Villy, che si era dedicata in modo meticoloso a tagliare i polli, dando a tutti il pezzo desiderato e spartendo i petti fra Teddy, Louise, Nora e Simon, fu piuttosto taciturna. Il tranquillo pomeriggio in compagnia di Jessica l’aveva curiosamente prosciugata di ogni energia: il peso dei non detti – i suoi almeno – le gravava dentro come un’indigestione. Sentiva che Jessica la invidiava, e avrebbe voluto essere in grado di dirle che il letto di rose non era privo di spine. Avere tanto da fare non era poi un gran male, rifletté Villy. Jessica non aveva il tempo di domandarsi cosa ci faceva al mondo, di annoiarsi, di vergognarsene, di concepire fantasie di eventi catastrofici che le fornissero l’opportunità di fare qualcosa e di essere qualcuno. Ma oltre a quei sentimenti generali, c’era un fatto particolare che voleva discutere con Jessica e che aveva cercato di evitare per tutto il pomeriggio perché temeva una reazione negativa da parte di sua sorella, anche se per ragioni diverse da quelle che avrebbe attribuito a Sybil, per esempio, o a Rachel... Rachel! Quella donna era davvero convinta che la nascita di un bambino fosse la cosa più bella del mondo. Si trattava di questo. Aveva saltato il ciclo il mese prima e ora aspettava il successivo, ma era abbastanza sicura di essere incinta e la prospettiva la terrorizzava. Dopotutto aveva quarantadue anni: non voleva ricominciare da capo con quello che sarebbe stato a conti fatti un figlio unico – Lydia aveva sette anni. Ma che cosa si doveva fare quando non si desiderava un figlio? Certo, sapeva che esistevano persone in grado di risolvere il suo problema, ma dove accidenti si trovavano? Le era venuto in mente che forse Hermione avrebbe potuto indirizzarla da qualcuno, ma non voleva confidarsi con lei. E poi non era ancora del tutto convinta della sua decisione; si stava aggrappando all’idea che forse si era sbagliata. Decise di aspettare il ciclo e, se fosse saltato di nuovo, sarebbe andata dal dottor Ballater.
Nora, che era golosa di natura, decise di sacrificare alla gloria del Signore la seconda porzione di torta alle prugne. Prese questa decisione quando era a metà della prima fetta, poi dovette riconoscere che probabilmente Lui sarebbe stato più contento se non avesse mangiato nemmeno quella. “Ma una è sempre meglio che due, no?”. (Cercava sempre di strappargli un sorriso). Ma di certo il Signore avrebbe capito che, se Nora non avesse saputo quanto era buona quella torta, non avrebbe potuto fare un sacrificio consapevole. Ma anche questo non era credibile: a Home Place era tutto buono, era come se fosse domenica tutti i giorni. Mamma era una cuoca coi fiocchi, solo che aveva meno cose con cui cucinare, il che d’altra parte voleva dire meno occasioni di fare penitenza. Il buon senso le suggeriva di mangiare il necessario per tenersi in vita, e così faceva. Sentiva che il buon senso non le mancava, mentre desiderava con ardore un altro genere di saggezza, delle certezze di natura mistica. Parlava molto con Dio, Lui però non le rispondeva mai. Cominciava a temere che Dio la trovasse noiosa, il che sarebbe stato un grosso guaio, dal momento che Dio, a detta di tutti, non s’interessava di come uno appariva ma di come era dentro. E mamma le aveva sempre detto che non bisognava mai e poi mai essere noiosi. La sua fetta di torta se la stava mangiando Christopher; per lui era la terza, ma Nora sapeva che, dopo aver dato di stomaco, gli veniva una gran fame, e non gliene ebbe a male. Angie aveva mangiato la frutta e lasciato il dolce. Be’, se era vero che non gli importava di come uno appariva, Dio di sicuro si sarebbe annoiato con Angela. Spostò lo sguardo su Louise, seduta di fronte a lei. Avevano trascorso un meraviglioso pomeriggio sulle loro brande a scambiarsi segreti, anche se molti dei suoi lei non li aveva confidati, e di certo nemmeno Louise. Ma comunque nulla di ciò che si erano dette poteva essere condiviso con la famiglia; di sicuro le loro madri ne sarebbero rimaste sconvolte perché, per assurdo che fosse, loro due erano considerate ancora bambine.
Quando della torta di prugne non rimasero che le briciole, i commensali più giovani cominciarono a scalpitare per alzarsi da tavola: Simon, Christopher e Teddy non vedevano la ragione di stare seduti a un tavolo dopo che tutto il cibo era stato spazzato via; Louise e Nora non vedevano l’ora di riprendere la loro conversazione privata; Angela desiderava che Rupert avesse una visuale di lei più ampia di quella che poteva offrirgli stando seduta. Anche le signore erano pronte ad alzarsi, perché il Generale aveva attaccato a parlare dello stilton che gli piaceva tanto – Christopher pensò che era davvero gentile da parte sua lasciare che le larve continuassero a mangiarlo – e delle sue opinioni su Mr Chamberlain, che lui non riteneva un primo ministro all’altezza di Mr Baldwin, suo predecessore. A sorpresa la Duchessa intervenne per dire che Mr Baldwin non le era mai piaciuto, ma che non per questo riteneva che Mr Chamberlain rappresentasse un passo avanti. Al che Rupert osservò: «Mamma cara, sappiamo tutti che l’unica persona che tu apprezzi davvero è Toscanini e, dato che il popolo inglese non lo accetterà mai come primo ministro, sei destinata a continue delusioni», e proprio quando la Duchessa stava per ribattere che nemmeno lei era tanto sciocca da aspettarsi una cosa del genere, il tuono che aveva borbottato in lontananza, a intervalli fino a poco prima, esplose all’improvviso sopra le loro teste. Sybil balzò in piedi per andare a controllare che Wills non si fosse svegliato, e le donne e i bambini vi videro il segnale giusto per alzarsi e lasciare il Generale e i suoi eredi maschi al loro porto.
Nel vestibolo si sentiva la pioggia picchiare contro il lucernario e dopo qualche minuto Louise e Nora, mentre frugavano in giro alla ricerca di impermeabili da indossare per tornare a casa, s’imbatterono in Polly e Clary che rincasavano con le camicie da notte fradice. «Dove siete state?», domandò Louise, anche se lo sapeva già. A fare una festa di mezzanotte da qualche parte, come avevano fatto l’anno prima lei e Polly.
«A una festa di mezzanotte», rispose Polly. «Dove sono tutti? Dobbiamo rientrare senza che ci vedano». Pensò con rammarico che Louise faceva parte degli adulti e difficilmente avrebbe retto loro il gioco.
* * *
Smise di piovere sul far del mattino, e la giornata iniziò in una nebbia biancastra. Fu deliberato che non era la giornata adatta per andare in spiaggia. Clary si sforzò di accendere l’indignazione generale verso tale decisione, ma, nonostante fossero tutti d’accordo che era un’ingiustizia, nessuno sembrava tenerci abbastanza da fare qualcosa. «Tanto che possiamo fare? Guidare noi no di certo», le fece notare Polly. Zia Rachel disse che a Mrs Cripps servivano molti mirtilli per fare la marmellata e che chi ne avesse raccolti di più avrebbe vinto un premio, così i sette ragazzi più grandi uscirono armati di scodelle e cestini. Durante la notte era morta Bexhill; sulle prime Neville si rifiutò di credere a Ellen, ma zia Villy, accorsa per vedere la viscida massa biancastra immobile nella vasca da bagno, disse che purtroppo non c’erano dubbi.
«Però non ha sofferto, vero? O invece sì?», domandò Judy tutta seria.
Villy si affrettò a dire che no, di sicuro non aveva sofferto.
«E allora che è successo?», chiese Neville. «Ha smesso di vivere e basta?».
«Ha reso l’anima», disse Lydia. «È morta. Succede a tutti». Aveva l’aria piuttosto spaurita. «È una cosa assolutamente normale. O si viene ammazzati, oppure a un certo punto si muore. Si smette di essere al mondo. Non si può evitare. Si diventa... aria».
Per mettere fine a quei discorsi lugubri Villy suggerì di organizzare per Bexhill un funerale in piena regola. Questo parve rallegrare tutti, e il resto della mattinata fu speso in preparativi.
* * *
Mrs Cripps era seduta nella sua cucina e stava offrendo biscotti secchi a Tonbridge, che era venuto per una visita di metà mattina. Biscotti secchi, insieme a una spalla su cui piangere, erano quello che ci voleva per la sua ulcera, esacerbata dall’ostinazione della moglie a voler cucinare cibi fritti per colazione. Mrs Cripps non fece commenti sulla Tonbridge, ma ricevette l’informazione con un interesse neutrale che tuttavia non lasciava dubbi su cosa pensasse dell’intera faccenda.
«È il silenzio, sa. Le dà così sui nervi».
«Capisco». Aprì il «Sunday Express» sul tavolo immacolato. «ANCORA UNA SETTIMANA PER RISOLVERE LA CRISI», lesse. «DEBOLI SPERANZE». Poi ci rovesciò sopra un secchio di fagiolini. «Ne vuole un’altra tazza?».
«Perché no». Mrs Cripps andò alla stufa e versò l’acqua nella teiera dal grosso bollitore. Aveva un bel petto Mrs Cripps, pensò Tonbridge autocommiserandosi. Lo stesso non si poteva dire di sua moglie.
«L’altra sera l’ho portata a bere qualcosa al pub».
«Davvero?».
«Ha detto che c’era troppo silenzio. Certo, non è come nei pub di città».
«Immagino di no». Mrs Cripps era stata a Londra una volta o due, ma non era mai andata in un pub, e adesso che Gordon era morto, non c’era più nessuno che la portasse nemmeno al pub del paese. «Che peccato!», aggiunse. Lei non era tipo da dire la sua sui gusti della gente, ma il commento inespresso restò piacevolmente e tangibilmente sospeso nell’aria. Tonbridge prese l’ultimo biscotto e osservò Mrs Cripps che toglieva il filo ai fagiolini. Aveva le maniche arrotolate a rivelare braccia muscolose, bianche come il marmo in confronto alle mani, che invece tutto erano fuorché bianche.
«Potrebbe andare a Hastings con l’autobus. Fare un giro per negozi, magari».
«Potrebbe, sì». Lasciò quel suo suggerimento nell’aria; ci aveva già pensato e poi aveva abbandonato l’idea. La sua speranza era che tutto quel silenzio la spingesse finalmente a tornarsene a casa, in città, e a lasciarlo in pace. Fece un leggero rutto e Mrs Cripps arricciò il naso, ma finse di non aver sentito. Decise di spostare la conversazione su un argomento di poco conto.
«Allora, che ne pensa di tutta questa faccenda di Hitler?», domandò.
«Se vuole la mia opinione, Mrs Cripps, le dirò che è tutta una montatura di giornali e politici. Una tempesta in un bicchier d’acqua; per mettere paura alla gente. Non c’è ragione di allarmarsi. Se poi Hitler si montasse troppo la testa, c’è sempre la Linea Maginot».
«Be’, allora...». Non aveva idea di quel che stava dicendo. Una linea? Che tipo di linea? Proprio non capiva come una linea di qualunque genere potesse entrarci qualcosa. Decise di farne una questione di buona educazione.
«Se vuole sapere come la penso io, Mr Tonbridge, Hitler dovrebbe pensare un po’ di più agli affari suoi!».
«Ha proprio ragione, Mr Cripps, ma non dimentichi che è pur sempre un forestiero. Bene». Si alzò in piedi. «Non credo che i fucili di Mr Edward si puliranno da soli. È stato un vero piacere, devo dire. Una novità. Qualcuno con cui parlare», aggiunse per assicurarsi che lei capisse di uscire vincitrice dal confronto con una persona che non si poteva nominare.
Mrs Cripps si adombrò e una grossa molletta per capelli cadde sul tavolo.
«Quando vuole», disse rimettendola al suo posto.
* * *
Quella sera arrivò la telefonata di un vicino di casa della madre di Zoë, il quale annunciò che costei aveva avuto un attacco di cuore e non c’era nessuno a occuparsene. Così il giorno dopo Rupert l’accompagnò alla stazione. «Sono certa che non dovrò fermarmi a lungo», disse Zoë, nella spasmodica speranza che questo non si rivelasse necessario.
«Resta per tutto il tempo che serve. Se è più semplice per te curarla a casa nostra, portala lì». Quando Zoë si era sposata, sua madre aveva traslocato in un minuscolo appartamento. «Oh, no! Non credo proprio che le piacerebbe». Il pensiero di doversi occupare di sua madre e insieme della loro casa vuota senza l’aiuto di Ellen la mise in allarme. «Sono certa che mamma vorrà stare a casa sua».
«Be’, chiamami per dirmi come sta. Anzi, meglio, ti chiamo io», si corresse ricordando l’avversione di sua suocera verso le interurbane. Le portò la valigia dentro la biglietteria e le comprò il biglietto. «Hai soldi a sufficienza, cara?».
«Credo di sì».
Per sicurezza le diede altre cinque sterline. Poi la baciò: con quelle alte zeppe di sughero gli arrivava fin sopra alla spalla. La sera prima avevano avuto una brutta lite riguardo alla possibilità di entrare nell’azienda paterna. Vedendolo sinceramente indeciso, lei aveva cercato di fargli pressioni e lui per una volta aveva perso le staffe, così lei aveva messo il broncio fin quando lui non si era deciso a scusarsi, dopodiché lei aveva pianto e poi lo aveva persuaso a risolvere la questione nella maniera consueta, ma non era stato bello come le altre volte. Ora, alla stazione, gli disse: «So che farai la cosa migliore, qualunque essa sia», e stette a guardare il suo volto serio e stanco addolcirsi in un sorriso. Rupert la baciò di nuovo, e Zoë ribadì: «So che prenderai la decisione giusta». Per fortuna arrivò il treno, e non dovette risponderle.
Quando Zoë fu partita, tornò alla macchina lottando contro un inopportuno sollievo, e si sentì più confuso che mai.
* * *
Dividere la stanza con Angela era un vero strazio per Louise e Nora: si comportava a volte come una star del cinema e a volte come una direttrice di collegio, ed era difficile dire cosa fosse peggio. Così decisero di trasferirsi altrove. E l’unico posto disponibile era una delle soffitte, che si raggiungeva arrampicandosi su una breve scala ripida nascosta da una porticina. Salirono e si ritrovarono in un ambiente lungo e stretto col soffitto spiovente, in cui potevano stare in piedi solo al centro. Ai due estremi c’erano delle finestrelle piombate piene di sporcizia e ragnatele. C’era un vago odore di mele e, sul pavimento, un tappeto di mosconi morti. A Louise non pareva molto promettente, ma Nora se ne entusiasmò. «Ripuliremo tutto, imbiancheremo il soffitto e i muri, sarà perfetto!». Così fecero, e con buoni risultati. Per imbiancare si misero i costumi da bagno perché c’era un caldo soffocante, poi uno degli operai che realizzavano gli infiniti progetti del nonno venne a spiombare le finestre. Proprio mentre pitturavano, ebbe luogo una conversazione destinata a cambiare la vita di Louise. Aveva parlato a lungo della sua futura carriera di attrice con Nora, che sapeva ascoltare e si era mostrata debitamente impressionata dall’ambizione del momento di Louise, che era quella d’impersonare Amleto in un teatro di Londra.
«Non dovrai entrare prima in qualche compagnia di repertorio? A Liverpool o a Birmingham?».
«Oh, non credo. Deve essere una tale noia! No, andrò in qualche scuola di arti drammatiche, la Central oppure la Royal Academy, e lì mi farò notare in una delle recite di fine anno. È questo il mio piano».
«Sono certa che ce la farai. Sei così brava». L’anno prima Louise aveva recitato per lei alcuni brani di Shakespeare e la sua Ofelia le aveva fatto spuntare le lacrime agli occhi. «Perché proprio Amleto?», le domandò Nora dopo un breve silenzio. «E non Ofelia, per esempio?».
«È una parte minuscola! Invece quella di Amleto è la parte migliore del mondo. Per questo la voglio».
«Ho capito», disse Nora rispettosamente, senza la spocchia e le obiezioni che la maggior parte della gente sfoderava di fronte a quei discorsi.
«E ovviamente nel frattempo, invece di iniziare subito la mia carriera, mi tocca sprecare tempo con Miss Milliment! Non vogliono nemmeno dirmi quando potrò finalmente iscrivermi a una scuola di recitazione. Per le altre è tutto più semplice: Polly vuole solo una casa sua dove mettere le sue collezioni, Clary diventerà una scrittrice, perciò non importa cosa farà... Ho finito la parete. Facciamo una pausa».
Si sedettero sul piccolo davanzale e si divisero una tavoletta di cioccolata. C’era un piacevole silenzio.
«E tu che farai?», domandò oziosamente Louise; non si aspettava una replica particolarmente interessante.
«Prometti di non dirlo a nessuno?».
«Prometto».
«Be’, non sono ancora del tutto sicura, ma credo che mi farò suora».
«Suora?».
«Sì. Non subito, però. Mamma mi manderà in una specie di scuola per signorine l’estate prossima, per imparare a cucinare. Perciò prima dovrò fare quella. Devo per forza, perché la pagherà zia Lena e lei è una che si arrabbia molto se non si fa a modo suo».
«Ma... imparare a cucinare, o qualunque altra cosa s’impari in quei posti... a che ti servirà se diventerai una suora?».
«Si può fare tutto per la gloria del Signore», rispose Nora in tono sereno. «Non importa cosa fai. Perché non ci vieni anche tu?».
Sulle prime le parve un’idea assurda ma d’altra parte, come le fece notare Nora, Louise non sarebbe mai diventata un’attrice di fama mondiale se non avesse superato la nostalgia di casa che le impediva anche solo di mettere il naso fuori. «Se vieni con me, potremo condividere la stanza e non dovrai soffrire troppo. Scommetto che ti lascerebbero venire: l’educazione domestica è considerata una materia da ragazze».
«Ci penserò su». Cominciò a batterle forte il cuore e la nuca le si fece fredda, così decise di pensarci in un altro momento. Dirottò la conversazione facendo molte domande su cosa avrebbe comportato per Nora essere una suora.
* * *
Il venerdì mattina Raymond comunicò per telefono a Jessica che zia Lena si era presa un raffreddore e che non poteva lasciarla. La notizia provocò in Christopher un moto di sollievo tale che vomitò sul vialetto di Home Place, mentre andava a prendere Simon. Era magnifico: voleva dire che con un po’ di fortuna sarebbero riusciti a racimolare tutto il necessario per partire prima dell’arrivo di suo padre, assai meglio che doverlo fare sotto il suo naso. Perché lui e Simon avevano preso la decisione di scappare di casa: Simon perché era terrorizzato dalla nuova scuola, Christopher perché non ne poteva più di stare a casa sua. Gli ultimi quattro giorni li avevano passati ad ammassare febbrilmente roba nel posto segreto di Christopher in mezzo al bosco: una piccola tenda – perché Christopher aveva rinunciato all’idea di costruire una casa a prova di pioggia –, insieme a tutte le attrezzature e le provviste che riuscivano a trovare in giro. Rubavano qua e là con l’idea che una volta andati via non avrebbero più chiesto niente a nessuno, perciò gli sembrava corretto prendersi quello di cui avevano bisogno, beninteso senza farsi vedere. Mrs Cripps proprio non capiva dove fosse finita la pentola che usava per bollire le uova, oppure il bollitore piccolo che teneva di riserva. A Eileen mancavano all’appello diverse posate, non quelle d’argento, grazie a Dio, e dalla dispensa erano scomparse due grosse scatole di latta che di solito erano usate per conservare i biscotti. Aveva notato anche che, per quanto si affannasse a riempire i vasi dello zucchero, continuava a trovarli vuoti la mattina dopo. Christopher stilava lunghe liste di cose da procacciare, e andavano cancellando le varie voci man mano.
I problemi maggiori li avevano avuti con le brande da campo. La Duchessa le teneva nella stanza delle armi, ma proprio quando loro due stavano per metterci le mani sopra qualcuno le aveva portate a Mill Farm, per la maledetta mansarda delle ragazze. Avevano trovato un vecchio materassino gonfiabile con i braccioli nel capanno, ma era pieno di buchi e ci volle un’eternità per rammendarlo. In compenso Simon aveva scoperto uno stipo in cucina dove era ammassata una quantità di barattoli di marmellata, sardine e carne in scatola, e ogni sera, dopo che Teddy si era addormentato – e per fortuna dormiva come un sasso –, lui sgattaiolava di sotto e riempiva di masserizie la sua sacca per la biancheria nuova di zecca. Era stanco morto, perché gli toccava stare sveglio per ore in attesa che Teddy crollasse e che tutti gli adulti si ritirassero in camera. La lista sembrava non esaurirsi mai, perché continuavano a venirgli in mente altre cose più o meno essenziali: apriscatole, batterie per la torcia, un secchio – Christopher aveva avuto l’idea di andare a mungere le mucche nei campi adiacenti di mattina presto, prima che venissero ricondotte alle stalle, un’idea che Simon aveva trovato assolutamente brillante.
Quella mattina avevano in programma di prendere delle patate dal capanno in cui le teneva McAlpine. Avevano uno zaino ciascuno, perfetto per il loro scopo, ma Christopher avvertì Simon che avrebbero dovuto farne diversi carichi. «Ci serviranno le patate, finché non avremo imparato a fare il pane». A Simon, al solo pensiero di dover vivere senza pane, venne una gran fame e dovettero fare una sosta durante la quale divorò quattro mele una dietro l’altra. Decisero di lasciare la bicicletta di Simon lungo la strada che costeggiava il bosco, in modo che potessero usarla per fare delle provviste d’emergenza, se restavano a corto di qualcosa. Il problema più grosso erano i soldi. Christopher aveva tre sterline e trentasei scellini, Simon solo cinque scellini. Prendere soldi equivaleva a un furto bell’e buono e Christopher era fermamente contrario: avrebbero imparato a vivere di quel che gli dava la terra, disse, ma Simon tremava alla sola idea. La terra non dava né cioccolata né limonata frizzante, ma questi erano pensieri meschini e lui lo sapeva. «Devi essere pronto a rinunciare», diceva Christopher, ma il guaio era che lui voleva fuggire dai suoi genitori, mentre Simon era terrorizzato al pensiero di non rivedere più mamma e papà, né Polly o Wills, i quali peraltro, con la sola eccezione di Wills, sarebbero morti di dolore. E chissà, magari anche Wills. «E se dovessimo aver bisogno di andare dal dentista?», domandò.
«Se tu fossi su un’isola deserta, non ci sarebbero dentisti. Ci caveremo il dente e via. A proposito, ci servirà dello spago per questo». Simon pensò a Mr York, a cui erano rimasti solo tre o quattro denti in bocca, sebbene lunghissimi, ma Mr York era vecchio: lui ci avrebbe messo anni e anni per ridursi in quello stato.
«E se scoppiasse la guerra?», chiese poi mentre sistemavano le patate nella tenda ormai stracolma.
«Io sarò obiettore di coscienza».
«Non bisogna andare a Londra per farlo? Voglio dire, come fanno a saperlo?».
«Oh, credo basti una comunicazione scritta. Me ne occuperò quando sarà il momento», aggiunse in tono adulto. Il loro rapporto si era evoluto in modo tale che lui era diventato il capo ed era quello che sapeva tutto, un ruolo a cui non era abituato e che gli piaceva troppo per lasciare che la sua credibilità venisse scalfita.
«Le scuole chiudono in caso di guerra?», chiese Simon mentre tornavano indietro.
«Ne dubito. Passi tu per il bosco oggi o ci passo io?».
«Vado io».
Per depistare eventuali spie interessate a scoprire il loro quartier generale, Christopher aveva deciso che sarebbero tornati separatamente e da direzioni diverse. Anche se non gli sembrava che la cosa importasse a nessuno, Simon risalì di corsa il versante orientale del bosco, dietro casa, si sedette sui gradoni all’ingresso della proprietà e si mise a contare fino a duecento per poi entrare lentamente. Nel pomeriggio doveva giocare a squash con Teddy, il quale aveva notato che il cugino non aveva più voglia di andare in bicicletta con lui. A Teddy Christopher non era molto simpatico, lo trovava strano, e d’altra parte Christopher aveva detto che Teddy era il primo a dover essere tenuto all’oscuro dei loro piani. Simon gli aveva spiegato che non poteva fare a meno di giocare a squash e ogni tanto a tennis, e Christopher aveva acconsentito. Quelle ore le passava a costruire archi e frecce e ad aggiornare le liste. A Simon piaceva davvero giocare a squash, ma quel giorno l’unica cosa che desiderava davvero era una doppia porzione di tutto quello che c’era per pranzo e poi una bella dormita.
* * *
Ogni mattina, appena sveglia, Angela si affacciava alla finestra della camera che ora, per fortuna, aveva tutta per sé. Sporgendosi appena, riusciva a vedere il fumo azzurrino che saliva dal comignolo della cucina di Home Place, a circa trecento metri su per la collina – aveva misurato accuratamente la distanza. Dopodiché pregava con fervore, a voce bassa ma udibile: «Dio mio, fa’ che non torni oggi», e finora Dio l’aveva esaudita. Solo cinque giorni prima Angela era una persona completamente diversa; ormai era cambiata, e non sarebbe mai più tornata quella di prima. A volte, adesso che l’assenza e il desiderio si allacciavano stretti in lei, provava quasi un senso di nostalgia per la noia di un tempo, per le settimane e i mesi o addirittura gli anni interminabili che aveva passato ad aspettare e a occuparsi di dettagli di nessun conto, perché non c’era ancora niente nella sua vita che meritasse di esser preso sul serio.
Il vecchio sogno a occhi aperti in cui aveva tanto spesso indugiato – Lesley Howard, Robert Taylor o Monsieur de Croix (il medico condotto di Tolosa) che s’inginocchiavano ai suoi piedi oppure svettavano arsi da indomita passione mentre lei sedeva con addosso abiti di foggia romantica che giammai avrebbe indossato nella vita vera, accettando altera i loro omaggi e concedendo graziosamente la mano (nient’altro che la mano!) un attimo prima che l’immagine svanisse nel silenzio della loro gratitudine devota – quella vecchia fantasia le pareva ormai una chimera ridicola e imbarazzante. Se la ricordava bene, così come ricordava di aver mangiato e dormito e vissuto i suoi giorni nella tediosa serenità dell’ignoranza. Ma certo non rimpiangeva quel passato infantile, in cui non aveva ancora la più pallida idea di cosa fosse la vita. Ora invece il senso profondo dell’esistenza le era chiaro; trascorreva ogni singolo minuto di ogni singola giornata in uno stato di tremante, umile, febbrile delirio che riusciva a nascondere completamente e con stupefacente disinvoltura. Jessica aveva notato che, grazie al cielo, sua figlia maggiore aveva smesso di portare il broncio, che a Home Place, dove Angela trascorreva sempre più tempo, la Duchessa aveva molto apprezzato le sue belle maniere e la sua ansia di piacere. Il primo giorno che era salita fino alla casa sulla collina, si era fermata sul prato davanti, tanto per vedere quello che succedeva. Clary, Teddy e Polly stavano giocando a sorpassarsi con le biciclette, girando e girando intorno alla casa. Al terzo giro Clary, nel tentativo di sorpassare Teddy, cadde dalla bici.
«Ahia! Non è giusto!», gli gridò. «Mi hai stretto contro il portico!».
Angela lanciò un’occhiata all’ampia abrasione sporca di terra, che si andava imperlando di goccioline di sangue. «È meglio se cerchi tuo padre. Devi pulirti la ferita».
«Non c’è. Ha portato Zoë alla stazione perché sua madre sta male».
«Davvero, Clary. Bisogna metterci del disinfettante. Vieni, ci penso io».
Fu Polly, che era sopraggiunta in quel momento, a dire così. «Sei gentile, ma non sapresti dove trovare il necessario», disse ad Angela, poi scortò Clary dentro casa.
Così Angela fu libera di andare. Si avviò giù per la collina e superò Mill Farm in direzione di Battle. Camminava piano, non voleva che il naso le diventasse lucido per il sudore. Ma era comunque piuttosto stanca quando Rupert arrivò con la macchina e rallentò salutandola con la mano.
«Dove te ne vai?».
«Facevo una passeggiata».
«Salta su. Facciamo un giro in macchina». Le aprì lo sportello e lei salì con aria pudica. È facile, pensò quella mattina.
Iniziarono la salita in silenzio, ma quando raggiunsero il cancello di Home Place Rupert disse: «Non mi va di andare subito a casa. Perché non ci facciamo un altro giro? Però, se hai di meglio da fare, ti lascio scendere».
«Va bene, vengo con te». Lo disse in modo tale da farla sembrare una concessione da parte sua.
Lui parve prenderla come tale, perché disse: «È molto gentile da parte tua. In effetti ho un problema, e ho bisogno di qualcuno con cui parlare».
Fu una frase così inattesa e lusinghiera che non le venne in mente niente di abbastanza maturo e arguto da dire. Lo guardò in tralice; era accigliato e teneva gli occhi fissi sulla strada. Indossava una camicia di flanella blu aperta sul collo, che metteva in mostra la gola lunga e nervosa. Non vedeva l’ora di sapere di cosa si trattasse, e cosa ci fosse che lui e Zoë non potessero...
«Ti porto a vedere un panorama magnifico», disse lui.
«Oh, bene», replicò Angela lisciandosi la vaporosa gonna verde mela sulle ginocchia.
Arrivati sul posto, trovò esattamente quel che si aspettava. Proprio non capiva i panorami: si vedeva esattamente lo stesso che si vedeva dappertutto, anche quando non si parlava di panorami, ovvero, in questo caso, distese di campi di luppolo e di normalissimi terreni coltivati, boschi e poche, vecchie fattorie. Rupert parcheggiò sul ciglio della strada, e raggiunsero a piedi un cancello con dei gradoni. La invitò a sedersi, e lui si appoggiò al cancello, guardando fisso di fronte a sé. Mentre Angela guardava lui.
«Che meraviglia, eh?».
«Sì, davvero».
«Vuoi una sigaretta?».
«Volentieri».
Dopo avergliela accesa lui la guardò e le disse: «Sei una persona molto calma, vero? Starti vicino mette serenità».
«Be’, dipende», replicò lei. Non voleva essere una persona che trasmette serenità; e tuttavia desiderava che continuasse a parlare di lei, in modo da fargli scoprire che persona affascinante poteva essere.
«Il fatto è questo. Mio padre vuole che entri nell’azienda di famiglia. E se lo faccio, dovrò dire addio alla mia carriera di pittore. D’altra parte, insegnare prende così tanto tempo e così tante energie che non riesco a dipingere comunque. Dunque sembra ingiusto rinunciare a una vita più comoda per tutti. Che ne pensi?».
«Santo cielo!», esclamò lei dopo aver tentato invano di pensarci. «Che ne pensa Zoë?».
«Oh, lei vuole che io accetti la proposta di mio padre. Certo, la capisco. Non è facile per lei essere la povera della situazione, e del resto l’arte non le è mai interessata molto. E poi ci sono i bambini...». S’interruppe e sembrò profondamente indeciso.
«E tu? Voglio dire, tu che vuoi fare?». Era tornata padrona di sé, e una cosa almeno le era chiara: non doveva stare dalla parte di Zoë.
«È questo il punto. Non mi pare di volere nulla in particolare, o almeno non abbastanza. Per questo forse dovrei...».
«Fare quello che vogliono gli altri?».
«Immagino di sì».
«Così però non lo scoprirai mai, ti pare? E poi, chi ti dice che ce la farai?».
«Giusto. Saggia ragazza».
«Non puoi smettere di insegnare e fare il pittore e basta?».
«No. È impossibile. Ho venduto in tutto quattro quadri nella mia vita, tre dei quali ai parenti. Non potrei mai mantenere una famiglia di tre persone, escludendo me, in questo modo».
«E non potresti entrare nell’azienda di famiglia e dipingere nel tempo libero?».
«No. Vedi, il problema, a essere un artista della domenica, è che le domeniche sono per i bambini... e per Zoë naturalmente».
«Se fossi al posto di Zoë», cominciò con cautela, «mi occuperei io dei bambini la domenica. Vorrei a tutti i costi che tu dipingessi. Se ami qualcuno, vuoi che quel qualcuno faccia ciò che desidera». A sentire le proprie parole, pensò che probabilmente era vero.
Lui però buttò via il mozzicone di sigaretta e rise. Poi, quando vide gli occhioni azzurri di lei guardarlo con biasimo, aggiunse: «Sei una cara ragazza, e sono certo che lo pensi davvero, ma le cose non sono così semplici».
«Non ho mai detto che siano semplici», ribatté lei. Non le piaceva che la si definisse una cara ragazza.
Rupert allora, che era abituato a quel genere di situazioni più di quanto lei potesse immaginare, sentì di dover fare ammenda.
«Scusami. Non volevo essere paternalistico. Trovo che tu sia una ragazza con le idee molto chiare per la tua età. E inoltre», le sfiorò il viso, «sei bellissima. Va meglio così?». E la guardò con un sorriso che chiedeva perdono.
Fu come se un fulmine le fosse caduto addosso: era letteralmente folgorata dall’amore.
Il cuore le batteva forte e poi si fermava, in preda a una frenesia irregolare; le mancava il respiro, le girava la testa, aveva la vista offuscata e, quando tornò a vedere con chiarezza il viso di lui, provò un intollerabile senso di debolezza, come se le membra le stessero cedendo e lei fosse sul punto di cadere dal cavalcasiepe, riversa sull’erba, incapace di alzarsi.
«...non credi che dovremmo?».
«Sì? Cosa?».
«Tornare a casa per pranzo. Non mi hai sentito, vero? Eri chissà dove con la testa».
Si alzò con prudenza, impacciata, e lo seguì in macchina. La parte del viso dove lui l’aveva sfiorata era in fiamme.
Nel tragitto verso casa, Rupert le disse che era stata davvero gentile ad ascoltare i suoi noiosi problemi da vecchio. E lei, invece? Quali erano i suoi progetti? Era proprio il genere di domanda che aveva desiderato sentirgli fare, così da avere la possibilità di affascinarlo e impressionarlo e sedurlo. Adesso era troppo tardi: non poteva essere nulla a parte la nuova se stessa, e su quella persona non avrebbe mai osato o voluto dire niente.
* * *
«Fammi vedere... oggi è il quindici... e doveva venirti il ciclo il primo del mese?».
«Il due, veramente. Del resto il mese precedente l’ho saltato. Davvero, Bob, io non credo di poter...».
«Buona, buona! Non fasciarti la testa prima di rompertela. Va’ dietro il paravento e spogliati, così ti do un’occhiata. Ti avverto, probabilmente è presto per esserne sicuri».
Io però ne sono sicura, pensava Villy mentre faceva come le aveva detto il dottor Ballater. La leggenda di famiglia secondo la quale bastava un giro in macchina con Tonbridge per sapere se una era incinta o meno – cominciava a guidare a venti all’ora a circa cinque settimane dal concepimento – quella mattina aveva dato prova della sua fondatezza. Tonbridge aveva guidato con una tale lugubre lentezza che aveva temuto di non arrivare in orario al treno. Eppure si sistemò sul lettino alto e scomodo piena di ardente speranza. Se poi fosse venuto fuori che era vero il peggio, Bob non era solo un ottimo medico, che aveva fatto nascere Louise e Lydia, ma anche un amico: lui e Edward giocavano a golf insieme la domenica d’inverno, e cenavano spesso l’uno a casa dell’altro, con le famiglie. Se c’era qualcuno che poteva aiutarla, chi meglio di lui?
«Be’», fece lui dopo diversi spiacevoli minuti, «non posso ancora dirlo con assoluta certezza, ma è molto probabile che tu abbia ragione».
Villy allora scoppiò in lacrime, un pianto improvviso che nemmeno lei si aspettava. Era arrivata decisa a mostrarsi calma, piena di argomenti ragionevoli, ed ecco che si ritrovava a singhiozzare mezza svestita e con la borsa e il fazzoletto rimasti sulla sedia dello studio. Quando lo raggiunse di là dal paravento, lui aveva preso da chissà dove due tazze di tè e le aveva offerto una sigaretta.
«Ora, supponiamo che tu sia davvero incinta. È l’età che ti preoccupa?».
«Sì... be’, tra le altre cose».
«Perché io di questo non mi preoccuperei affatto. Sei una donna sana e hai già avuto tre figli sani. E questa non è la prima gravidanza a... quanti, quarant’anni?».
«Quarantadue. Non è solo questo. Mi sento troppo vecchia per ricominciare da capo... e non sarebbe una bella vita nemmeno per lui, perché sarebbe figlio unico». Avrebbe voluto dirgli: «Non voglio un altro figlio per nessun motivo al mondo!», ma lui era un uomo oltre che un dottore e difficilmente l’avrebbe capita. «Sono certa che neanche Edward vuole altri figli», aggiunse.
«Oh, non credo che Edward farebbe storie. Può permetterselo, e questa è la prima cosa. Mi pare di capire che tu non gliene abbia ancora parlato, ma sono pronto a scommettere che sarà felicissimo quando lo farai». Vi fu un breve silenzio, durante il quale non seppero cosa dirsi.
«Non è possibile che io sia... già in menopausa, vero?».
«Vampate? Sudori notturni?». Villy scosse la testa, arrossendo di quei sintomi disgustosi.
«Un po’ di depressione?».
«Be’, questo sì... il fatto è che io proprio non me la sento di tirare su un altro figlio».
«Be’, sai, non sempre si ha scelta. Ho conosciuto molte donne che dicevano di non volere altri figli e poi hanno scoperto quanto si sbagliavano solo dopo aver partorito».
«Dunque, tu non credi che ci sia altro che io possa fare?».
«No», replicò in tono reciso il medico. «E spero tanto di sbagliarmi, mia cara, ma se ho capito bene quello che hai in mente lascia che ti dica un paio di cose. Io sono sempre pronto ad aiutarti, ma togliti dalla testa che io ti aiuti a sbarazzarti del bambino. In questo studio ho ricevuto donne che avrebbero dato tutto per trovarsi nello stato in cui sei tu adesso. Ti dico anche di non provare a procurarti un aborto in altri modi. Qui sono passate anche molte donne che si sono rovinate la salute con aborti casalinghi. Voglio che tu mi prometta che non farai niente e che tornerai qui fra sei settimane, quando potremo avere una conferma del tuo stato». Si chinò sulla scrivania e le prese la mano. «Villy. Ti aiuterò io, te lo prometto. E tu mi prometti di fare come ti ho detto?».
Non aveva molta scelta.
Mentre l’accompagnava alla porta, per disperdere la lieve tensione, le chiese se Edward fosse preoccupato per la crisi e lei gli rispose che non le sembrava. «Però di recente l’ho visto poco, perché io sono nel Sussex coi bambini, e lo scorso fine settimana non è riuscito a venire».
«Bene. I bambini teneteli laggiù, è il posto migliore. I miei sono con Mary in Scozia e sto pensando di farli restare lì per qualche altra settimana, finché non sapremo come andrà a finire».
«Dunque tu sei preoccupato?».
«No, no. Sono certo che il nostro ineffabile primo ministro saprà cavarci d’impaccio. Devo riconoscere che ha avuto coraggio a salire su un aereo per la prima volta a sessantanove anni. E non credo parli una parola di tedesco. Davvero notevole. Riguardati, mia cara. E ricorda quello che ti ho detto».
Una volta fuori, si ritrovò senza saper che fare. A Jessica e a sua madre aveva detto che avrebbe preso il treno delle quattro e venti per Battle, ma si trovava a due passi da Lansdowne Road e provava un’acuta nostalgia della sua casa ora piacevolmente vuota, così si lasciò sedurre dalla prospettiva di prendere un tè e fare un riposino per poi concludere con una bella serata insieme a Edward; forse, pensò, sarebbe riuscita perfino a parlargli della novità. Attraversò l’ampia Ladbroke Square, da cui erano sparite le tate coi loro bambini, in direzione di Ladbroke Grove, dove era stata sparsa della paglia sulla strada perché nella grande casa all’angolo era morto da poco un anziano gentiluomo. Passò accanto alla casa di Hugh e Sybil, che aveva l’aria di essere chiusa da tempo, nonostante Villy sapesse che Hugh ci andava durante la settimana, poi svoltò a destra, in Ladbroke Road. Quando vide il primo scorcio del retro di casa sua, provò un moto di sollievo. La campagna era splendida, ma lei adorava Londra, e in particolare casa sua. Edna doveva esserci, a meno che non fosse il suo giorno libero; si sarebbe fatta preparare il tè e un bel bagno. Era stata una giornata afosa, senza sole, si sentiva accaldata e appiccicosa.
Mentre entrava nell’atrio immerso nel silenzio si ricordò che era mercoledì, il giorno libero di Edna. Il tè doveva prepararselo da sola, pensò, dubitando di sapere dove trovare tutto l’occorrente. Sul tavolino dell’ingresso c’erano due mucchi di lettere, ma sembravano indirizzate tutte a Edward: davvero pigro da parte sua lasciare che si accumulassero in quel modo. Decise di fargli una telefonata per avvertirlo del suo arrivo, nel caso in cui, credendosi solo, avesse deciso di restare al club a giocare a biliardo, o cose del genere. Lo studio, dov’era il telefono, sembrava molto impolverato e accanto all’apparecchio c’era un grosso posacenere pieno di mozziconi, che in tutta evidenza non veniva svuotato da giorni. Villy sperò di non trovare in quello stato anche il resto della casa, o le sarebbe toccato licenziare Edna. Quando telefonò in ufficio e domandò di Edward fu messa in attesa, poi le rispose al telefono Miss Seafang, dicendo che Mr Edward era uscito per pranzo lasciando detto che non sarebbe tornato. Le dispiaceva molto, ma non sapeva dove fosse andato. L’indomani mattina lo avrebbe informato della sua telefonata e gli avrebbe detto di chiamare subito a Mill Farm. Poi riattaccò, prima che Villy riuscisse a dirle che si trovava a Londra. Non che abbia importanza, si disse, che io sia qui o lì. Aveva già cominciato a pregustare la serata, e ora che quella possibilità era sfumata ogni cosa l’indispettiva. Si spostò in salotto, dove le tende erano tirate. C’era odore di chiuso e di fumo, insieme a un residuo stantio di profumo; aprendo le tende, vide che c’erano dei garofani appassiti in un vaso, e pensò che l’odore venisse da lì. Edna non stava facendo nulla di quello che doveva; senza Phyllis non era in grado di gestire la situazione. Rinunciò al tè e decise di prepararsi un generoso gin tonic da bere nella vasca da bagno. Poi le venne l’idea di chiamare il club di Edward, per vedere se per caso era lì. Non c’era. Il bagno migliore era nello spogliatoio, il quale versava in un disordine spaventoso. Le sorse il dubbio che Edna se ne fosse andata. Magari proprio quella mattina, perché altrimenti Edward le avrebbe detto qualcosa e del resto nemmeno lei avrebbe lasciato tutti quegli asciugamani umidi sul pavimento, il letto da rifare, i pantaloni, le camicie e i calzini di Edward sparsi dappertutto. Era davvero sconcertante. Povero Edward, tornare dopo una lunga giornata di lavoro e trovare quel disastro! Ora doveva licenziare Edna, sempre che si fosse fatta vedere, e far venire Phyllis a occuparsi di Edward. Raccolse gli asciugamani e li appese al gancio, ma decise di lasciar stare il letto, dato che Edward avrebbe dormito nel loro. Strano, tra l’altro, che non ci avesse dormito le notti precedenti. Decise di fare il bagno e cambiarsi, e solo dopo occuparsi dei vestiti sparsi in giro.
Dopo il bagno e un buon bicchiere, si sentì molto meglio. Sapeva che bagni caldi e gin erano uno dei metodi con cui una volta ci si procurava l’aborto, ma ammetteva che nella sua idea di risolvere il problema in quel modo c’era poca convinzione, oltre che una buona dose di viltà. Lei desiderava solo non essere incinta: il dottor Ballater l’aveva fatta sentire in colpa per essersi messa deliberatamente in quella situazione. L’ipotesi di parlarne con Hermione presentava ai suoi occhi difficoltà insormontabili. Probabilmente lei l’avrebbe indirizzata da qualcuno, ma senza alcuna garanzia di affidabilità e discrezione. Chissà quanti dei loro amici – persone con cui lei e Edward andavano fuori a cena, a teatro, a ballare – si erano trovati in un frangente simile. A qualcuno doveva essere pur capitato, ma il guaio era che nessuno si azzardava a farne menzione in pubblico. Si presumeva che una coppia mettesse al mondo la quantità di figli che desiderava e poi si affidasse ai contraccettivi, sperando per il meglio. Le vennero in mente diverse donne che avevano avuto dei ripensamenti, e le amiche dicevano loro che, una volta imparati tutti i trucchi, tutto sarebbe stato semplice e piacevole.
Se avesse proseguito la carriera, tutto sarebbe stato diverso. Sapeva, dai tempi in cui si esibiva con la compagnia, che le ragazze restavano incinte, ma tale era lo spirito di dedizione – ricordava bene i piedi sanguinanti, i dolori fortissimi per gli strappi muscolari durante spettacoli interminabili, le ore passate a letto tra una prova e l’altra perché Djagilev non pagava i ballerini per settimane intere e toccava vivere con un litro di latte e un paio di panini al giorno – che un aborto clandestino era visto come uno dei tanti rischi che si correvano per amore dell’arte. Ma lei, sposandosi, era uscita da quel mondo per entrare in uno in cui una donna poteva dedicarsi solo a mettere al mondo bambini e a dare ordini ai domestici. La vita era una gigantesca trappola predisposta dagli uomini, pensò, e il sesso, da cui era pur logico che una donna si guardasse bene considerando a cosa si riduceva – ore e ore di sgradevoli, dolorosi e infine noiosi rapporti intimi da cui, per qualche ragione, non si ricavava alcuna soddisfazione –, non era altro che moneta di scambio da cedere in cambio della sicurezza e degli agi derivanti dal fatto di essere una coppia e di passare, del resto, anche momenti piacevoli insieme. Ma poi, se solo pensava alle donne nubili che conosceva! Commiserate, trattate con condiscendenza... non erano certo da invidiare. Se pure avesse continuato a danzare, a quel punto della sua vita la sua carriera sarebbe in ogni caso finita. O comunque non più al suo culmine. Le venne in mente Miss Milliment. Era improbabile che qualcuno avesse mai chiesto in moglie Miss Milliment, la quale aveva vissuto la sua vita così, brutta, sola e anche molto povera, senza contare che, una volta terminati gli studi delle ragazze, sarebbe stata ancora più povera. Bisognava fare qualcosa per Miss Milliment, pensò. Poteva venire a trascorrere qualche giorno nel Sussex durante le vacanze, ma era complicato perché a Edward non era granché simpatica e naturalmente avrebbe dovuto cenare con loro; eppure una vacanza pagata se la meritava. Ne avrebbe parlato con Sybil per vedere se potevano fare qualcosa. L’ultima volta che aveva provato ad affrontare l’argomento con Edward, lui le aveva fatto notare che Miss Milliment percepiva sette sterline e dieci la settimana, una paga superiore a quella di un conducente d’autobus, che probabilmente aveva anche una famiglia da mantenere. «Ed è una donna, per di più», aveva aggiunto, come se per una donna fosse stato meno costoso procurarsi un tetto, del cibo e dei vestiti. Devo assolutamente fare qualcosa, si disse; si sentiva fortunata, in colpa e un po’ spaurita, come le capitava spesso quando metteva per un momento da parte i propri malesseri personali.
Nel frattempo si era vestita: un foulard color panna a puntini blu scuro, un abitino con una giacca corta abbinata del genere che, a detta di Hermione, andava bene in qualunque tipo di serata, un velo di cipria e di rosso sulle guance e un rossetto discreto; si era anche allacciata l’orologio e aveva cambiato borsa. Non aveva voglia di rimettere in ordine la roba di Edward, avrebbe più volentieri bevuto un altro bicchiere di gin, ma probabilmente non sarebbe stato saggio. Riempì il portasigarette e scese di sotto. Pensò di telefonare di nuovo al club e, se non avesse trovato Edward, di chiamare Hugh per farsi portare a cena fuori.
Edward non c’era. Hugh invece era appena tornato dall’ufficio e stava per fare il bagno. Tutto a posto giù in campagna, vero? Gli spiegò che si trovava a Londra.
«Edward sembra scomparso», disse. «Miss Seafang dice che è uscito dall’ufficio all’ora di pranzo, ma non ha idea di dove sia andato. Non è al club. Tu sai dove possa essere?».
Ci fu un momento di silenzio, poi Hugh disse: «No, non lo so. Senti. Perché non vieni a cena con me? Sì? Bene. Passo a prenderti fra un’ora».
Stava riappendendo la cornetta, quando sentì la porta d’ingresso aprirsi e poi la voce di Edward, insieme a quella di una donna che rideva. Chi diavolo..., pensò spostandosi in corridoio.
Lì trovò Edward e al suo fianco una donna alta, bruna, piuttosto elegante, che non aveva mai visto in vita sua. Indossava un leggero soprabito bianco buttato sulle spalle, e non appena la videro si allontanarono di scatto. Il braccio destro di Edward, prima nascosto dal soprabito, divenne visibile mentre lui diceva: «Santo cielo! Villy? Non sapevo che saresti venuta», e si avvicinò per baciarla.
«Sono venuta solo per un giorno. Ma poi ho avuto l’idea di restare».
«Magnifico! Oh, lei è Diana Mackintosh, non mi pare che vi conosciate. Suo marito ha quella spettacolare riserva di caccia nella contea di Norfolk, te ne ho parlato. Stavamo pranzando tutti e tre insieme quando è dovuto partire urgentemente per la Scozia, poveraccio! Così lo abbiamo accompagnato e poi ho portato qui Diana per bere qualcosa».
Mentre lui le diceva queste cose, le sfiorò la mente un pensiero così terribile da ammutolirla per alcuni secondi, poi subito subentrarono l’incredulità e la vergogna che qualcosa di così meschino e indicibile dovesse capitare proprio a lei. Mentre accompagnava Mrs Mackintosh in salotto scusandosi per il disordine, aprendo le tende e nascondendo in un angolo i garofani appassiti, fece tutti gli sforzi possibili per fingere con se stessa di non aver mai avuto quel pensiero. «Credo che la nostra cameriera ci abbia abbandonato», aggiunse.
«Una bella seccatura». Aveva un sorriso seducente, e una sottile ciocca di capelli bianchi acconciata in una curva graziosa a lato del viso. Avrà trentotto anni, rifletté Villy.
«Vive nel Norfolk, Mrs Mackintosh?».
«Oh, mi chiami Diana, la prego. No, veramente abito a Londra. Angus si occupa della riserva nel Norfolk per conto del fratello maggiore. È andato in Scozia a prendere i ragazzi più grandi per la scuola».
«Quanti ne avete?».
«Tre. Ian ha dieci anni, Fergus otto e poi c’è Jamie, che ha tre mesi». Un altro ripensamento, si disse Villy. Chissà se lei lo voleva.
Edward fu di ritorno con un vassoio di bicchieri colmi. Diana disse: «Stavo dicendo a tua moglie di Angus che è andato a prendere il ragazzi. Hanno trascorso l’estate con la nonna a Easter Ross».
«Marmocchi fortunati», commentò Edward. «Cocktail per tutti?».
«Uno solo. Non posso restare, devo tornare da Jamie».
Un neonato di tre mesi. Spero di avere lo stesso aspetto a tre mesi dal parto. Edward, mescolando i cocktail, disse: «Sì, Angus mi ha offerto un pranzo talmente buono che ho pensato che il minimo fosse accompagnarlo alla stazione... che postaccio! Euston sembra un alveare vittoriano».
«King’s Cross», disse Diana in modo un po’ brusco ma col suo sorriso affascinante, poi aggiunse, in tono più morbido: «Eravamo a King’s Cross, non te ne sei accorto?».
«Edward non distingue una stazione dall’altra. D’altronde non viaggia mai in treno. Né in autobus».
«Però ne ho guidato uno durante lo sciopero generale del ’26».
«Questo non ti dà una buona conoscenza del sistema dei mezzi pubblici, a quanto pare. No, grazie. Non fumo». Edward aveva acceso la sua e ne aveva offerta una a Villy, la quale, notando che Diana era rimasta senza, le porse il suo portasigarette. Vi fu un breve silenzio mentre sorseggiavano le rispettive bevande, e Villy si sentì di nuovo inspiegabilmente a disagio. Disse a voce alta: «Caro, che ne è stato di Edna? La casa è un disastro».
«La madre si è ammalata, e l’ho fatta andare a casa. Ho dimenticato di dirtelo».
«Oh. E quando torna?».
«Non lo so. Non gliel’ho chiesto, temo».
Vi fu un altro silenzio, poi Edward, vuotando il bicchiere, disse: «Chissà come se la sta cavando il vecchio Chamberlain. La situazione deve essere davvero seria, se un primo ministro inglese deve fare tanta strada per convincere un forestiero a non fare i capricci».
«La penso come te», replicò Diana. «Dovrebbe essere tutto l’opposto. Hai visto quella vignetta dove c’è un’enorme colomba che regge nel becco un ombrello? Voglio dire, non dovremmo chiedere, noi dovremmo dire chiaramente a Mr Hitler che ci sono dei limiti».
«È verissimo. Tuttavia credo che nel linguaggio del Foreign Office chiedere voglia dire ordinare. Tu che ne dici, Edward?».
«Non ne so molto, ma credo tu abbia ragione. Un tipo ben informato al club dice che i cechi tutto sommato non avevano scelta, perciò non preoccupiamoci troppo».
L’atmosfera si era alleggerita. Diana si alzò in piedi e disse: «Devo andare. Grazie davvero per il cocktail».
Edward disse: «Vuoi che ti accompagni a casa?».
«Non se ne parla! Prenderò un taxi».
Intervenne Villy. «Possiamo chiamarne uno. C’è un parcheggio proprio in cima alla strada».
«No, davvero. Faccio volentieri due passi».
Aveva lasciato il soprabito bianco nel vestibolo. Dopo che Edward gliel’ebbe sistemato sulle spalle – faceva troppo caldo per indossarlo, disse – la donna si voltò verso Villy ringraziandola e dicendole quanto le avesse fatto piacere conoscerla. Aveva una splendida carnagione e magnifici occhi color lavanda scuro. Una donna stupenda. «Gira a sinistra. Il parcheggio è al primo incrocio», la ragguagliò Villy.
«Grazie. Arrivederci».
«Arrivederci».
«Una donna affascinante. Il marito com’è?».
«Angus. Una brava persona. Un po’ scansafatiche... Cara, come mai sei qui? Non me l’avevi detto».
«Oh, avevo voglia di fare spese, e poi ho fatto un salto da Bob Ballater».
«Tutto a posto, spero».
«Ma sì. Cose da donne».
«Be’, adesso che sei qui andiamo a cena, che ne dici? All’Hungaria, magari». Sapeva che le piaceva quel posto e la musica che suonavano.
«Mi piacerebbe. Oh, cielo! Dimenticavo. Non trovandoti, ho telefonato a Hugh. Ha detto che mi portava lui a cena. Sarà qui a minuti».
Edward si adombrò. Aveva vuotato il contenuto dello shaker nel bicchiere, poi aveva vuotato anche quello. «Accidenti. Non possiamo scaricarlo».
«E perché mai dovremmo?».
«Sai, è ossessionato da quella che lui chiama la crisi! Dice che ci stiamo prostrando, prostituendo, non so più quale delle due cose, comunque non parla d’altro, lo sai com’è quando s’infervora».
«Be’, possiamo andare da Bentley e poi al cinema. Così dovrà starsene zitto».
«Buona idea. Vado a fare un bagno».
«Caro, domani spedisco qui Phyllis. Il tuo spogliatoio è in uno stato indescrivibile».
Edward cadde dalle nuvole. «Davvero? Lo sai, sono pigro nei lavori domestici. Prepara da bere per tutti. Hugh vorrà un whisky». E si avviò su per le scale.
Andarono a cena da Bentley, dove Villy e Edward ordinarono ostriche e Hugh del salmone affumicato, poi a Leicester Square a vedere Il club dei trentanove con Robert Donat, che piacque a tutti e tre. L’argomento della crisi fu solo sfiorato, così come i Mackintosh, che Hugh non conosceva. Fu assai gentile con lei, notò Villy, mentre a Edward rivolse a malapena la parola. Quando lasciarono Hugh e andarono a casa, Edward annunciò di essere stanco morto e di non vedere l’ora di andarsene a letto. Era troppo tardi per mettersi a discutere dei pro e dei contro di un allargamento della famiglia. Così non gli disse niente e decise di aspettare la successiva visita dal dottore.
* * *
Il fine settimana dopo, ormai sicura che il tour di Waldo era stato cancellato e che perciò Evie sarebbe stata occupata, Sid accettò l’invito della Duchessa a stare per un po’ a Home Place. «Ti dispiacerebbe dividere la stanza con lei, cara?», aveva domandato la Duchessa a sua figlia. La casa era piena di gente da quando due sue sorelle nubili, vista la gravità di quella che ormai in famiglia si definiva la “Situazione”, erano state prelevate a Stanmore da Tonbridge, il quale, con grande piacere, aveva colto al volo l’occasione per sbarazzarsi nello stesso viaggio della sua consorte. Se voleva tornare a casa, sarebbe stato meglio per lei andarci in macchina, piuttosto che dover prendere il treno e poi la metropolitana fino a Kentish Town, aveva osservato. «E non chiedermi mai più di fare una cosa del genere!», gli disse sua moglie dopo che l’ebbe depositata davanti casa. Non c’era alcun pericolo. E d’umore gaio andò a prendere le due anziane signore a Cedar House, si accollò le loro valigie di tela rigida che recavano le iniziali stinte del loro padre e le sistemò nel baule dell’auto. Portavano abiti di maglina, borse piene di orrendi lavori di ricamo e un thermos traboccante di estratto di carne. Si sedettero e si coprirono le ginocchia ossute con il plaid, dopodiché Tonbridge guidò lentamente fino al Sussex. Durante il tragitto fecero a intervalli regolari di un quarto d’ora i soliti commenti sulla bellezza della campagna e gli chiesero notizie di sua moglie e di suo figlio, per dimostrare che erano gentili con la servitù. Non se n’ebbe a male: lo attendevano tranquille e al tempo stesso eccitanti giornate in compagnia di Mrs Cripps.
Sybil e Villy ebbero una discussione molto seria ma non risolutiva sull’opportunità di mandare i ragazzi a scuola nel caso in cui la situazione fosse andata peggiorando. Sybil riteneva che non fosse il caso, ed era convinta che Hugh l’avrebbe appoggiata; Villy sapeva che Edward avrebbe voluto mandarli. Decisero di telefonare alla scuola e vedere che aria tirava.
Lady Rydal, che si era installata a Mill Farm da quasi una settimana e se ne stava tutto il giorno seduta sulla poltrona più grande senza far niente, disse che, se davvero fosse scoppiata un’altra guerra, il meglio che poteva fare era infilare la testa in un forno a gas. «In questa casa non c’è il gas, nonna», le aveva fatto notare Nora. «Potresti folgorarti con la corrente elettrica, ma credo che la cosa richieda una certa competenza». Questo costrinse Villy e Jessica a uscire dalla stanza, per dare libero sfogo a uno scroscio di risate. «Davvero!», disse Jessica. «Se scoppiasse la guerra, mamma penserebbe che è tutta una congiura per rovinare la vita a lei. Una specie di ultima goccia».
«Però non ci sarà, un’altra guerra, vero?», voleva domandare Villy, ma proprio in quel momento furono raggiunte da Nora. «Tutto bene», disse. «Non vi arrabbiate. Le ho detto che il meglio che possiamo fare è pregare per la pace. Ha dovuto darmi ragione. Con la gente anziana, a giocarsi la carta di Dio non si sbaglia mai»
La sera di sabato Ellen annunciò che Clary, che era stata scontrosa e rossa in viso per tutto il giorno e aveva anche dato una rispostaccia alla bambinaia, stava covando qualcosa. Le presero la temperatura. Aveva trentotto e mezzo. La misero a letto e fu chiamato il dottor Carr. Simon andò da solo al campo da squash e lì pregò in solitudine che Clary avesse il morbillo, caso in cui forse aveva una possibilità di sottrarsi a quello che l’attendeva. Dato che Zoë era ancora da sua madre, a prendersi cura di Clary furono Rupert e Rachel, la quale andò a farle una limonata. Il dottore disse che qualunque cosa fosse si sarebbe manifestata il giorno seguente e che doveva stare a letto. «Cosa che farei comunque, dato che è sera», disse Clary, piuttosto stizzita, a Polly. «Non crederà che vada nei locali notturni». Ma Polly, decisa a mostrarsi gentile e comprensiva, disse che gliel’aveva raccomandato per sicurezza. «Gli adulti lo fanno», aggiunse. «Se vuoi ti leggo qualcosa». Le era venuto in mente che forse, da grande, poteva diventare una bravissima infermiera. Ma Clary le disse che preferiva leggere da sola. Quando suo padre venne a darle la buonanotte, gli disse che secondo lei doveva continuare a fare il pittore e non entrare nell’azienda. Rupert, che oltre ad Angela aveva consultato in proposito Sybil, Villy, Rachel e Jessica – tutte a favore della nuova proposta di lavoro – e poi anche Louise e Nora – entrambe contro – era al momento più confuso che mai; le disse che la sua opinione era estremamente importante per lui e che ci avrebbe pensato. «Oh papà! Quanto mi piace quando mi tratti come una persona!».
«Non lo faccio sempre?».
Scosse il capo. «Per la maggior parte del tempo mi tratti come una bambina. È una cosa che detesto! Quando avrò dei figli li tratterò benissimo... come...». Cercò nella mente la professione più rispettabile che conoscesse. «Come fossero dei direttori di banca!».
«Sono certo che lo faresti davvero! Be’, non è che i direttori di banca se la passino poi così bene, sai. Molti si comportano in modo servile con loro, oppure li supplicano di concedergli un prestito, oppure li odiano e li tengono a distanza».
«Davvero? Tu fai così? Tutte e tre le cose?».
«Già, tutte e tre».
«Povero papà! Deve essere brutto invecchiare e non avere mai abbastanza soldi. Fossi in te, mi cercherei una bella sedia a rotelle di seconda mano, finché sei in tempo».
«Va bene, lo farò. Adesso ti rimbocco le coperte».
«No! Sto morendo di caldo. Papà, di’ a Ellen che mi dispiace. E potrei avere un altro po’ d’acqua? E chiederesti a Polly di venire qui? E poi, papà, dopo che hai cenato potresti venire a vedere come sto? Perché potrei anche stare male...».
«D’accordo», disse lui, e se ne andò.
Quella sera Sid sedette sul letto di Rachel e l’abbracciò a lungo. Per tutto il giorno, ogni volta che erano rimaste sole, non avevano fatto che parlare: di ritorno dalla stazione, dopo pranzo, quando erano uscite sole per una lunga passeggiata e avevano trovato nel bosco, vicino al torrente, una tenda malmessa, in cui rinunciarono a curiosare perché Rachel disse che le sembrava un luogo segreto e che come tale andava rispettato. Credeva appartenesse a Teddy. «Ama molto la vita all’aria aperta». Poi, dopo il tè, erano sgattaiolate via di nuovo e si erano sedute sul prato dietro il bosco. Il cielo era coperto, si annunciava l’autunno. Parlarono della possibilità di andare nel Lake District insieme, forse a Pasqua, e dell’opportunità per Sid di guadagnare un po’ di più insegnando part-time in due scuole anziché una sola, e magari di comprarsi una piccola auto di seconda mano. Rachel desiderava regalargliene una, ma Sid non voleva nemmeno sentirne parlare. Dovrei averlo già fatto, pensò Rachel. Poi parlarono dell’imminente secondo viaggio di Chamberlain, stavolta in Germania, e si chiesero se quella dell’appeasement fosse una politica adeguata. Rachel pensava di sì, mentre Sid era preoccupata per la Cecoslovacchia, che secondo lei era in serio pericolo. «Dopotutto», obiettò Rachel, «la Cecoslovacchia nemmeno esisterebbe se non fosse stato per il Trattato di Versailles».
Al che Sid insistette: «Appunto. Perciò siamo responsabili della loro sovranità. Un trattato può mettere fine a una guerra, ma anche innescarne un’altra». Poi sorrise e disse: «Credi che io ragioni così perché sono di sinistra, ma molte persone della tua parte politica la pensano come me».
«La cosa triste è che quello che pensiamo noi non conta un bel nulla. Questo fa paura. Se scoppiasse la guerra, tu non resteresti a Londra, vero?».
«Credo di sì, invece. C’è Evie. Che altro potrei fare?».
«Non lo so. Quello che so è che non sopporto l’idea che tu resti laggiù mentre io sono bloccata qui».
«Davvero?».
«Suppongo di sì. Forse tu e Evie potreste prendervi la casa dei Tonbridge. Potrebbe essere la soluzione».
«Con Evie sarebbe un incubo». Ed ecco che parlavano di nuovo di Evie, e una volta che la conversazione ebbe completato la sua parabola si avviarono verso casa.
Cenarono, poi Sid giocò a bridge con Hugh, Sybil e Rupert mentre Rachel cuciva e li guardava. Le piaceva vedere Sid andare d’accordo con la sua famiglia e di tanto in tanto i loro sguardi s’incrociavano per un istante, e quel contatto le nutriva entrambe.
Adesso erano sole, di notte, e nella stanza c’era una lieve tensione. Rachel aveva insistito perché Sid usasse il suo letto e lei la corta brandina che era stata sistemata contro la parete opposta, ma Sid non gliel’aveva permesso. Quel che Sid desiderava, e che alla fine ottenne, era starsene sdraiata per diverse ore accanto alla sua amata, fingendo che questo le bastasse, una deliziosa tortura a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo, ma le prospettive segrete che le si aprirono restarono appunto segrete, e sul fare dell’alba, mentre Rachel dormiva serena, Sid si spostò senza far rumore sulla brandina e lì si prese la sua ricompensa immaginaria. Dopo non riuscì a dormire, nonostante anelasse l’oblio prima dell’inizio di un nuovo giorno. Restò coricata pensando a Rachel, che le aveva dato tanto ma che non poteva darle tutto. Rachel e la sua natura generosa e amorevole, protetta da un muro impenetrabile d’innocenza. Una volta aveva detto a Sid che non avrebbe mai avuto figli, perché non sarebbe stata capace di sopportare quel che doveva succedere prima. «La sola idea mi repelle», le aveva spiegato arrossendo. «Immagino che molte donne riescano a non pensarci – a quella cosa, voglio dire – ma io so già di non esserne capace. E l’idea che agli uomini... che a loro questo piaccia... be’, mi fa stare ancora peggio per loro». Una volta una persona a cui credeva di voler bene l’aveva baciata. «Ma non è stato un bacio normale... è stato disgustoso». Poi aveva cercato di ridere e aveva aggiunto: «Non sono brava con le cose del corpo, ecco tutto. Non ho un buon rapporto con il mio e non voglio avere niente a che fare con quello degli altri». Sid allora aveva taciuto. Era una rivelazione inattesa. Rachel le aveva preso la mano – stavano passeggiando in Regent’s Park – e le aveva detto: «Ecco perché amo tanto stare con te, Sid cara. Noi possiamo stare insieme e basta, senza niente di tutto questo».
Sarà sempre così, pensò Sid, e non posso nemmeno darle un figlio. Eppure l’amo e non vorrò mai nulla di più, mai nulla di diverso. Prima di addormentarsi, pianse.
* * *
Quel lunedì Clary si coprì di pustole e il dottor Carr le diagnosticò la varicella. Quando Louise lo venne a sapere, convocò una riunione presso il vecchio albero caduto, dietro il bosco di Home Place. Furono convocati Nora, Teddy, Polly, Simon e Christopher, ma Neville, Lydia e Judy ne sentirono parlare e vollero andarci anche loro.
«Voi non siete stati invitati», disse Louise mentre i tre se ne stavano irresoluti a una certa distanza.
«Hai detto “riunione dei ragazzi”. E noi siamo ragazzi», disse Lydia.
«Ormai siamo qui», disse Neville. «Perciò...».
«Lasciali restare», disse Nora.
«Promettete di non rivelare mai agli adulti ciò che verrà detto intorno a quest’albero oggi, 20 settembre 1938?».
«Va bene».
«Non dovete dire solo “va bene”! Dite “prometto solennemente”».
Le ragazze ripeterono la formula, tranne Neville che disse: «Prometto stupidamente... tanto è lo stesso!». Si giustificò quando Lydia lo guardò scandalizzata.
«Va bene. Il motivo per cui siamo qui è che Clary ha la varicella. Alzi la mano chi ha avuto la varicella».
Nessuna mano si alzò.
«Il punto è questo: se ci organizziamo per bene, possiamo essere tutti in quarantena oppure già malati per tutto il semestre. Capito?».
«Eccome!», esclamò Teddy. «Non potremmo tornare a scuola».
«Proprio così. Saremmo costretti a restare qui fino alle vacanze di Natale. Comprese».
«Ma come facciamo a prenderla... voglio dire, a esserne sicuri?», chiese Polly.
«Tu probabilmente ce l’hai già, dato che hai dormito con Clary. È molto contagiosa, con un lungo periodo di incubazione».
«Andiamo tutti insieme ad abbracciarla. Non funzionerebbe?», suggerì Judy.
«No. Non tutti insieme. In questo modo la prenderemmo tutti contemporaneamente, e sarebbe un disastro. Ci vanno due di noi. E una dei due sarai tu, Polly, dato che probabilmente sei la prossima».
«Aspetta un attimo», la interruppe Teddy. «Non è detto che tutti desiderino non tornare a scuola». Si divertiva molto durante le vacanze, ma dopo tutto quell’allenamento extra non vedeva l’ora di riunirsi con la sua squadra di squash.
«Io non voglio prendere la varicella. E nemmeno tu, vero, Simon?», disse Christopher.
Simon arrossì e si mise a schiacciare una pigna con la punta della scarpa. «Dipende... be’, no, no di certo», disse poi. Tra sé e sé, aveva già deciso di andare ad abbracciare Clary col favore delle tenebre per diverse notti di seguito, tanto per stare sicuro.
«Ma si soffre molto! Voglio dire, uno può anche morire? Gli adulti possono prenderla?», domandò Lydia.
«Possono, ma di solito l’hanno già avuta».
«E comunque, non è una malattia di cui si può morire, Lydia», aggiunse premurosa Louise, conoscendo le persistenti ansie di sua sorella.
La riunione proseguì con la messa a punto di un elenco che stabiliva l’ordine nel quale sarebbero andati da Clary e si concluse con la raccomandazione di mantenere il più stretto riserbo.
«Lei lo dovrà sapere, perciò il piano non può essere assolutissimamente segreto», puntualizzò Neville.
«Certo che Clary lo saprà. Lei è dalla nostra parte».
* * *
Quel martedì il Generale, dopo aver preso le misure del campo da squash, andò a Londra e comprò ventiquattro brandine da campo da Army & Navy Stores, da far portare in fretta nel Sussex con uno dei camion dell’azienda. Non ne parlò con nessuno.
* * *
Il giorno dopo, mercoledì, Sybil e Villy dovettero prendere atto che avere Clary con la varicella significava che tutti i ragazzi eccetto Christopher erano in quarantena. Telefonarono alla scuola di Teddy e Simon per dare la notizia. Villy ebbe l’idea di scrivere a Miss Milliment, che non possedeva un telefono, per chiederle di venire e far lezione alle ragazze nel Sussex. La Duchessa era d’accordo, ma disse che doveva essere alloggiata nella casa dei Tonbridge, sopra il garage. «Tonbridge può arrangiarsi nello spogliatoio», aggiunse tranquilla. Rachel osservò che i ragazzi erano davvero premurosi con Clary, andavano di continuo a vedere se le serviva qualcosa. Erano commoventi. «Vanno più che altro a farsi contagiare», disse Rupert, avendo udito solo l’ultima frase. «Sono furbi, quei furfanti». Villy tornò a Mill Farm e disse a Jessica della sua idea di far venire la Milliment. «Possono partecipare anche Nora e Judy».
«Cara, ma sei sicura di volere che restiamo?». Jessica aveva rimuginato tutta la mattina, non sapendo decidere cosa fare. Raymond era ancora bloccato con zia Lena, che adesso pareva sul punto di spirare e lo stava facendo con estrema lentezza e senza dolore, così come sempre aveva vissuto. Dopo quelle settimane idilliache, la prospettiva di riportare i ragazzi a Hendon, magari ammalati di varicella, e di dover affrontare il problema del futuro di Angela l’atterriva, a dir poco.
«Ma certo. Devi restare. Almeno finché le cose non saranno sistemate».
«E con mamma che facciamo?».
«Sarà meglio chiederle cosa vuol fare».
Lady Rydal disse che non contava affatto quello che voleva lei e che dovevano decidere secondo le loro esigenze. Bryant, la sua cuoca, era già tornata dalle vacanze ma Bluitt, la cameriera, sarebbe rientrata la settimana successiva, perciò se era possibile preferiva tornare a casa quando le avrebbe avute a disposizione entrambe: Bryant avrebbe fatto un dramma di doversi occupare da sola di una povera vecchia.
«Questa è la situazione, dunque». Villy fece una smorfia quando si ritrovò sola con Jessica. «Edward ha detto che un’altra settimana con lei non la regge, ma gli toccherà sopportarla».
«Dopotutto una settimana l’ha scampata perché aveva da lavorare», osservò Jessica.
«Infatti. È proprio così. Novità da Raymond?».
«Credo che gli telefonerò stasera. Per sentire come sta zia Lena».
* * *
Giovedì. A Londra Hugh stava aspettando Edward, che era in ritardo per pranzo. Poiché erano al club di Edward, non poteva ordinare da bere prima del suo arrivo e si avvicinò al grande tavolo rotondo su cui erano sparsi giornali e riviste. Il «Daily Express» titolava a caratteri cubitali: «I CECHI ACCETTERANNO L’ULTIMATUM DI HITLER? I TEDESCHI CHIEDONO L’EVACUAZIONE DEL TERRITORIO DEI SUDETI ENTRO IL PRIMO OTTOBRE». Si stava chinando per proseguire la lettura quando Edward gli posò la mano sulla spalla e disse: «Sta’ tranquillo, vecchio mio. Adesso è tutto nelle mani dei cechi, no? Dovranno acconsentire. Non hanno scelta. Due gin con angostura, grazie, George. Ti offrirò un pranzetto coi fiocchi».
A pranzo però incontrarono un tizio che ne conosceva un altro che aveva parlato con il colonnello Lindbergh a una festa, e questo gli aveva detto parecchie cose interessanti e piuttosto allarmanti sull’aviazione tedesca, che era assai più, e meglio, equipaggiata di quanto si fosse creduto fino a quel momento. Aveva detto anche che stavano scavando fosse nei parchi, circostanza che sembrò allarmare Edward più delle notizie sull’aviazione tedesca. «A quanto pare forse ci tocca prenderli sul serio, i crucchi», disse. «Dio santo. Stavolta mi arruolo in Marina».
«La Marina non può fare molto contro i bombardieri», disse Hugh. «Andiamo incontro a massicci bombardamenti aerei. Non sarà come l’ultima guerra. Non esiteranno a bombardare i civili».
«Be’, noi i nostri, di civili, li terremo al sicuro in campagna», dichiarò Edward col tono forzatamente leggero che, Hugh lo sapeva bene, usava quand’era inquieto. Per il resto del pranzo parlarono dell’indecisione di Rupert.
«Se decide di venire a lavorare da noi, dovrà prendere decisioni di continuo. E non è esattamente la cosa che gli riesce meglio».
Hugh gli rispose: «Ci saremo noi a insegnargli. Imparerà».
«Non ne sono affatto sicuro».
Vi fu un breve silenzio, ed entrambi dovettero ammettere di essere sull’orlo di un baratro.
«Dovremmo mettere a punto un piano di emergenza».
«Per Rupe?».
«Per tutto».
Edward guardò suo fratello, i suoi occhi inquieti e sinceri, il tic nervoso allo zigomo destro, il moncherino avvolto nel guanto di seta nera posato sul tavolo, poi di nuovo i suoi occhi, la cui espressione non era mutata. Disse: «Mi consideri un vecchio brontolone ostinato, ma sai che ho ragione».
* * *
Zoë si era messa in una situazione scomoda. Naturalmente la soluzione era una sola ed era una prospettiva che non la rallegrava affatto, ma lei si ostinava a considerarla ancora soltanto un’eventualità. Le condizioni di sua madre erano migliorate tanto da consentirle di stare parte della giornata in piedi o seduta, il che per Zoë voleva dire dover trascorrere con lei molto più tempo di quanto facesse quando Mrs Headford era costretta a letto. Voleva dire anche visite più sporadiche da parte del dottor Sherlock, che pure continuava a farsi vedere con una certa frequenza. I primi tre giorni, quando sua madre era stata molto debilitata, Zoë le aveva preparato delle uova appena sode, delle sottilissime fette di pane imburrato e perfino delle prugne cotte, le aveva rifatto il letto ogni giorno e aveva pulito il bagno, lavori orribili la cui sola prospettiva le faceva passare la voglia di alzarsi al mattino dallo scomodo divano letto del soggiorno. Usciva solo per restituire e prendere nuovi libri in biblioteca; Ruby M. Ayres per sua madre, che aveva bisogno di letture leggere, e quello che trovava per sé, perlopiù Somerset Maugham e Margaret Irwin. Furono giornate di una noia suprema, spezzata solo dalla telefonata serale con Rupert – non più di tre minuti perché la Duchessa considerava il telefono un lusso, soprattutto se si trattava di interurbane – e dalle visite del dottor Sherlock. Il dottor Sherlock era un uomo sulla quarantina, o almeno così le pareva dalle striature grigie nella folta chioma ondulata. Era eccezionalmente alto, aveva gli occhi marroni e una voce piacevole, e Zoë si era accorta che sua madre, quando aspettava una sua visita, faceva grandi sforzi per rendersi presentabile, come diceva lei. La prima volta che era venuto, Zoë lo aveva scortato in camera di sua madre, dove l’ammalata giaceva nella sua vestaglia rosa pesca bordata di piume bianche e con la schiena poggiata sui cuscini, poi aveva chiuso la porta ed era tornata nel piccolo soggiorno ingombro a fare un po’ d’ordine. Dopo che Zoë si era sposata, sua madre si era trasferita in un appartamento più piccolo ed economico e, dato che non aveva voluto separarsi dalle sue cose, il posto straripava di roba. Non c’era un angolo dove Zoë potesse mettere i propri vestiti, o anche solo le lenzuola che sistemava ogni sera sul divano letto; i cosmetici doveva tenerli nel piccolo bagno buio. Tutte le superfici piatte brulicavano di fotografie, quasi tutte di Zoë in varie fasi della sua vita, dall’infanzia all’età adulta. Le pareti, dipinte tutte di rosa pesca – il colore che sua madre, ligia al verbo di Miss Arden, considerava il più adatto a una donna –, erano ormai discretamente sudicie, così come le leziose tende di tulle che coprivano tutte le finestre, a filtrare o ostruire del tutto la luce del sole. L’appartamento si trovava al quarto piano di un grande condominio; per uscire bisognava prendere un lentissimo ascensore simile a una gabbia che peraltro restava spesso bloccato a un altro piano perché i vicini dimenticavano di chiudere il cancello rigido e cigolante. Sembrava proprio una prigione, stava pensando Zoë quando entrò il dottor Sherlock.
«Allora, Mrs...».
«Cazalet».
«Mrs Cazalet. Sua madre si sta riprendendo bene. Le ho detto di stare a riposo per almeno qualche altro giorno. Le serve una dieta leggera: pollo, pesce, questo genere di cose...».
«Non sono una gran cuoca... non crede che starebbe meglio in ospedale?».
«No, no. È molto meglio che se ne occupi lei. Può fermarsi qualche altro giorno, vero? Sua madre lo spera vivamente».
«Qualche altro giorno, sì. Mio marito è in campagna, coi bambini».
«Oh, capisco. E non vuole restare troppo a lungo lontana da loro».
«Be’, veramente è soprattutto mio marito che non vuole. Non gli piace che io stia via troppo a lungo».
Le rivolse un sorriso allusivo. «Lo credo. Be’, forse potrebbe portare sua madre in campagna con lei per qualche giorno».
«Oh, no. È impossibile! Si tratta della casa dei miei suoceri, ed è già piena di gente».
Il dottore aveva scritto qualcosa sul blocco delle ricette, e alzò gli occhi su di lei. Ora il suo sguardo era pieno di aperta ammirazione. Strappò il foglio dal blocco e glielo porse.
«Bene. Comunque decida, faccia in modo che sua madre lo sappia. È molto importante che non si agiti. Le prescrivo un blando sedativo per aiutarla in questo e anche a dormire la notte».
«Tornerà domani?».
«Sì. A proposito... ce l’ha una padella?».
«Io.... Non credo». Non ne aveva mai vista una in vita sua.
«Se ne faccia dare una dal farmacista. Voglio che sua madre resti a letto ancora per un giorno o due. Non deve alzarsi per andare al bagno». Mentre parlava riponeva il blocco nella borsa e si preparava ad andarsene. «Ci vediamo domani, Mrs Cazalet. So già dov’è la porta».
Sentì la porta aprirsi e poi chiudersi, dopodiché ci fu il silenzio. Fu una giornata spaventosa: fece la spesa, andò a prendere le medicine e la padella, poi dovette convincere sua madre a usarla, poi le toccò svuotarla e lavarla e riporla nella camera color pesca con sopra un asciugamano color pesca. Una signora gentile, dal pescivendolo che trovò in Earl Courts Road dopo aver camminato per chilometri, le disse come cucinare i filetti di platessa che aveva comprato. «Sono per un malato, vero? Deve metterli su un piatto coperto con un altro piatto e poi sopra una pentola di acqua bollente, mia cara». E questo era già qualcosa, ma non aveva chiesto per quanto tempo e in più si era bruciata le dita col piatto di sopra mentre cercava di sbirciare se si erano cotti bene. In breve tempo l’appartamento si riempì di puzzo di pesce e, come se non bastasse, sua madre non lo volle. «Lo sai che il pesce non mi piace, Zoë», disse. «Va bene. Un po’ di pane e di latte basteranno. E dell’uva, anche», disse a voce alta alla figlia che stava portando via il vassoio. «Hai comprato l’uva, vero?».
«Non avevi detto di volerla. Ti ho chiesto se desideravi qualcosa in particolare e hai detto di no. Ci andrò nel pomeriggio».
«Non voglio causare noie».
Invece lo fai, pensò mentre vuotava il piatto di pesce nella spazzatura. La faccenda della padella le aveva fatto passare del tutto l’appetito. Uscì di nuovo a comprare dell’uva e una zuppa di tartaruga in scatola da dare a sua madre per cena. La sera, al telefono con Rupert, si lamentò a lungo di quanto tutto fosse sgradevole e di quanto le mancasse. Lui si mostrò molto comprensivo, disse che era una meravigliosa infermiera, che le toccava portar pazienza e che si sarebbero sentiti l’indomani.
Poi le cose evolsero rapidamente. La mattina venne il dottor Sherlock e lei preparò del caffè – era l’unica cosa che le riuscisse bene – per offrirglielo dopo che aveva visitato sua madre. Lui ne accettò una tazza. La paziente faceva ottimi progressi, disse, presto sarebbe stata in grado di alzarsi per una o due ore, ma lui le aveva detto di fare un riposino pomeridiano e di andare a letto presto la sera. «E lei come passa il tempo, una volta che sua madre è andata a dormire?».
Zoë fece un’alzata di spalle. «In nessun modo. A quanto pare i miei amici sono tutti fuori città. E non ho voglia di andare al cinema da sola». Aveva provato a mettersi in contatto con un paio di amiche dei tempi della scuola, ma senza esito. Abbassò gli occhi sulla tazza che teneva in grembo e poi li alzò di nuovo verso di lui, con un sorriso seducente: «Ma non posso lamentarmi».
«Per la maggior parte della gente questo non è un motivo per non farlo. Me compreso. Mia moglie se n’è andata coi ragazzi a Hunstanton. Doveva essere per un paio di settimane e invece sono via già da tre e non sembra vogliano tornare».
«Oh, poveretto!». Fece per offrigli altro caffè.
«Grazie. È delizioso, ma devo andare. Ho altre visite prima di pranzo». Si alzò in piedi. Quello stesso pomeriggio Zoë andò a casa sua per prendere altri vestiti.
Alla fine della settimana, sua madre era in grado di stare in piedi parte del giorno, di lavarsi e usare il bagno. Il venerdì lui le propose di uscire a cena. «Se non ha di meglio da fare». Non aveva di meglio da fare.
Per tacito accordo tra i due, Mrs Headford non ne fu informata. Zoë le disse che sarebbe andata al cinema; lui non disse nulla. La portò da Prunier, e tra un paté traktir e un bicchiere di chablis si scambiarono quel genere d’informazioni ellittiche e seducenti che preparano il terreno all’attrazione fisica. Da quanto tempo era sposata? Quasi quattro anni. Allora si era sposata molto giovane. Sì, solo diciannove anni. Una bambina. E i figli? Non ne aveva. Suo marito era già stato sposato. I bambini cui aveva alluso li aveva avuti dal precedente matrimonio. Zoë era molto giovane per tirare su dei figliastri. Sì, certe volte era difficile. Indossava un abito dalla scollatura profonda che rendeva provocante il piccolo movimento che faceva scrollando le spalle in cenno di pacato diniego. All’inizio aveva tentato la carriera di attrice, aveva fatto del volontariato, ma il matrimonio aveva messo fine a tutto. Lui non era stupito che avesse tentato di calcare le scene. Erano alla sogliola à la véronique quando lei gli chiese qualcosa di sé. Niente di speciale. Era un medico condotto con uno studio ben avviato e una casa in Redcliffe Square, sposato da dodici anni e con due figli. A sua moglie Londra non piaceva e, con una sommetta ereditata dal padre, aveva comprato una casa nel Norfolk da cui le riusciva difficile separarsi. Lui invece non andava pazzo per la campagna, si trovava meglio in città. Oh sì, anche lei! E quella loro affinità, a cui brindarono guardandosi negli occhi, sembrò assumere una serie di deliziosi significati segreti. «È straordinario», disse lui con studiata leggerezza, «quanto ci somigliamo». Stavano bevendo il caffè quando un cameriere venne a dirgli che lo volevano al telefono. Quando tornò, era davvero dispiaciuto ma dovevano andare via: una visita urgente. No, no, finisci il caffè. Chiese il conto.
«Che peccato», disse. «Speravo di portarti a ballare».
«Davvero?». Zoë non poté nascondere del tutto la propria delusione. «Ma come facevano a sapere che eri qui?».
«Quando esco lascio sempre un recapito ai pazienti gravi. Fa parte del mio lavoro. Non ho un socio».
Quando l’ebbe riportata in macchina di fronte al condominio di sua madre, le disse: «Ti dispiace se me ne vado subito?».
«No, certo che no. Grazie per la cena. È stato bello uscire».
«È stato bello uscire con te», ricambiò lui. «Magari potremmo andarci un’altra volta, a ballare».
«Magari».
Lui restò a guardarla mentre saliva agile gli scalini fino all’ingresso dell’edificio e apriva la porta con la chiave. Si voltò e gli fece un cenno di saluto. Lui le rispose mandandole un bacio. Era la prima volta che Zoë usciva con un altro uomo da quando si era sposata, e sentiva di essere tornata a giocare su un terreno che conosceva bene e che tuttavia la eccitava ancora.
Il giorno dopo tornò a casa per prendere un abito da sera, e alcune sere dopo lui la portò al Gargoyle. Lui era un ballerino eccellente, l’orchestra suonò i suoi pezzi preferiti e il capocameriere si complimentò chiamandola per nome. Stavolta non furono interrotti da alcuna telefonata. Zoë si era messa il vecchio abito bianco che le lasciava la schiena scoperta (dopotutto lui non sapeva che era vecchio), un nastro di velluto verde con la fibbia di strass intorno al collo e le sue vecchie, comode scarpe verdi che erano perfette per ballare. Il piacere e la gioia del ballo animavano la sua bellezza rendendola più infantile e più misteriosa allo stesso tempo, e lui ne fu stregato. Le disse che ballava divinamente e che era incantevole, e all’inizio furono dei semplici complimenti; lei li accettò educatamente, col piglio di una donna ricchissima che riceve in dono un mazzetto di margherite. Più tardi però, quando dopo diversi bicchieri i complimenti si fecero più impegnativi – «Non ho mai visto una donna che sia bella anche solo la metà di te» –, lei si fece più compunta. Conscia dell’effetto della sua bellezza si lasciò sfuggire alcune frasi allusive, tanto per alimentare il suo interesse. «Sono una persona molto noiosa, però. Ho un’indole frivola».
«Non sei affatto noiosa. Ti va un brandy?».
Zoë fece di no con la testa. «Lo sono invece! Non capisco un’acca di politica e non leggo libri seri... e poi...», si sforzò di nominare altre piccolezze, «non vado alle riunioni sulle cose e non faccio beneficienza». Vi fu un silenzio, durante il quale lui non seppe toglierle gli occhi di dosso. «E poi... avrai notato che ci sono un sacco di quadri, ritratti di donne, sulle pareti di questo locale... be’, li ha dipinti un certo Matisse, uno molto famoso, ma io non riesco a vederci niente di speciale».
Lui disse: «Adoro la tua onestà».
«Te ne annoieresti presto».
Zoë lanciò un’occhiata al brandy che lui aveva ordinato, e lui fece un cenno al cameriere. «Cambi idea ogni volta a proposito del brandy, vero?». Era successo anche la sera prima; lui era tutto contento di essere arrivato a conoscerla tanto bene.
Zoë lo guardò con finto biasimo. «Non ogni volta. Non c’è niente che io faccia sempre».
«Ne sono certo».
«E sono un disastro nelle faccende domestiche. Non so cucinare e, se vuoi saperlo, non credo nemmeno di essere un tipo materno».
Ma lui era si era già spinto troppo in là per prendere atto di oneste verità.
E adesso? Otto giorni dopo si rese conto che la faccenda le era sfuggita di mano. Quell’uomo era innamorato pazzo di lei. Cercò di portarla a letto, ma lei resistette alla tentazione, trovandola però straordinariamente forte. Ciò la portò a sentirsi assai virtuosa durante le conversazioni telefoniche con Rupert, le quali del resto si andavano facendo sempre più false. Gli disse che la mamma faceva progressi, sì, ma a rilento, e che non se la sentiva di lasciarla prima di essere certa che stesse bene. Con sua madre le cose erano diverse. Alla fine di una conversazione di Zoë con Philip, che le telefonava tre volte al giorno, sua madre alzò gli occhi dal libro e disse: «Stai uscendo con lui, vero?».
«Di che diavolo stai parlando?».
«Con lui. Col dottor Sherlock. Rupert lo sa?».
Zoë ignorò quest’ultima domanda e disse: «Sono uscita a cena con lui una o due volte, sì. Ho fatto male?».
«Non lo so, Zoë. Hai un bel matrimonio, non ti manca niente. Ma se Rupert lo sa e non ha niente da obiettare, immagino che vada bene così».
Zoë non rispose alla domanda implicita, e sua madre non ebbe il coraggio di formularla di nuovo.
Disse a Rupert di non telefonare mai dopo le sette, per non svegliare sua madre, e così si sentiva al sicuro.
Quella sera, come promesso, Philip la portò a vedere Lupino Lane in Me and My Girl. A Zoë lo spettacolo piacque, e ancora di più le piacque il fatto che attraverso di esso Philip stesse guardando lei. Poi andarono al Savoy, cenarono e ballarono. Si era messa il suo più recente acquisto, un abito di seta cordonata verde oliva che aveva scelto perché si intonava al colore dei suoi occhi e metteva in risalto il candore delle sue spalle. Si era tirata su i capelli e si era messa il nastro di velluto con la fibbia di strass sulla nuca (con suo grande rammarico, aveva lasciato tutti i gioielli nel Sussex). Sapeva di essere al culmine della sua bellezza, ed era segretamente indispettita dal fatto che lui non glielo avesse ancora detto. In compenso tutti gli altri la notarono: il capocameriere, il sommelier, persino Carrol Gibbon le sorrise da dietro il pianoforte, e i suoi occhiali scintillarono mentre la guardava scendere sulla pista da ballo.
«Sei molto silenzioso», gli disse infine. «Non ti piace il mio vestito? L’ho messo apposta per te. Non sono abbastanza elegante, forse?».
«No, non elegante», fu la replica di lui. «Non è così che ti descriverei». Zoë sentì la pressione della sua mano in fondo alla schiena. «Sei semplicemente irresistibile. Ti voglio più di qualunque altra cosa al mondo».
«Oh, Philip!».
Ma non molto tempo dopo, quando ebbero finito di mangiare e le luci furono abbassate, Philip le domandò: «Saresti disposta a sposarmi, se non fossimo già sposati?».
Lei lo guardò incredula: sembrava serissimo.
«Ma noi siamo sposati».
«Nel mio caso, ancora per poco. Mia moglie mi ha scritto che ritiene probabile che scoppi una guerra e che quindi non tornerà a Londra. Terrà i bambini con sé in campagna. Credo che mi concederebbe il divorzio se glielo chiedessi. Del resto il nostro non può più considerarsi un matrimonio da diversi anni».
«Poverino!».
Le rivolse un sorriso lievemente sarcastico. «Non dispiacerti per me. Non mi sono negato delle consolazioni. Sono un ottimo amante».
Ci fu un silenzio. Zoë era imbarazzata. Si sforzò di escogitare una replica adulta e noncurante.
«Sono davvero lusingata, ma è del tutto fuori discussione. Rupert non mi concederebbe mai il divorzio».
«Ma tu lo vorresti?».
Tempo dopo avrebbe dovuto riconoscere che se solo fosse stata onesta e gli avesse detto che non voleva affatto divorziare, che le piaceva ma che non era innamorata di lui, le cose quasi certamente avrebbero preso una piega diversa. Il fatto era che già in precedenza gli aveva dato a intendere che a casa c’erano delle difficoltà, per avere in cambio la sua compassione e le sue attenzioni. Se non fosse stata tanto sciocca, non si sarebbe cacciata in quel guaio. Perché di questo si trattava. Si rese conto con molto disagio che lui era fin troppo serio. L’intensità dei sentimenti che le stava dichiarando la spaventò, e allora cominciò a mentirgli deliberatamente. Pensò che si sarebbe sentito meglio se gli avesse fatto credere che provava anche lei gli stessi sentimenti, ma che i suoi alti principi morali le impedivano di fare ciò che entrambi desideravano. Questo sulle prime alleviò la tensione, ma dopo, mentre la riaccompagnava, Philip le chiese di andare a casa sua; lei rifiutò e lui la supplicò; rifiutò di nuovo e lui la baciò, lei pianse e lui diventò tenero, pentito. Quando finalmente andò a letto, Zoë era esausta al punto da non riuscire a dormire, si sentiva in colpa, arrabbiata, arcistufa e voleva solo tirarsi fuori da quella situazione.
La mattina dopo sua madre, che era preoccupata più di quanto avesse dato a vedere a Zoë, annunciò che avrebbe trascorso la convalescenza con una vecchia amica, Maud Witting, che viveva sull’isola di Wight e l’aveva invitata più volte. «Tu puoi tornare nel Sussex, cara. È lì il tuo posto».
Zoë accolse la notizia con sollievo e si comportò come un vero angelo, parole di sua madre: le fece la valigia, andò a comprarle le cose che le occorrevano e la confezione di gelatine di frutta che aveva l’abitudine di portare in dono all’amica, poi l’accompagnò in taxi fino a Waterloo e aspettò che si sistemasse nello scompartimento del treno. «Porta i miei saluti a Rupert. Gli hai detto che torni stasera?».
E Zoë disse a sua madre una bugia. Sapeva di non essere stata abbastanza premurosa con lei, e non volle farla preoccupare. Ma mentre usciva dalla stazione provò un senso di libertà. Sua madre stava meglio e avrebbe trascorso giornate assai più piacevoli andando in villeggiatura che non standosene in quello spaventoso appartamentino. Quanto a lei, adesso era libera di sparire quando voleva liberandosi una volta per tutte di Philip. Dato che doveva portar via quello che era diventato un considerevole guardaroba da casa di sua madre a Brook Green, decise di passare un’ultima notte a Londra e di dire a Philip che sarebbe ripartita per il Sussex l’indomani. Riuscì a farglielo sapere per telefono (ormai non veniva più a visitare sua madre, avendola dichiarata guarita). Dall’altra parte ci fu un momento di silenzio, poi lui disse: «Non vorresti una serata di addio?». E lei si ritrovò a dire che sì, le avrebbe fatto piacere vederlo, se voleva. Lo disse sentendosi onesta e distaccata: se lui voleva vederla del resto erano fatti suoi.
Andò a prenderla alla solita ora, cenarono a Soho in un ristorante dove non l’aveva ancora mai portata; tutto sembrava come sempre, ma non lo era. Zoë notò quasi subito che Philip non faceva commenti sul suo aspetto – di solito il loro principale argomento di conversazione – e dopo un po’ cominciò a preoccuparsi. Indossava un vestito che lui le aveva già visto e per di più non aveva dormito bene la notte precedente, ma quando lei accennò a queste cose lui le disse che gli sembrava sempre la stessa e continuò a parlare d’altro: la televisione sarebbe riuscita a raggiungere il grande pubblico? Ne aveva mai vista una? No? Certo era che, se si fosse affermata come mezzo di comunicazione, avrebbe surclassato la radio e anche, per come la vedeva lui, il cinema. «Mi sarebbe piaciuto essere un’attrice di cinema», disse lei.
«Davvero?», ribatté lui. «Be’, credo che sia la massima aspirazione di ogni singola commessa di Londra». Non le piacque essere messa nel mucchio, e così mise il broncio. Non si stava rivelando per niente la serata di addio che aveva immaginato. Dopo un po’ andarono a ballare, lui smise di parlare e le cose migliorarono. Un attimo prima di andarsene lui la baciò sulla pista da ballo, e Zoë capì che aveva ancora delle mire.
Philip volle anche salire con lei fino all’appartamento per essere sicuro che arrivasse sana e salva e lei gli disse di non disturbarsi e che comunque non voleva svegliare sua madre. «Tua madre?». Sì, la volta precedente purtroppo l’avevano svegliata e le aveva promesso di non farlo più. «Ti prometto che non sveglieremo tua madre», disse Philip entrando in ascensore con lei. «Voglio solo venire a bere un tè e a fare due chiacchiere. In fondo è la nostra ultima sera».
«È stato bello».
«Trovi?».
Zoë chiuse la porta con ostentata delicatezza e si ritrovarono in piedi in quell’orrendo minuscolo soggiorno. Lui le tolse lo scialle e lo adagiò su una poltrona.
«Non vuoi davvero il tè, vero?».
«No», disse lui. «Non lo voglio». La prese tra le braccia e la baciò. Fino a quel momento la cosa era stata eccitante, ma quello che più le era piaciuto era il desiderio che sentiva in lui, mentre i suoi sentimenti, quelli di Zoë, erano rimasti intatti, lontani. Adesso che sentiva il proprio corpo corrispondere a quel desiderio, s’irrigidì.
Tentò di divincolarsi, lui staccò la bocca dalla sua e lei riuscì a dire: «Questo non è parlare. È meglio se vai, Philip».
Le strinse le spalle nude con le mani e disse con voce neutrale: «Senti che ci stiamo spingendo troppo oltre?».
«Sì! Sì! È così».
«Non vuoi che facciamo qualcosa di cui poi ci pentiremmo?».
«No, certo». Cercò di dirlo con noncuranza, ma non c’era più sul viso di lui quell’espressione tenera e adorante con cui la guardava di solito, e lei non riusciva a capire cosa ci fosse al suo posto. «E poi te l’ho detto. Non dobbiamo svegliare mamma». Il brevissimo silenzio che seguì le fu sufficiente per pensare a quanto fosse silenzioso quell’appartamento e al fatto che, se avesse gridato, nessuno l’avrebbe sentita. Poi capì che lui era davvero arrabbiato, e sorrideva.
«Che piccola bugiarda! Tua madre mi ha telefonato questa mattina per un ricetta da mandarle per posta. Dovevi raggiungere tuo marito oggi stesso, non è così? Ma non hai resistito a un’altra serata di giochetti. Tu sei bellissima, mia cara. Sei anche la creatura più egocentrica che io abbia conosciuto in vita mia. Hai sempre saputo qual è la tua forza, ma non sai niente della tua debolezza. È ora che lo impari». E con un movimento rapido e improvviso la sollevò, la portò nel salotto e la depositò sul divano.
Le ore che seguirono Zoë le avrebbe ricordate per tutta la vita con un doppio senso di vergogna. La normale vergogna che una cosa simile fosse davvero accaduta, e poi una vergogna più profonda e insidiosa: che le sue resistenze erano state vinte e lei si era lasciata andare a qualcosa che non aveva nulla a che fare con l’amore così come lo aveva conosciuto fino ad allora. Lui non le disse parole tenere, né la supplicò di amarlo, non disse proprio niente. Si mise invece a innescare col tocco la sua sensualità, osservando gli effetti di ciò che faceva. Anni dopo le capitò di vedere un film francese in cui degli uomini rapinavano una banca e uno di loro cercava di capire la combinazione della cassaforte; lei riconobbe quell’espressione di intensa e impassibile concentrazione e venne, arrossendo nel buio. Una volta che ebbe scoperto che cosa la eccitava, lo fece e lo rifece, cosicché lei, che di solito dispensava piaceri, cominciò a supplicarlo: le iniziali proteste si tramutarono in remissività, poi la prese l’ansia del godimento e lui si trattenne fino a renderla pazza di voglia. Per tutta la vita avrebbe ricordato il suono della propria voce mentre lo supplicava. Ore dopo – tutto era già accaduto diverse volte e lei doveva essersi addormentata – si svegliò all’improvviso sola, con una coperta buttata sul corpo nudo e la luce della lampada ancora accesa sul tavolinetto minuscolo, smorzata dal chiarore grigio del mattino.
Sulle prime pensò che lui fosse ancora in casa, ma quando si alzò e si avvolse nella coperta constatò che invece non c’era. Era tutta indolenzita, col collo rigido per aver dormito in una posizione scomoda sul divano. I vestiti che portava la sera prima giacevano in disordine là dove lui li aveva buttati. Fu un sollievo che se ne fosse andato. Mentre faceva il bagno, squillò il telefono. Non gli avrebbe risposto, pensò, cercando di raccogliere i frammenti della sua vecchia immagine di sé: l’adorabile, altera Zoë che era capace di far impazzire qualunque uomo mantenendo il più severo distacco. Quando smise di squillare cominciò a chiedersi con ansia che cosa mai avesse voluto dirle. Lei in quel momento non era capace di pensare a nulla.
Più tardi, quando si era ormai vestita e si stava preparando del tè, il telefono squillò di nuovo. Attese due squilli, poi rispose. Lasciarlo parlare: non avrebbe detto niente, così come lui non aveva detto niente la sera prima.
«Zoë, cara, lo so che è prestissimo per te, ma dovevo chiamarti...».
Era Rupert. Hugh gli aveva telefonato la sera prima. Lui e Edward erano preoccupati per come si stavano mettendo le cose, e Hugh aveva detto che Londra non era un buon posto dove stare, se la Situazione fosse peggiorata ulteriormente. L’aveva chiamata la sera prima, ma evidentemente era uscita. Perciò la cosa migliore era che prendesse il treno quella mattina stessa, portando con sé sua madre, se necessario. Ne partiva uno alle dieci e venticinque, aggiunse.
Zoë udì la propria voce mentre gli spiegava che sua madre era già partita e che lei aveva in programma di tornare quel giorno stesso. «Hai chiamato tu qualche ora fa?».
«Buon Dio, no! So bene come reagisci quando ti sveglia il telefono. Ci vediamo a Battle, allora. A più tardi, tesoro».
Riappese la cornetta; tremava e le cedevano le ginocchia. Raggiunse a tentoni il soggiorno e si lasciò cadere sulla piccola poltrona dorata accanto alla lampada. Era troppo presto per sentire la voce di Rupert. Era ancora scottata, e confusa; avrebbe avuto bisogno di un po’ di tempo prima di rivederlo, ma di tempo non ce n’era. Mentre le salivano le lacrime agli occhi, iniziò a mettere insieme una versione di quanto era accaduto che potesse apparire tollerabile. Aveva dato corda a quell’uomo e lui se n’era approfittato: l’aveva violentata. Ma non si era trattato di uno stupro. Non era colpa sua se gli uomini perdevano la testa per lei, Philip era molto più vecchio, lei gli aveva detto che era sposata e che non aveva alcuna intenzione di lasciare suo marito, perché non l’aveva accettato e non si era fatto da parte? Lei però aveva fatto di tutto per sedurlo, aveva voluto che s’innamorasse di lei, non si era fatta nessuno scrupolo. «Piccola bugiarda!».
Era così pazzo di lei che non aveva potuto rinunciare a portarla a letto, e lei aveva pensato che almeno questo glielo doveva. Ma non gli si era concessa con distacco. «Oh, Philip... ti prego... ti prego!». L’aveva sedotta, chiaramente aveva molta esperienza, chissà con quante donne era stato. Aveva pianificato tutto dall’inizio. Seppure lei si fosse opposta, la sera prima, lui l’avrebbe violentata. Certo è però che, se vai a ballare tutte le sere con uno che in tutta evidenza prova un’intensa attrazione nei tuoi confronti e poi lo inviti in un appartamento vuoto, che ti aspetti? Cos’è che aveva detto? Qualcosa come: «Non sai niente della tua debolezza». Adesso le pareva di non esser fatta che di quello: debolezza. Era sintomo di debolezza lasciarsi ridurre in quello stato... come un animale? O come una puttana. Ma quelle lo facevano per soldi, no? E se la sera prima fosse stata una questione di soldi, be’, a pagare sarebbe stata lei. Nessuna delle ricostruzioni che riuscì a escogitare le parve abbastanza vicina alla verità da non farla sentire a disagio. Spense la luce, stanca e umiliata, e cominciò a raccattare i vestiti dal pavimento, poi si vestì e fece la valigia per tornare nel Sussex.
* * *
La stessa mattina Raymond telefonò a Mill Farm per annunciare che zia Lena era morta. Nora capì quello che era successo dal fatto che sua madre usava un tono di voce artificiale. Nora riteneva che nessuno potesse addolorarsi più di tanto per la morte di zia Lena, dato che era vecchissima e la vita non l’aveva mai particolarmente entusiasmata. Notò però che zia Villy aveva assunto lo stesso tono della mamma e che, quando dissero che era una cosa molto triste, sembravano proprio la stessa persona. Il funerale sarebbe stato celebrato il lunedì a venire, disse Jessica, e Raymond aveva espresso il desiderio che Angela e Christopher l’accompagnassero. «Oh, posso venire anch’io?», piagnucolò Nora. «Non ho mai assistito a un funerale».
«Sì, invece», la rimbeccò Neville. «C’è stato il funerale di Bexhill una settimana fa. E tu c’eri».
«Una settimana appena; prima che invecchiassero le scarpette con cui seguì la salma della sua povera medusa5...», fece Louise con aria sognante.
«Buoni, ragazzi! Anzi, se avete finito di fare colazione, andate».
Lydia si alzò all’istante. «Dove vuoi che andiamo, mammina cara? Voglio dire, dove preferisci che andiamo?».
«Al diavolo», s’intromise Neville. «O forse in bagno».
Judy, che era molto lenta a mangiare, si cacciò in bocca il pane tostato e disse: «È più difficile seppellire la gente grassa? Zia Lena era gigantesca», aggiunse a mo’ di spiegazione.
«Judy, fammi il favore di stare zitta e di uscire di qui».
«Anche noi dobbiamo andare», disse Louise a Nora, per anticipare il rimprovero.
Villy emise un sospiro di sollievo, poi si accorse che Angela era ancora lì.
«Non ti preoccupare, mamma. Devo andare o farò tardi alla seduta». Rupert le faceva il ritratto dalle dieci all’una di mattina, circostanza che le permetteva di stare per ore in sua compagnia senza dover parlare. Il ritratto era quasi finito, ma lei viveva nella speranza che decidesse di cominciarne un altro.
«Qualche volta ho il sospetto che si sia presa una cotta per Rupert», disse Jessica dopo che Angela fu uscita.
«Oh, be’, non è un problema. Con Rupert puoi stare tranquilla. Io credo che sia solo eccitata all’idea di avere un suo ritratto. Ti ricordi com’eri entusiasta tu quando Henry Ford ti ritrasse per illustrare una storia di fate?».
«Sì, ma a me non importava niente di lui. La mia era pura e semplice vanità», disse Jessica scrollando le spalle. «Dio mio, povero Raymond! Deve occuparsi dell’organizzazione del funerale... lui è una frana in queste cose».
«Immagino che debba andarci tu».
«Certo che devo andarci. Ma vorrei tanto evitare di portare con me i ragazzi. Christopher si agiterà e Raymond se la prenderà con lui. Quanto ad Angela, metterà il broncio e dirà che non ha il vestito adatto. Non ce l’ho neanch’io, se è per questo».
«Io ho un vestito bianco e nero che potrei prestarti, se non è troppo corto per te. Se lasci qui i ragazzi, vorrà dire che tornerai prima».
Sebbene non avesse detto a Jessica della possibile gravidanza, sapeva che sua sorella le sarebbe mancata: non aveva con nessun altro la confidenza che aveva con lei. La settimana passata con Jessica, anzi, le aveva dato la misura di quanto fosse sola.
* * *
Quella mattina, alle undici in punto, un camion della Cazalet parcheggiò sul vialetto, l’autista uscì dalla cabina e bussò alla porta della cucina con in mano una matita spuntata che si era tolto da dietro l’orecchio. Mrs Cripps, che era intenta nell’ardua impresa di preparare uno stufato con sette chili di collo d’agnello, spedì Dottie a cercare Mr Cazalet senior. Dottie però non era brava a trovare le persone. Si dileguava all’istante, ma poi non si faceva più vedere perché sapeva che non era saggio presentarsi a Mrs Cripps senza essere riuscita nel suo compito. Il tempo passava. L’autista tornò nella cabina e mangiò un panino da cui pendevano brandelli di noce di cocco, bevve un thermos di tè e lesse lo «Star». La faccenda passò di mente a Mrs Cripps, finché non le servì il secchio di prugne che Dottie non aveva prelevato da davanti la porta sul retro dove Mr McAlpine lo aveva lasciato. Chiamò Dottie con un grido stridulo, Eileen disse che non la vedeva da un po’ di tempo e c’erano ancora le prugne da prendere: il sole aveva fatto il giro e c’erano vespe dappertutto.
«Eileen, è meglio che vai a cercare Mr Cazalet senior, anche se mi pare di capire che avremo una bocca in più da sfamare per cena». Così Eileen andò a bussare alla porta del salotto, dove la Duchessa e Sid stavano suonando il violino.
«È successa una cosa molto strana», disse la Duchessa a Rachel e Sid quando tornò in salotto. «Quest’uomo dice di dover consegnare ventiquattro brande da campo su ordine di William. A che gli serviranno?».
«Un’evacuazione».
La Duchessa parve sollevata. «Oh, spero si tratti solo di questo! Ti ricordi quella volta che conobbe quella squadra di cricket in treno e li invitò tutti a cena e non avevamo che pasta al formaggio? Chi credi che voglia ospitare? O cielo, spero non i membri del suo club! Sono talmente spocchiosi in fatto di cibo».
«Sono certa di no, cara mamma. Lo sai che gli piace andare sul sicuro. È il tipo che, se gli serve qualcosa, ne compra a dozzine». Rachel cercò di mantenere un tono rassicurante, ma era turbata.
«Ma dov’è?».
«È andato a Brede. Pare che laggiù ci sia un rabdomante bravissimo. Vuole scavare un altro pozzo per le nuove abitazioni. Ha detto che sarebbe tornato per pranzo. Ci occupiamo noi del camion, che ne dici, Sid?».
«Ma certo».
«Non farle sollevare della roba, Sid. Ha di nuovo il mal di schiena».
«Va bene».
* * *
«Ecco fatto».
«L’hai finito?».
«No, no. Ma adesso devo andare». Stava strofinando il pennello su uno straccio. «Vado alla stazione a prendere Zoë. Accidenti, se non mi sbrigo farò tardi! Non ce la faccio a pulire i pennelli, puoi farlo tu al mio posto?».
Certo che poteva.
«Sei un angelo».
E se ne andò. Fu un fulmine a ciel sereno. Non le aveva detto che Zoë stava per tornare. «Vado alla stazione a prendere Zoë». Forse non aveva davvero voglia d’incontrarla, forse doveva farlo perché erano sposati. Si alzò lentamente in piedi. Era tutta indolenzita per aver tenuto la testa voltata verso di lui; a momenti aveva anche tremato nello sforzo di stare ferma. Ma era disposta a quel sacrificio per stare sola con Rupert e soprattutto per i dieci minuti di pausa ogni ora, in cui le offriva una sigaretta e le diceva che era un’ottima modella. Avrebbe smesso, adesso che Zoë era tornata? Avrebbe almeno finito il quadro, dopo averci lavorato così a lungo, si augurò. Si avvicinò al cavalletto e osservò il ritratto. L’aveva raffigurata seduta sull’ampia poltrona di cuoio che stava in fondo alla sala da biliardo. Il cuoio era di un nero dai riflessi verdastri, e c’era lei seduta a un angolo ma con la testa voltata verso di lui, le mani in grembo. Gli aveva mostrato i suoi vestiti più belli fra cui scegliere, ma lui li aveva scartati tutti e le aveva fatto indossare una vecchia camicia di seta delle sue, di un bianco tendente al verde. Le stava grande, ma lui le arrotolò le maniche e le aprì i primi due bottoni. Lei si sentiva combattuta tra il piacere acuto di indossare una cosa sua e la sensazione che non le stesse affatto bene. Le aveva anche detto di non arricciarsi i capelli, glieli aveva tirati su con un nastro verde che purtroppo apparteneva a Zoë e aveva detto che la preferiva senza rossetto. Si vide scialba e slavata: le aveva anche fatto gli occhi color acquamarina. Le parve che non le somigliasse affatto. Però aveva detto che la trovava bellissima, che altro voleva? Che durasse per sempre, ecco cosa voleva, e gli occhi le si riempirono di lacrime. Di tanto in tanto si era mossa intenzionalmente, in modo che lui venisse a correggerle la posizione della testa; però non le aveva più toccato il viso. Prese i pennelli dal barattolo di vetro in cui li aveva infilati Rupert e cominciò a strofinarli con lo straccio sudicio. E può solo peggiorare, pensò. Non solo Zoë sarà qui dall’ora di pranzo in poi, ma a un certo punto il nostro soggiorno finirà e mi faranno tornare a Londra, costringendomi a lasciarlo. Non so se ce la farò.
* * *
Quando Polly si svegliò quel venerdì mattina si sentiva esattamente come si era sentita la sera prima andando a dormire – terrorizzata e in preda all’angoscia. Era come un incubo, con la differenza che questo stato d’animo non finiva al mattino; all’opposto, di notte non aveva provato nulla, non aveva neppure sognato. Era incredibile che così, dal niente, quando tutto sembrava normale e bello e c’erano solo piccole cose di cui preoccuparsi – come farsi venire la varicella al momento giusto o spiegare alla Duchessa che il latte caldo era un modo sicuro per procurarsi il mal di stomaco, perciò era meglio non berlo –, era incredibile che senza alcun preavviso l’evenienza che più temeva al mondo fosse non solo probabile ma imminente. Era cominciato il giorno prima, dopo il tè. Era salita sul suo albero preferito nel frutteto, dietro l’aia dei polli – quello che una volta condivideva con Louise, solo che ormai a Louise non interessava più, e lei era ben felice che Clary ne avesse uno tutto suo – e si era sistemata sul ramo più comodo con la schiena poggiata al tronco, ben nascosta. Si era portata il suo compito per le vacanze. Miss Milliment aveva permesso loro di scegliere da una lista di letture e lei aveva scelto Cranford, che però si stava rivelando piuttosto noioso. Perciò quando sentì delle voci che si avvicinavano, la sua concentrazione scemò facilmente. Appena furono più vicine, si rese conto che si trattava di zia Rach e di Sid. Era sul punto di chiamarle quando si accorse che zia Rach stava piangendo, cosa inconsueta per un adulto. Le due si fermarono proprio sotto il suo albero, e ormai le pareva tardi per segnalare la sua presenza. Parlavano di una certa Evie che stava dando di matto perché Sid era via, e zia Rach proruppe: «Ma se torni a Londra, se scoppia davvero la guerra, ci saranno bombe, terribili attacchi aerei... ho sentito dire che con due o tre raid potrebbero radere al suolo la città... oppure useranno il gas... non sopporto il pensiero che tu debba affrontare tutto questo senza di me!».
«Tesoro, le tue sono supposizioni. Se ci sarà la guerra».
«Lo sai che se i cechi non accettano l’ultimatum di Hitler la guerra ci sarà! L’hai detto anche tu!».
«Stanno costruendo dei rifugi sotterranei. L’ho letto sul giornale».
«Non servono contro il gas! Hugh mi ha detto che il gas...».
«Ognuno sarà dotato di maschera antigas».
«Non è solo questo. Se dovremo morire tutti, io voglio stare vicino a te. Perciò ti prego di dire a Evie di raggiungerci qui, ma devi farlo subito. Presto verrà dichiarato lo stato d’emergenza e allora non si potrà viaggiare».
«È probabile, sì. Potrebbe esserci anche un’invasione».
«Oh, no. Questo no! Siamo un’isola, dopotutto».
«E siamo anche, per quanto ne so, completamente impreparati alla guerra. Trovo difficile credere che Hitler non lo sappia. È lui che decide i giochi, che fissa le regole».
«Sid, non andare! Fa’ come abbiamo detto. Fa’ venire qui Evie!».
«Hai intenzione di trasformare questa casa in un alveare?».
«Non c’è molto altro che possiamo fare, non trovi? E poi potrebbe non durare a lungo. Potrebbe essere la fine... di tutto».
Calò il silenzio, e quando Polly si sporse tremando per guardare vide che la buona Sid teneva zia Rach tra le braccia e la baciava per consolarla.
«Coraggio, tesoro , ci siamo sempre noi due. Va bene, chiamerò Evie. Se sei sicura che alla Duchessa non dispiaccia».
«Oh, nient’affatto! È solo che non vuole che se ne parli davanti ai bambini. Per non spaventarli».
S’incamminarono, e in pochi secondi scomparvero dalla vista di Polly.
Restò immobile. Il cuore le batteva così forte che le pareva volesse schizzarle via dal corpo. Quando fece per scendere dall’albero, sbagliò le distanze, che pure conosceva a menadito, e si graffiò malamente lo stinco per non cadere. Cercò di sputare un po’ di saliva per pulirsi dal sangue, ma aveva la bocca asciutta. Immagini terribili le attraversavano la mente: quel frutteto diventato un mare di fango, con gli alberi ridotti a scheletri anneriti, sentire la notte i lamenti dei feriti... ma lei no, non li avrebbe sentiti, sarebbe morta prima per via del gas o delle bombe. A Londra il pericolo era maggiore, questo era chiaro – altrimenti zia Rach non si sarebbe agitata tanto – ma potevano sempre bombardare qualche altro posto per errore. E poi a Londra c’era papà, c’era Oscar! Doveva dire a suo padre di portare con sé Oscar quando fosse venuto l’indomani sera... No, doveva fare in modo che tornassero subito, immediatamente! Si alzò in piedi e prese a correre a perdifiato verso casa.
Provò a chiamare papà nel suo ufficio: non c’era, così lasciò detto di chiedergli di telefonare a Miss Polly Cazalet. Pensò di parlarne con Clary, chiederle cosa ne pensasse, ma Clary aveva un gran prurito e sembrava non pensare ad altro che a giocare a Peggotty con chiunque andasse a trovarla. Le cose si stavano mettendo troppo male per perder tempo a giocare, e comunque i ragazzi non sapevano niente, i grandi evitavano di parlarne di fronte a loro. Era a loro, agli adulti, che doveva chiedere. Le risposte che ottenne però non l’aiutarono a capire, né la rassicurarono. Mr York, che venne come ogni sera a portare il latte appena munto, dichiarò che lui dei tedeschi non s’era mai fidato e di sicuro non avrebbe cominciato adesso. Domandò allora a Mrs Cripps, dato che stava leggendo il giornale sulla poltrona di vimini cigolante, e si sentì dire che per lei la guerra era solo una gran perdita di tempo per tutti quanti, e che lei aveva di meglio da fare. Quando Polly insistette per sapere cosa dicessero i giornali a proposito della guerra imminente, disse che lei non credeva a una parola di quel che c’era scritto sui giornali. Forse, pensò Polly, di fronte alla servitù non si parlava della guerra: «pas devant les domestiques», dicevano a volte sua madre e zia Villy. Così si rivolse a sua madre, che stava cucendo etichette con il nome sui vestiti per la scuola di Simon nella stanza dei giochi, con Wills accanto a lei che sbavava copiosamente e fissava accigliato dei mattoncini colorati che era riuscito ad afferrare. Ormai aveva acquisito una certa dimestichezza e chiese direttamente come mai Mr Chamberlain non andasse di nuovo a trattare con Hitler; la mamma le rispose che i problemi erano parecchi. Se Hitler ci teneva tanto a far scoppiare la guerra, l’avrebbe fatto e basta, no? La mamma disse che non era così semplice, ma a Polly non sfuggì il suo disagio quando, sollevata di potersi occupare d’altro, disse: «Cosa ti sei fatta alla gamba? Va’ in bagno a lavarti». Poi andò a prenderle il disinfettante e un cerotto. Davvero singolare tanta agitazione per un’inezia come un graffio a una gamba, quando da un momento all’altro poteva scoppiare una guerra, pensò Polly esasperata, mentre obbediva. Poi pensò che forse gli uomini, che dopotutto la guerra la decidevano e la combattevano, non ne parlavano di fronte alle signore. L’unico maschio adulto disponibile era il Generale. Era nel suo studio – che come sempre odorava di gerani e sigari – ed era chino su un grosso libro che stava esaminando con l’aiuto di una lente d’ingrandimento.
«Ah», disse. «Proprio la persona di cui avevo bisogno. Chi sei?».
«Polly».
«Polly. Bene. Leggimi per piacere quel che ho scritto qui sull’esportazione di tek dalla Birmania tra il 1926 e il 1932».
Naturalmente dovette accontentarlo. Poi le raccontò un lungo aneddoto sugli elefanti in Birmania, su come riuscivano a prendere i tronchi con le proboscidi esattamente al punto giusto – quindi non per forza a metà, dedusse Polly – e su come tutti insieme smettessero di lavorare all’ora precisa del pomeriggio in cui veniva permesso loro di andare a fare il bagno nel fiume. Era una storia molto più interessante di quelle che raccontava di solito sulla gente che aveva incontrato in posti più o meno esotici, ma lei non era in vena di ascoltare aneddoti. Quando fece una pausa – evidentemente pensava a cos’altro raccontarle –, Polly si affrettò a chiedergli se pensava che la guerra sarebbe cominciata quel fine settimana.
«Che cosa te lo fa pensare, piccola?». Polly lo vide mentre cercava di metterla a fuoco coi suoi occhi azzurri ormai opachi.
«Ecco... è che sento... che potrebbe succedere».
«Che mi venga un colpo!».
«Tu credi di sì?», insistette.
Si stava ancora sforzando di metterla a fuoco; poi, lentamente, annuì. «Che resti fra te e me», disse.
«Papà è a Londra», disse con la voce che le tremava per lo sforzo di non piangere. «E anche Oscar».
«Chi accidenti è Oscar? Che razza di nome! Chi sarebbe Oscar?».
«Il mio gatto. Non è stupido, per un gatto. È il nome di un grande drammaturgo irlandese. Non voglio che muoia sotto le bombe. Papà potrebbe portarlo qui. Posso farlo venire qui, vero?».
Il nonno si cavò di tasca un enorme fazzoletto di seta e glielo porse. «Ecco. Dalla tua voce direi che hai bisogno di soffiarti il naso. Certo che puoi portare qui il tuo gatto».
«Puoi far tornare papà oggi stesso?».
«Non ce n’è bisogno. Forse ci sarà un altro incontro la prossima settimana e chissà, magari si sistemerà tutto. Chi è stato a spaventarti tanto, piccola?».
«Oh, nessuno», mentì. L’istinto le disse di non tradire la zia.
«Be’, non ci pensare più». Stava di nuovo pescando qualcosa da una delle sue numerose tasche, e ne estrasse una mezza corona. «Adesso vai, piccina».
Come se mezza corona potesse farla sentire meglio! Almeno papà la richiamò e le disse che avrebbe portato con sé Oscar. Quel giorno, venerdì, aveva ancora il cuore gonfio di cupi presentimenti, ma almeno nel giro di una decina di ore al massimo sarebbe arrivato suo padre portando con sé Oscar; avrebbe passato la mattinata a preparargli da mangiare e un giaciglio per dormire. Sapeva che non ci avrebbe dormito, ma del resto era sempre meglio che essere abbandonato.
* * *
Miss Milliment stava facendo la valigia in preda a un’agitazione che rendeva vani i suoi sforzi. Quando aveva ricevuto la squisita lettera di Viola, era andata subito, come richiesto, a un telefono pubblico per chiamare Mill Farm. Usava il telefono assai di rado ed era preoccupata di non riuscire a sentire bene, ma la cara Viola era stata chiarissima: doveva prendere il treno delle quattro e venti da Charing Cross per Battle quel venerdì pomeriggio e sarebbero venuti a prenderla. Quel venerdì mattina aveva aperto sopra il letto la vecchia valigia di suo padre – purtroppo la muffa aveva attaccato la fodera interna – e la stava riempiendo di capi di vestiario. Veri e propri abiti estivi non ne possedeva, d’estate si limitava a indossare la stessa roba dell’inverno, ma in minor quantità. Questo non bastò a evitarle momenti di estrema indecisione. Calze di filo di Scozia grigio chiaro e color caffè rigorosamente spaiate giacevano ammucchiate in quantità impressionante sull’unica sedia presente nella stanza. Non sapeva di possederne così tante, ed era sconfortante che ce ne fossero così poche uguali. C’era anche un mucchio di enormi mutandoni di maglia, e un altro di camiciole di lana a maniche corte (della stessa tinta grigio chiaro). Anni prima qualcuno le aveva detto che, nel fare le valigie, bisognava procedere partendo dagli indumenti più vicini alla pelle verso quelli più esterni. Lei però ogni tanto dimenticava questa regola, paralizzandosi nella scelta tra il completo di maglina verde bottiglia e il tweed color erica. Poi c’era il problema del cardigan: quello grigio ferro era rovinato da macchie di porridge secco, o tali le sembravano, quello marrone recava evidente il passaggio delle tarme. Il foulard migliore che aveva, quello senape e marrone, lo avrebbe usato per la sera. Le giarrettiere! Le perdeva sempre, meglio portarne il più possibile. Certo, non le tenevano le calze su come avrebbero dovuto, ma almeno servivano a impedire che le scendessero alle caviglie. Le camicie da notte – una doveva essere lavata, ma l’altra l’aveva indossata solo per poche notti – erano appese alla testiera di ferro del letto. C’erano poi due camicette in misto lana che le aveva fatto la cugina della padrona di casa; non le stavano proprio a pennello, ma sotto un cardigan andavano più che bene. Il suo vero problema era l’astuccio per la spugna e il sapone. Anche quello era appartenuto a suo padre e aveva il fondato sospetto che fosse tutt’altro che impermeabile. Decise di avvolgere la spugna e lo spazzolino in un foglio di giornale prima di metterli lì dentro. Non avrebbe portato troppi libri: di sicuro i Cazalet possedevano una bella biblioteca ed era certa che sarebbero stati lieti di prestarle qualcosa. Le sue scarpe di riserva, quelle marroni chiuse, dovevano essere risuolate – avevano un buco ben visibile – e ormai erano davvero logore. Come sarebbe riuscita a far stare tutta quella roba in una sola valigia? Cominciò a riempirla, mettendo in fondo il foulard – nella speranza che non ne uscisse troppo stazzonato – e sopra tutto il resto. In un attimo fu stracolma, era impossibile chiuderla. Preferiva non chiamare Mrs Timpson per farsi aiutare, perché c’era stata una certa tensione quando le aveva detto che sarebbe andata via per qualche tempo. La signora Timpson riteneva che avrebbe dovuto avvertirla un po’ prima, il che non aveva senso dal momento che avrebbe continuato a pagare regolarmente l’affitto. Dovette concludere che la valigia non si sarebbe chiusa a meno di togliere il cardigan. Oppure poteva indossarlo? Il fatto era che sudava molto, e già le toccava viaggiare col suo miglior soprabito, che era piuttosto pesante. Non c’erano soluzioni: doveva portare due valigie, il che purtroppo voleva dire dover prendere un taxi da Stoke Newington a Charing Cross, spendendo due sterline o giù di lì. Magari di più. Be’, quella mattina si era fatta coraggio ed era andata a prelevare dieci sterline. «Starò fuori per un po’», aveva spiegato al cassiere prima che potesse fare commenti. Adesso era in ginocchio e stava cercando di tirar fuori da sotto il letto l’altra valigia. Era pesantissima, e le sovvenne allora che era piena di carte, fotografie e alcune porcellane provenienti dalla casa paterna: una teiera a primule gialle e una coppia di piatti da frutta con grappoli d’uva e ciliegie al centro e un bordo blu scuro e oro. Doveva mettere tutta quella roba nel cassetto del comò e questo voleva dire esporla allo sguardo curioso di Mrs Timpson. Decise di portare con sé le lettere di Eustace – quelle dovevano rimanere private – e al resto avrebbe augurato buona fortuna. Una vacanza! Che bella occasione aveva avuto. L’invito le era arrivato proprio alla fine di una lunga estate in cui, doveva ammetterlo, si era stancata di essere l’unica compagnia di se stessa. Non erano tanto i giorni, che occupava facilmente andando alle gallerie, ma le sere, quando aveva gli occhi stanchi e non riusciva a leggere quanto avrebbe voluto. In quei momenti le sarebbe piaciuto poter fare un po’ di conversazione, peccato che non avesse nessuno con cui chiacchierare.
E poi la campagna! Le mancava, la campagna. Ci sarebbe stata la raccolta del fieno e forse anche, in quella parte del paese, del luppolo, e poi era a soli quindici chilometri dal mare. Erano anni che non vedeva il mare. Certo, non doveva dimenticare che andava lì per lavoro, per insegnare alle ragazze; aveva pensato spesso a loro durante le vacanze: erano così diverse, ma ognuna con qualità che lei si stava sforzando di far venire alla luce e con piccoli difetti che a volte temeva di non riuscire a correggere per mancanza di severità. Louise per esempio, la sua allieva ormai quindicenne, doveva lavorare di più sulle materie per cui non aveva interesse, ma era molto brava a fare in modo che le cose andassero nella direzione da lei voluta, e dopo la mattutina lettura di Shakespeare cercava sempre di prolungare la discussione per evitare di passare a latino e matematica. Quell’ultimo anno Miss Milliment aveva avuto la netta sensazione che Louise ormai fosse troppo grande per studiare con Polly e Clary, nessuna delle quali rappresentava per lei una sfida abbastanza stimolante. Certo, erano più giovani di due anni, che a quell’età facevano una bella differenza. Fatto che sta che Louise era diventata assente e pigra, e durante i pranzi del venerdì Miss Milliment si era accorta che i rapporti tra lei e sua madre sembravano un po’ tesi. Stava crescendo, mentre Polly e Clary erano ancora due bambine. Polly non le dava alcuna preoccupazione. Le piaceva leggere Shakespeare, ma non per questo desiderava diventare un’attrice; ascoltava Clary leggere i suoi temi con sincera ammirazione e senza alcuno spirito di competizione, nonostante fosse una bambina estremamente graziosa, di certo destinata alla bellezza. Era piena di onestà e di entusiasmo; quesiti morali, che Louise avrebbe sviato con una battuta di spirito e che avrebbero dilaniato Clary portandola sull’orlo delle lacrime, erano trattati da Polly con un rigore e una sensibilità che Miss Milliment trovava adorabili.
Ma la sua preferita – anche se sapeva che non avrebbe dovuto avere preferenze – era Clary. Clary non era graziosa come Polly, non era brillante come Louise; Clary, col suo faccino tondo e olivastro, le sue lentiggini, i capelli lisci che le davano quell’aria da topolino, il sorriso deturpato dai denti mancanti e dall’apparecchio, le unghie rosicchiate e la tendenza a mettere il muso, era per certi versi una bambina poco attraente, mediocre, eppure vedeva le cose, e il modo in cui le vedeva e sapeva scriverne per Miss Milliment non era affatto mediocre. Nel corso dell’ultimo anno i suoi scritti si erano evoluti da vicende di animali antropomorfi calati in situazioni umane a storie di persone vere e proprie che dimostravano come l’autrice percepisse, sentisse o sapesse delle persone molto più di quanto ci si aspetterebbe da una tredicenne. Miss Milliment l’incoraggiava, le dava sempre compiti che stimolassero le sue doti, le faceva leggere i suoi scritti a voce alta, la correggeva con puntiglio quando qualche parola era impiegata in modo inesatto o improprio. In quel modo aveva anche stimolato Louise, che non amava essere messa in ombra, a cimentarsi nella scrittura, e ne era uscita una commedia in tre atti di ambientazione domestica, precoce e divertente. Entrambe le ragazze avrebbero meritato di andare all’università, pensava Miss Milliment, ma non nutriva molte speranze al riguardo, perché la famiglia Cazalet non sembrava dare molto peso all’educazione delle figlie.
Ed eccola ancora lì, a ciondolare irresoluta di fronte a quella valigia piena fino a scoppiare. La cosa migliore era finire di fare le valigie, raggiungere a piedi la cabina telefonica e chiamare un taxi. Così sarebbe arrivata presto in stazione, avrebbe acquistato il biglietto e poi valutato se le restava tempo per una tazza di tè e un panino, o qualcosa di altrettanto veloce.
Più tardi era seduta sul sedile posteriore di un taxi diretto alla stazione: non ricordava quando fosse stata l’ultima volta che ne aveva preso uno, e quel lusso, nonostante non avesse potuto fare diversamente, cominciò a pesarle sulla coscienza; allora le venne in mente che, dato che avrebbe alloggiato da loro, non poteva aspettarsi che le pagassero il suo solito salario; in effetti potevano anche decurtarle tre sterline o giù di lì. Lei però la pigione a Mrs Timpson doveva pagarla lo stesso, o si sarebbe ritrovata per strada. «Animo, Eleanor. Occupiamoci di un problema alla volta», disse a se stessa. «È un cruccio davvero modesto, a paragone dei problemi che deve risolvere il povero Mr Chamberlain». Leggeva il «Times» tutti i giorni, e sapeva che non c’era scampo: questo paese meraviglioso, questo luogo sicuro, si avvicinava di nuovo all’orlo del disastro.
* * *
Quella sera Edward era arrivato a Mill Farm in ritardo. Il traffico, disse, e poi era partito troppo tardi. In realtà il motivo era che aveva accompagnato Diana, Jamie e una ragguardevole quantità di valigie dalla loro casa di Saint John’s Wood a Wadhurst, dove Angus, al telefono dalla Scozia, le aveva detto di trasferirsi per stare con sua sorella finché le acque non si fossero calmate, come amava dire lui. Diana non l’aveva presa bene: voleva dire stare lontana da Edward per chissà quanto tempo, e a questo si sommava il fatto che non sopportava sua cognata. Edward volle sapere perché, e lei gli spiegò che Isla era molto religiosa e di idee progressiste.
«Gesù! Vuol dire che non potrò telefonarti?».
«Credo sia meglio se ti telefono io. Di lunedì, in ufficio, quando lei non c’è. Va alle riunioni, sai... Dobbiamo stare molto attenti». Essere sorpresi da Villy in Lansdowne Road dieci giorni prima aveva fatto prendere a entrambi un grosso spavento; Edward aveva subito cominciato a dire che fortuna incredibile avevano avuto a cavarsela, ma Diana l’aveva presa molto più sul serio. E se Villy fosse arrivata una delle tante sere che aveva trascorso in quella casa? Quando erano su, nello spogliatoio di Edward? Si sentiva in collera con lui per averla esposta alla possibilità di una tale umiliazione. La giustificazione addotta da Edward – che Villy non aveva mai fatto una cosa del genere prima di allora – aveva migliorato le cose, ma non molto. E il peggio era che ora sentiva di non poter andare mai più in quella casa. Diana aveva chiesto a Edward se pensava che Villy sospettasse qualcosa, ma Edward aveva detto Buon Dio, no: lei non era quel genere di persona. Io lo sarei, aveva pensato Diana. Benché naturalmente non lo avesse detto a Edward, era rimasta stupita e affascinata nel vedere Villy. Si era aspettata una donna attraente, magari un po’ sfiorita, e invece le era apparsa questa creatura piccolina, ordinata, dal fascino intellettuale; riccioli grigi e bianchi, sopracciglia scure e spesse, naso aquilino e un’espressione schizzinosa della bocca... non era quello che si aspettava. Le sembrava strano che Edward avesse scelto per moglie una donna così: lui era un buon partito. Certo, che meraviglia doveva essere per Villy non avere nessuna preoccupazione economica: a Diana sembrava che tutta la sua esistenza fosse spesa in una sterminata varietà di apparenze da preservare e, nei momenti liberi, in ciò che era necessario per tirare avanti. Angus, in qualità di secondogenito, non era destinato a ereditare molto. Aveva ricevuto una modesta somma dal suo padrino, e quella era stata la sua rovina, perché gli aveva permesso di scansare qualsiasi occupazione seria. Coltivava fantasie romantiche (e irrealistiche) su ciò a cui era destinato. L’onore della famiglia, ovvero gli agi che lo riguardavano direttamente, andava tenuto alto e questo significata ristrettezze umilianti per Diana. Un’altra bugia che andava preservata a tutti i costi agli occhi dei genitori di lui era l’idea che Angus lavorasse duramente e con gran profitto, il che implicava che scendesse da una carrozza di prima classe quando andava a Inverness, che spedisse regali dal costo esorbitante a Natale e che li invitasse a pranzo al Ritz, grazie a Dio solo una volta l’anno. Tutti i loro amici erano più ricchi di loro, e da anni Diana comprava vestiti di seconda mano da un’inserzione pubblicitaria sulla rivista «Lady», pubblicata da una sconosciuta il cui unico merito era il fatto di portare la sua stessa taglia e di vivere per gran parte dell’anno all’estero. Sospirò sconfortata, e Edward le posò una mano sul ginocchio. «Sii serena, tesoro. Non sarà per sempre».
Se scoppiava una guerra poteva durare a lungo, pensò. Sapeva bene che, se Edward fosse rimasto lontano da lei per dei mesi, si sarebbe trovato un’altra; in un modo o nell’altro doveva evitarlo. Stavano salendo verso Wadhurst: nel giro di pochi minuti lui l’avrebbe lasciata e se ne sarebbe tornato dalla sua famiglia, da Villy. Lui dovette percepire qualcosa, perché rallentò e disse: «Che ti prende, cara?».
«Niente. Sono solo un po’ giù di morale».
«Che ne dici di fermarci a bere qualcosa in un pub?».
«Sarebbe bello, ma c’è Jamie».
«Te lo tengo io».
Ma non appena si fermarono Jamie, che era stato buono buono nella sua cesta per tutto il viaggio, si svegliò e si mise a strillare. Lei lo prese dalla cesta e cominciò a camminare su e giù tenendolo in braccio. Lo trovava di una bellezza straordinaria: a differenza degli altri due, che erano paffuti, biondo rossicci e paciosi, Jamie aveva i capelli scuri e una corporatura asciutta, con un adorabile nasino a becco che gli dava un’aria adulta. Sono certa che è figlio di Edward, si disse per la millesima volta. In alcuni momenti, quando lo guardava, le girava la testa da quanto lo amava. Era bagnato, lui non piangeva mai senza una valida ragione. Lo adagiò sul sedile posteriore e prese un pannolino pulito dalla sua cesta. Mentre gli toglieva le spille da balia, lui le rivolse un breve sorriso di complicità, pieno di una gioia tale che le vennero le lacrime agli occhi.
«Eccoti qua, piccolino. Aspetta un momento». Una lacrima cadde sul torace di Jamie, e lui batté le palpebre.
Quand’ebbe finito di cambiarlo, lo rimise nella cesta e si voltò verso Edward che le stava porgendo il bicchiere. Lui però disse: «Torniamo in macchina».
Rientrati nell’auto, le diede il bicchiere e la cinse con un braccio. «Povera cara, sei così abbattuta! Non ti angustiare. Anche tra cent’anni le cose tra noi saranno le stesse».
«Non lo trovo affatto confortante. A chi verrebbe in mente di dire una tale sciocchezza?».
Edward fece spallucce. «Non lo so. Be’, lascia allora che ti dica questo: ti amo, per quello che vale. Detesto doverti lasciare. Va meglio, così?».
«Molto meglio». Accettò il fazzoletto che lui le porgeva e si soffiò il naso.
«I tuoi fazzoletti hanno sempre un così buon profumo».
«Cedro del Libano. Bevi, cara. Dobbiamo rimetterci in viaggio».
Dopo che ebbero vuotato i bicchieri, lui la baciò e poi riportò i bicchieri dentro il pub.
«Devi ammettere che Jamie è un vero angioletto», gli disse Diana mentre attraversavano il paese.
«È un bambino splendido», replicò lui, distratto. Si era chiesto più volte se per caso non fosse suo, ma aveva ritenuto saggio non avventurarsi su un terreno tanto insidioso. «Adesso devi dirmi tu la strada».
La portò a destinazione, scaricò i bagagli, scambiò qualche rapida parola con la cognata (che lo trovò affascinante) e quand’ebbe percorso i quindici chilometri da lì a Home Place erano ormai le sette. Villy tuttavia non si mostrò arrabbiata né curiosa: era troppo preoccupata di come Edward avrebbe preso la notizia che non solo Lady Rydall era ancora lì, ma che li aveva raggiunti anche Miss Milliment.
* * *
Quando Christopher e Simon arrivarono al loro rifugio, quella mattina, trovarono una brutta sorpresa. L’ingresso della tenda era aperto. Simon era sul punto di gridare, ma Christopher gli afferrò una mano e gli fece cenno di tacere. Si avvicinarono piano, in silenzio. Si vedeva un rigonfiamento a un lato della tenda, che si muoveva con calma. Christopher lasciò cadere le provviste che aveva in mano e prese un bastone. Non era un granché come arma, ma meglio di niente. Simon lo imitò. Poi Christopher disse a voce alta: «Esci, chiunque tu sia!».
Seguì un momento di silenzio, poi dalla tenda venne fuori Teddy. Sgranocchiava biscotti, ma Simon fiutò subito il pericolo.
«Be’, devo riconoscere che i segreti li sapete tenere. Da quanto tempo va avanti questa storia?», domandò Teddy, e Simon capì che era davvero arrabbiato.
«Non da molto», disse.
«Lo sapete che mi piace il campeggio. Perché non mi avere chiamato? Che cosa state combinando di tanto speciale?».
«È stata un’idea di Christopher», borbottò Simon.
«Ma davvero? Eppure qui c’è anche un sacco di roba tua. Che sta succedendo?».
«È un segreto. Non voglio che nessuno lo sappia», replicò Christopher.
«E io sarei nessuno? Tu sei ospite qui», disse rivolto a Christopher. «Avresti dovuto essere tanto educato da coinvolgere gli altri nel tuo gioco. E per quanto riguarda te», aggiunse indicando Simon, «adesso ho capito perché non avevi mai tempo per giocare a squash e a tennis, e nemmeno per fare un giro decente in bicicletta. Sei proprio un traditore».
«Io non sono un traditore!».
«È quello che dicono tutti i traditori. Ne avete a sufficienza per sfamare una squadra di cricket. Si può sapere a che vi serve tutta questa roba?».
«Vogliamo...», fece per spiegare Simon, ma Christopher lo zittì all’istante. «Taci!».
Calò un silenzio carico di tensione. Poi Teddy si alzò e disse: «Avete intenzione di dirmelo?».
«No».
«Perché?».
«Perché io non voglio. Ecco perché».