[Il difetto maggiore degli italiani]

 

Credo che il difetto maggiore degli italiani sia quello di parlare sempre dei loro difetti. In nessun altro paese inchieste simili sarebbero accolte con simpatia: qui vengono sollecitate. Ora, quelle poche volte che sono stato fuori d’Italia mi sono trovato tra popoli perfetti, tra gente che, sapendomi italiano, non mi nascondeva la sua compassione per i miei difetti meridionali e mediterranei. Alla fine mi sono stancato. Ho superato l’età dell’indignazione e non sono più d’accordo con i moralisti di casa che rimproverano all’italiano medio di non essere un paradigma sociale o morale. L’italiano medio è quello che è e i suoi difetti cominciano a piacermi. Mi piace, per esempio, che sia generalmente bugiardo. Non credo che avrebbe potuto vivere in questo paese per tremila anni senza adattare la cruda verità ad una ragionevole menzogna. In un territorio di conquista e d’invasione l’italiano aveva un solo mezzo per difendersi, nascondere la verità o perlomeno ritardarla. (Anche oggi lo Stato, attraverso molti suoi organi, gli impone di essere bugiardo, o reticente). Mi piace che pensi sempre alle donne. Perché non dovrebbe pensare sempre alle donne? Che c’è di meglio? Gli uomini, forse? Bene, allora lasciatemi ai miei gusti. Mi piace che sia pigro. Se, essendo pigro, deve lavorare tanto, figuriamoci se non fosse pigro. Mi piace che sia gentile, sentimentale, cinico, spendaccione, imprudente, frivolo, fastoso nelle sue cerimonie. Sono modi di amare la vita, di volerla capire, di forzarla, di esaltarla. Mi piace che non sia tanto patriottico. Questo gli ha permesso di superare la crisi nazionalistica quasi senza dolore, gli permette oggi di essere uno dei popoli meno razzisti e intolleranti, il più pronto nell’ammirare le virtù degli altri popoli e nel copiare i loro difetti più vistosi. Mi piace che sia generalmente estroverso e che ami vivere alla giornata. Questo gli ha permesso di amare l’arte, di arricchire il suo paese di monumenti o di distruggerli senza troppo rammarico. Mi piace che non abbia molto sviluppato il senso dei rapporti sociali. Nei paesi dove questo senso è molto sviluppato, le maggiori garanzie, il maggior rispetto reciproco non salvano l’individuo da un altro genere di solitudine. I difetti! Tutti ne parlano. Non mi dispiace nemmeno che l’italiano del nord se la pigli tanto con l’italiano del sud e gli rimproveri quei difetti che egli, per le mutate condizioni economiche, non possiede più da qualche decennio. È forse questa una prova che l’italiano non vede al di là del proprio campanile? Bene, anche questo mi piace. È un modo di amare il proprio campanile, una prova che l’italiano ama faziosamente la sua terra perché si riconosce parte di essa, da vivo e da morto. Ed è anche una prova che se non altro sul piano dei difetti, l’unità italiana (della quale si dubita troppo) è cosa fatta. Mi piace infine che l’italiano sia portato alla confusione. Ma c’è un altro modo per salvarsi dall’ordine? Dirò di più: mi piace che ami il suo “particulare”, perché questo egoistico amore gli permette di esprimere il suo vero genio, la solidarietà umana, nei momenti veramente difficili. Potrei continuare. Evidentemente, quando si parla dei difetti dell’italiano si prende a confronto un popolo ideale che non esiste in nessuna parte del mondo ma che noi, sempre ottimisti (altro difetto!) crediamo che viva e prosperi realmente. E come lo ammiriamo, questo popolo sconosciuto! Non pensiamo mai che l’italiano ha sviluppato i suoi difetti come altrettante forme di difesa, per aderire ad una realtà storica, al clima, alla povertà del suolo, all’angustia dei mari, alle varie tirannie spirituali ed economiche; per essere, infine, il più razionale ed economico possibile nelle sue manifestazioni di vita, cioè utile a se stesso, e andare avanti, continuare la specie. Senza i suoi straordinari difetti l’italiano oggi non esisterebbe, e sarebbe un gran male. La Natura o, se vogliamo, la Civiltà, ha dato all’italiano un gran compito: quello di sopravvivere. Egli lo assolve pienamente, da secoli, con un impegno che non esclude il divertimento. Si chiedeva uno scrittore americano (mi dispiace di non ricordarne il nome) che cosa resterebbe sulla Terra dopo una terza guerra mondiale. E rispondeva: “Di sicuro, cinquanta milioni di italiani’’. Ciò può essere triste, ma è anche confortante. Tutto sommato, credo che il gran parlare che sui giornali si fa dei difetti dell’italiano sia anche questa una forma di difesa, la più astuta e disinvolta. Parlandone, si finisce per capirli e per accettarli come la necessaria garanzia che noi non siamo perfetti in niente ma abbastanza vivi e curiosi di noi stessi.

 

 

[Concorso per un atto unico]

 

È molto difficile oggi non solo fare del teatro, ma parlarne. Per quanto mi concerne, da qualche tempo ho smesso di scriverne. L’esplosione teatrale degli ultimi anni era soltanto il sintomo di un disagio crescente della società, e dei riflessi di questa in una categoria sempre più vasta di operatori intellettuali, scrittori, registi, attori. La tendenza sempre più accentuata ad abbandonare il testo per un rituale, la parola per il gesto, l’accaduto per l’accadente, non era che la preparazione per i grandi happenings della Sorbona e delle altre università europee e americane, dopo i quali ogni opera di teatro contestatario, protestatario, rivoluzionario e semplicemente di indignazione, può essere collocata tra i fenomeni di assestamento, che non sfuggono dai compiacimenti degli esercizi di stile. La lezione è stata dura e grave per tutti, per i decoratori e per i retori, per i letterati e per i direttori. Quello che il teatro sarà nei prossimi anni, dipenderà da una ricerca che non potrà non tener conto della distruzione raggiunta. Si andrà spero verso una realtà più chiara, liberata dagli equivoci dell’arredamento e dalle indulgenze sperimentali. È probabile che a questa ricerca contribuisca il sentimento dell’atto unico, inteso però non come puro divertimento letterario e satirico, ma come una nuova forma di sufficiente rigidità in cui versare la coscienza dei tempi drammatici in cui viviamo. […]

 

 

[Inchiesta sulla moda]

 

Non capisco molto di abbigliamento e non mi sono mai innamorato di una donna per i suoi vestiti. Anzi, i momenti migliori con una donna li ho trascorsi senza vestiti. La moda mi annoia. Sospetto delle donne che vestono troppo bene, evidentemente non hanno altro da offrire. Detesto le overdressed, che si addobbano e curano molto gli accessori: sono le più insicure. Sulle gonne ho poco da dire: la gonna midi è la prudente normalità, accettiamola come tale. La minigonna ha fatto il suo tempo: ora mi ricorda quegli abiti che una volta nelle case chiuse indossavano le cosidette mineures, donne truccate da bambine con fiocchi e nastri, per un certo genere di clienti. Preferisco allora la maxigonna. Le donne della mia infanzia, i miei primi amori dai cinque ai dodici anni (le maestrine, le amiche delle mie sorelle maggiori, le eroine dei primi romanzi e dei film d’avventure), indossavano maxigonne. Sei anni fa, quando questi problemi non ci turbavano, viaggiando per il Canada francese, in una vecchia e nobile locanda trovai che le cameriere del ristorante avevano conservato le gonne lunghe delle loro nonne. Ne rimasi incantato, mi fecero l’effetto di donne “vere”.

Oggi la moda ha tolto innocenza e semplicità al modo di vestire. Lo ha tradotto in contraffazione, mascheramento. La più parte delle persone, uomini e donne sembrano alla ricerca di un’identità da assumere. I sei personaggi cercano non più l’autore, ma una maschera. Non è facile essere, ma è facile fingere di essere. Questo spiega la sensazione di stupore che si prova a frequentare i nostri simili, che hanno assunto travesti- menti spesso imbarazzanti. Si vedono ragazzotte alte un metro immerse nelle maxigonne e stangone di due metri con la mini, giovani impiegati vestiti da ribelli o da comici di varietà. Evidentemente la normalità fa orrore.

 

 

[Vita artistica a Roma]

 

Quando si parla di vita artistica a Roma a che ci si riferisce: al cinema, alla televisione, al teatro, cioè alle arti dello spettacolo, o alle arti figurative? Io penso che ogni arte sorregge e giustifica le altre, e ne è la spia. Se ci restringiamo alle arti figurative, direi che Roma ha perso proprio a Porta Pia, voglio dire in quegli anni, il suo primato di centro artistico mondiale. Prima, nel Sei, nel Settecento, direi fino alla prima metà dell’Ottocento, il viaggio a Roma, il soggiorno era lo scopo della vita di ogni artista straniero. Ne vennero tanti nei secoli che questo forse spiegherebbe perché di artisti ne siano nati pochi a Roma, se non vi contentate di manieristi di genio come Giulio Romano o più modestamente di un Bartolomeo Pinelli.

Si veniva a studiare a Roma la scultura e l’architettura classica, Roma è un immenso museo. Quanto alla pittura, i modelli ciociari bivaccavano sulle scale di piazza di Spagna come oggi gli hippies e i venditori di collane. C’erano circoli e caffè famosi che funzionavano da luoghi di ritrovo, osterie dove ferveva una certa bohème internazionale. La campagna romana ispirava

Poussin, e i suoi seguaci. Goethe si faceva ritrarre sullo sfondo degli antichi acquedotti in rovina.

Poi vennero, sull’esempio del pensionato dei Prix de Rome di Villa Medici, le varie accademie straniere, persino giapponese. A che cosa siano servite, in un mondo che stava abbandonando la classicistica e il culto dell’umanesimo, non sappiamo bene. L’arte è oggi molto cambiata, ognuno se la può fare in casa propria. Mino Maccari dice: “Non comprate quadri astratti, fateveli da voi’’. Le capitali dell’arte si sono via via spostate: Parigi, Berlino, Londra, Monaco, oggi New York. L’arte segue il denaro. Il sogno del pittore che vive a Roma è di controllare la sua ispirazione non tra le rovine del Foro, ma a New York. Il Foro va bene per i turisti, per son et lumière. E la pittura è un’attività che non sfugge al rapido mutamento delle mode. I pittori pullulano. I più quotati si nascondono nelle loro ville, gli altri che sono legione, seguono piuttosto regole di comportamento. Danno l’impressione di correre su un tapis roulant, timorosi di restare indietro, affaticandosi nelle trovate più iconoclastiche.

Le gallerie abbondano, il mercato prospera su pochi nomi, il resto è paccottiglia. Tipo la fiera annuale di Via Margutta, dilettantesca, basata sulla vanità e la faciloneria degli espositori.

Quanti sono i pittori? A Parigi gli iscritti al sindacato soltanto sono trentamila. Un piccolo esercito. Possiamo farci un’idea di quanti ce ne sono a Roma ogni volta che l’assessore al traffico chiude una piazza alla circolazione delle automobili: immediatamente questa piazza si riempie di pittori.

Bisogna scegliere tra il parcheggio delle macchine e quello dei pittori. Francamente, i pittori sono preferibili perché inquinano meno l’atmosfera e fanno meno rumore. Ma ci sarebbe da ribattere che le automobili non dipingono e non suonano la chitarra.

 

 

[Inchiesta sulla letteratura popolare]

 

Nell’età d’oro, quando lo sport era la vita stessa, i poeti e gli artisti esaltavano il coraggio, il vigore, l’animo degli eroi e le loro imprese. Ma non scomodiamo Omero. I più modesti cavalieri erranti, che partivano alla difesa dei deboli, e che riempivano delle loro gesta tanti poemi, non rispondevano forse al bisogno di una letteratura popolare esaltante l’etica dello sport, cioè lo slancio vitale, il disinteresse dell’avventura, la necessità di agire e di muoversi “per non viver come bruti”, in una parola il sentimento della lotta contro il Male? Oggi forse lo sport non è più, nelle sue forme popolari, un modo eroico di intendere la vita, ma più spesso un modo di guadagnarsela: e se chiede coraggio, animo e vigore, ripaga mensilmente le sue reclute e arricchisce e onora i suoi campioni, più del lecito. Il suo scopo non è la lotta contro il Male ma forse la lotta contro il Tempo (i records!) e contro i deboli (le classifiche!). Da queste premesse una letteratura propriamente sportiva non può nascere, oggi lo sport non ha bisogno di poeti, ma di contabili. Quanto agli alpinisti, ai cacciatori terrestri c subacquei, agli esploratori, mi sembra che si cantino abbastanza da sé le loro lodi, pubblicando libri sulle loro imprese, non appena compiute: ma sono libri che non si levano mai al di sopra della cronaca. La letteratura sportiva è anche abbastanza surrogata da un certo cinema che illustra ambienti sportivi (l’ambiente della boxe, per esempio, e molto meglio che certi romanzetti), ma anche qui non usciamo dal descrittivismo sentimentale. Non è però il caso di scoraggiarsi. Il sentimento sportivo a volte si riflette liricamente in certe opere, evocando un mondo e delle figure insolite, ma le opere di questo genere sono rare e sarebbe ingeneroso ritenerle sportive invece che poetiche. Mi riferisco, per fare un esempio, a due libri eccellenti: Il leopardo che mangiava gli uomini di Corbett e La carriera di Pimlico, del nostro Cancogni; che, pur di diversa intenzione, possono far pensare ad opere ispirate all’amore dello sport e nate all’aria aperta, libere e felici.

 

 

[La commedia all’italiana]

 

La commedia all’italiana, nella confusione dei generi, ha il grande merito di non aver allontanato del tutto il pubblico. Qui non si parla di capolavori, sappiamo bene che i capolavori sono mosche molto rare, e sappiamo anche chi li fa. Ma uno strano comportamento degli altri “capolavori” italiani è che si tratta quasi sempre di tragedie che col tempo si avviano a diventare comiche. Le eccezioni sono rare, e sappiamo tutti quali sono gli autori che resistono all’usura del tempo: Rossellini, Fellini, Antonioni, Rosi, un altro paio li lascio scegliere a voi. Gli altri preferirei tacerli, pensano già troppo loro stessi a farsi pubblicità, a spargere il terrorismo ideologico e artistico, e alla fine viene voglia di difendere “la commedia all’italiana”, soprattutto se si pensa a quei “capolavori” che hanno i minuti contati e rendono pensoso il ceto medio, sempre sull’onda della moda.

La commedia italiana ha rivelato una certa Italia che esiste, e che gli italiani avevano sotto gli occhi e non vedevano. L’Italia dei soliti ignoti (bisognerà rifarsi a questo lontano film di Monicelli), quella dei “mostri”, della legislazione arretrata, del boom e delle congiunture, l’Italia della televisione, della provincia ormai tentacolare, dei moralisti e degli imbroglioni. L’Italia, insomma, che esce dalla commedia dialettale e sentimentale per guardarsi com’è fatta. Si è scoperto un tipo di italiano eterno, che viene da Machiavelli, e che affronta la vita con tranquilla amoralità, comicamente e talvolta con una certa disperazione. I nostri comici bene o male rappresentano l’Italia. Sordi e Tognazzi, Gassman e Manfredi sono l’Italia. Ne siamo circondati. Oltre che parlare di registi (Risi, Scola, Salce e altri) qui bisogna parlare anche degli scrittori, e cito i quattro più rispettabili, Rodolfo Sonego, Age e Scarpelli, Ruggero Mac- cari. Bene, si ha l’impressione, leggendo le critiche dei giornali, che costoro debbono passare il tempo a difendersi dall’accusa di facilismo. Io ammiro in loro invece la grande fecondità inventiva, lo spirito di osservazione sempre aggiornato, l’agilità costruttiva delle loro storie, e l’umorismo oltre che la comicità. È un cinema che è una variazione attuale della commedia cinquecentesca, fatto con lo stesso spirito di spregiudicatezza dei tempi d’oro. Faccio qualche esempio: chi ha visto “Riusciranno i nostri eroi etc.’’, si è reso conto che finalmente l’italiano esiste, appunto perché trasportato fuori del suo habitat. Chi ha visto l’episodio delle due checche nel film “Vedo nudo” non ha potuto non ammirare la semplice grazia dello svolgimento e della recitazione. E chi ha visto Sordi nell’ultimo episodio della “Contestazione generale”, sa che siamo davanti ad un piccolo capolavoro, piccolo ma resistente. Infine mi sembra che la commedia all’italiana, anche nei casi più clamorosi (Il medico della mutua) pur con tutte le sue facili risate indica problemi che sollevati dalla saggistica, dal giornalismo, dalla narrativa, chissà perché annoiano.

 

 

Come leggere un libro

 

La disattenzione è il modo più diffuso di leggere un libro, ma la maggior parte dei libri oggi non sono soliamo letti ma scritti con disattenzione. Oppure con un’attenzione che fa parte dell’intesa autore-lettore. Si legge come si fuma, per tenere occupate le mani e gli occhi. Libri già cominciano a trovarsi abbandonati sui sedili dei treni. Sono stati letti per abitudine, per noia, per orrore del vuoto e di se stessi. Tra i vizi, la lettura, come diceva Valéry Larbaud è il vizio impunito, ma in certi casi smettere di leggere come di fumare può evitare gravi conseguenze.

Si può anche leggere un libro per sospetto e invidia. In questo caso il libro è troppo attraente, si pensa che avremmo potuto scriverlo addirittura noi e guadagnare fama e denaro. Bisognava soltanto pensarci. Si tratta di libri che ottengono grande successo, i “meglio-venduti”. Di solito centrano un falso problema, una situazione di moda, un punto di interesse e di attualità. Si fanno leggere, ansiosamente, con rabbia, e infine per poter continuare a dubitarne, ma anche per tentare di scoprire il segreto della loro gradevolezza. Dopo un paio d’anni, molti di questi libri, quando uno se li ritrova negli scaffali, ha voglia di buttarli via. Il fatto è che sono diventati brutti anche esteriormente, non hanno saputo invecchiare bene. Anzi, sono la prova che la bellezza di un libro come oggetto non può prescindere dal suo contenuto. Non c’è infatti sopruso maggiore di un libro stupido rilegato lussuosamente.

Il terzo modo di leggere un libro è il più semplice, ma è proprio dei grandi lettori. Si acquista con l’età, l’esperienza, oppure è un dono che si scopre in se stessi, da ragazzi, con la rivelazione delle prime letture. Si tratta di non abbandonare mai “quel” libro, di lasciarlo e riprenderlo, di “andarci a letto”. Ma poiché questo modo è suggerito soltanto dai grandi autori, col tempo si resta circondati soltanto da ottimi libri. E si diventa perfidi, si arriva a capire un libro nuovo ad apertura di pagina, a liberarsene subito. E se invece il libro convince, a lasciarlo per qualche tempo sempre a portata di mano, sul tavolo o sul comodino, poiché la sua sola vista procura un vero piacere, né si teme di finirli presto: lo scopo di questi libri è infatti di essere riletti, di farsi riprendere quando tutto va male, quando ci sembra che la verità possa esserci confermata non da quello che succede intorno a noi, ma da quello che è nelle pagine di un libro.

Tutti i grandi libri sono stati letti e continuano ad essere letti così. È più esatto dire che non si tratta di leggerli, ma di abitarli, di sentirseli addosso. Facendone il conto, ognuno trova che i suoi si riducono ad un centinaio, largheggiando. E molti di essi hanno aspettato anni e anni prima di essere ripresi, in un giorno di particolare disgusto esistenziale. Ma è la loro forza.

 

 

[Il cinema pornografico]

 

Lei mi chiede troppo. Non so davvero se si andrà ancora per molto su questa strada del cinema pornografico. È probabile che il pubblico si stanchi, non per la materia in sé, ma per la furiosa volgarità con cui i registi interessati la trattano. Devo dire che nell’italiano sonnecchia più che in ogni altro esemplare umano il padrone di bordello, l’organizzatore di prostituzione, con Mafia o senza, il ruffiano di night-club con spogliarello. Mentre gli svedesi e i danesi fanno la filosofia della pornografia, nella speranza che serva all’educazione sessuale (il gran mito di quest’epoca di impotenti) certi registi italiani fanno della pornografia soltanto per venderla. Hanno famiglia e devono vivere. I produttori anche. Del resto una mia intelligente amica proponeva che alla rivista militare del 2 giugno, dopo la sfilata delle truppe, sfilassero anche i produttori che hanno sposato un’attrice, l’hanno “lanciata” e ci hanno fatto sopra la loro fortuna. Che cos’è questo se non un apologo del prossenetismo italico, sempre fiorente in ogni secolo? Vogliamo cercarne le cause nel nostro realismo, cioè nella enorme capacità di aderire sempre alla realtà, per cavarne il maggior utile possibile? Se la legge permette il film pornografico, tutti faranno prima o poi film pornografici: dico tutti, sapendo bene che alcuni preferiranno piuttosto cambiare mestiere, ma si tratta di “frange” che non rappresentano un valore economico nel cinema italiano.

Ci sono evidentemente degli spettatori per i quali i film pornografici rivestono un reale interesse. Possono rivestire un interesse anche per il filosofo, il quale vi dirà tuttavia che questi film sono non la causa ma l’effetto di un più vasto sommovimento. Prendersela con questi film è come prendersela con i temporali. Essi ci dicono di come il sovvertimento ha investito alle radici non solo la morale corrente, ma le istituzioni che la regolavano.

 

 

[Nota autobiografica]

 

Sono nato a Pescara in un 1910 così lontano e pulito che mi sembra di un altro mondo. Mio padre commerciante, io l’ultimo dei sette figli della sua seconda moglie, Francesca, una donna angelica che le vicende familiari mi fecero conoscere troppo poco e tardi. A cinque anni fui mandato nelle Marche, a Camerino, presso una famiglia amica, che si sarebbe presa cura di me. Vi restai due anni. A sette anni sapevo fare un telegramma. Ho fatto poi anni di pensionato e di collegio in altre città, Fermo, Chieti, Senigallia, persino Brescia, nel 1922. Il 27 ottobre dello stesso anno partivo per Roma, collegiale, in un treno pieno di fascisti che “facevano la Marcia”. Io avevo dodici anni ed ero socialista. A Roma divenni un pessimo studente e arrivai a stento alla facoltà di architettura, senza terminarla, preso dal servizio militare e dalle guerre alle quali fui chiamato a partecipare, senza colpo ferire.

Tuttavia, Roma è la mia vera città. Talvolta posso odiarla, soprattutto da quando è diventata l’enorme garage del ceto più medio d’Italia. Ma Roma è inconoscibile, si rivela col tempo e non del tutto. Ha una estrema riserva di mistero e ancora qualche oasi. A Roma, da giovane, ho trascorso anni in giro, la notte, col poeta Cardarelli e Guglielmo Santangelo, due maestri di indignazione e di vita. A Roma ho conosciuto i primi scrittori, i primi artisti, i giovani che facevano la fame e le donne che ci facevano compagnia. Ho cominciato a scrivere molto tardi, satire e note critiche, senza mai pensare alla narrativa. Nell’inverno del ’46, trovandomi solo a Milano, ho scritto il mio primo e unico romanzo. Era la “mia Africa”, adattata ai miei panni, un apologo: Tempo di uccidere.

Il libro vinse un premio, la critica lo accolse bene, male, tiepidamente. Un critico scrisse che mi aspettava alla seconda prova. Sta ancora aspettando. Un altro che ero troppo “leggibile”. La vecchia Italia dei capitoletti e della “pagina” mi respingeva. Nel ’49 Pannunzio mi chiamò redattore al “Mondo”, vi tenni una rubrica che poi raccolsi in volume, Diario notturno, assieme ad altri scritti. Il cinema mi offrì in quegli anni una vita economica meno aspra. Ho collaborato con Fellini a otto dei suoi film, ho scritto altre storie, per altri registi. Infine, tutto tempo perso, idee e pagine buttate al vento. Nel ’59 un altro volume di racconti, e poi una commedia, Un marziano a Roma, la sola cosa che mi piace e che andò male […]

 

 

Ogni successo, in fondo, è un malinteso

 

La mortificazione del successo - e la certezza di non esservi tagliato - le provai durante la pubblica premiazione, in un albergo romano, del mio primo e unico romanzo: Tempo di uccidere. Era una notte d’estate del ’47, subito dopo la premiazione, gli amici e gli invitati (che erano anche i giudici), iniziarono le danze e io cercavo di capire che cosa mi angustiava tanto. Forse la sensazione che ogni successo, in fondo, è un malinteso. Ricevevo un premio ambito per un romanzo che ora trovavo tutto da riscrivere. Tornai a casa solo. Ricordo che un cane randagio si intestò a seguirmi fin sulle scale e volle entrare. Come rifiutarsi? Gli preparai una zuppa di latte e lo feci dormire sullo scendiletto: la mattina dopo andò via. Ma neanche la sua compagnia era riuscita a confortarmi. Avevo in tasca un assegno (duecentomila lire) e la certezza che non mi appartenesse. Il guaio era che mi serviva assolutamente. Mi è rimasto da allora un sospetto sull’estrema utilità dei premi letterari, che non sono riuscito a dissipare. Quanto all’applauso dei giudici e della critica era certo un altro debito che mi ero assunto con molta leggerezza e che non ho ancora saldato.

Se tento di capirci di più, penso che la nostra epoca è caratterizzata proprio dal Successo. Invidio sinceramente chi lo cerca e soprattutto coloro che, avendolo ottenuto, non rinunciano a niente pur di alimentarlo. Li invidio perché la loro giusta preoccupazione è il segno di un profondo amore per il loro pubblico, oltre che per se stessi. Due amori che non riesco a nutrire. Forse condivido i pregiudizi della mia generazione postdannunziana, che rifiutava di proposito il successo, se ne teneva anzi lontano, per non coinvolgere in un unico giudizio la propria vita e le proprie opere. E anche perché a decretarlo allora erano i male informati. Oggi, al contrario, il successo colpisce soprattutto gli uomini migliori. Non ho quindi angosce per il futuro: il mio primo modesto successo ha tutta l’aria di essere anche l’ultimo.