, non far portare a Neville quella medusa! Puzzerà e morirà, o può cadere fuori mentre siamo in macchina e farsi male».
«Sì, e poi non è mica un animale domestico», aggiunse Polly. «Per quanto mi sforzi, non vedo come si possa fare di una medusa un animale domestico».
«Io posso eccome!», protestò Neville. «Sarò la prima persona al mondo a farlo. La chiamerò Bexhill e vivrà con me».
* * *
A Mill Farm a mezzogiorno il sole era scomparso, non tirava un filo di vento e faceva un caldo tremendo; il cielo sembrava di piombo e gli uccelli tacevano. Edie, mentre portava in casa un cesto di biancheria appena raccolta, annunciò che era in arrivo un temporale, ed Emily, nervosa per via del caldo vicino alla stufa e del pescivendolo che non si faceva sentire – il che voleva dire niente ghiaccio e quindi burro oleoso e latte andato a male –, disse: «Che ti aspettavi?». Odiava la campagna e considerava il maltempo uno dei tanti svantaggi dell’ambiente rurale. La cucina era stata dipinta di uno scialbo verde chiaro, una tinta che a detta di Villy era adatta ad ammorbidire il temperamento ardente della cuoca, ma su Emily non sembrava funzionare granché. Il personale della cucina aveva già pranzato, ma Phyllis aveva mal di testa e aveva preferito non mangiare l’ottimo stufato e la treacle tart, e una delle cose che Emily non sopportava era che il suo cibo rimanesse nel piatto. Un po’ d’acqua avrebbe ripulito l’aria, disse Edie, del resto nel campo di Garnet le vacche stavano sdraiate, perciò era probabile... sarà forse il caso di cambiare la carta moschicida nella dispensa? La signora si è dimenticata di ordinarne di nuova, replicò Emily, lasceremo quella che c’è. Non è possibile!, esclamò Phyllis: le si rivoltava lo stomaco ogni volta che andava in dispensa a prendere qualcosa, e si portò una mano alla bocca come a impedire che ne uscisse di peggio. Così Emily e Edie andarono in dispensa per controllare la carta moschicida. I rotoli pendevano immobili come spessi cordoni di campanelli vittoriani tutti incrostati di pece, e come fece notare Edie non erano più di alcuna utilità. «Questo posto è sempre stato pieno di mosche», osservò poi. «Su all’emporio hanno della carta moschicida. Magari ne compro un po’ domattina, passando».
«Ti toccherà anche tirare giù questo schifo, allora», fu la replica di Emily.
Era sconcertata dalla disponibilità di Edie (sembrava sempre pronta a provvedere a cose che non erano di sua competenza) e riusciva a reagire solo in quel modo astioso. «Mosche!», esclamò rivolta a Phyllis. «A Londra non ci sono mica, tutte queste mosche!».
* * *
Dopo aver trascorso una buona metà della mattinata a organizzare le faccende domestiche, Villy si ritrovò a un punto morto – non è che non avesse nulla da fare, piuttosto non c’era niente di cui le importasse davvero. Come ogni giorno della mia vita, pensò. Si lasciò andare all’autocommiserazione alla maniera degli alcolizzati: non poteva farne a meno e si aggrappava all’idea che, se avesse limitato gli eccessi ai momenti in cui era sola, non se ne sarebbe accorto nessuno. E come quegli alcolizzati che rifiutano il bicchiere quando viene da mano altrui, rifiutava la commiserazione che a volte le usavano gli altri, sollecitati forse dalla sua ben dissimulata condotta. Non voleva che il suo dolore fosse ridotto a frustrazione, la sua tragedia a semplice disgrazia o, Dio non volesse, a sfortuna e scelte sbagliate. Per lei la virtù implicava il sacrificio, così aveva abbandonato tutto per sposare Edward. E tutto era la sua carriera di ballerina. Sul momento le era sembrata la cosa non solo più sensata ma la più giusta da fare. Si era innamorata di un uomo che piaceva molto alle donne (ricordava bene che, all’inizio della loro relazione, aveva ringraziato Dio che Jessica fosse già sposata, perché altrimenti non avrebbe avuto la minima possibilità con lui); poi, quando era diventato chiaro che lui faceva sul serio, la seconda volta che andava a pranzo dai genitori di Edward si era sentita affermare senza nemmeno pensarci che la danza e il matrimonio non potevano funzionare insieme. Non le era nemmeno passato per la testa che quella sarebbe stata la decisione più cruciale della sua vita; le sembrava, al contrario, di rinunciare a una piccola cosa in favore di un’altra che invece era tutto.
Ma col passare degli anni, tra il dolore e il disgusto per ciò che sua madre chiamava il “lato orribile” della vita coniugale, tra giornate trascorse in attività inutili o nella noia più completa, tra le gravidanze, le bambinaie e l’organizzazione di innumerevoli pasti, era giunta alla conclusione che invece aveva rinunciato a tutto in favore di qualcosa che valeva molto poco. Ci era arrivata per fasi che lei stessa non aveva quasi percepito, nascondendo l’insoddisfazione dietro passioni sempre nuove che ogni volta, siccome era una perfezionista, l’assorbivano completamente. Ma quand’era arrivata a padroneggiare un’arte o una tecnica, si accorgeva che la noia era intatta ed era stata tutto il tempo lì, in attesa che lei smettesse di giocare col telaio o con uno strumento musicale o una filosofia o una lingua straniera o un’opera di beneficenza o uno sport e tornasse a confrontarsi con l’essenziale vacuità della sua vita. Allora, senza più distrazioni, si lasciava andare a una specie di disperazione, come se ogni sua meta l’avesse tradita non riuscendo a fornirle quella raison d’être che era il vero e solo motivo per cui l’aveva intrapresa. Disperazione era il termine che lei stessa usava per definire quello stato: la sua emotività, mai rivelata, era diventata una serra piena di specie esotiche sotto cui campeggiavano etichette come tragedia, sacrificio, cuore spezzato e altre non meno drammatiche, ingredienti riuniti a comporre il suo martirio segreto. Siccome considerava se stessa in un modo e tutti gli altri in un modo diverso, non aveva amici abbastanza stretti che potessero porre fine a questo infelice stato di cose. Tuttavia, pur rifiutandosi di considerare la propria come comune infelicità, la riconosceva di buon grado negli altri, ed era piena di vere, attive, utili premure per loro. Era come una persona sofferente di mal di schiena che si offre di lavare i piatti per un’altra col mal di testa. La sfortuna, la malattia, la povertà eccitavano la sua generosità: era stata una notte intera al capezzale di Neville durante un attacco d’asma, perché Ellen avesse qualche ora di sonno, ed era sempre lei quella che portava il fratello epilettico di Edie da uno specialista, e quella che ogni anno riusciva a comprare un vestito che stesse a bene a Jessica, che altrimenti non poteva mai avere niente di nuovo per sé. Per il resto si chiedeva con affanno perché non poteva essere come la Duchessa, che era felice col suo giardino e la sua musica, o come Sybil, che era fiorita col suo ultimo nato e nella sua casa nuova, o come Rachel, che sembrava contenta delle sue opere di carità e di essere una figlia devota. A quel punto però entrava in gioco la sua completa impossibilità di essere una figlia ideale per sua madre. Lady Rydal era famosa per i suoi alti standard di comportamento, a cui nessuno al mondo era mai stato capace di adeguarsi, meno di tutti sua figlia. Jessica, che sembrava avere le carte in regola per tagliare il traguardo, aveva naturalmente rovinato tutto sposando un signor nessuno senza un soldo in tasca, sebbene di bell’aspetto e con un certo savoir-faire; vista l’avvenenza e il buon carattere di Jessica, Lady Rydal si aspettava per lei qualcosa di più che un tizio qualunque, belloccio e con qualche medaglia. Aveva visto in quel matrimonio l’ennesima delle sue tragedie. «La povera Jessica si è proprio buttata via», e nessuno poteva immaginare la pena che questa frase costava a Lady Rydal ogni volta che la ripeteva a Villy o a chiunque avesse la sventura di prendere un tè con lei. A Rachel sì che le cose andavano bene, dopotutto lei non aveva molto altro da fare.
Era salita a controllare la stanza delle ragazze, adesso. Almeno Louise, con l’eccezione dei fiori, alla fine era stata obbediente. La stanza era così in ordine che sembrava il dormitorio di un collegio, con i letti ben fatti, gli asciugamani ripiegati con cura sul trespolo, il tavolo da toeletta sgombro e i libri di Louise allineati sulla mensola. Guardò fuori dalla finestra nell’istante stesso in cui sua sorella svoltava sul vialetto e scendeva dalla macchina per venire a salutarla.
* * *
Messa in ordine la sua stanza, Louise si era sistemata sull’amaca con il suo libro, ma non riusciva a trovare la calma necessaria per leggere. Quello era un altro degli aspetti bizzarri e spiacevoli della sua nuova esistenza: l’estate scorsa non avrebbe avuto altro per la testa che dividere equamente l’amaca con Polly e al suo turno vi si sarebbe tuffata come chi non ha una sola preoccupazione al mondo. Le sembrava di essere diventata una creatura ingombrante e dispersiva, incapace di impegnare tutta se stessa: qualunque cosa facesse, una parte di lei se ne restava a guardare, a commentare con ironia suggerendo insidiose alternative: «Sei troppo grande per quel libro... e oltretutto l’hai già letto». L’età era sempre un problema: era troppo piccola o troppo grande per fare qualunque cosa.
Solo un anno prima era tutto diverso. A quei tempi, credeva davvero che la crema di bellezza preparata da lei e da Polly avrebbe funzionato. Aveva preso molto sul serio il funerale di Pompey e si fatta carico dell’organizzazione, con la Duchessa che suonava la marcia funebre e le finestre del salotto aperte. Aveva confezionato anche una ghirlanda di belladonna; Pompey era stato avvolto in una vecchia giacca di velluto nero di proprietà di zia Rachel e al funerale avevano servito come rinfresco dell’uvaspina e dei panini con la carne che, Polly aveva convenuto, erano più rispettosi di quelli con la marmellata. A quei tempi lei e Polly passavano ore in cima al melo o sdraiate sui loro letti ridendo a crepapelle per qualche insulso passatempo, oppure a giocare coi ragazzi a bike polo, agli orchi e a prova a vedermi. Adesso invece, quando qualcuno proponeva uno di questi giochi – ed erano perlopiù Lydia e Neville a farlo, qualche volta Clary e Polly –, lei non aveva mai davvero voglia di parteciparvi. Qualche volta lo faceva in ricordo dei vecchi tempi, ma spesso lasciava il gioco a metà perché non si divertiva. Le piaceva ancora andare in spiaggia e giocare a tennis, ma preferiva giocare con gli adulti, i quali di solito volevano invece che giocasse coi bambini.
All’inizio aveva creduto che il problema fosse il fatto di stare a Mill Farm invece che a Home Place. Mill Farm non le piaceva. Sembrava così angusta e buia in confronto all’altra casa. Ma non si trattava solo delle vacanze estive. Doveva essere cominciato l’autunno prima, quando Clary si era unita a lei e Polly alle lezioni di Miss Milliment. Si era accorta subito che Clary piaceva molto a Miss Milliment. Lavorava sodo e si era rivelata sorprendentemente brava nella scrittura. Aveva scritto una lunga poesia e quasi un’intera commedia, che era molto divertente e basata su un’idea geniale: degli adulti costretti a passare un’intera giornata nei panni dei bambini. Louise aveva osservato che l’idea non era poi così originale – c’era già stato Vice-versa di F. Anstey – ma Miss Milliment aveva replicato che l’originalità non dipendeva tanto dall’idea quanto dal modo in cui era trattata, e Louise si era sentita, non per la prima volta, messa da parte. Si era anche accorta che Polly e Clary stavano diventando amiche del cuore e la cosa le aveva procurato un dispiacere misto a sollievo. Le sembrava che Polly non stesse crescendo alla sua stessa velocità. In parte era perché lei aveva già avuto le prime mestruazioni, che erano state un colpo tremendo. Nessuno gliene aveva mai parlato e un bel giorno, in preda a dolori lancinanti, era andata in bagno e aveva creduto di essere sul punto di morire dissanguata. Mamma stava prendendo il tè con un tale della Croce Rossa, e Louise aveva dovuto chiedere a Phyllis di chiamarla. E nonostante il sollievo di quando mamma le aveva detto che non sarebbe morta, pure aveva capito che niente sarebbe mai stato come prima. Mamma le aveva spiegato che si trattava di una cosa orribile che capita alle ragazze una volta al mese e che sarebbe andata avanti per anni e anni, una cosa disgustosa ma normale, come partorire, ma quando Louise cercò di saperne di più (come faceva una cosa normale a essere disgustosa?) sua madre, che di certo sembrava disgustata, disse che non aveva voglia di parlarne in quel momento... poteva per favore raccogliere le sue mutande dal pavimento e lavarle? E anche metterne un paio pulite, aveva aggiunto, come se Louise fosse così sudicia da non farlo di propria iniziativa. Dopo quella volta, quando aveva mal di testa o i crampi allo stomaco, sua madre le chiedeva sempre, in un tono speciale che Louise aveva già imparato a detestare, se non fosse indisposta. E fu così che imparò a chiamare quella condizione. Scoprì che si poteva chiamare anche ciclo quel Natale, quando le erano venute inaspettatamente e aveva dovuto chiedere un pannolino a zia Zoë, la quale aveva preso da una scatola un affarino straordinariamente piccolo e pulito che, scoprì in seguito, si poteva buttare via dopo l’uso invece di dover essere riposto in quelle orride buste per la lavanderia. «Mi stai dicendo che usi ancora quegli schifosi pezzi di stoffa da riempire di ovatta, come quando andavo a scuola io? Davvero molto vittoriano! Non è una cosa così brutta, povera piccola! È solo il ciclo. Lo abbiamo tutte», le aveva detto in un tono leggero e solidale che a Louise aveva dato un gran sollievo. «Ho anche i brufoli», aveva inoltre confidato alla zia, ansiosa di parlarne. «È una seccatura, ma vedrai che non durerà. Lasciali stare, non li toccare», e poi per Natale le aveva regalato un vasettino di una crema miracolosa e costosissima. Louise le era stata enormemente grata, non tanto per la crema quanto per aver parlato con lei di quelle cose. Perché tutto quello che sua madre le aveva detto in proposito era che non bisognava parlarne, soprattutto con i ragazzi ma anche con Polly. A lei era parso molto strano che nessuno ne parlasse mai. La volta dopo che sua madre le chiese se era indisposta, Louise disse: «Non sono indisposta. Ho solo il ciclo. Zia Zoë lo chiama così, ed è così che voglio chiamarlo anch’io». Guardando sua madre, si rese conto che era contrariata ma d’altra parte non poteva farci niente. Quando ne aveva parlato con sua cugina – non vedeva perché dovesse prendersi lo stesso spavento che si era presa lei – Polly le aveva detto con semplicità: «Lo so. Mamma me ne ha parlato. Io spero solo che non duri troppo». Questo rese ancora più grave ai suoi occhi il fatto che la madre non l’avesse avvertita, quasi fosse un suo preciso volere che Louise si spaventasse tanto. Da quella volta, aveva tenuto il conto dei gesti più o meno affettuosi di sua madre nei suoi confronti, annotandoli giorno dopo giorno nel suo diario segreto. Finora i gesti non affettuosi erano di gran lunga più numerosi, con l’eccezione del mese di marzo, quando tornando da casa di Polly Louise aveva trovato sua madre riversa sul divano, in lacrime, una scena che in vita sua non aveva mai visto. Le era corsa vicino, si era inginocchiata accanto chiedendole con insistenza cosa fosse successo. Allora sua madre si era tolta le mani dalla faccia, che era tutta gonfia e livida, con gli occhi bagnati e pieni di paura. «Mi hanno tolto tutti i denti», le aveva detto. Si era tastata le guance e aveva ricominciato a piangere.
«Oh, mammina...». Louise si sentì piena di compassione e amore. Salirono anche a lei le lacrime agli occhi, voleva abbracciare sua madre, toglierle il dolore e prenderselo lei, ma temeva di farle più male abbracciandola; eppure sua madre la trattava da pari, una cosa che non le pareva fosse mai successa prima, e desiderò con ardore di essere l’amica di cui aveva bisogno in quel momento.
Ora sua madre si frugava le tasche in cerca di un fazzoletto e si sforzava di sorridere. «Cara, non voglio che tu stia in pensiero...». Sembrava che i denti li avesse ancora, però. Mamma si accorse che lei li aveva visti e le spiegò: «Me li ha fatti mettere subito. Ma Louise, fanno un male!».
«Forse è meglio se te li togli almeno per un po’?».
«Ha detto di tenerli».
«Ti prendo un’aspirina?».
«L’ho già presa. Ma non sta facendo molto effetto». Dopo un momento aggiunse: «Credi che mi farà male se ne prendo un’altra?». Era, di nuovo, una domanda rivolta a una pari.
«Credo di no. E credo sia meglio se ti stendi sul letto con una borsa di acqua calda». Scattò in piedi per suonare il campanello. «Dico a Phyllis di preparartene un paio».
«Non voglio che i domestici mi vedano in questo stato».
«Ma no, certo. Me ne occupo io. Penserò a tutto».
E così fece. Aiutò Villy a salire le scale, le prese delle calze da notte e la vestaglia di pizzo. Sua madre era chiaramente intirizzita; accese il caminetto a gas, tirò le tende, corse alla porta quando Phyllis bussò per prendere le bottiglie di acqua calda e tenere l’inferma al riparo da occhi indiscreti. Le preparò l’aspirina e le sistemò i cuscini, poi le rimboccò la trapunta e per tutto il tempo sua madre si era mostrata mansueta e grata.
«Sei proprio una piccola perfetta infermiera», aveva detto; doveva stare molto male.
«Vuoi che resti qui con te?».
«No, tesoro. Proverò a dormire un po’. Lo dici a papà, per favore? Appena torna?».
«Certo. Ci penso io». Si chinò a baciare la fronte liscia e umida di Villy. «Lascio la porta socchiusa, così puoi chiamarmi se ti serve qualcosa».
Restò a lungo seduta sulle scale, sulla curva in modo da poter sentire se sua madre la chiamava e vedere se suo padre tornava, soppesando la possibilità di rinunciare alla sua carriera teatrale per fare l’infermiera. Già fantasticava di corsie in penombra e di lei che, alla luce fioca di una lanterna, alleviava con mani delicate ma sapienti le sofferenze di soldati in agonia e accompagnava i loro ultimi respiri con la sua voce soave... Ha sacrificato tutto... a Hollywood l’hanno supplicata... il Duca d’Ungheria è pazzo di lei...
«Lou, che accidenti ci fai seduta lì sopra?». Scese di corsa le scale e gli spiegò la situazione. «Ma certo! Gesù!». Sembrava quasi che gli fosse uscito di mente. «Dov’è?». Louise gli disse quello che aveva fatto e suo padre disse bene, che brava bambina era stata, e detto così, con quel tono ammirato, essere una brava bambina le parve quasi bello e desiderabile. Seguì suo padre al piano di sopra e lo avvertì di fare piano.
«Non voglio svegliarla. Le do solo un’occhiata».
Villy dormiva. Si posò un dito sulle labbra e si diresse verso il suo spogliatoio. Poi le fece un cenno complice.
«Posso invitarla a cenare con me questa sera, Miss Cazalet? Se non ha altri impegni, s’intende».
«Si dà il caso che sia libera».
«Corra a cambiarsi, allora. L’aspetto in salotto fra venti minuti».
E così fece. Si mise il vestito che Hermione le aveva regalato inaspettatamente per Natale e che sua madre disapprovava in quanto troppo da adulta. Era di uno stupendo chiffon azzurro chiaro e andava indossato senza reggiseno né sottoveste, solo le mutande, perché la schiena era completamente scoperta, con sottilissime spalline e una profonda scollatura a V. Un vero abito da donna, insomma. Si era tirata su i capelli fermandoli con una miriade di pettinini – non le sembravano molto stabili, ma finché non scuoteva troppo il capo e non rideva probabilmente avrebbero retto; mise anche la collana di perle di fiume e opale che aveva ricevuto in regalo per Natale da zio Hugh, il suo padrino. E poi il rossetto arancione e una cipria biancastra e il profumo chiamato Evening in Paris che le aveva regalato zia Zoë. Se lo applicò generosamente dietro le orecchie, dopodiché le venne una gran voglia di guardarsi, ma l’unico specchio a figura intera era in camera di sua madre. Oh, povera mamma!, pensò, ma non seppe impedirsi di sperare che sua madre dormisse, perché in fondo sapeva che non avrebbe approvato il suo abbigliamento. Quando fu pronta, origliò alla porta dell’ammalata e poi diede una sbirciatina all’interno: dormiva. Così si sollevò la gonna e scese le scale.
Phyllis aveva portato da bere e suo padre si stava preparando un cocktail.
«Caspita! Sei molto elegante».
«Trovi?». La parola elegante non le parve la più appropriata, ma dopotutto si trattava solo di suo padre. Il quale si riabilitò subito offrendole dello sherry, prova del fatto che la stava prendendo sul serio.
Passarono una splendida serata: soufflé di pesce e fagiano arrosto, e poi ostriche avvolte nella pancetta e servite su una fetta di pane tostato; suo padre le versò un bicchiere di entrambi i vini, il rosso e il bianco; dopo cena accese il grammofono, mise il suo disco preferito, Tchaikovsky, e raccontò a Louise di quando andava a Londra da Hertfordshire in bicicletta per sentire i concerti – era stato allora che aveva ascoltato per la prima volta quella sinfonia. Venti chilometri all’andata e venti al ritorno, ma ne era valsa la pena. Tenne basso il volume del grammofono per non disturbare mamma, e quando Phyllis portò il caffè le chiese di preparare del brodo e portarlo a tavola: «Ci penserà Miss Louise a portarlo su».
Riuscì a convincerlo ad andarci lui, perché temeva la reazione della madre al suo abbigliamento. Le parve di essere frivola e senza cuore, così decise di andare a darle la buonanotte subito dopo essersi cambiata. «Sta meglio, dice che è ora che tu vada a dormire e vorrebbe darti la buonanotte».
«Ma papà! Io non sono per niente stanca!».
«Lo credo bene. Ma devi andare a dormire lo stesso».
Andò a dargli un bacio, lui la cinse con le braccia, le baciò prima una guancia, poi l’altra e poi, del tutto inaspettatamente, la bocca, una cosa che non aveva mai fatto prima di allora. I baffi erano ispidi e per un istante sentì qualcosa di morbido e bagnato e capì che era la sua lingua. Fu orribile: immaginò che gli fosse scappata per sbaglio, provò un grande imbarazzo per lui e ritirò istintivamente le braccia. «Allora buonanotte», disse senza guardarlo in faccia, e corse fuori. Fatte le scale pensò: Povero papà. Ormai aveva tutti i denti finti, e probabilmente con quelli baciarsi era complicato.
Mamma era seduta sul letto, con tutti i cuscini dietro la schiena. Aveva sorbito il brodo, disse, era proprio quello che ci voleva.
«Hai passato una bella serata con papà?».
«Oh sì! Abbiamo messo dei dischi».
«Bene, tesoro. E grazie, sei stata molto cara».
«Va meglio? Fa un po’ meno male?».
«Un pochino». Era chiaro che il dolore non si era placato affatto. «Prenderò un’altra aspirina, e stanotte papà dormirà nella stanza accanto. Adesso vai, tesoro».
«Sì, vado». Si rese conto di essere ansiosa di correre in camera sua e di chiudere la porta prima che lui salisse. Era strano, non le era mai capitata una cosa simile prima di allora. Sul suo diario non scrisse nulla di quella serata con papà.
Sentì la macchina dei cugini entrare nel vialetto e volle rallegrarsi del loro arrivo. Probabilmente Angela era troppo grande ormai per giocare con lei, ma Nora le era sempre stata simpatica, anche se certo era bruttina (non quanto Miss Milliment, beninteso), e Christopher era un ragazzo assai più interessante di Simon e Teddy: l’anno passato gli era presa la passione per le farfalle ed erano andati insieme a caccia col retino e la bottiglia di veleno, poi si erano seduti in mezzo al grano a sgranocchiare i chicchi e lui le aveva raccontato della sua scuola, che odiava, e di quanto stava male anche in casa, dove suo padre non faceva che angariarlo. Louise, che in famiglia aveva sempre sentito dire che il marito di zia Jessica non era il tipo d’uomo che era consigliabile mettersi in casa, aveva solidarizzato molto con lui e si era anche inventata qualche storia su suo padre, per farlo sentire meglio. Adesso non dovrò neppure inventarmela, pensò. Forse però è meglio non dire niente. Era la prima volta che ci ripensava. Era successo di nuovo, solo molto peggio, la sera in cui l’aveva portata fuori in occasione del suo compleanno: una meravigliosa cena all’Ivy, finita la quale erano rincasati in macchina, erano entrati in casa senza far rumore («Non svegliamo la mamma!») e lei gli aveva gettato le braccia al collo per ringraziarlo del bellissimo regalo. Lui allora l’aveva baciata in quello stesso modo disgustoso e le aveva infilato la mano sotto il vestito afferrandole un seno, mentre con l’altro braccio la stringeva così forte che lei non riusciva a sottrarsi; si divincolò solo dopo che lui ebbe staccato la bocca dalla sua per dirle quanto era cresciuta. «Per niente, invece!», balbettò sul punto di vomitare, fece qualche passo su per le scale ma dimenticò di avere l’abito lungo, si calpestò la gonna col tacco alto e dovette fermarsi per liberarla e allora lo vide, fermo alla base delle scale, che la guardava sorridendo. Ormai era un nemico.
Era rimasta in piedi al buio, dietro la porta della sua stanza chiusa, in preda a un terrore a cui non sapeva dare un nome, come un incubo, solo che era tutto vero. Sarebbe arrivato da un momento all’altro e sarebbe entrato – non c’era la chiave – e allora come avrebbe potuto fermarlo? Quel pensiero la tormentava e non sapeva come reagire, non riusciva neppure a muoversi. Sentì dei passi su per le scale e si premette una mano sulla bocca per impedire a qualunque suono di uscirne. Ma si accorse presto che il terrore le aveva prosciugato la voce, che il suo grido non sarebbe stato altro che un silenzio strozzato.
I passi – non esisteva più altro al mondo – si avvicinarono, raggiunsero il corridoio davanti alla sua porta – una pausa – poi proseguirono verso lo spogliatoio, e trascorse un lasso di tempo che non seppe quantificare prima che attraversassero il corridoio fino alla camera da letto di sua madre e la porta fosse chiusa. Poi sentì un suono terribile, come un conato trattenuto, e quando accese la luce capì che doveva essere provenuto da lei, perché non c’era nessun altro lì dentro.
Di quello che accadde dopo non ricordava molto: le sembrava di essersi chinata sul lavandino per dare di stomaco. Allora aveva pensato: perché diavolo non era corsa dritta di sopra da sua madre e non le aveva raccontato tutto? E all’improvviso le era stato chiaro che sua madre si sarebbe arrabbiata, le avrebbe rinfacciato di essere oscena e disgustosa e lui, il nemico, si sarebbe dichiarato d’accordo e tutto sarebbe diventato ancora peggio di com’era; e forse era davvero colpa sua, vista la vergogna che provava. Così inghiottì tutto e non diede di stomaco. Il giorno dopo, a colazione, si comportò proprio alla solita maniera, come se quello che era successo fosse solo e unicamente affar suo e non avesse niente a che fare con suo padre. Sua madre aveva atteso che lui uscisse per dirle che se quella era la sua gratitudine dopo aver ricevuto un regalo, di certo non ne avrebbe ricevuti molti, in futuro. Louise allora aveva preso la chiave di una delle altre camere da letto che andava bene per la sua porta, e da allora aveva fatto in modo di non ritrovarsi mai sola con lui. Ma non c’era nessuno a cui raccontarlo. Quella era la cosa peggiore.
Fu avvolta dal senso di pesante disagio che ormai provava sempre alla presenza di suo padre, un opprimente panno grigio che la imprigionava e la faceva sentire allo stesso tempo tradita e colpevole, oltre che spaventata. Ripensare alla sera del suo compleanno la faceva stare ancora peggio: l’assalivano tremore e nausea, le si seccava la gola, doveva deglutire di continuo e a vuoto. Doveva andarsene di casa, ma il fatto che dentro ci fosse qualcosa di ancora più spaventoso di quel che c’era fuori non lo rendeva meno difficile.
«Oh, Dio, perché non può essere come l’anno scorso, quando andava tutto bene?». Ma era impossibile tornare indietro. «Fra cent’anni sarà tutto uguale», era una frase che sua madre amava pronunciare in qualunque circostanza, un commento alquanto molesto che indicava la più completa indifferenza verso ciò che sarebbe accaduto nei cent’anni in questione e che rendeva la vita del tutto priva di senso. E forse era così. Forse era un gigantesco, terribile segreto che gli adulti tenevano nascosto ai bambini, come il fatto che Babbo Natale non esiste, o il ciclo. Forse essere adulti, come lei aveva sempre desiderato diventare, non significava altro che questo. Impossibile. Non sarebbero stati tutti così contenti, se avessero custodito un segreto simile. E poi c’era Dio, che, a quanto si diceva, amava gli uomini e doveva essere stato a lui a stabilire le regole in materia di senso. Decise di parlarne seriamente con Nora, che aveva un anno più di lei e magari poteva dirle qualcosa di utile sulla vita. Così riconfortata, rientrò in casa.
* * *
«Allora, cara, come vanno le cose?».
Villy aveva fatto accomodare Jessica sulla chaise longue di vimini in salotto. Avevano già pranzato e i ragazzi erano in giro a giocare. Era poi sprofondata sull’enorme e informe poltrona di fronte e si era accesa una sigaretta preparandosi a una bella chiacchierata. In mezzo a loro c’era un tavolino con sopra un vassoio con l’occorrente per il caffè. Aveva tirato le tende della finestra a sud, e nella stanza regnava una luce soffusa e acquosa, rinfrescante, favorevole al riposo e all’intimità.
Jessica sospirò, sorrise e incrociò le eleganti caviglie mentre si sistemava le braccia dietro la nuca. Poi disse: «È davvero meraviglioso essere qui, credimi. Il viaggio è stato un inferno. Christopher, poverino, si è sentito male. Judy voleva andare di continuo al bagno. Nora e Angela hanno litigato tutto il tempo per stare sedute davanti... e poi la macchina che è diventata un forno su quella collina, hai presente... appena fuori Lamberhurst, mi pare...».
«Be’, ora siete qui. E mamma arriva solo fra una settimana. Edward va a Londra domani. Saremo solo noi, a parte le pesti. Stasera siamo a cena a Home Place, ma c’è tutto il tempo per riposare».
«Splendido!». Abbassò le palpebre pesanti e per un attimo si sentì solo il ticchettio distante dell’orologio a pendolo in corridoio.
Poi Villy domandò con studiata neutralità: «Come sta Raymond?».
«Poverino, non gli fa certo piacere che io sia venuta qui! Stasera è ospite da zia Lena, e non ne ha nessuna voglia».
Ci fu un altro silenzio, poi Jessica proseguì: «Ha novantun anni. Se si esclude il fatto che non ci sente, è in ottima salute. Del resto, immagino che se uno non muove un dito a parte sedersi a mangiare i suoi quattro pasti quotidiani e maltrattare i domestici, non abbia motivo per sentirsi stanco».
«Però vuol bene a Raymond, no?».
«Lo adora. Ma c’è quell’altro nipote, quello che è emigrato in Canada, un tipaccio, che lei però stima molto più di Raymond».
«E questo...», disse Villy con delicatezza, «voglio dire, una volta che lei sarà... questo peserà molto?».
«Ah, cara, non so davvero cosa dirti. Nel momento esatto in cui Raymond posa le mani su una qualche somma di denaro, gli viene qualche idea bislacca che richiede ancora più soldi, e allora tutto va storto perché di base i soldi non bastano mai. Prendi la sua idea di ospitare i cani quando le famiglie vanno in vacanza. Naturalmente lui ha tralasciato del tutto il fatto che per la maggior parte dell’anno la gente sta a casa, mentre in agosto vanno tutti fuori: ha speso una fortuna per costruire cucce separate e anche così avevamo un cane in ogni stanza da letto, poi in inverno le cucce si sono bagnate, sono marcite e non potevamo più farci dormire i cani. Perciò io temo il momento in cui zia Lena morirà. Raymond odia il lavoro che fa adesso. Farebbe qualunque cosa per lasciarlo». Sorrise nel suo modo affascinante e sconfitto. «Ma le alternative mi sembrano ancora peggiori».
«È davvero esasperante».
«Sì, lo è. Ma è il padre dei miei figli. E poi, a volte è molto dolce».
Villy equiparava quella dolcezza al fascino, una dote da cui era stata educata a diffidare; agli occhi della loro madre fascino era sinonimo di pochezza. Lady Rydal aveva guardato con diffidenza Edward per via del suo fascino, e anche la maggior ricchezza di quest’ultimo rispetto a Raymond era sminuita dal fatto che quei soldi venivano dal commercio, una circostanza che l’aveva costretta a far ricorso a tutta l’ampiezza di vedute che aveva sempre sostenuto di possedere. Tuttavia Edward era riuscito in breve tempo, e senza neanche sforzarsi, a entrare nelle sue grazie, proprio ciò di cui Raymond era tragicamente incapace. E poi Lady Rydal aveva sempre riposto in Villy minori aspettative che in Jessica, così alla fine Edward era visto come un genero tutto sommato soddisfacente. Alla povera Jessica invece toccava portare sulle spalle tutto il peso della delusione materna. Guardando sua sorella, della quale in gioventù era stata tanto gelosa, Villy provò un moto d’affetto, compassione e tenerezza. Jessica era così magra; il viso bianco dalle fattezze preraffaellite, leggermente tinto dal sole filtrato dalle tendine verdi, era segnato dalla fatica: aveva ombre pesanti sotto gli occhi e sottili rughe dall’andatura discendente sotto gli zigomi alti e ai lati della bocca pallida e ben disegnata, mentre le sue mani, un tempo così belle, erano gonfie e screpolate dal troppo cucinare e lavare...
«...e poi anche con Christopher sta diventando un problema».
«Cosa?».
«Raymond. Vuole a tutti i costi che Christopher sia il tipo duro e atletico, proprio com’era lui, e Christopher invece è un sognatore, per di più maldestro perché sta crescendo molto in fretta. È tutto molto complicato. Non faccio che chiedere scusa all’uno per conto dell’altro».
«Credo che Christopher sia un caro ragazzo».
«Non è uno di quei tipi bravi in tutto, come il tuo Teddy».
«Scommetto però che è molto più intelligente».
Jessica decise di prendere quella frase non come un complimento alle doti intellettuali di suo figlio, ma come una critica alla sua scarsa abilità fisica, e si irrigidì un poco. «Non credo sia neanche particolarmente intelligente».
Come se Teddy fosse un completo idiota, pensò Villy, cosa che di certo non era. Si accese un’altra sigaretta. Jessica cominciava a chiedersi quand’è che avrebbero servito il tè.
«Angela sta venendo su bellissima. Come te, naturalmente. Un vero schianto». Le figlie erano un terreno sicuro, e la sua era una sincera offerta di pace. Jessica sbottò: «Villy, non so più cosa fare con lei! A scuola ha preso a malapena la sufficienza. Le interessa solo mettersi carina e comprarsi dei vestiti. Ne è semplicemente ossessionata! Noi non eravamo così superficiali alla sua età, ne sono certa. O forse sì?».
«Credo non ci fosse consentito. Voglio dire, sapevamo tutti che tu eri bellissima, ma non se ne parlava mai. A mamma sarebbe venuto un colpo».
«Be’, certo. Non è che io stia sempre a dirle quanto è bella. Ma gli altri sì. E lei, a quanto pare, ritiene che ciò le dia diritto a una vita molto più eccitante di quella che noi possiamo offrirle, e quel che è peggio è convinta che tutto le sia dovuto, senza che lei debba alzare un dito. Credo sia stato un errore mandarla in Francia. È da quando è tornata da lì che è diventata così pigra, sempre col broncio».
«Vedrai che è solo una fase. Che farete ora con lei?».
«Voglio che faccia un corso di stenografia e dattilografia, perché dovrà trovarsi un lavoro, temo. Ma naturalmente lei lo trova un lavoro troppo noioso. A fare la bambinaia non ci pensa proprio, insegnare non se ne parla. Che cosa resta?».
Villy convenne che non restava proprio niente. «Ma a un certo punto di sicuro si sposerà».
«Sì, ma con chi? Noi di certo non possiamo permetterci una vita mondana, perciò farla debuttare in società è fuori discussione. Ma allora non so proprio come potrebbe incontrare un uomo decente. Voi che farete con Louise?», domandò infine.
«Be’, quando avrà finito con Miss Milliment, ovviamente la manderemo in Francia. Al dopo non ci ho ancora pensato. Continua a dire di voler fare l’attrice».
«Almeno lei un’aspirazione ce l’ha! È cresciuta molto nell’ultimo anno, vero?».
Ora toccava a Villy sospirare. «Anche lei è sempre scontenta, e certe volte è esasperante. Credo che si senta spodestata da Clary. Lei e Polly sono grandi amiche da quando anche Clary va alle lezioni di Miss Milliment. Tre non è sempre un buon numero. Poi naturalmente c’è Edward che la vizia a più non posso e la incoraggia a darsi arie da adulta, il che è assurdo a quindici anni. Voi avete problemi con Nora? Scommetto di no. È un vero angelo, quella ragazza». Lo disse con grande enfasi. Nora era da sempre la bruttina della famiglia, e le venivano attribuite grandi virtù compensatorie.
«Non ha mai dato problemi. Ultimamente però non va d’accordo con Angela».
«Sarà gelosa».
Jessica guardò in tralice sua sorella, mentre rifletteva. È buffo, la gente tende sempre ad attribuire agli altri i propri sentimenti. Invece disse: «Oh no! Nora non è mai stata gelosa di nessuno». Poi, non resistendo alla tentazione di dirlo: «Ti ricordi quella volta che mi tagliasti i capelli e li mettesti in una scatola di latta che seppellisti in giardino?».
«Ma non te li ho mica tagliati tutti!».
Abbastanza da farmi sembrare una povera pazza alla premiazione della scuola, pensò Jessica, ma disse: «Mamma è stata sempre molto dura con te. Tutte quelle storie perché volevi fare la ballerina... Brava com’eri, poi!».
«Papà però mi sosteneva».
«Eri la sua preferita».
«Erano incredibili quanto a preferenze, non credi? E non lo nascondevano minimamente!».
«Almeno questo ci ha insegnato a essere diverse».
Entrambe pensarono ai loro splendidi figli maschi, e si dissero che no, loro non davano a vedere le loro preferenze. Poi furono interrotte da Judy, che era stanca di fare il pisolino e voleva sapere quando tornava Lydia e quando avrebbero fatto merenda. Portava dei pantaloncini e una camiciola ingiallita. «Angela è chiusa in bagno da una vita, perciò ho dovuto usare il vaso», aggiunse.
«Judy, ti ho detto di non andare in giro per casa in camiciola. Non hai bisogno di portarla, con questo caldo».
«Ma io la voglio». Si accarezzò il torace. «Mi piace tanto».
Si sentì un’auto entrare nel vialetto. «Ecco che arrivano Lydia e Neville. Farai merenda con loro», le disse Villy.
«Va’ a metterti la maglietta azzurra, tesoro. Non vorrai farti vedere in questo stato».
«Non me ne importa niente». Ma vedendo la faccia di sua madre, filò a obbedire.
Rupert prese il suo posto in mezzo al corridoio, reggendo un fagotto di asciugamani bagnati e un cestino da picnic. Sembrava molto accaldato.
«Li ho riportati sani e salvi, più o meno. Dove li metto questi? Oh, Jessica, che piacere! Non ti avevo vista». La raggiunse e si scambiarono un bacio sulle guance.
«Rupe, hai l’aria esausta. Sei stato davvero gentile a portarteli tutti quanti. Siediti a bere una tazza di tè». Villy suonò il campanello e Phyllis, che era nella dispensa con un forte mal di testa ad affettare pane e spalmarlo di burro, lanciò un’occhiata all’orologio della cucina e vide che erano solo le quattro, mentre il tè era previsto per le quattro e trenta. Quella sera però cenavano fuori, perciò una volta servita la merenda per i bambini avrebbe potuto prendere un’aspirina e andarsene a letto.
«Phyllis, servi il tè per noi tre adesso, per favore. I bambini invece lo prenderanno alla solita ora».
«Sì, signora». E ritirò il vassoio del caffè.
«Devo dirti che Neville si è portato a casa una medusa».
«Non gli hai detto che morirà?».
«Certo che gliel’ho detto. Ha voluto tenerla per forza». Si voltò verso Jessica. «È per via dell’asma. Ha sempre desiderato un cane o un gatto, ma sono letali per lui. Così non facciamo che portarci in casa pesci rossi, lombrichi, tartarughe e adesso pure una medusa».
Si lasciò cadere sul divano e chiuse gli occhi. «Dio, i ragazzi ti esauriscono! Anche quando ti sembra di averli fatti giocare fino allo sfinimento, basta un gelato per farli tornare allegri e pimpanti. Hanno passato tutto il viaggio di ritorno facendo a gara a chi inventava il modo peggiore di morire. Ne hanno pensate di tutti i colori. Bisognerà avvertire Ellen che stanotte Neville avrà gli incubi». Aprì gli occhi. «Come sta Raymond?».
«Bene. È andato a trovare sua zia. Probabilmente ci raggiungerà la prossima settimana».
«Oh, bene». A Rupert piaceva Raymond, gli pareva di avere qualcosa in comune con lui, anche se non sapeva dire esattamente che cosa.
Ci fu un breve, riposante momento di silenzio, poi entrò Angela. Entrare, pensò Villy, era un termine riduttivo. Si fermò un secondo nel vano della porta, prima di muovere qualche passo di studiata grazia dentro la stanza. Indossava un abito di piqué senza maniche di un chiarissimo giallo limone, dei sandali e un braccialetto d’argento al polso candido. Aveva trascorso tutto il pomeriggio a lavarsi e pettinarsi i capelli, che ora le ricadevano sulla nuca in un lungo caschetto, con due riccioli a incorniciare il viso come corna di ariete. A Villy ricordavano i capelli di Hermione. Rupert si alzò in piedi.
«Santi numi! Sei davvero tu, Angela?».
«In persona». Gli porse da baciare la guancia perfettamente incipriata.
«Un’altra persona».
«Chiudi la porta, cara», le disse sua madre. «Oh, no, meglio di no. Sta arrivando Phyllis con il tè. Dove sono gli altri?».
«Quali altri?».
«Nora e Louise. E Neville e Lydia. Sai perfettamente di chi parlo».
«Oh, i bambini! Non ne ho la più pallida idea». E si sedette in una posa aggraziata sul bracciolo del divano.
Phyllis entrò con il tè e Villy disse: «Un’altra tazza per Miss Angela, per favore».
«Angela andrà a prenderla da sola», disse Jessica in tono tagliente.
«Non muoverti. Ci vado io». Rupert seguì Phyllis. Quando fu di ritorno, Angela disse: «Oh, grazie, zio Rupert. Del resto, tu non sei davvero mio zio, vero?».
«Lascia pure perdere lo zio».
«Oh grazie». Gli lanciò uno sguardo pudico, risultato di lunghe sedute di prova davanti allo specchio. Mentre versava il tè, Villy scambiò un’occhiata con Jessica. È un po’ sfacciata, pensò Rupert, ma bellissima, e si domandò se anche Zoë alla sua età avesse civettato in quel modo con ogni uomo più vecchio che incrociava la sua strada. Jessica gli stava chiedendo di Zoë, e lui rispose che stava bene, stava imparando a guidare, ma allora Angela s’intromise per dire che anche lei moriva dalla voglia d’imparare, magari Rupert aveva tempo d’insegnarle? Rupert, a disagio, rispose che ci avrebbe pensato, poi tirò fuori il portasigarette.
«Posso averne una anch’io, per favore? Muoio dalla voglia di una sigaretta!».
Ne scelse una e se la mise fra le labbra impeccabilmente dipinte, poi si sporse in avanti per farsela accendere.
Non possiamo permetterci sigarette, pensò Jessica esasperata, non sapendo come mettere un freno a sua figlia. Raymond le aveva proibito il fumo fino ai diciotto anni, poi le era stato promesso un orologio d’oro se avesse aspettato fino ai ventuno, ma questa era un’altra delle abitudini che aveva preso in Francia.
«A papà non piace che fumi, lo sai», disse Jessica.
Angela replicò senza scomporsi: «Lo so che non gli piace. Non posso farci niente. Se uno non facesse tutte le cose che i suoi genitori non vogliono che faccia, non sarebbe capace nemmeno di muovere un passo!», spiegò rivolta a Rupert.
In lontananza si sentì il rombo di un tuono, e Rupert disse che doveva andare a parcheggiare la macchina prima che si mettesse a piovere. Gridò a Neville che andava via e in quell’istante la porta si aprì di scatto ed entrarono i tre bambini più piccoli.
«Mamma! Ha preso una medusa e adesso dice che non devo accarezzarla perché è crudele. Ma non può mai essere crudele accarezzare qualcosa, no?».
«Sì che può. Se solo la tocchi, ti farò a pezzetti piccolissimi e ti butterò nell’olio bollente», disse Neville. «È la mia medusa, non le piacciono le femmine. Se glielo ordino è capace di pungerti a morte!».
«Ma io le sono simpatica. L’hai detto tu!», protestò Lydia.
«Le eri simpatica, fino a poco fa».
«Dove l’hai messa, Neville?».
«In bagno».
«Che schifo!».
«Non fate caso ad Angela. Le fa schifo tutto, e dice cose di cui non ha la minima idea», disse Judy, la cui fedele imitazione della sorella non alleviò minimamente il suo ribrezzo.
«Mamma, ecco...», disse Lydia accarezzando sua madre, «ci abbiamo messo il sale che c’era in sala da pranzo e l’acqua non somigliava per niente a quella del mare, perciò abbiamo dovuto versarci dentro tutto il sale che abbiamo trovato in cucina. Noi però possiamo farne a meno del sale, vero? Invece per la medusa era questione di vita o morte».
«Capisco, ma avreste potuto chiedere il permesso».
«Avremmo potuto, sì», concesse Neville. «Ma tu avresti potuto dirci di no. E allora come avremmo fatto?».
«Nev, io ti ho avvisato. Alle meduse non piace che le si porti via dal mare. E il tipo di sale che usiamo noi è completamente diverso da quello del mare. Arrivederci a tutti. A più tardi. Grazie per il tè». Rupert diede un bacio a suo figlio e gli scompigliò i capelli, poi se ne andò.
«Oh, santo cielo!», esclamò Villy alzandosi. «Credo che mi toccherà risolvere questa questione».
Jessica e sua figlia maggiore rimasero sole tra i resti del tè. Angela si esaminava le unghie dipinte di rosa pallido fino alla linea ben tracciata delle mezzelune, che aveva lasciato bianche. Sua madre stette a guardarla per un momento chiedendosi che cosa passasse per quella testolina lucente e apparentemente vuota.
Angela stava ripercorrendo la conversazione avuta con Rupert. «In persona», aveva detto lei. Poi lui l’aveva baciata sulla guancia e le aveva detto: «Un’altra persona». In qualche modo, l’aveva notata. Naturalmente aveva dovuto nasconderlo perché non erano soli, ma era chiaro quanto fosse attratto da lei. È davvero carino, pensò, e ricominciò a ripetere mentalmente la conversazione. Sapeva bene che non poteva venirne niente; lui era sposato, ma era noto a tutti che anche gli uomini sposati s’innamorano di altre donne. Sarebbe stata forte, gli avrebbe spiegato che non poteva ferire i sentimenti di zia Zoë, e lui allora l’avrebbe amata ancora di più. Sarebbe stato tutto molto drammatico e l’avrebbe segnata a vita, eppure non vedeva l’ora che accadesse.
* * *
Simon aveva passato una giornata coi fiocchi insieme a Teddy, che non solo era più grande di lui ma era anche, ai suoi occhi, un fenomeno sotto svariati punti di vista. La mattina avevano fatto ben diciassette game a squash, poi avevano dovuto smettere per via del gran caldo. Giocavano più o meno alla pari: Teddy, essendo più alto, aveva una presa maggiore, ma Simon era molto bravo a piazzare le palle, ed era potenzialmente il migliore tra i due. Giocavano all’americana perché i game, anche se spesso erano più lunghi, finivano in modo prevedibile, e parte del divertimento era proprio dire agli adulti quanti game avevano giocato. «Con questo caldo?», commentavano puntualmente zii, zie e genitori, al che loro sorridevano: il caldo non li scalfiva minimamente. Avevano giocato in pantaloncini e scarpe da tennis, avevano i capelli bagnati e le facce rosse come barbabietole. Aveva vinto Teddy, di due game: un risultato apprezzabile. Avevano smesso non certo perché avessero caldo, ma perché morivano di fame. Tuttavia mancava ancora mezz’ora al pranzo, perciò sgranocchiarono della cioccolata e qualche pomodoro preso nella serra. Teddy raccontò a Simon, il quale da parte sua aveva tutte le ragioni per ascoltare avidamente, della sua scuola, la stessa che avrebbe frequentato lui l’autunno venturo. Ogni cosa che diceva riempiva Simon di terrore, che lui dissimulava abilmente dietro una disinvolta curiosità. Quella mattina affrontarono l’argomento di ciò che veniva inflitto ai nuovi arrivati, e Simon stette a sentire di come costoro venissero legati nella vasca da bagno col rubinetto dell’acqua fredda aperto al minimo, e poi lasciati soli ad annegare. «E succede... spesso?», aveva chiesto col cuore in gola. «Oh no. Non tanto spesso», era stata la risposta di Teddy. «Di solito qualcuno va a chiudere l’acqua e a liberare il malcapitato». Di solito? Più ne sentiva parlare, più a Simon sembrava impossibile poter sopravvivere a cose simili. Eppure in capo a ventitré giorni sarebbe toccato proprio a lui. E in capo a cinquanta giorni, chissà, poteva essere già morto. Se ne vergognava terribilmente, ma spesso pensava che sarebbe stato meglio essere una ragazza, almeno non avrebbe dovuto andare in quel posto spaventoso dove c’erano regole severissime di cui nessuno ti parlava se non dopo che le avevi infrante ed eri già nei guai, e dire guai era un bell’eufemismo. Teddy gli sembrava straordinariamente coraggioso e di certo poteva sopportare qualsiasi cosa, ma lui... lui era già stato malissimo a Pinewood, anche se le cose erano andate migliorando verso la fine, e sapeva che adesso sarebbe ricominciato tutto da capo in un posto nuovo: la nausea, gli incubi, doversi sforzare di non pensare a casa perché pensarci gli faceva venire le lacrime agli occhi e piangere significava diventare lo zimbello della scuola, ma allora gli veniva il mal di pancia e doveva andare di continuo al bagno, e gli insegnanti cominciavano a fare commentini sarcastici e tutti ridevano. Teddy era più grande di lui e ovviamente non poteva essere suo amico. Era severamente proibito fare amicizia con quelli delle classi superiori: si sarebbero chiamati a vicenda Cazalet e si sarebbero salutati sobriamente, proprio come avevano fatto a Pinewood. Ogni sera pregava che succedesse qualcosa che gli evitasse di andarci, ma non gli veniva in mente niente che non fosse un attacco di scarlattina oppure lo scoppio di una guerra, cose entrambe altamente improbabili. E il peggio era che non aveva nessuno con cui parlarne; sapeva esattamente cosa avrebbe detto papà – che al collegio ci erano andati tutti e che adesso toccava a lui –, e mamma gli avrebbe detto che anche a lei sarebbe mancato, che si sarebbe ambientato presto, come facevano tutti, e che comunque c’erano sempre le vacanze, no? Polly l’avrebbe ascoltato con comprensione, ma non poteva immaginare quanto fosse terribile quello che lo aspettava, perché lei era solo una ragazza. E poi Teddy... come poteva dirlo a Teddy? Teneva troppo alla sua amicizia per rischiare di farsi disprezzare da lui, ed era ragionevolmente sicuro che Teddy lo avrebbe disprezzato. Nonostante tutto questo, riuscì a godersi le vacanze e certe volte perfino a dimenticare il prossimo inizio delle lezioni, che però poi gli tornava in mente di colpo, senza alcun preavviso, come quando va via e torna la luce, e lui ricominciava a macerarsi nell’ansia e nella paura e nel desiderio di morire prima che venisse la fine di settembre. Tuttavia la mattinata sul campo da squash non gli era dispiaciuta per niente, e aveva perfino provato un breve moto di felicità quando Teddy aveva lodato i suoi colpi dall’angolo.
Siccome molti erano andati al mare, quel giorno si mangiava in sala da pranzo, il che voleva dire lavarsi di tutto punto, una bella seccatura, ma voleva dire anche seconde porzioni ancora calde, il che era una bella cosa. C’erano pasticcio di coniglio e pudding con la crema, un pasto abbondante che avrebbe dato loro l’energia necessaria per il lunghissimo giro in bicicletta che Teddy aveva in programma quel pomeriggio. Salirono la collina superando Watlington fino a Cripps Corner, poi si diressero verso Staplecross dove imboccarono Ewhurst Road, girarono a destra su una stradina stretta e poi a destra di nuovo in Brede Road, che li riportò a Cripps Corner; lì si fermarono per un gelato e una barretta di cioccolata – erano affamati, ma il ritorno era perlopiù in discesa. Teddy voleva arrivare a Mill Farm, che era dopo Home Place, per vedere se era tornato suo padre, dato che gli aveva promesso di portarlo a sparare ai conigli prima di cena. Simon era considerato ancora troppo giovane per imbracciare il fucile, ma Teddy gli aveva detto che poteva venire con lui, se voleva. Zia Villy, d’altra parte, gli aveva proposto di restare a giocare con Christopher, ma, sebbene Christopher fosse più grande di lui, non era bravo negli sport perché gli si appannavano subito gli occhiali e non vedeva la palla. Inoltre Christopher non si trovava da nessuna parte. Perciò Simon promise che sarebbe tornato per il tè e se ne andò a Home Place da solo. Ma era stata comunque una giornata eccezionale, e c’era ancora la sera, da trascorrere giocando a Monopoli con Teddy. Quando tornò, trovò mamma intenta a giocare con Wills, mettendolo a pancia sotto sul prato con un giocattolo appena fuori dalla sua portata, così da spingerlo a gattonare. Wills aveva addosso solo il pannolino: la sua schiena aveva il colore di un biscotto rosa.
«È normale che abbia tutti quei peli bianchi lungo la spina dorsale?».
«Non sono peli, tesoro. È solo una lieve peluria bionda. È schiarita dal sole».
Considerato che era alquanto grassoccio, che aveva rotoli di carne laddove avrebbe dovuto avere polsi e caviglie, che aveva un dente solo e che non sapeva dire una parola, Wills era un bimbetto simpatico, pensò Simon. Prese l’orsacchiotto e glielo avvicinò alla faccia. Wills lo guardò e sorrise, afferrando l’orecchio dell’orso e portandoselo alla bocca.
«Non imparerà a gattonare, se fai così». Sybil prese il pupazzo e lo allontanò dal bambino. A Simon parve che Wills stesse per piangere, perché la sua faccia si fece di porpora e cominciò a respirare in modo strano. Poi smise di colpo e sembrò meditare profondamente su qualcosa. Dopo alcuni secondi gli si dipinse in volto un’espressione estasiata e si diffuse nell’aria una puzza terribile. Simon si allontanò disgustato. «Puah! Credo che abbia fatto qualcosa».
«Ma certo che l’ha fatta! Bravo il mio bambino». Lo prese in braccio. «Vado a cambiarlo. Oh, tesoro! Ti sei di nuovo strappato i pantaloncini».
Simon abbassò lo sguardo. Gli si erano strappati già prima di pranzo, colpa di un chiodo sporgente nella porta della serra. Si sorprese che sua madre se ne fosse accorta solo ora, ma ultimamente era tutta presa da Wills. Si chiese come facesse a tenerlo stretto in braccio con quel fetore che emanava.
«Va’ a cambiarti per il tè. Mettili in camera mia, così li rammendo».
Simon brontolò. Era un punto d’onore tra i cugini lamentarsi quando venivano invitati a cambiarsi d’abito, anche perché, se avessero obbedito senza fiatare, avrebbero dovuto farlo di continuo. «Mamma, mi cambierò dopo che avrò fatto il bagno. Non posso cambiarmi due volte al giorno! Tre, se conti anche vestirsi al mattino!».
«Simon, va’ a cambiarti!». Così obbedì. Passando davanti allo studio del nonno, sentì la voce di suo padre e si fermò. Forse papà lo avrebbe aiutato ad allenarsi a tennis, dopo il tè. La voce di suo padre parlava senza interruzioni: stava leggendo qualcosa. Probabilmente il «Times», una noia. Gli adulti andavano pazzi per i giornali, li leggevano e ne parlavano tutti i giorni a tavola. Il vecchio Generale, poveretto, ormai non riusciva più a leggere, così bisognava che qualcuno lo facesse a voce alta per lui. Chiuse gli occhi per vedere se da cieco era capace di trovare la sua stanza, e gli ci volle un sacco di tempo, anche dando una sbirciatina una volta arrivato in cima alle scale. Davanti alla sua camera, si trovò di fronte Polly. «Ti ho appena lasciato un biglietto sul letto», disse. «Perché tieni gli occhi chiusi?».
Li riaprì di scatto. «Niente. Era solo un esperimento».
«Ah. Be’, il biglietto era per la visita al museo. Alle cinque al vecchio pollaio. Sei cordialmente invitato a partecipare. È scritto sul biglietto che ti ho lasciato sul letto».
«Me l’hai detto, perciò non devo leggerlo».
«Ci vieni?».
«Forse. O forse no. Adesso vado a fare merenda».
Lei lo seguì in camera. «Simon, non ha senso avere un museo se non interessa a nessuno!».
«Mi sembra più adatto alle vacanze di Natale».
«Non si può tenere un museo chiuso per la maggior parte dell’anno. I pezzi esposti finiscono per rovinarsi».
Simon pensò ai cocci rinvenuti nell’orto, ai chiodi arrugginiti, ai frammenti di pietra raccolti a Bodiam e al penny di epoca georgiana donato dal Generale, e disse: «Non vedo perché. Se sono durati fino a oggi, potranno sopravvivere qualche altro anno senza che nessuno se ne occupi. Io comunque li conosco a memoria». Si slacciò la cintura e i pantaloncini gli caddero alle caviglie, poi si mise a rovistare nel cassetto in cerca di un altro paio. «Perché non lo dici a Christopher? Potrebbe diventare il direttore dell’area di Storia Naturale».
«Bella idea! Telefono a Mill Farm e vado a prenderlo».
Ma constatò che zia Villy non aveva idea di dove fosse Christopher.
* * *
Christopher aveva mangiato senza averne nessuna voglia, perché si sentiva ancora male. I viaggi in macchina erano uno strazio per lui: se si levava gli occhiali gli veniva un brutto mal di testa; se li teneva aveva la nausea. Meno male che almeno c’era mamma alla guida. Quando guidava papà era molto peggio, perché papà lo faceva sentire un idiota ed era molto restio a fermarsi, cosicché spesso capitava che Christopher vomitasse in macchina e poi dovesse sorbirsi la conseguente lavata di capo. Certe volte odiava suo padre al punto di immaginarsi che morisse o venisse colpito da un fulmine che lo lasciasse vivo ma incapace di dire una sola parola. Naturalmente poi se ne vergognava e si sentiva una persona malvagia. Ma quasi sempre nelle sue fantasie faceva le cose più prodigiose, o meglio cose del tutto normali per gli altri ma nelle quali lui era un completo disastro, e le faceva così bene che suo padre gli diceva: «Chris, ragazzo mio, sei stato superbo! Non ho mai visto nessuno fare una cosa simile, non me lo sarei mai aspettato da te!». Lui si sarebbe crogiolato nell’ammirazione paterna, e chissà, magari una volta o l’altra suo padre gli avrebbe messo con disinvoltura un braccio sulle spalle, un gesto, per loro che erano uomini, di profondo affetto e forse – guai a parlarne – di amore. Certe volte fantasticava di suo padre che faceva battutine sarcastiche non su di lui ma su un altro, e lo invitava a dargli manforte ridendone insieme. Era una specie di lusso abominevole, quella fantasia, e dopo avervi indugiato provava un’immediata vergogna e si convinceva di essere una persona orribile. Come poteva pensare di stare a guardare o addirittura di prendere parte attiva in un gesto tanto crudele, solo perché una volta tanto la vittima non era lui? E allora tornava a odiare suo padre e anche se stesso, perché desiderava l’approvazione di una persona tanto dappoco. E poi si sentiva meschino perché continuava a dare a suo padre motivi per accanirsi su di lui. Del resto era vero che era una frana in tutte le cose a cui suo padre dava importanza, come gli sport, i giochi, i modellini di aeroplani e la matematica. Non sapeva raccontare storielle né fare battute di spirito e rompeva tutto quello che gli capitava in mano – un elefante stordito in una cristalleria a buon mercato, lo aveva definito suo padre giusto una settimana prima, quando aveva rotto il barattolo dello zucchero. Negli ultimi tre anni poi aveva sviluppato una balbuzie che peggiorava sempre quando qualcuno gli chiedeva qualcosa, così adesso tutti i suoi sforzi erano tesi ad accontentare suo padre tenendo la bocca chiusa, come aveva fatto quella mattina coi bagagli da caricare in macchina. Era ormai abituato a fallire in tutto e voleva solo che lo lasciassero in pace. Mamma però si sforzava sempre di tirarlo su facendogli domande sugli argomenti che lo interessavano, e questo gli faceva venire da piangere, perciò aveva deciso di non dire più niente nemmeno a lei. Doveva volergli un gran bene per insistere in quel modo, e per questo disprezzava anche lei: era stupido amare una persona senza speranze solo perché era suo figlio, anche quando era chiaro che non c’era niente da fare. Adesso però, nonostante la nausea e il mal di testa, provava un distinto senso di leggerezza, di libertà e sicurezza insieme, un curioso miscuglio. Allontanarsi da Londra e da papà e dalla scuola era abbastanza per essere felici, pensò. Dopo pranzo, si era messo le scarpe da ginnastica ed era sgattaiolato via senza farsi vedere.
Scese giù per il vialetto della fattoria, poi risalì la collina verso Home Place, la casa dove avevano alloggiato tutte le estati precedenti. Entrò dal solito buco nella siepe e superò il boschetto ceduo che sorgeva alle spalle della cucina. Raggiunse il sentiero che portava alla radura in cui di solito tenevano i cavalli. Ce n’erano due sotto le chiome di un gruppetto di castagni, intenti ognuno a scacciare le mosche dal di dietro dell’altro. Si avvicinò piano per vedere se avevano voglia di parlargli, e ne avevano. Emanavano quel meraviglioso odore tiepido che hanno i cavalli, e lui affondò il viso nel collo del pony per aspirarne il più possibile. Il vecchio cavallo grigio nitrì sommessamente e lo guardò con i grandi occhi che somigliavano a lucidi chicchi d’uva nera. Aveva profonde depressioni scure sulla fronte e intorno agli occhi, i denti ingialliti: era vecchio. Quando se ne andò, gli animali fecero per seguirlo, ma rinunciarono quasi subito. Superò un paio di campi, poi rallentò il passo perché si accorse di essersi allontanato molto. Il caldo e il silenzio erano meravigliosi, l’unico suono era quello delle erbe alte che gli frusciavano contro le ginocchia e, se si fermava, i suoni minuti degli insetti: ronzii e ticchettii lievi. Il cielo era di una tinta slavata che a fatica poteva dirsi azzurro, gli alberi della foresta verso cui camminava erano immobili. Nel posto dove li aveva trovati l’anno prima, c’erano due funghi enormi, e lui li raccolse. Si tolse la maglietta e ve li avvolse; li avrebbe mangiati nel caso gli fosse venuta fame. L’ultimo campo terminava in un pendio ripido sormontato da una siepe, che s’interrompeva per far posto al cancello del suo bosco. Camminò con calma lungo la siepe, che pullulava di brionie, biancospino, mirtilli e rose selvatiche. Solo pochi mirtilli, tra quelli che crescevano in basso, erano maturi, e ne colse qualcuno. Le piccole mele selvatiche erano verdi e ancora acerbe, e così anche le prugnole e le nocciole, ma erano deliziose lo stesso, piccoli frutti succosi che sapevano di verde chiaro. Ne raccolse un po’ per la sua scorta. Potrei non tornare più indietro, pensò. Potrei restare a vivere qui.
Una ghiandaia annunciò che c’era un intruso nel bosco. Aveva notato che era sempre un corvo oppure una ghiandaia – più spesso quest’ultima – a spiccare il primo brusco volo, mettendo in guardia gli altri con alte strida. Veder confermata questa intuizione lo fece sorridere.
Il suo ruscelletto era ancora là, identico. Largo non più di un metro, la sua acqua cristallina bagnava un fondale di ciottoli e sabbia; le sponde erano a tratti a filo con l’acqua, marcate da muschio verde brillante, a tratti un po’ più ripide, e lì crescevano felci e agli. Nel punto in cui aveva costruito la diga c’era ancora una pozza più grande, anche se la diga era crollata e tutta marcia. Si sedette in riva al torrente, si tolse le scarpe e immerse i piedi nell’acqua deliziosamente fresca. Quando iniziarono a dolergli di freddo, si alzò e cominciò a risalire il corso del ruscello fino ad arrivare all’isola. Era troppo piccola per viverci o semplicemente per starci sopra, ma la sponda in quel punto sembrava sporgersi benevola su una piccola radura baciata dal sole. Lì, l’anno prima, aveva provato a costruire una casa inchiodando insieme vecchie assi di castagno e chiudendo le fessure con rami di sambuco e nocciolo tagliati apposta. Era riuscito a costruire una sola parete, ormai ingrigita, malferma e piena di falle per via delle foglie secche che erano cadute. Quel giorno però non aveva voglia di rimettersi al lavoro; preparò invece un piccolo focherello, che accese con la sua lente d’ingrandimento. Quando fu bello vivo, trovò un rametto dalla forma adatta e lo usò per infilzare i funghi e arrostirli uno a uno. Li pulì prima, leccandosi via delle dita il tenace residuo marrone. Aveva una gran fame. I funghi non si arrostirono granché bene, più che altro sapevano di fumo, ma almeno non erano tutti viscidi e unti di grasso. Li masticò lentamente; avevano un sapore magico e di sicuro stavano sortendo in lui un qualche effetto prodigioso. Poi mangiò i mirtilli, anche se gli si erano in buona parte spappolati nella maglietta che adesso era piena di macchie blu. Era interessante quanto potesse variare il sapore dei mirtilli: certi sapevano di noce, altri erano aspri, altri ancora gli ricordavano distintamente la gelatina di more. Del suo fuoco ormai non rimaneva che un mucchietto di ceneri grigio chiaro. Prese un grosso pezzo di muschio, lo bagnò nel torrente e lo posò sulla cenere. Si udì un sibilo lieve e il fumo bluastro divenne bianco. Era pronto per lo stagno.
Lo stagno si trovava in una fossa profonda, verso il margine opposto del bosco. Lo sovrastavano i rami di un albero enorme, alcuni dei quali si spingevano fino a immergere le estremità. L’acqua era nera e immobile. C’erano giunchi di palude e due libellule. Si tolse i pantaloni e camminò nel fango denso e pieno di ronzii, che liberava grosse bolle di gas nell’acqua sovrastante. Proprio mentre era sul punto di tuffarsi per fare una nuotata, vide una piccola vipera, il capo eretto ed elegante sopra il pelo dell’acqua, il corpo che nuotava sinuoso e silente nel mezzo della pozza. Capiva che era una vipera dalle due increspature a forma di V ai lati della testa; curiosamente, due pieghe simili le aveva anche ai lati del collo. Aspettò che raggiungesse l’altra sponda e che sparisse all’istante. Era stata una fortuna averla vista. Diede la prima bracciata nell’acqua scura e ferma, tiepida in confronto a quella del torrente. Era uno stagno piccolo per nuotare, e uscirne era molto sgradevole per via del limo; si disse che era il caso di fare un altro bagno nel torrente prima di tornare, altrimenti a casa avrebbero fatto un sacco di storie per un po’ di fango, fango che in ogni caso gli si sarebbe asciugato addosso sulla via del ritorno. C’era un buon profumo d’acquitrino, un odore simile a quello del giunco, ma più concentrato. Non riuscì ad avvistare l’airone, che pure sostava spesso in quel punto, ma era molto soddisfatto di aver visto la vipera. Dopo aver lavato via gran parte del fango, si sdraiò sulla piccola radura a fianco alla sua casetta e si addormentò.
Si svegliò che il sole era tramontato e gli uccelli facevano i versi della sera. Si rimise la camicia e s’incamminò verso casa. Il primo campo era pieno di conigli: gli adulti cercavano cibo, i piccoli giocavano. Gli sarebbe piaciuto fermarsi a osservarli, ma poteva tornare la mattina presto per farlo. Aveva di nuovo una gran fame. Dalla posizione del sole capì che la merenda l’aveva saltata, ma forse sarebbe riuscito a farsi dare qualcosa dalle cameriere per resistere fino all’ora di cena. Prese un’andatura lesta. Tre anatre selvatiche spiccarono il volo dal fiumiciattolo che segnava il confine tra i campi, dirette verso il suo boschetto. O magari proprio verso il suo stagno, pensò: forse erano le stesse tre che aveva visto l’anno scorso. Perché non posso vivere qui?, pensò. Non tornare mai più a Londra, fare il contadino o curare il giardino di qualcuno. Oppure occuparmi degli animali, in una fattoria. Teneva lo sguardo basso per via delle tane dei conigli, ma uno sparo improvviso gli fece alzare gli occhi, e si fermò. I conigli correvano nella sua direzione, in fuga dal cancello verso il campo dei cavalli. Vi fu un secondo sparo e un coniglio cadde a pochi metri da lui, cercò di rialzarsi, emise una specie di grido terribile e poi cadde di nuovo, scosso da uno spasmo. Lo raggiunse di corsa e toccò la pelliccia dell’animale: era caldo, e morto.
«Non ti abbiamo visto... non sapevamo che fossi qui». Erano zio Edward e Teddy, spuntati dall’ombra di un grosso albero.
«L’ho preso!». Teddy era al settimo cielo. Afferrò il coniglio per le zampe posteriori; c’era una macchia rossa sul piccolo torace bianco. Lo fece roteare per aria. «La prima preda dell’estate!».
Christopher li guardò a turno, padre e figlio. Zio Edward sfoggiava un sorriso indulgente. Teddy era raggiante. Nessuno dei due sembrava trovare la cosa a dir poco orribile, come invece pareva a lui.
«Ottimo tiro. Pulito», stava dicendo zio Edward.
«Ha gridato», sbottò Christopher sentendo le lacrime pizzicargli gli occhi. «Non doveva essere così pulito».
«Non può essersi accorto di niente, ragazzo. È stato un colpo troppo improvviso».
«Tanto ormai è morto, no?». La voce suonò artefatta alle sue stesse orecchie. «Devo andare, adesso», bofonchiò voltandosi dall’altra parte, proprio mentre le lacrime gli sgorgavano dagli occhi, e si mise a correre. Superò di corsa il cancello e si guardò indietro per un istante. Camminavano in direzione opposta alla sua, verso il margine del suo bosco: andavano a ucciderne altri. Poteva mangiarlo una volpe, lei ne aveva bisogno. Zio Edward e Teddy invece lo facevano per sciocco divertimento: il coniglio non significava niente per loro. Se avesse potuto vivere nella foresta, lui avrebbe avuto archi e frecce e avrebbe ucciso conigli solo di tanto in tanto, per nutrirsi, proprio come la volpe. Non che questo cambiasse le cose dal punto di vista del coniglio. Adesso che era ben lontano da loro, sul praticello dove ormai non si vedeva più un solo paio d’orecchie, rallentò il passo. Non c’era da stupirsi se uno doveva aspettare ore per poter avvistare degli animali selvatici: sapevano che gli uomini sono crudeli e a ragion veduta correvano o volavano via quando ne vedevano uno. Provò a pensare alla morte: succedeva prima o poi a tutti gli esseri viventi, ma provocarla deliberatamente era crudele, era assassinio, una cosa per cui si finiva sulla forca. Questo succedeva quando si uccideva una persona; invece in guerra si vincevano medaglie. Lui sarebbe diventato pacifista, come il padre di un suo compagno, e poi avrebbe fatto il veterinario piuttosto che il dottore, perché gli animali gli parevano più bisognosi. Poi, vedendo una vanessa, si ricordò che l’anno prima aveva ucciso delle farfalle solo per collezionarle, dunque dovette ammettere con onestà che anche lui era un assassino. E se era deciso a non farlo mai più era solo perché aveva catturato tutte le specie che erano presenti in quella parte del paese, perciò non c’era niente di eroico nei suoi buoni propositi. Non era migliore di suo cugino, che del resto era di un anno più giovane di lui e aveva solo quattordici anni. Se la sua decisione di non uccidere più nessuna creatura era seria, allora doveva sbarazzarsi delle farfalle. L’idea non gli piaceva per niente: mamma gli aveva regalato uno schedario da collezionista con dodici cassettini e lui aveva appena finito di sistemarci dentro la sua collezione, con ogni esemplare adagiato con cura su carta assorbente azzurra e un’etichetta bianca con il nome della specie. Forse non era necessario che desse via lo schedario oppure poteva usarlo per qualche altra collezione. Amava le farfalle a avrebbe volute tenerle, ma ora capiva, non senza un certo disagio, che non era quello il punto. Non poteva andare in giro a predicare certe cose e poi comportarsi nel modo opposto. Pensò che forse essere pacifista sarebbe stato altrettanto impegnativo, magari di più; non sapeva esattamente cosa comportasse, ma sapeva che Jenkins veniva puntualmente preso di mira perché suo padre era un pacifista. Perciò immaginava che sarebbe successo anche a lui, ma a quello era abituato: lo prendevano in giro perché suo padre era il tesoriere della scuola. Forse poteva rimandare la questione del pacifismo a dopo il diploma e intanto limitarsi a essere contro quelli che uccidono gli animali per motivi diversi dalla necessità di mangiarli... e questo di sicuro avrebbe voluto dire rinunciare alla collezione di farfalle. Rinunciando allo schedario, poi, avrebbe dato un dispiacere a sua madre. Ed eccolo di nuovo allo stesso punto: forse era vero, ma il fatto era che lui lo schedario voleva tenerlo. «Ammettilo!», disse a voce alta, furioso con se stesso.
«Ammettere cosa? Ciao, Christopher. Ci vieni alla visita al museo? La facciamo adesso, nel vecchio pollaio. Sei cordialmente invitato a partecipare».
Era Polly. Era entrato senza pensarci nel cortile di fronte alle stalle di Home Place, perché gli anni precedenti aveva sempre alloggiato lì. Polly era seduta sul muretto che lo separava dall’orto. Portava un vestito azzurro chiaro e sgranocchiava della cioccolata. Gli venne l’acquolina in bocca.
«Ne vuoi un po’?». Gli fece oscillare davanti alla faccia la barretta. «Per me è troppo grande».
Lui annuì. Non appena ne ebbe inghiottito un po’, disse: «Ho saltato la merenda».
«Oh, poverino». E gli diede il resto della barretta. Così lui si sentì in dovere di andare a visitare il museo.
* * *
Quando Rupert arrivò a Home Place per parcheggiare l’auto, sentì la voce alterata di Mrs Tonbridge che gridava dall’appartamento che il Generale aveva incautamente fatto costruire per loro, sopra il garage. La sentì strillare prima ancora di aver spento il motore. Gli giunse un fragore di cocci rotti e dopo un momento uscì Tonbridge in maniche di camicia, più emaciato e derelitto del solito. Si fermò sulla porta ai piedi delle scale, prese una sigaretta da dietro l’orecchio e l’accese. Gli tremavano le mani. Rupert, che si era messo a tirar fuori gli asciugamani dal bagagliaio fingendo di non aver sentito niente, si tirò su e gli fece un cenno di saluto. Tonbridge spense la sigaretta con un’abile mossa e se la rimise dietro l’orecchio. «Buonasera, Mr Rupert». Il bagagliaio era ancora aperto. «Porto dentro i resti del pranzo, signore». Non era riuscito a mangiare un boccone del pessimo spuntino che Ethyl gli aveva preparato lamentandosi senza sosta di quanto fosse silenziosa la campagna, e poi i cibi fritti erano veleno per la sua ulcera, cosa che lei ben sapeva. Mrs Cripps gli avrebbe dato una tazza di tè come si deve e una fetta di torta, prima che andasse alla stazione a prendere Miss Rachel. Rupert intuì che Tonbridge avrebbe fatto qualunque cosa pur di allontanarsi dalla moglie, prese un manico del pesante cestino da picnic e raggiunsero così la porta del retrocucina. Poi attraversò la casa diretto all’ingresso. La porta dello studio era aperta, e suo padre si mise a chiamare non appena sentì il rumore dei passi. «Edward? Hugh? Chi c’è dei due?».
«Sono io, papà».
«Oh, Rupert! Ti stavo proprio cercando. Entra figliolo. Versati del whisky. Chiudi la porta. Volevo scambiare due parole con te».
* * *
«Cara, mangia il tuo dolce».
«Già. Del resto, più di questo non posso avere». Poi vide gli occhi di Rachel farsi lucidi di empatia e dispiacere, e aggiunse in fretta: «Non far caso a me. Sono sempre di malumore quando te ne vai». Prese con la forchetta un boccone di torta di noci e se lo portò alla bocca. «Dicevo che sarebbe bello poterlo mangiare sulla corriera durante il ritorno».
Il volto di Rachel si rischiarò. «Perché no? Meglio ancora, prendine un’altra fetta da portare sulla corriera. Prendi la mia. Non mi va».
Si erano sedute da Fuller, sul lungomare, a prendere il tè in attesa del treno che doveva riportare Rachel a Battle. Era arrivata in città quel mattino, per partecipare a un incontro organizzato per raccogliere fondi per la Casa dei Bambini. La riunione aveva avuto luogo di mattina, poi era andata a pranzo con Sid, uno spuntino a base di prosciutto, pane e mele consumato in mezzo a lenzuola polverose nella casa di Chester Terrace. D’estate la casa era chiusa, c’era solo la vecchia Mary a occuparsi del vasto e buio piano interrato. Poi avevano passeggiato a braccetto nel parco, discutendo come sempre delle vacanze, della salute e dell’umore di Evie e dei conseguenti impedimenti al fatto che Sid venisse a stare un po’ di tempo da Rachel. Alla fine fu stabilito che Rachel avrebbe sondato la disponibilità della Duchessa a ospitare anche Evie, sempre che il direttore d’orchestra per cui lavorava come segretaria fosse andato in tour e avesse potuto fare a meno di lei.
«La torta di noci mi riporta ai tempi della scuola», stava dicendo ora Rachel. «La Duchessa mi portava a fare merenda fuori, ma io avevo una gran nostalgia di casa e non riuscivo a mangiare niente. Perciò prendila», aggiunse.
«Va bene». Sid prese la porzione di dolce, l’avvolse nel tovagliolo di carta e l’infilò nella sua vecchia borsa. Rachel sbocconcellava pigramente una fetta di pane imburrato.
«Lo sai che resterei, se potessi».
Se potessi, pensò Sid, o se non fossi così dannatamente altruista. «Mia cara, ormai me ne sono fatta una ragione: tu vivi per gli altri. È solo che, qualche volta, mi piacerebbe essere uno di questi».
Rachel mise giù la tazza. «Tu sei diversa». Vi fu un momento di silenzio, il suo volto fu pervaso di un rossore che andò svanendo lentamente, mentre Sid la osservava. Poi, in tono indifferente ma incerto, senza guardare Sid, aggiunse: «Non c’è nessuno con cui voglia stare più che con te».
Sid non seppe replicare. Mise la mano sopra quella di Rachel e poi, incrociando quello sguardo innocente e contrito, strizzò l’occhio e disse: «Forza, vediamo di non perderlo, questo treno».
Pagarono il tè e si avviarono verso Charing Cross.
«Vuoi che ti accompagni al binario?».
Rachel scosse la testa. «È stata una giornata splendida».
«Sì, è vero. Arrivederci, cara. E ricordati di telefonare». Posò due dita sulla guancia di Rachel e la carezzò fino a fermarsi sulla bocca, dove ricevette un piccolo, tremulo bacio. Poi si voltò in modo brusco e uscì dalla stazione senza voltarsi indietro.
* * *
«È un’ingiustizia bella e buona, cara mia! Siamo le uniche a non poter cenare insieme agli adulti».
«Nemmeno Wills può».
«Che c’entra Wills? Figuriamoci, non lo puoi nemmeno considerare un bambino!».
«Be’, non dobbiamo mica mangiare con lui. E poi a me piace, è mio fratello», aggiunse.
«Ma sì, lui è a posto. Ma ciò non toglie che sia un’ingiustizia! Pure Simon cena in sala da pranzo, e ha solo dodici anni. Ammetterai che questo non è affatto giusto!».
«No, hai ragione. Passami il sapone».
Erano sedute nella vasca da bagno, una di fronte all’altra, senza lavarsi. L’apparecchio di Clary era sulla mensola di mogano, accanto ai portaspazzolini. Avevano le schiene arrossate del sole, coi segni bianchi dei costumi da bagno, e le piante dei piedi annerite per aver camminato scalze. Polly strofinò il suo panno contro il sapone e cominciò a lavarsi un piede.
«Dovremmo smettere di lavarci, in segno di protesta!».
«Io infatti mi lavo solo dove sono sporca. I piedi, soprattutto. Mamma me li controlla sempre».
Clary non replicò. Zoë non si sarebbe mai sognata di guardarle i piedi, e suo padre non ci faceva caso. In un certo senso era meglio così, in un altro invece era peggio. Polly alzò gli occhi e, intuito il motivo di quel silenzio, si affrettò a dire: «È stata una gran bella visita. Christopher è stato grande! Pensa avere tutte quelle farfalle! Hai avuto una grande idea a farlo Curatore della Sezione di Storia Naturale».
«E se Louise non è d’accordo, che vada al diavolo!».
Senza replicare, Polly uscì dalla vasca e si avvolse in uno dei lisi asciugamani che, per la Duchessa, erano più che sufficienti per il bagno dei bambini.
«Non ti sei lavata l’altro piede!».
«Non voglio più fare il bagno con te. Sei troppo cattiva. Parli male di tutti, prima il povero Wills e poi Louise. Stai diventando come Riccardo III».
«Non è vero!». Polly restò in silenzio, e allora Clary disse: «Non è vero per niente. Dammi l’altro piede. Te lo lavo io».
«Chi mi dice che non mi farai cadere apposta? Sei piena di veleno. Non mi fido di te, ecco».
Polly aveva ragione. Era cattiva. Pensieri rabbiosi le si affastellavano dentro finché non era costretta a farli uscire in vere esplosioni di livore, dopo le quali si sentiva confusa e piena di vergogna come adesso: com’era diversa e migliore di lei Polly, che sembrava non provare cattivi sentimenti per niente e per nessuno! «Non lo farei mai», mormorò. Aveva gli occhi pieni di lacrime brucianti. Un piede sudicio e calloso le planò sulla spalla sinistra.
«Va bene», fece Polly. «Grazie».
Clary le lavò il piede con cura meticolosa. «Sto cercando di non farti il solletico», disse con umiltà, quando Polly fece per ritrarsi.
Non voleva essere troppo gentile, l’avrebbe fatta piangere ancora di più, così disse solo: «Lo so».
«Scommetto che Gesù ai discepoli glielo ha fatto, il solletico, mentre gli lavava i piedi. Erano in tanti, si sarà distratto».
«Loro però non si sono azzardati a ridere. Hai fatto caso che nei libri le persone fanno cose inverosimili coi capelli?».
«Per esempio?».
«Be’, Maria Maddalena, per esempio, che li ha usati per asciugare i piedi a Gesù, oppure le eroine dei romanzi che ricamano fazzoletti coi propri capelli. Scommetto che non appena li stiri quelli si bruciano e si consumano. E Raperonzolo? Cala la treccia, Raperonzolo! Non si possono usare i capelli di una persona come fossero una corda. Pensa che male!».
«Be’, il fatto è che nei libri può succedere qualunque cosa».
«Invece dovrebbero attenersi alla realtà», sentenziò Clary mentre usciva dalla vasca. «Io farò così, quando diventerò una scrittrice. Non scriverò mai delle scemenze senza senso».
«Sei fortunata ad avere un’ambizione. Non dimenticare l’apparecchio». Clary lanciò un’occhiata all’apparecchio, e tutt’a un tratto non si sentì più così fortunata.
«Stavo per dimenticarmelo», disse tristemente. «Potevi stare zitta».
«Mettilo», le consigliò Polly. «E poi levatelo subito. Io non dirò niente. Sarà come se avessi detto la verità».
Clary lo prese e se lo sistemò in bocca con uno schiocco sonoro. Poi se lo levò e guardò Polly. «Tu non lo faresti mai. Non diresti una bugia».
Si scambiarono un’occhiata, poi Polly disse: «Probabilmente hai ragione, lo ammetto. Ma non vuol dire che tu debba fare lo stesso».
«Tu però una bugia non la diresti». Si rimise in bocca l’apparecchio. «Ammiro molto il modo in cui sei fatta», disse ancora più rattristata. L’apparecchio cominciò subito a dolerle. Durante i pasti era un vero strazio. Prese l’asciugamano e starnutì.
«Non dovrai portarlo per sempre, e comunque sei molto brava a sopportarlo. Vedrai come sarai bella alla fine».
«Forse, ma non sarò mai buona come le principesse delle favole. Mi vedo meglio nel ruolo di sorellastra brutta e cattiva. O di cugina, magari».
«Senti che idea! Quando loro vanno a mangiare, ci portiamo la cena nel frutteto e facciamo una festa di mezzanotte sull’albero!».
«Sì! Aspetteremo che vengano a darci la buonanotte. Faremo finta di mangiare e invece nasconderemo tutto sotto le coperte, poi ce la svigneremo!».
Erano di nuovo amiche.
* * *
Rupert uscì frastornato dallo studio di suo padre e fece per raggiungere Zoë in camera da letto, poi cambiò idea e si diresse verso il salotto, sapendo che era vuoto, dato che la Duchessa ne consentiva l’uso solo la sera dopo cena. L’ambiente era fresco e pervaso da un odore delizioso e familiare di pesche mature: la Duchessa andava pazza per le pesche e d’estate in casa c’erano dappertutto grosse ciotole piene di frutti. Le tende erano ancora tirate: la Duchessa, rammaricata del fatto che la stanza non guardasse a nord, l’avvolgeva ogni giorno in una specie di sudario per tenere lontane le insidie del sole. Andò alla finestra e aprì le tende, che scattarono prontamente di lato rivelando un tramonto sontuoso, viola e arancione, attraversato proprio in quel momento da un treno che sbuffava da destra a sinistra in lontananza, un piccolo giocattolo nero. Aveva un disperato bisogno di parlare con qualcuno, ma quel qualcuno non poteva essere Zoë, perché sapeva esattamente cos’avrebbe detto e non lo avrebbe aiutato a risolvere il suo dilemma. «Il Generale mi ha chiesto di entrare nell’azienda». «Oh, Rupe, è un’idea meravigliosa!». «Mi ha solo chiesto di pensarci. Non ho ancora detto di sì». «E perché?». E così via. Avrebbe intravisto la fine dei loro problemi economici. Nemmeno per un attimo si sarebbe soffermata a pensare che, accettando, lui avrebbe rinunciato definitivamente a essere un artista e sarebbe diventato un uomo d’affari, cosa che non gli piaceva e in cui non era bravo. D’altra parte ormai dipingeva talmente poco: durante il semestre era troppo impegnato con l’insegnamento, e i giorni liberi li passava soprattutto con Zoë e i bambini o a risolvere i loro problemi. La loro macchina aveva ormai i giorni contati, questo era fuori di dubbio e, visto quanto erano costate le cure dentistiche per Clary, era difficile che fossero in grado di acquistarne una nuova in tempi brevi. Adesso che stava imparando a guidare, Zoë era determinata più che mai ad avere una macchina.
Se fosse entrato nell’azienda di famiglia, questo non sarebbe stato più un problema. Avrebbe potuto dipingere durante le vacanze. No, non era vero. Gli sarebbero spettate solo due settimane l’anno, più Natale e Pasqua, e se non riusciva a dipingere nelle lunghe pause scolastiche, figurarsi se sarebbe riuscito a farlo durante intervalli di tempo così brevi. E poi Zoë sarebbe voluta andare in località esotiche, a sciare e cose simili. Gli vennero in mente i pittori della domenica, e poi le distanze che aveva affrontato Gauguin per poter essere un artista. Forse io non sono affatto un vero artista, pensò. Un vero artista mette l’arte prima di tutto il resto. E io non lo faccio mai. Meglio mollare tutto. Avrebbe voluto che Rachel fosse tornata da Londra. Era lei la persona ideale con cui parlare. I suoi fratelli avevano entrambi le loro idee al riguardo, che gli avrebbero impedito di dargli buoni consigli. «Non devi decidere subito», gli aveva detto il Generale. «Pensaci. È una grossa decisione. Non c’è bisogno che ti dica che sarei molto felice che tu accettassi». Il povero vecchio era costretto ad andare in pensione, dopo aver combattuto la cecità con tutte le sue forze. Non voleva quelli che definiva degli “estranei” a capo della sua azienda. D’altra parte era difficile accettare un lavoro sapendo che il principale, se non l’unico, motivo per cui era stato scelto era il fatto di chiamarsi Cazalet. L’orologio a pendolo in corridoio suonò le sette. Doveva sbrigarsi a salire, se voleva fare il bagno prima di cambiarsi.
Aveva stabilito fra sé di non dire niente a Zoë, che se ne stava distesa sul letto a leggere l’ennesimo romanzo di Howard Spring. Ma quando si chinò per baciarla e chiederle come stava, lei disse solo: «Bene, grazie», senza staccare gli occhi dalla pagina.
E allora un puerile bisogno di stupirla e di avere la sua piena attenzione gli fece dire: «Il Generale mi ha chiesto di entrare nell’azienda».
Lei lasciò cadere il libro. «Oh, Rupe. È un’idea meravigliosa!».
«Non ho ancora detto di sì. Ho tempo per decidere».
«E perché?».
«Perché non ho deciso? Perché è una decisione molto seria e non sono sicuro di voler cambiare mestiere».
«E perché mai?».
«È un lavoro che prenderebbe tutto il mio tempo. Per il resto della mia vita», cominciò a spiegarle con pazienza. Lei allora si alzò a sedere, spostò la trapunta e corse da lui, gli gettò le braccia al collo e disse: «Lo so qual è il problema. Hai paura di non essere abbastanza bravo. Sei così... così...», si sforzò di trovare quella che secondo lei era la parola giusta. «...così modesto! Saresti un uomo d’affari fantastico! Tutti ti adorano. Saresti eccezionale».
Aveva fatto il bagno e aveva la pelle fresca, profumata di geranio. Lui si rese conto che la seduzione che esercitava su di lui aveva a che fare più con la forza della fedeltà che non con l’eccitazione. La baciò con una tenerezza che non provava davvero e disse: «Vado a fare il bagno. Una cosa: è un segreto. Non voglio discuterne in famiglia, né stasera né mai. Lo terrai per te?».
Lei annuì.
«Davvero, Zoë? Lo prometti?».
«Non dirò niente», disse nel suo tono più altero. Non sempre le andava a genio essere trattata come una bambina.
Mentre si truccava e si vestiva per la cena, Zoë pensò a come tutto sarebbe stato migliore se Rupert avesse smesso di fare l’insegnante e fosse diventato come i suoi fratelli. Potevano traslocare in una casa più bella – lei odiava Hammersmith –, comprare una macchina decente, mandare Clary in un buon collegio (l’aggettivo serviva a dimostrare quanto tenesse alla buona istruzione della bambina), uscire più spesso la sera, dato che Rupert non sarebbe stato più così stanco. Avrebbe dato feste e cene memorabili che avrebbero favorito la sua carriera. Ma soprattutto, sollevato dal costante cruccio di non avere abbastanza soldi, lui sarebbe tornato a essere il Rupert spensierato e allegro che aveva sposato. Perché in qualche modo si rendeva conto che la loro unione non era più la stessa di quattro anni prima, sebbene lei, Dio le era testimone, non fosse cambiata in nulla: nemmeno per un secondo aveva smesso di curare il proprio aspetto come invece capitava alla maggior parte delle altre donne, come Sybil, Villy e, soprattutto, quella creatura patetica che era la sorella di Villy. Ma nonostante tutti i suoi sforzi sentiva in maniera vaga, e con un senso di terrore che si coagulava in risentimento, che lui non la ricompensava più con la passione sconsiderata di un tempo. Certe volte aveva l’impressione che le potesse resistere, cosa che prima non le era mai parsa possibile. In presenza di altri era gentile con lei, mentre lo era meno quando erano da soli. Un tempo invece, quando erano a tavola con la famiglia, capitava che le dicesse frasi come: «Non essere ridicola, cara», oppure: «Zoë, che sciocchezze dici a volte!», e che affronto era per lei! I loro litigi per quel genere di cose, a quei tempi, si risolvevano puntualmente a letto, e in modo meraviglioso, ed era sempre lei che finiva per scusarsi di essere stata tanto sciocca o di non aver capito. Era sempre pronta ad ammettere i suoi sbagli. Invece ora lui non le diceva più quelle cose; era passato del tempo dall’ultima volta che l’aveva provocata o trattata con malagrazia, e la tenerezza di quelle riconciliazioni era ormai un lontano ricordo. Certo, un giorno sarebbe diventata vecchia e allora le cose sarebbero state diverse, o almeno così immaginava, ma c’era ancora un mucchio di tempo: aveva ventitré anni e si diceva che verso i trenta si diventasse più attraenti; lei poi, probabilmente, lo sarebbe stata più a lungo, vista la pena che si dava per restare bella. Studiò il proprio viso serio nello specchio sforzandosi di essere obiettiva: per prima avrebbe ammesso un qualche difetto, ma proprio non ne vedeva. Io voglio solo che lui mi ami, pensò. Non m’importa di nient’altro. Non sapeva che le bugie segrete sono quelle che durano più a lungo.
* * *
Tornato dalla partita a golf, Hugh passò un’ora a leggere per suo padre e poi giocò a tennis con Simon, accaldato e armato di pazienza. Nel servizio era molto incostante, ma nel rovescio stava acquistando sempre più sicurezza. Sybil si fermò a guardarli per un po’, poi se ne andò a fare il bagno e a dare da mangiare a Wills, che era affamato e irrequieto. Hugh sentiva la sua mancanza e la nube di moscerini che gli ronzava intorno alla testa gli impediva di concentrarsi. «Direi che per oggi può bastare, figliolo», disse finito il secondo set. Simon protestò per puro puntiglio, ma in effetti, sebbene avesse consumato una poderosa merenda, aveva una gran fame e mancava ancora un pezzo all’ora di cena, che quella sera sarebbe stata servita in sala da pranzo. Sgattaiolò in cucina per vedere se riusciva a farsi dare qualcosa da Mrs Cripps, che lo aveva in simpatia e ammirava il suo appetito. Hugh lo aveva lasciato chino sottorete, intento a raccogliere palle e racchette, e si era diretto con calma verso il roseto della Duchessa, dove vide in lontananza sua madre col grembiule di tela e un secchio in mano, intenta a decapitare le sue amate rose. Però non ho voglia di parlarle adesso, pensò, le fece un cenno di saluto e poi svoltò a destra sul sentiero di calcestruzzo che portava in casa. Passando davanti allo studio, sentì la voce di suo padre, poi una pausa, poi la voce di Rupert. Salì la ripida scala sul retro e andò in camera da letto, quella in cui era nato Wills e in cui era morta la figlia che non aveva mai conosciuto. Da una parte erano radunati in bell’ordine numerosi piccoli oggetti per bambini di un bianco abbagliante: Sybil gli stava facendo il bagno. Di solito gli piaceva guardare la scena, ma quella sera voleva star solo.
Si slacciò le scarpe da tennis e si allungò sul letto. La conversazione avuta a pranzo con Edward gli echeggiava ancora nella mente. C’era, eccome, il pericolo di una guerra. Tutte le cose che diceva Edward erano sensate ed erano quello che sostenevano tutti, lo sapeva, eppure non gli riusciva di tranquillizzarsi. Molti, almeno nella sua generazione, erano così atterriti dall’idea di un’altra guerra che si rifiutavano perfino di pensarci. Dai giovani non ci si poteva aspettare che capissero; quando il discorso cadeva sull’ultima guerra, al club o alle cene in città, se ne discuteva in toni esaltati e allegri: vecchie canzoni, cameratismo, la guerra che avrebbe messo fine a tutte le guerre – quella ragazza al caffè di Ypres, ti ricordi? Sì, quella col neo marrone sulla bocca... sì, era lei! – ma non si diceva mai niente che desse veramente l’idea di cosa fosse stato. Lui stesso, quando aveva uno dei suoi incubi legati al fronte – ormai gli capitava meno, ma gli capitava –, non scendeva mai nei particolari con Sybil. No, sull’argomento regnava un silenzio tenace, e lui da parte sua vi contribuiva. Ma una cosa era il silenzio su ciò che era stato, altra cosa era il generale rifiuto di prendere in considerazione i fatti. In Germania erano in corso reclutamenti da quasi quattro anni e nessuno ci trovava niente di strano. E poi c’era Hitler: gli ridevano dietro, lo chiamavano Schickelgruber, epiteto che trovavano esilarante nonostante fosse solo il suo vero nome, lo apostrofavano come semplice imbianchino, cosa che era stato in passato, lo bollavano come un personaggio non solo assurdo ma dappoco, sentendosi così autorizzati a non prenderlo sul serio. Ma era chiaro che i tedeschi invece lo prendevano sul serio, eccome. Quando Hitler, la primavera precedente, aveva marciato come niente fosse sull’Austria, la cosa lo aveva in un certo senso confortato, perché aveva pensato che adesso almeno sarebbero stati costretti a notarlo. Invece non era cambiato niente. C’era stato, in politica, un tale che aveva tentato di puntare il dito contro il regime nazista, ma era stato escluso dal Gabinetto senza complimenti. E Chamberlain, sebbene avesse un buon sostegno politico, non gli sembrava un uomo dal carisma tale da tirar fuori dalla sabbia la testa della gente.
Durante il viaggio di ritorno da Rye aveva fatto un nuovo tentativo di convincere Edward a rifletterci meglio, gli aveva domandato cosa pensava sarebbe successo in Cecoslovacchia, dove risiedeva una minoranza tedesca che, a quanto pareva, era il prossimo bersaglio dei nazisti. Edward gli aveva risposto che della Cecoslovacchia non sapeva niente, se non che erano bravi a fare le scarpe e il vetro, e che se in quel paese c’erano molti tedeschi era del tutto normale che il governo tedesco cercasse di allearsi con altri esponenti della propria razza, e la cosa non aveva nulla a che vedere con l’Inghilterra o con la Francia. Quando poi Hugh, che solo allora si rendeva conto di quanto suo fratello fosse ignorante di quelle questioni, gli fece notare che la Cecoslovacchia era una democrazia i cui confini erano stati decisi da Francia e Inghilterra col Trattato di Versailles e che dunque le sue sorti erano eccome affar loro, Edward aveva replicato in tono un poco irritato che chiaramente Hugh ne sapeva molto più di lui, ma che restava fermo il fatto che nessuno voleva un’altra guerra e che sarebbe stato stupido farsi trascinare da Hitler (secondo lui nient’altro che un omarino isterico) in una questione che riguardava assai più la Germania che la Gran Bretagna; del resto probabilmente ci sarebbe stato un plebiscito come nella Saar e l’intera faccenda si sarebbe appianata da sola. Aggiunse che non c’era motivo di agitarsi e si mise a parlare di come impedire al Vecchio di comprare quel grosso lotto di tek e iroko, di cui l’azienda non aveva bisogno e che avrebbe risucchiato troppo capitale. «C’è un altro carico fermo alla dogana nelle Indie orientali. Tutti quei tronchi prenderanno un sacco di spazio, per non parlare del mogano dell’Africa occidentale che abbiamo a Liverpool. Non credo proprio che riusciremo a piazzare tutto. Parlaci tu. Io non riesco a convincerlo».
E io nemmeno, aveva pensato Hugh, ma non lo aveva detto.
Aveva chiuso gli occhi e doveva essersi appisolato per alcuni secondi, perché quando li riaprì Sybil era sdraiata accanto a lui insieme a Wills avvolto in un asciugamano.
«Eccoci qui», disse Sybil adagiandolo sul letto. Hugh si tirò su a sedere e prese in braccio il piccolo. Profumava di sapone e aveva i capelli sulla parte posteriore della testa, lunghi e ribelli – secondo Rachel simili a quelli di un oscuro compositore –, ancora umidi. Sorrise a Hugh e gli piantò in viso le piccole dita dalle unghie sorprendentemente lunghe.
«Tienilo mentre gli prendo il pigiamino».
Hugh allontanò da sé la manina. «Buono, piccolo. È il mio occhio, quello!». Wills lo guardò risentito per alcuni secondi, poi lo sguardo gli cadde sull’anello con lo stemma che era al dito di suo padre e subito lo afferrò con forza per portarselo alla bocca.
«È bravo, non trovi?», disse Sybil, di ritorno con i pannolini.
Hugh l’accolse con sollievo. «Bravissimo!».
«Ci prende in giro», disse rivolta al bambino, dopo aver piegato il quadrato di stoffa e avercelo sistemato sopra. Il piccolo restò a fissare con benevola dignità i suoi genitori mentre le parti intime gli venivano avvolte nel cotone in vista della notte.
«Non ha un pensiero al mondo», disse Hugh.
«Oh, sì che ce l’ha! Ha perso la sua paperella mentre faceva il bagno. E in più detesta il cervello, e Nanny glielo prepara almeno una volta a settimana»».
«A me non sembra così terribile».
«I guai degli altri non lo sembrano mai», replico Sybil, poi aggiunse: «Non lo dicevo di te in particolare, caro, ma di tutti. Gli dai un’occhiata tu mentre prendo il biberon?».
«Che ne è di Nanny?».
«È andata a Hastings con Ellen. È il loro giorno libero. Andranno a vedere lo spettacolo di varietà al porticciolo. Poi andranno a prendere il tè e ordineranno una montagna di bignè e meringhe, e domani Nanny avrà un attacco di bile».
«E tu come lo sai?».
«Succede ogni settimana. Le bambinaie devono avere un lato infantile, altrimenti non sarebbero brave a giocare con i piccoli. E lei è un’ottima bambinaia».
Quando Sybil uscì, Wills si accigliò e cominciò a farsi rosso in viso, così Hugh lo prese in braccio e gli mostrò come funzionavano gli interruttori della luce elettrica, facendogli tornare all’istante il buonumore. Hugh si ritrovò a fantasticare che Wills, crescendo, diventasse uno scienziato. Avrebbe potuto fare qualunque cosa, anche il mercante di legnami, ma avrebbe scelto liberamente, senza essere spinto nell’azienda di famiglia, come sentiva che era capitato a lui. La guerra, di nuovo. Gli pareva che la guerra si fosse presa tutta la sua giovinezza. Prima c’era stata l’infanzia, e il tempo era scandito da leggendarie vacanze e dai semestri scolastici, che erano sopportabili solo in vista degli intensi periodi di vita in famiglia e soprattutto del tempo da passare in casa con Edward (in ossequio a un principio che lui ancora non capiva, erano stati mandati in due scuole diverse). Lui aveva ottenuto buoni risultati, ma aveva odiato la scuola. Edward invece era un pessimo studente, ma non se ne era mai fatto un cruccio. Poi c’era stato l’ultimo semestre, la prospettiva di una lunga eccitante estate e poi quella ancora più eccitante di Cambridge. Tutto era andato in pezzi in agosto.
A settembre si era arruolato nelle Coldstream Guards; Edward scalpitava per seguirlo, ma aveva solo diciassette anni e gli avevano detto che doveva aspettare ancora un anno. Così era andato presso il Corpo dei Mitraglieri, aveva mentito sulla sua età e si era arruolato. In capo a pochi mesi erano al fronte, in Francia. Nei quattro anni che seguirono lui e Edward si videro solo due volte. Una volta su una strada piena di fango vicino Amiens: i loro cavalli avevano cominciato a nitrire uno in direzione dell’altro prima che loro due si riconoscessero; l’altra quando Hugh venne ferito e Edward riuscì in qualche modo a fargli visita in ospedale prima che fosse rispedito in Inghilterra. Edward, che a nemmeno ventun anni aveva raggiunto il grado di maggiore, era entrato in corsia con la massima disinvoltura, strappando sorrisi alle infermiere e dicendo a una di loro, una donnona che non sorrideva mai: «Si prenda cura di lui, è mio fratello», al che quella, ringiovanita di colpo di dieci anni, aveva replicato: «Ma certo, maggiore Cazalet!». «Come ti sei procurato un pass?», gli aveva chiesto Hugh. Edward gli aveva fatto l’occhiolino. «Macché pass! Gli ho detto solo: “Io sono E D W A R D”, e loro mi hanno fatto entrare, con molte scuse». Hugh era scoppiato a ridere ma si era ritrovato subito dopo a piangere inconsolabilmente, mentre Edward gli sedeva accanto tenendogli la mano superstite e asciugandogli la faccia con un fazzoletto di seta che odorava di casa. «Povero ragazzo! Sono riusciti a toglierti tutte le schegge dalla testa?». Lui aveva annuito, ma naturalmente non era vero: alcuni frammenti erano rimasti dentro e avrebbe dovuto tenerseli per tutta la vita. Strano a dirsi, ma allora erano state le costole rotte a fargli più male, mentre il moncherino – la mano amputata – era stato un dolore più che altro dell’anima. Non che non facesse male, ma gli avevano dato massicce dosi di morfina, e il momento peggiore era stato quando glielo avevano fasciato. Non sopportava che lo toccassero, l’unico modo in cui riusciva a sopportarlo era non guardare. Mentre applicavano le bende il moncherino gli doleva, gli prudeva, era scosso da spasmi; in certi momenti gli pareva di avere ancora la mano. Eppure, nulla di tutto ciò gli sembrava degno di nota in confronto alle cose che aveva visto. Adesso guardava il moncherino rivestito di seta nera con un piccolo cuscinetto in punta e pensava alla fortuna incredibile che gli era capitata.
Quando Edward si era alzato per andarsene, lo aveva baciato – una cosa che d’abitudine non facevano mai – e gli aveva detto: «Abbi cura di te, fratello». «Anche tu», aveva risposto Hugh, trattenendo l’emozione. «Puoi starne certo». E si era incamminato lungo la corsia senza guardarsi indietro. Hugh era rimasto a guardare le porte a vento in fondo alla sala oscillare leggermente dopo che Edward le aveva attraversate, e aveva pensato: È un mondo schifoso. Non lo rivedrò mai più. Poi si era accorto di avere ancora il fazzoletto appallottolato nella mano sinistra.
In seguito lo avevano trasferito in un ospedale in Inghilterra, un casale di campagna convertito in centro per convalescenti; poi le costole e il moncherino erano guariti, le micidiali emicranie e gli incubi e i sudori freddi si erano calmati ed era stato rispedito a casa debole, depresso, irritabile, stanco e troppo vecchio per interessarsi di alcunché. Aveva ventidue anni. Edward naturalmente era tornato a casa senza un graffio, a parte qualche problema ai polmoni a causa dei gas che ristagnavano per settimane nelle trincee e un dito del piede amputato per congelamento; la cosa singolare era che non sembrava per nulla cambiato, era lo stesso di quando erano partiti per la Francia, pieno di energia e di voglia di scherzare e di star fuori a ballare tutta la notte per poi presentarsi al lavoro fresco come una rosa. Le ragazze gli cadevano ai piedi, aveva sempre matite d’oro e braccialetti con inciso BETTY o VIVIEN o NORAH, andava di continuo a passare i fine settimana in campagna, a giocare a tennis, a caccia, alle feste, non faceva che incontrare genitori di ragazze con cui si fidanzava con leggerezza, per poi uscirne libero e sorridente. Della guerra non parlava mai. Per lui era stato come un collegio un po’ più duro degli altri, in cui morte e mutilazione sostituivano le abituali angherie degli studenti più grandi, e da cui ormai era fuori, asceso a un’eterna vacanza. L’unica occasione in cui Hugh ricordava di averlo visto vacillare era stato quando si era innamorato di una ragazza sposata con un invalido permanente in seguito ai bombardamenti. Aveva proprio perso la testa per lei – gli pareva si chiamasse Jennifer –, ma poi aveva conosciuto Villy e tutto si era sistemato, anche se c’era voluto un po’ di tempo. E poi lui aveva incontrato Sybil e si era innamorato di lei al punto di perdere del tutto la nozione di quanto gli accadeva intorno. Sybil! Gli aveva cambiato la vita: incontrarla era stata la cosa più incredibile che...
«Scusa se ci ho messo tanto. Si era scaldato troppo e ho dovuto raffreddarlo». Lasciò cadere qualche goccia di latte sul dorso della mano. «Dallo a me, o finirà per innervosirsi». Hugh baciò la nuca del suo bambino – i capelli gli si andavano asciugando in teneri ricciolini – e poi, mentre glielo passava, baciò sua moglie sulla bocca.
«Caro... a cosa devo tante attenzioni?». Prese il bambino, che intanto aveva cominciato a protestare, e si sedette in poltrona.
«Ripensavo a quando ci siamo conosciuti».
«Oh. Quello!». Gli lanciò uno sguardo critico e pudico insieme.
«Il giorno più fortunato della mia vita. Senti, forse con questo caldo non ti va di venire in città. Per una sola notte, poi».
«Ma certo che mi va». In realtà ne avrebbe fatto volentieri a meno. Non che le mancasse la voglia di stare con lui, ma odiava separarsi da Wills, e Londra, dopo la campagna, era un inferno di caldo e cattivi odori.
«Sei sicura? Perché posso cavarmela benissimo da solo».
«Sono sicura». Sybil sapeva con certezza che Hugh aveva bisogno di lei.
«Ti porto a vedere i Lunt. O preferisci la commedia di Emlyn Williams?».
«Mi vanno bene entrambe le cose. Tu cosa preferisci?».
«Non m’importa». Avrebbe preferito mangiare in santa pace insieme a lei senza andare da nessuna parte. «È iniziata la stagione delle ostriche. Possiamo andare da Bentley, prima. Sarà una splendida serata».
In quella loro gara di reciproca dedizione, era uno scacco matto.
* * *
Sid prese il cinquantatré all’angolo di Trafalgar Square e salì al piano di sopra, dove si sedette davanti, dopo aver pagato i quattro penny del biglietto, sperando di non essere disturbata. Si accomodò sul sedile, si soffiò il naso e si sforzò di essere ragionevole, come avrebbe detto Rachel. Quello che invece provava, e che provava sempre in quei casi, era un amaro e costante risentimento, di un’intensità che andava a tutti i costi celata alla sua amata R. Il vecchio Generale stava diventando cieco, poveretto, e poteva capire che per lui fosse terribile, ma non capiva per quale motivo Rachel dovesse essere l’unica a farsene carico. Era sposato, no? La Duchessa avrebbe potuto fare la sua parte, per una volta. Quell’idea non sembrava sfiorare mai nessuno di loro. La Duchessa era perfettamente in grado di leggere per lui, di scrivere sotto dettatura se necessario, di aiutarlo con la corrispondenza e di accompagnarlo in giro. Perché Rachel doveva sentire su di sé il peso intero della dipendenza dei suoi genitori? Perché non capivano che anche lei aveva diritto a una vita sua? Quel giorno aveva accennato perfino alla possibilità di lasciare la Casa dei Bambini, perché ormai il Generale assorbiva una quantità tale del suo tempo da non averne più a sufficienza per poter fare il suo lavoro come si deve. E se lasciava quell’impegno, non avrebbe più avuto valide scuse per allontanarsi durante quelle interminabili vacanze. Del resto era questa la sorte che la mentalità inglese vittoriana assegnava alle donne nubili. Per un secondo Sid provò a immaginarsi Rachel sposata, e perciò libera da quella sorte meschina, ma il pensiero che qualcun altro – un uomo – la toccasse le risultava ancora più insopportabile. Sarebbero nati dei bambini, e Rachel non se ne sarebbe mai liberata. Se però il marito fosse morto o fosse scappato con un’altra, lei allora avrebbe potuto darle una mano coi figli e avrebbero avuto la possibilità di vivere insieme. No, non l’avrebbero avuta: ci sarebbe stata comunque Evie, con la sua salute malferma, la sua dipendenza, la sua tendenza a infatuazioni senza speranza per uomini del tutto inadatti a lei che o non avevano idea dei suoi sentimenti o, quando ce l’avevano, scomparivano all’istante. Come lei stessa sottolineava con frequenza, Evie non aveva che Sid al mondo. Per una ragione o per l’altra non riusciva mai a tenersi un lavoro; era gelosa della vita di Sid, anche quando non inficiava in alcun modo la sua. Non aveva un soldo, ed entrambe campavano a stento di quel che Sid guadagnava a scuola e con le lezioni private, con l’aggiunta dei pochi spiccioli saltuari che Evie riusciva con gran fatica a mettere insieme. Dalla madre avevano avuto in eredità l’appartamento a Maida Vale e nient’altro. No, anche lei era legata, legata materialmente e forse ancor più inestricabilmente di Rachel. Ma di Rachel non aveva la bontà d’animo: detestava i propri vincoli, e non era sicura che, se Rachel fosse stata libera, non avrebbe trattato assai male Evie, lasciandole la casa e dicendole di sbrigarsela da sola. Rachel però non lo avrebbe mai permesso. Le passò davanti agli occhi la faccia di Rachel nella sala da tè, quando le aveva detto: «Non c’è nessuno con cui voglia stare più che con te». Sul momento l’aveva commossa e riempita di spensierato buonumore, ma adesso quella dolente dichiarazione le arrivava al cuore, come un balsamo. Ama me. Tra tutti, è me che ha scelto di amare. Che altro posso volere? Niente, accidenti.
Quel senso di pienezza e soddisfazione l’accompagnò durante la brutta e caldissima serata che seguì: Evie aveva preparato un pasticcio di pesce che sapeva di panni bagnati, l’aveva sommersa di domande su come avesse trascorso la giornata e alla fine, mentre Sid preparava un caffè come si deve, aveva frugato nella sua borsa in cerca di sigarette (ne era sempre a corto, ed era troppo pigra per andare a comprarle) e aveva trovato il pezzo di torta di noci. «Perché accidenti ti tieni questa roba nella borsa? Oh... torta di noci! Adoro la torta di noci. Te l’ha data Rachel? Non ti dispiace vero se ne prendo un morso, un pezzettino soltanto... lo so che è veleno per l’ulcera, ma ne ho una tale voglia!». E poi se l’era mangiata senza staccare da Sid gli occhi pallidi, ansiosi e furbi, in cerca di una traccia di sofferenza o di rabbia. Sid non le concesse nessuna delle due cose. Quando sentiva venir meno la compassione e l’affetto, faceva ricorso a quel tono di voce disinvolto e un po’ incerto, e riusciva a proseguire con imperterrita gentilezza.
Dopo cena portarono il vassoio del caffè nel loro angusto e poco arieggiato soggiorno, dove il pianoforte a coda lasciava a malapena spazio a due piccole logore poltrone. L’aria era talmente viziata che Sid dovette aprire la porta finestra che affacciava sul giardinetto. Conteneva un albero di lime e un quadratino di prato che non falciava da settimane. Sulle aiuole strette sotto il muro di mattoni neri crescevano epilobi e aster, e il sentiero ricoperto di ghiaia che separava le aiuole dal prato era invaso da tarassaco e centonchio. Nessuna delle due usava il giardino né se ne curava. La balaustra della scala che dalla finestra scendeva all’aperto era arrugginita, la vernice tutta scrostata andava rimossa. Se non la invitavano a Home Place, rifletté Sid, bisognava proprio che durante le vacanze si dedicasse a un po’ di manutenzione domestica. Non aveva detto nulla a Evie di quella così allettante possibilità perché, nel caso in cui non se ne fosse fatto nulla, la sua delusione e le mille illazioni che avrebbe fatto le sarebbero risultate intollerabili. E poi, certo, c’era la possibilità che Waldo non andasse in tour. I membri di religione ebraica dell’orchestra erano restii ad andare in alcuni dei paesi europei previsti, e sembrava probabile che il tour venisse ridimensionato, se non proprio cancellato. In tal caso, Evie sarebbe voluta rimanere a Londra, e a Sid sarebbe toccato restare con lei. Voltò le spalle all’aria torrida e polverosa del giardino per respirare il calore ancora più stantio della stanza e domandò se ci fossero novità riguardo al tour.
«Non mi ci porta! Gliel’ho chiesto esplicitamente stamattina. Credo sia per colpa di sua moglie. È terribilmente gelosa, non fa che entrare nella stanza mentre lui mi detta da scrivere. Davvero ridicolo!».
E lo era, in effetti. D’altronde, rifletté Sid, non ci si poteva aspettare che quella poveretta sapesse riconoscere quelle reali tra le mille potenziali minacce al suo matrimonio, dato che suo marito era famoso per i tradimenti: oltre alle scappatelle senza seguito gli erano attribuite due amanti stabili, una delle quali conosciuta proprio all’estero. Evie pareva l’unica a non sapere di queste due signore, o meglio a rifiutarsi di credere a quelli che definiva maligni pettegolezzi. In realtà Evie pensava che la moglie, un’ex cantante d’opera di nome Lottie, facesse di tutto perché certe ipotesi rimanessero, appunto, ridicole. Waldo baciava ogni donna che gli si trovasse abbastanza vicino, e naturalmente aveva baciato anche Evie, la quale poi non aveva resistito alla tentazione di dirlo a Sid. Questo era accaduto sei mesi prima, e da allora per Evie le estreme difficoltà della situazione erano tutto ciò che si metteva fra lei e la felicità cosmica. (Estreme difficoltà tra cui la propensione al sacrificio di Waldo: la fosca e corpulenta Lottie, secondo Evie, era la croce di quell’uomo nobile).
Evie sedeva rilassata sulla poltrona, sul cui bracciolo stava in bilico una scatola di cioccolatini al caffè verso la quale ogni tanto allungava una mano, cercava a tastoni e poi ne ingollava uno. Ne era golosissima ed era soggetta a frequenti attacchi di bile che poi, così come la carnagione giallastra e la pelle grassa, si rifiutava di riconoscere come conseguenze di quella debolezza. Era fermamente determinata, in quello come nella vita affettiva, a non imparare dall’esperienza. È un mostro, pensava Sid, ma lo pensava con un istinto di protezione. Sin da quando Evie era nata, e lei aveva quattro anni, era stata indotta a pensare che sua sorella fosse vittima di circostanze avverse: si ammalava spesso, aveva avuto una brutta forma di morbillo da piccola e poi appendicite e peritonite, e tutto questo aveva indebolito la sua fibra rinforzando invece la sua attitudine alla manipolazione, al punto che, qualunque cosa facesse o non facesse, poteva star certa di ottenere tutte le attenzioni, e come conseguenza di questo viveva in un perenne stato di insoddisfazione.
Adesso stava sbadigliando – ogni sbadiglio iniziava prima ancora che finisse il precedente – ed esclamando, col vocione stentoreo che a volte ha la gente mentre sbadiglia, che era certa fosse in arrivo un temporale. «Hai detto che mi tagliavi i capelli», aggiunse. Si passò con languore una mano sulla frangetta. «È davvero troppo lunga. Solo che non la vorrei così corta come l’altra volta».
«Be’, stasera non ne ho proprio intenzione. E poi... vorrei tanto che andassi da un parrucchiere vero. Io riesco a fare al massimo un taglio a scodella».
«Lo sai che odio fare questo genere di cose da sola! E tu dal tuo non mi fai andare».
«Evie, per la centesima volta, io non vado da un parrucchiere per signora. Non tagliano i capelli alle donne».
«A te li tagliano».
A questo Sid non replicò, ed Evie proseguì: «Se volessi un taglio à la garçonne, un parrucchiere per signora te lo farebbe».
«Non voglio un taglio à la garçonne. Li voglio semplicemente molto corti. Sta’ zitta, Evie».
Evie sporse il labbro inferiore in un silenzio imbronciato, durante il quale si udì distintamente il rombo di un tuono. Sid si alzò di nuovo e andò alla finestra. «Dio, come vorrei che piovesse! Ripulirebbe un po’ l’aria».
Esattamente come Sid aveva previsto, Evie continuò a tenere il broncio finché lei non fece il primo passo, proponendole una partita a bazzica che accettò con sussiego. Tre mani al massimo, pensò Sid, poi me ne posso andare a letto e scrivere a lei.
«Non posso tagliarti i capelli con questo tempo», osservò. «Ti ricordi che mamma nascondeva tutti i coltelli nell’impermeabile? Era convinta che la gomma respingesse i fulmini».
Evie sorrise. «Era così ansiosa! Le scale a pioli, la luna nuova, i gatti neri... povera mamma, che vita terribile ha avuto! Anche noi avremo ereditato qualcosa... io di certo. Mi vengono certe ansie! Per esempio, stasera ho creduto che non saresti tornata. Che Rachel ti avesse invitata nel Sussex e tu ci fossi andata senza dirmi niente».
«Ma Evie, quando mai ho fatto una cosa del genere?».
«Potresti sempre farlo, no? Adesso che non c’è più la mamma, siamo noi due e basta. Mi resti solo tu, Sid. Se mai dovessi sposarmi, lo farei solo con un uomo che sia pronto ad accogliere anche te».
«Preoccupiamocene quando sarà il momento, cara».
«So che tu non ci credi, ma le cose straordinarie accadono. C’è sempre il destino...». Il gioco fu abbandonato perché Evie prese a parlare delle sue speranze e paure – che Sid tendeva a considerare pure fantasie – riguardo a Waldo. Andarono a letto due ore dopo.
* * *
Dopo che ebbe fatto il bagno e si fu cambiato per la cena, Edward annunciò che avrebbe fatto un salto al pub per comprare le sigarette. Villy gli aveva detto che ne aveva abbastanza per entrambi, ma lui aveva replicato che era meglio andare sul sicuro. In realtà voleva telefonare a Diana. Dovette comunque ordinare del gin per farsi dare il resto e infilare gli spiccioli nel telefono che Mr Richardson aveva da poco installato per i clienti. Si trovava in un corridoio buio che portava al bagno degli uomini, non certo il massimo della riservatezza, ma meglio che niente. Diana rispose al telefono proprio quando lui cominciava a pensare che forse non era in casa.
«Sono io», le disse.
«Oh, caro! Scusa se ci ho messo tanto. Ero in fondo al giardino».
«Sei sola?».
«Per il momento. E tu?».
«Sono al pub. In mezzo al corridoio», precisò per farle capire che non si trovava in un luogo privato.
«Volevi dirmi qualcosa riguardo a domani?».
«Sì. Arriverò sul tardi, purtroppo. Probabilmente intorno alle nove. I ragazzi?».
«Ian e Fergus sono su al nord con la nonna».
«E Angus?».
«È con loro. Fino alla fine della settimana. Siamo solo io e Jamie».
«Evviva!».
«Come?».
«Evviva. Bene. Sai cosa voglio dire».
«Immagino di sì. Ti amo».
«Per me è lo stesso. Adesso devo andare. Abbi cura di te».
Mentre tornava in macchina a Mill Farm, si ricordò che non aveva comprato le sigarette; poi gli venne in mente che c’erano venti Gold Flake nel vano portaoggetti dell’auto. Era davvero un uomo fortunato. Finché lei non veniva a saperlo, non c’era niente di male in ciò che stava facendo, ma scivolare su una piccolezza del genere sarebbe stato imperdonabile e stupido.
* * *
Mangiarono tutti e quattordici intorno all’immenso tavolo retto da tre piedistalli e dotato di tutte le prolunghe, e anche così si stava stretti. Furono serviti quattro polli arrosto, salsa, purè di patate, fagiolini e per finire torta di prugne e blancmange. Gli adulti bevvero del rosso e i bambini acqua. Parlarono di ciò che avevano fatto durante la giornata. Rupert raccontò in modo assai buffo di Neville e della sua medusa. «Bexhill?», disse la Duchessa asciugandosi gli occhi (piangeva sempre, quando rideva). «Come diavolo gli è venuto in mente di chiamarla Bexhill?». Rupert, sebbene non pensasse ad altro, non fece parola della proposta del Generale. Edward raccontò di come Teddy avesse abilmente sparato a un coniglio, e Teddy arrossì un poco, raggiante; naturalmente Edward non disse nulla della sua telefonata. Hugh fece l’imitazione del suo caddy che imitava lui che giocava a golf con una mano sola; alle sue ansie riguardo alla situazione politica non accennò. Rachel fece una vivace descrizione del presidente della Casa dei Bambini, quasi sordo e secondo lei con qualche rotella fuori posto, che aveva presieduto la riunione senza sapere di preciso di quale opera di carità si discutesse. «Per la prima mezz’ora ha creduto che si trattasse di un ricovero per cavalli ritirati dalle competizioni. Solo quando si è messo a parlare di beveroni di crusca e di regolare la somministrazione di vermicidi, la direttrice si è resa conto che c’era un equivoco!». Non fece menzione del suo incontro con Sid, in seguito al quale, in treno, aveva trattenuto le lacrime con una fatica tale che le era venuto il mal di testa. Il Generale raccontò due lunghi aneddoti: uno su quando era in Birmania e aveva conosciuto un tipo davvero interessante che, aveva scoperto poi, era amico di una tale che lui aveva incontrato in Australia occidentale (le coincidenze di cui pullulava la sua lunga vita non cessavano mai di stupirlo e confonderlo), e un altro sul Canale di Suez, a proposito del quale Edward gli fece notare che l’avevano già sentito tutti, ma lui disse non fa niente, lo racconto un’altra volta, e così fece. Fu un lungo racconto, e non tutti finsero di ascoltare.
Zoë e Angela si osservavano a vicenda. Zoë aveva capito subito che Angela aveva messo gli occhi su Rupert, e la studiò con maggior attenzione. Bisognava ammettere che era molto graziosa, se a uno piacevano le bionde dagli occhi azzurri slavati. Era alta e aveva un’ossatura robusta, come sua madre, e un lungo collo bianco ben tornito, che la povera vecchia Jessica ormai non aveva più. Di Jessica aveva anche gli zigomi e il taglio scultoreo della bocca, su cui aveva applicato del rossetto rosa acceso che le stava venendo via man mano che mangiava. Era chiaramente affascinata da Rupert, il quale, grazie a Dio, pareva del tutto ignaro della cosa, ma incrociò lo sguardo di Zoë senza la minima esitazione. È solo una ragazzina, pensò Zoë con misto di disprezzo e sollievo.
Angela, che non vedeva Zoë da due anni, era sconcertata dal fatto che non fosse per nulla cambiata. In quel periodo lei, Angela, era cambiata tanto che dava per scontato che a Zoë fosse successo lo stesso, invece non mostrava alcun segno d’invecchiamento. Era stupenda ed elegante come sempre, ma grazie ai romanzi che aveva letto, Angela sapeva con ragionevole certezza che lei non lo comprendeva, Rupert, e allora il suo aspetto fisico non aveva così tanta importanza. Il Generale finì il suo aneddoto; non aveva ancora espresso la sua soddisfazione per essere riuscito a provvedere a un alloggio estivo per tutta la sua famiglia, il che, con la quantità di legname che aveva dovuto ordinare per i rivestimenti esterni, era davvero...
Christopher e Simon rovesciarono i loro bicchieri d’acqua e Simon fece cadere anche la salsa, eppure nessuno, notò Christopher, fece commenti sarcastici al riguardo. Quando accadde l’incidente della salsa incrociò gli occhi di Simon e gli sorrise con simpatia. Simon lo elesse all’istante il suo commensale preferito. Quando poi si parlò della fine delle vacanze – ormai mancavano meno di tre settimane, e lo stomaco di Simon si strinse in una fitta di terrore – i loro sguardi s’incrociarono di nuovo, e quello di Christopher esprimeva comprensione e rammarico. In quel momento Christopher diventò il suo eroe. Quando poi Simon sorrise e rispose mentendo alla sciocca domanda di zia Jessica – se era felice (felice!) di andare alla nuova scuola – l’altro gli fece l’occhiolino, un gesto che Simon apprezzò enormemente.