6. NARRAZIONI EUROPEE
I valori vanno e vengono. I «valori europei» sono un costrutto usato da chi vuole promuovere certi valori e screditarne altri perché «non europei». L’idea di un codice unico di principi e valori da potersi definire «europei» è esistita solo nell’immaginazione di certi intellettuali come programma per il futuro, ma non è una realtà. Non sono esistiti valori comuni né in Francia né in Gran Bretagna né in Italia, nemmeno durante il rinascimento o l’illuminismo. Eppure in molti invocano gli antichi «valori» della tradizione. L’idea dei «valori comuni europei» è invece molto recente, nasce nel XVIII secolo.
L’idea di «unità europea» è ancora più recente. Poco più di centocinquant’anni fa l’Italia era in via di unificazione, come anche la Germania. Nessuno parlava di un’Europa unita, nemmeno Giuseppe Mazzini, fondatore della Giovine Europa, che immaginava un’Europa unita solo quando si fosse costituito ciascuno stato nazionale. La Giovine Europa era una delle tante fantasie di Mazzini, solo un sogno («non è che un sogno mio») come ammise in seguito lui stesso in una lettera scritta il 22 giugno 1835, il giorno del suo trentesimo compleanno. E tuttavia, come ha commentato Hobsbawm riguardo alle iniziative politiche di Mazzini, la sua «mera presenza» sarebbe stata sufficiente «ad assicurarne la totale inefficacia».1
L’Europa era talmente divisa che quando gli europei pensavano alle guerre pensavano a guerre da combattere contro altri europei. Alla fine del XIX secolo i britannici e i francesi erano preoccupati dei tedeschi, gli italiani degli austriaci, i polacchi dei tedeschi, i popoli balcanici gli uni degli altri, gli ottomani dell’Europa, e i russi… i russi erano preoccupati più o meno di tutti, come lo sono adesso.
Lungi dall’unirsi, gli europei si preparavano alla peggiore guerra intestina della loro storia, peggio della guerra dei Cent’anni, peggio di quella dei Trent’anni, peggio di quelle napoleoniche. Poco più di un secolo fa la prima guerra mondiale (chiamata mondiale, ma combattuta prevalentemente in Europa) distrusse la possibilità di una supremazia globale europea. Alla fine della guerra i più sagaci tra gli europei compresero che il loro continente non era più il centro dell’universo. Ma molti europei continuarono a coltivare le loro illusioni per tutti gli anni Venti e Trenta. Ci sono ancora francesi e inglesi che continuano a comportarsi come se avessero degli imperi.
I britannici credevano di portarsi dietro il «peso dell’uomo bianco» (White Man’s Burden), sebbene Rudyard Kipling, che coniò questa espressione, pensava che il peso dovesse essere portato dagli USA. I francesi avevano una «mission civilisatrice», i portoghesi, molto tempo prima, la loro abbastanza ridicola «Missão civilizadora».
Anche altri avevano illusioni simili. Nel 1917 i russi avviarono un progetto straordinariamente ambizioso: la costruzione di una potente società industriale che sarebbe diventata un modello per il resto del mondo, perché avrebbe portato a una società giusta e uguale senza classi né proprietà privata. L’esperimento è fallito miseramente e con un costo umano enorme. La sua caduta ha generato un dominio di plutocrati di tipo mafioso in quella che è diventata una delle più diseguali economie nel mondo, in cui il 10% della popolazione al vertice possiede il 77% della ricchezza.2
Anche i tedeschi, con Adolf Hitler, sognarono un’Europa che potesse essere unita sotto il loro dominio, epurata da elementi indesiderabili come ebrei, rom e slavi. E non dimentichiamo Mussolini e i suoi sogni patetici di un ritorno alle glorie dell’antica Roma.
I paesi minori avevano meno illusioni: uno degli insignificanti benefici dell’essere piccoli e deboli. Come pare abbia detto il belga Paul-Henri Spaak, uno dei «padri» fondatori dell’integrazione europea e primo ministro socialista, ci sono solo due tipi di stati in Europa: stati piccoli e stati che non hanno capito di esserlo. La Francia e la Gran Bretagna appartengono ovviamente alla seconda categoria.
La seconda guerra mondiale ha aggiunto altri cinquanta milioni di morti ai venti della prima e completò il compito di portare l’Europa dal centro del mondo alla sua periferia.
Nei vent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale i francesi e i britannici hanno perduto i loro imperi. L’Europa stessa fu divisa fra Est e Ovest. La Germania fu affettata in due e tale è rimasta fino al 1990, con le sue nuove generazioni fin troppo consapevoli degli orrori della guerra e determinate ad abbandonare qualunque progetto bellicoso, una lezione imparata ad alto prezzo.
Il sogno comunista incarnato dall’URSS è crollato improvvisamente nel 1989-1991. La situazione che affrontiamo oggi, e che continueremo ad affrontare nel prossimo futuro, è largamente determinata da questo evento.
Ma permettetemi di tornare alla questione della cosiddetta supremazia europea. Nel XIX secolo l’Europa sarà stata anche «il centro dell’universo», ma certamente non lo era prima del XVIII secolo. Se ipotetici osservatori fossero giunti sul pianeta Terra a bordo di una nave spaziale proveniente da Marte o Giove nei secoli XVI e XVII per una missione conoscitiva, non si sarebbero accorti di una speciale supremazia europea, se non in qualche campo scientifico come l’astronomia e la cartografia (prima degli europei i cinesi avevano già inventato il compasso, l’aratro, la polvere da sparo, la staffa e la stampa).
La Cina, l’India dei moghul e forse anche il Giappone erano più avanzati politicamente, con una burocrazia più sofisticata, una medicina superiore, artisticamente alla pari con gran parte dell’arte rinascimentale (molta della quale era confinata all’Italia centrale e settentrionale, all’Olanda e alla Germania). C’erano anche pochi dubbi che la barbarie e l’intolleranza fossero assai più pronunciate in Europa che altrove. Prima del XVIII secolo era di certo assai più sicuro vivere sotto l’islam, o il buddhismo, o il confucianesimo, piuttosto che nell’Europa cristiana. E gli europei che si stabilivano fuori dall’Europa non erano particolarmente illuminati, basti pensare al destino degli indiani americani o degli aborigeni australiani. La barbarie e l’intolleranza europee sono continuate fino a Novecento inoltrato, come dovrebbero ricordarci Auschwitz e i gulag.
Il presupposto della superiorità europea fu sviluppato nel XVIII e nel XIX secolo. Nel Settecento questo presupposto si basava sui risultati intellettuali dell’illuminismo, la sua razionalità, il suo trionfo sull’oscurantismo clericale. Il sentimento di superiorità aumentò ulteriormente nel XIX secolo, quando la supremazia europea fu ancorata a una base materiale più solida: lo sviluppo di una società capitalistica tecnologica e industriale.
Ci si può inventare l’Europa che si vuole. L’Europa vista come un faro di modernità, la culla della civiltà, era la parte occidentale. Quando i pensatori europei discutevano d’Europa, non intendevano «Europa» come una realtà geografica che si estendesse dalla costa occidentale dell’Irlanda e della penisola iberica al Caucaso e Costantinopoli e dalle lande ghiacciate di Finlandia, Svezia e Norvegia fino al caldo clima della Sicilia. Intendevano l’Europa occidentale, definita diversamente e in tempi diversi, a seconda di chi scrivesse. Il grande storico Leopold von Ranke, nelle sue Storie dei popoli latini e germanici dal 1494 al 1535 (1824), escluse esplicitamente gli ungheresi e gli slavi che «vacillarono a lungo fra le forme di culto cattolica romana e greca […] non si dirà che anche questi popoli appartengono all’unità delle nostre nazioni [vale a dire i popoli teutonici e latini]: i loro costumi e la loro costituzione li hanno separati per sempre da essa».3
L’opposizione fra Est e Ovest non è nuova. L’identificazione di «Europa» con l’Europa occidentale e la visione negativa dell’Est sono state molto a lungo opinione comune. Voltaire, nella sua Storia di Carlo XII, uno dei bestseller del XVIII secolo, presumeva, non del tutto erroneamente, che i suoi lettori fossero quelli che vivevano nella civilizzata Europa occidentale e non nel Nord o nell’Europa orientale.4 Nella sua Storia dell’impero russo sotto Pietro il Grande, Voltaire notava che riformatori come lo zar Pietro non tentavano di emulare paesi lontani, o la Persia o la Turchia, ma cercavano un modello in «notre partie de l’Europe» (la nostra parte di Europa), «dove ogni sorta di talento è celebrata per l’eternità».5 L’Ovest significava illuminismo, progresso, secolarismo e diritti umani, e anche diritti delle donne (non che simili diritti esistessero realmente in Europa, occidentale od orientale).
Ciò che non è «Europa» è territorio barbaro. Montesquieu, nel suo Spirito delle leggi, asserì che era in Asia che «il dispotismo sembra così naturale» («naturalisé»).6 Da allora, e fino ai giorni nostri, gli europei orientali hanno avuto difficoltà a essere considerati parte dell’Europa. I polacchi posero l’accento sulla divisione fra loro e la Russia «barbarica»; gli ungheresi, i polacchi e i cechi hanno sempre insistito di essere in Europa «centrale» e non «orientale». I nazionalisti ucraini (occidentali) ridefiniscono costantemente l’Ucraina come parte dell’Occidente e della sua tradizione liberale in barba al fatto storico che la maggior parte degli ucraini e dei russi sono legati assieme etnicamente e culturalmente da un’antica storia comune.
Alcuni membri delle élite dell’impero ottomano, della Cina e del Giappone erano d’accordo tra loro. Sebbene intendessero conservare la loro «anima», la loro cultura, la loro tradizione, volevano però anche modernità, pensando che il favoloso pacchetto occidentale potesse essere smontato nelle sue varie componenti e che si potesse scegliere una cosa o l’altra. Divennero ammiratori dell’Europa solo quando l’Europa li superò militarmente minacciando di colonizzarli.
L’Europa era una realtà nuova. In precedenza l’Oriente aveva guardato dall’alto in basso l’Occidente, o non lo aveva guardato per nulla, giacché non aveva nulla da imparare. I cinesi consideravano gli europei dei barbari, distinguendo tra Hua (cinesi) e Yi (barbari stranieri). Tuttavia l’Occidente, almeno nei secoli XVII e XVIII, era stupefatto dall’Estremo Oriente e in particolare dalla Cina Qing: i loro giardini e pagode decoravano i Kew Gardens e Tivoli; s’importavano e si imitavano le porcellane e i mobili in lacca; gli artisti rococò s’ispiravano a motivi cinesi. La «saggezza» cinese (c’è sempre una buona parte di fantasia in questo tipo di venerazione) era ammirata dai pensatori dell’epoca, che si basavano sui resoconti risalenti al XVI secolo scritti da gesuiti come Matteo Ricci, che era andato a convertire i pagani e aveva invece scoperto raffinatezza e ricchezza, arte e cultura, una burocrazia impressionante, sovrani benevoli e tolleranti. Matteo Ricci, noto ai cinesi come Li Madou, visse in Cina per ventisette anni e tradusse in latino i quattro libri di Confucio; nei suoi diari, De Christiana expeditione apud Sinas («Sulla missione cristiana presso i cinesi») pubblicata postuma in Occidente nel 1615, espresse la propria ammirazione per Confucio7 (ma non per il buddhismo). Fu accusato di «trasformarsi in indigeno», per usare un’espressione diffusa in seguito nei circoli britannici per censurare i funzionari che si erano troppo innamorati della cultura locale. Anche Voltaire e Leibniz ammiravano gli insegnamenti di Confucio. Benché di Cina ne sapesse poco, Hegel dichiarò che la Cina «è quest’impero meravigliosamente unico che ha lasciato, e continua a lasciare, attoniti gli europei…».8
A metà del XIX secolo la situazione si era capovolta: l’Europa credeva di non aver nulla da imparare; l’Asia, tutto. La corte imperiale cinese, dopo aver fatto del proprio meglio per prevenire le riforme, decise con riluttanza di abbracciare il «nuovo». Nel 1901, una lettera che circolava presso i funzionari del vasto impero ottenne varie risposte. Zhang Zhidong, governatore dello Shanxi, propose di ricostruire la Cina sulla base di «metodi occidentali», così da ottenere «forza e ricchezza».9
Anche il Giappone, e prima della Cina, fu investito da un’ondata di entusiasmo per il progresso occidentale. I leader meiji ricordano le élite contemporanee del Terzo mondo, combattute fra ammirazione e avversione per l’Occidente. Inizialmente, a metà dell’Ottocento, l’impatto con l’Occidente aveva innescato un movimento xenofobo di rifiuto. Ma negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento questo lasciò il passo a un diffuso entusiasmo filo-occidentale. L’epoca in cui il Giappone si considerava come unica fra le nazioni era finita. I giapponesi dovevano imparare a diventare come gli europei per evitare di soccombere loro. Era l’Oriente che guardava ora all’Occidente con paura e ammirazione.
Due guerre mondiali più tardi era il turno dell’Europa di guardare più a occidente, agli Stati Uniti, con timore e ammirazione. Questa Europa, questa Europa occidentale, si sentiva piccola, minacciata, divisa, ridotta e umiliata. La terribile guerra era stata provocata in gran parte dalle potenze europee occidentali (Germania e Italia). L’Europa era stata salvata dall’URSS, cioè dalla «parte sbagliata dell’Europa», e dagli USA (la parte sbagliata dell’Atlantico).
Fu largamente in risposta alla seconda guerra mondiale che nacque la Comunità economica europea (CEE), così come fu chiamata all’inizio. Un’impresa striminzita in confronto all’enorme catastrofe che aveva preceduto la sua creazione. All’inizio era una piccola zona commerciale comprendente solo sei stati (i paesi del Benelux, la Germania Ovest, la Francia e l’Italia) e coinvolgeva una minoranza degli abitanti del continente. Ma presto divenne, benché in modo imperfetto, il focus dei sogni di unità che nutrivano molti europei.
In certi casi, simili sogni immaginavano un ritorno a una gloria che pensavano fosse esistita in precedenza. In altri, era un modo per resistere e difendersi dal nuovo «Occidente», cioè gli Stati Uniti. In altri ancora era solo per una questione di prosperità. In molti hanno affermato che l’unità europea fosse un modo di prevenire una nuova guerra intestina, come se ci fosse mai stata una prospettiva seria che, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la Germania, divisa e castigata, avrebbe iniziato un’altra guerra invadendo la Francia, la Polonia o il Belgio, o che la Francia e la Gran Bretagna sarebbero entrate in guerra. Eppure l’idea che la pace in Europa fosse un obiettivo centrale della Comunità economica europea fu costantemente ripetuta, come se le questioni economiche fossero troppo sordide perché fungessero da collante per tenere assieme il continente. Come ragionava Jacques Delors, presidente della Commissione europea, nel suo discorso al parlamento europeo (il 17 gennaio 1989): «On ne tombe pas amoureux d’un grand marché» («Non ci si può innamorare di un grande mercato»).10
La retorica pacifista era già stata impiegata, il 9 maggio 1950, anniversario della fine della seconda guerra mondiale in Europa, dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman. Egli propose una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (ECSC o CECA), presago della Comunità economica europea, aggiungendo, con la tipica magniloquenza franco-nazionalista, che la Francia era stata per più di vent’anni campione di un’Europa unita e che la Francia aveva sempre avuto come scopo essenziale quello di «servir la paix», servire la pace. Parole pronunciate mentre il paese combatteva una dura e abbastanza inutile guerra coloniale in Indocina con il sostegno americano. E solo qualche anno prima gli obiettivi della politica estera francese, incarnati dal Piano Monnet del 1946, prevedevano il mantenimento di una Germania debole e l’annessione della Saar (e le sue risorse minerali). Un piano precedente, abbozzato nel 1944 da Henry Morgenthau, all’epoca segretario al Tesoro degli Stati Uniti, proponeva la distruzione delle industrie chiave tedesche. Con Harry Truman l’amministrazione americana, abbastanza giustamente, scartò progetti così vendicativi per approntare invece il Piano Marshall. Meglio aiutare la Germania e l’Europa occidentale a essere ricche e anticomuniste anziché povere e aperte alle perorazioni sovietiche. Incapaci di soggiogare la Germania, i francesi decisero che fosse preferibile cingerla in uno stretto abbraccio.
Nel 1993 la CEE era diventata l’Unione Europea. I sei membri originari della CEE divennero, in fasi successive, i ventotto (ventisette quando la Gran Bretagna lascerà). Ciascun passo dai sei ai ventotto è stato descritto come un passo verso l’unità europea. Ovviamente il processo non è così lineare.
L’Europa dell’Unione Europea è rimasta profondamente divisa. Ciò non sorprende. L’Europa non è mai esistita come entità unita. Nessun conquistatore o paese sono mai riusciti a imporre il proprio dominio sugli abitanti del continente: non Traiano (sotto il quale l’impero romano raggiunse la sua massima estensione), non Carlo Magno, non Napoleone, non Hitler. Lo sviluppo dell’Unione Europea riflette la sua disunità storica. Gli stati vi sono entrati per ragioni diverse e mai perché si fossero innamorati dell’ideale europeo, benché la retorica politica prescriva di invocare gli ideali quando possibile. È stato il successo economico della CEE a convincere infine i britannici, la cui economia era stata così deludente negli anni Sessanta, a entrarvi nel 1973 (non essendoci riuscita in precedenza per via dell’opposizione di de Gaulle). I danesi e gli irlandesi sono entrati simultaneamente, perché all’epoca le loro economie erano strettamente interconnesse con quella del Regno Unito. La Grecia è entrata nel 1981 e la Spagna e il Portogallo nel 1986, per lasciarsi alle spalle il loro passato dittatoriale. Poi, nel 1995, sono entrate Svezia, Austria e Finlandia, in gran parte per ragioni economiche. E ancora, tra il 2004 e il 2013 (quasi) tutti gli altri stati: non solo Malta e Cipro, che non volevano restare piccoli paesi isolati, ma anche la maggior parte dei paesi ex comunisti (fuori dall’URSS), perché avevano bisogno di rispettabilità, di riconoscimento, dovevano stabilire una barriera netta tra sé e la storia del comunismo, temevano la Russia e, soprattutto, speravano di diventare ricchi come i paesi europei occidentali.
Che l’ethos dominante dell’Unione Europea debba essere filo-mercato non può sorprendere nessun osservatore che tenga in considerazione la sua storia. Il suo obiettivo è sempre stato quello di abolire le barriere economiche interne e la creazione di un mercato unico con un’unica valuta. La legislazione sul welfare è sempre rimasta solidamente in mano agli stati-nazione. Stesso discorso vale per la tassazione, lo strumento principale delle decisioni economiche. Certe disposizioni sociali sono state aggiunte per mantenere ai margini i sindacati; certi principi relativi ai diritti umani, per accontentare i liberal.
In ogni caso l’economia non è sufficiente a costruire un’identità.
Si può costruire un’identità europea? Andrebbe costruita? Cosa implicherebbe? L’unico modello di cui disponiamo al riguardo è la costruzione dell’identità nazionale. Questo ci riporta al XIX secolo, quando la Storia, allora appena istituita come disciplina di studio all’università, stava diventando importante. La rivoluzione romantica l’aveva ricollocata al centro come narrativa magistrale, dove le persone potevano leggere la propria biografia. Gli eroi potevano ancora essere re e regine, ma solo perché rappresentavano il «genio» della propria nazione. Gli storici, per secoli lacchè dei sovrani, cronachisti di menzogne, ora acquisivano un ruolo «democratico» e, con questo, un importante mercato. Gli storici britannici del XIX secolo, come Thomas Babington Macaulay, George Macaulay Trevelyan e William Stubbs, rappresentarono la storia britannica in un modo del tutto roseo e accomodante. Era la storia di un susseguirsi di riforme intelligenti basate sul pragmatismo. Anche vicende come quella di Cromwell, la guerra civile e l’esecuzione di Carlo I furono arruolate in una storia di progresso pacifico e costante verso una maggiore democrazia con più diritti costituzionali. Una classe dominante illuminata e astuta cedette alla pressione popolare esattamente al momento giusto, prima che le masse si dessero a una rivoluzione violenta. A differenza dei francesi sempre in rivolta, dei confusi ma ben intenzionati italiani, dei militaristi tedeschi, degli irrecuperabili romantici polacchi, i britannici facevano tutto come si doveva. Questo cliché domina ancora l’opinione che i britannici hanno di sé.
Anche in Francia la storia è stata utilizzata come terreno principale sul quale forgiare un’identità nazionale. Un popolo che non conosceva la propria storia, si riteneva, sarebbe stato sempre in balia di despoti dai quali sarebbe stato raggirato e imbrogliato. Al popolo andava detta la «verità» su di sé. Questo era il compito degli storici, i nuovi sacerdoti dell’ordine secolare. In questo credeva il grande storico Jules Michelet. Nel 1846 scrisse che la Francia era l’unico paese i cui interessi si mescolavano a quelli del resto dell’umanità perché era speciale, perché la sua grande leggenda nazionale «è l’unica che sia completa […] è un immenso, ininterrotto torrente di luce, una vera via lattea su cui il mondo ha sempre fissato gli occhi» («une trainée de lumière immense, non interrompue, véritable voie lactée sur laquelle le monde eut toujours les yeux»). Le sfortunate Germania e Inghilterra, d’altro canto, erano rimaste estranee alla «grande tradizione romano-cristiana e democratica del mondo» («grande tradition du monde, romano-chrétienne et démocratique»).11
Più di cinquant’anni più tardi, Ernest Lavisse, titolare della cattedra di Storia moderna alla Sorbona, scrisse un testo in più volumi, Histoire de France depuis les origines jusqu’à la Révolution (1901), e altri libri e conferenze indirizzati agli insegnanti di storia nelle scuole della repubblica. Riteneva che ai bambini andasse insegnato che il loro dovere era vendicare la sconfitta subita a Sedan nel 1870 per mano della Prussia (l’elemento bellicoso fu poi gradualmente attenuato) e difendere i valori della rivoluzione francese contro tutti quelli che cercavano di ristabilire l’Ancien Régime. Nella sua voce («Histoire») per il Nouveau Dictionnaire de pédagogie et d’instruction primaire (1911) scrisse:
Nel passato più lontano vi è una poesia che deve essere instillata nelle giovani anime per rafforzarne lo spirito patriottico. Facciamogli amare i nostri antenati galli […] Carlo Martello a Poitiers, Orlando a Roncisvalle, Goffredo di Buglione, Giovanna d’Arco […] tutti i nostri eroi del passato, anche se avvolti nella leggenda.12
«Leggenda» è la parola giusta. Carlo Martello non fermò l’islam a Poitiers nel 732. Orlando, che morì da eroe a Roncisvalle, non stava combattendo i musulmani – come vorrebbe il celebre poema epico La Chanson de Roland – ma i baschi. Goffredo di Buglione fu solo uno dei molti condottieri della Prima crociata.
Oggi una simile storia «abbellita» è stata smorzata e gli scolari francesi non sono più obbligati a recitare, com’era stato per qualche decennio, l’assurda nozione che i loro «antenati» fossero i galli e che Clodoveo, il primo re «cristiano», fu il primo re di Francia. Tra le fila dei pochi che vorrebbero tornare a questo facile indottrinamento c’era François Fillon, il candidato del centrodestra sconfitto alle elezioni presidenziali del 2017. Aveva promesso, in un discorso dell’agosto 2016, che, se eletto, avrebbe nominato una commissione «di storici rispettabili» con il compito di produrre una nuova storia per le scuole che avrebbe costituito una «narrazione nazionale» («récit national»), proprio come Michelet nel 1846. Anche Emmanuel Macron ha celebrato il «récit national» durante la sua campagna elettorale dichiarando che nel «roman national» vi sono elementi «che aiutano a costituirci come nazione», per poi snocciolare le solite «grandes figures françaises»: Clodoveo, Giovanna d’Arco e via discorrendo.13
Alcuni uomini politici britannici hanno echeggiato simili tentativi di inculcare il nazionalismo nelle scuole. Da ministro all’Istruzione, Michael Gove, parlando alla camera dei comuni il 9 giugno 2014, promise che avrebbe richiesto a tutte le scuole di «promuovere attivamente valori britannici».14 Il 5 ottobre 2010 Gove, un sopravvalutato «intellettuale», lamentò la mancanza di enfasi su Churchill, di importanti vittoriani e della «Gran Bretagna e il suo impero» nei programmi scolastici. «Questo discredito del passato deve finire», disse, protestando che «l’attuale approccio che abbiamo con la storia nega ai bambini l’apprendimento della storia della nostra isola».15
Gove pensava di avere il sostegno dell’Education Act 2002, approvato da un governo laburista. Una lettura rapida delle sezioni rilevanti di questa legge (sezione 78) mostra che non vi è menzione di valori «britannici»; tutto quello che dice è che le scuole dovrebbero promuovere «lo sviluppo spirituale, morale, culturale, mentale e psicologico degli scolari». È qualcosa di talmente vago e blando che i liberal così come i jihadisti – e anzi la maggior parte delle persone – si troverebbero d’accordo. Tutti pensano che «lo sviluppo spirituale» sia cosa positiva, pur dissentendo su cosa potrebbe voler dire. Il sito web dell’ispettorato scolastico Ofsted, tuttavia, menziona come valori «britannici» fondamentali «la democrazia, il diritto, la libertà individuale e il mutuo rispetto e tolleranza per chi professa fedi e credo differenti e per chi è senza fede». Non è chiaro come mai questi valori siano specificamente britannici.16
Un altro uomo politico che celebrava i valori britannici era Gordon Brown. Nel febbraio 2007, solo pochi mesi dopo essere succeduto a Tony Blair come primo ministro, parlando al Commonwealth Club a Londra dichiarò che la «Gran Bretagna» ha una «storia unica», come se gli altri paesi non ne avessero una e come se le componenti del Regno Unito, che Brown elencò debitamente – Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord –, avessero una storia unica. Lodò poi i «valori britannici» (di nuovo: tolleranza, fede nella libertà, fair play eccetera): «Anche prima che l’America dicesse nella propria costituzione di essere la terra della libertà […] la Gran Bretagna può rivendicare l’idea della libertà» che «è emersa dal lungo fluire della marea della storia britannica, dai duemila anni di ondate successive d’invasioni, immigrazioni, assimilazione e partenariato commerciale, dalla cultura unicamente ricca, aperta e protesa verso l’esterno».17 Niente male per uno scozzese con un PhD in storia ipotizzare che la Scozia e l’Inghilterra condividessero la stessa storia «britannica» per gli ultimi duemila anni, o che esistano da così tanto tempo.
Fa venire in mente il sarcastico commento di George Bernard Shaw, scritto mentre era in corso la prima guerra mondiale: «Ho trascorso gran parte della mia vita cercando di far comprendere agli inglesi che siamo dannati da una fatale pigrizia intellettuale, un’eredità malvagia…» che egli attribuiva alla fortuna di aver avuto il monopolio del carbone e del ferro grazie al quale, per un periodo, la Gran Bretagna aveva goduto di una supremazia.18 Cent’anni più tardi la stessa pigrizia intellettuale perdura.
Quanto ai valori britannici, si dovrebbero aggiungere il colonialismo, il razzismo e il traffico degli schiavi. Andrebbe segnalato anche che la pena di morte fu abolita in Gran Bretagna solo nel 1965 (e in Irlanda del Nord nel 1973), vale a dire dopo Portogallo, Danimarca, Italia, Germania, Austria, Finlandia, Svezia e molti altri; che l’omosessualità maschile è stata ritenuta un crimine nel Regno Unito fino al 1967 (mantenuto in Scozia fino al 1981 e in Irlanda del Nord fino al 1982), ma che la criminalizzazione dell’omosessualità era stata abolita in Francia nel 1791, in Olanda nel 1811, in Brasile nel 1831, in Portogallo nel 1852, nell’impero ottomano nel 1858 (all’epoca in cui si poteva ancora essere impiccati in Gran Bretagna per «sodomia»), in Giappone nel 1880, in Italia nel 1889, in Danimarca nel 1933, in Islanda, Svizzera e Svezia negli anni Quaranta, in Grecia e Giordania nel 1951, in Thailandia nel 1956, in Cecoslovacchia e Ungheria nel 1961 e in Israele nel 1963; che gli ebrei furono ammessi all’Università di Padova nel 1222, ma solo nel 1856 in quella di Oxford; che le pene corporali furono abolite nelle scuole polacche nel 1783, in Francia nella prima metà del XIX secolo, in Russia nel 1917 (dopo la rivoluzione), in Olanda nel 1920, in Italia nel 1928 (sotto il fascismo!), mentre in Inghilterra e Galles le pene corporali furono messe fuorilegge solo nel 1986, e solo nelle scuole statali (se i tuoi genitori pagavano, potevi essere picchiato in quelle private fino al 1998 in Inghilterra e in Galles, fino al 2000 in Scozia, e fino al 2003 in Irlanda del Nord, sempre l’ultima quando si tratta di diritti umani).
Vale la pena di aggiungere che, come documentato in una lettera del 1977 dall’allora ministro degli Interni Merlyn Rees al primo ministro James Callaghan, i ministri conservatori avevano permesso l’uso della tortura contro i detenuti in Irlanda del Nord fino al 1970-1971, prove che non furono evidentemente trasmesse alla Corte europea dei diritti dell’uomo.19 Nel 2018 il comitato parlamentare di intelligence e sicurezza (presieduto dal deputato conservatore Dominic Grieve) rivelò che le agenzie di intelligence britannica furono coinvolte nella tortura e nel rapimento di sospetti terroristi dopo l’11 settembre, quando Tony Blair era primo ministro e Jack Straw ministro degli Esteri.20
Valori britannici? Tolleranza? Fair Play?
Eppure in Occidente erano stati compiuti rimarchevoli progressi verso la tolleranza. Un rapporto dell’ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association) rivela che sono ancora settantadue gli stati che criminalizzano i rapporti fra persone dello stesso sesso (il 37% di tutti gli stati dell’ONU). Trentadue sono in Africa, dieci nelle Americhe (quasi tutti nei Caraibi), ventitré in Asia (compresi India e Pakistan, ma non la Cina). In certi stati solo la «promozione» dell’omosessualità è proibita, come in Russia e in Lituania (come anche nel Regno Unito con la clausola 28 del Local Government Act 1988, abrogato finalmente nel 2003 dopo un’opposizione inizialmente riuscita alla camera dei lord). Nel complesso, quando si guardi allo status legale degli omosessuali, l’Europa ne esce in buona salute.21
L’esperienza comune europea è una mitologia di progresso e missione civilizzatrice (ignorando il pesante indebitamento con l’Oriente) così come una storia sanguinosa di guerre e genocidi. Si potrebbero mettere in evidenza gli aspetti positivi e attenuare quelli negativi ma, fortunatamente, è improbabile che gli storici di oggi lo facciano. Dopo aver conquistato la loro libertà professionale, gli storici intellettualmente onesti non adegueranno i propri insegnamenti e i propri studi alle esigenze di «una comune identità europea».
Ma le nazioni e il nazionalismo sono troppo forti per essere ignorati nel progetto europeo. Infatti, tutti i documenti dell’Unione Europea si premurano di aggiungere, ogni volta che citano il bisogno di maggiore coerenza e identità comuni, la necessità di evitare frammentazione, caos e conflitto, e quanto sia invece desiderabile raggiungere coesione, solidarietà, sussidiarietà e cooperazione e rispettare le diverse identità degli stati membri.
Non credo che si possa insegnare un’identità. Non credo che si possa fare dell’Europa uno stato-nazione di stati-nazione, il che non significa che la lenta e dolorosa costruzione dell’Unione Europea, nonostante i problemi, gli errori, le sciocche regole, il deficit democratico e la bassa affluenza alle urne, non sia la cosa migliore successa nella storia europea. Bisogna inoltre riconoscere che in certi paesi alcuni elementi d’identità europea si sono sviluppati anche grazie alla valuta comune, all’abolizione del passaporto nell’area Schengen, allo scambio universitario noto come programma Erasmus. Quello che manca è l’insegnamento adeguato della storia degli altri paesi europei. Ma non dimentichiamo che la maggior parte delle persone non basa le proprie conoscenze storiche solo su quanto è stato appreso a scuola. La storia che conoscono la ricavano in parte dai ricordi distorti e dai pregiudizi di genitori e nonni, in parte dagli incompleti riferimenti al passato che racimolano nei telegiornali, nei quotidiani, nei libri (romanzi in particolare) e, soprattutto, alla televisione e nei film.
Anche i politici contribuiscono alla distorsione della storia ogni volta che usano il passato per giustificare le loro iniziative. È ormai un assioma che se vuoi invadere un paese ostaggio di un dittatore, la posizione standard è paragonare quel dittatore a Adolf Hitler, giacché oggi Hitler ha pochi difensori e, di tutte le figure storiche, è giustamente la più vituperata.
Nell’aprile 1999 Ken Livingstone, allora deputato e non ancora sindaco di Londra, paragonò Milošević a Hitler («The Independent», 20 aprile 1999) mentre sosteneva un intervento «umanitario» contro la Serbia, cioè bombardare Belgrado e la sua popolazione civile. Non fu l’unico. Bill Clinton fece lo stesso, paragonandosi implicitamente a Churchill.
Poi, nell’agosto 2002, Donald Rumsfeld, segretario di stato alla Difesa degli Stati Uniti, ammonì il suo uditorio circa l’essere «teneri» con Saddam Hussein come lo era stata l’Europa con Hitler.22 Nel 2003 (appena prima dell’invasione dell’Iraq) Tony Blair, allora primo ministro, disse la stessa cosa. Forse sarebbe stato meglio essere meno interventisti. Nel novembre 2015 Jeremy Corbyn, già leader dei laburisti, decise che il partito doveva opporsi agli attacchi aerei in Siria; 66 deputati laburisti, guidati dal già citato deputato laburista Hilary Benn, gli votarono contro. Eppure nel 2013 David Cameron si vide bloccare un intervento britannico in Siria subendo il voto contrario a una mozione del governo: 272 voti a favore (che comprendevano 31 liberali) e 285 contrari, con 30 deputati conservatori che si unirono al Labour guidato da Ed Miliband e comprendente Hilary Benn.
Il discorso di Benn del 2015 a favore dell’intervento fu ampiamente lodato, per esempio dal «Daily Mirror» («Appassionato») o dal «Daily Telegraph» («Il discorso di un vero leader»). In un’orgia di paralleli storici assurdi, un Benn dalla bocca schiumante paragonò i jihadisti dell’ISIS alla Germania nazista e all’Italia fascista: «Abbiamo di fronte dei fascisti […] e quello che sappiamo dei fascisti è che hanno bisogno di essere sconfitti. […] È la ragione per cui quest’intera aula si oppose a Hitler e a Mussolini».23
Ma era solo enfasi retorica. I britannici sono stati marginali nella guerra contro l’ISIS in Siria, come confermato da uno sprezzante rapporto del comitato di difesa della camera dei comuni. Vi si legge che tra il settembre 2014 e il maggio 2016 gli attacchi aerei del Regno Unito in Iraq furono solo il 7% del totale e il 4% tra il dicembre 2015 e il maggio 2016. Mark Carleton-Smith, vicecapo di stato maggiore alla Difesa (Strategia e operazioni militari), ammise al comitato che, in Siria, il Regno Unito era stato «impegnato marginalmente».24 E poté prendere in considerazione attacchi aerei solo perché l’esercito britannico garantiva il minimo di efficienza. Fa una tale fatica ad arruolare soldati che ora cerca di incoraggiare donne, gay e minoranze etniche a unirsi ai circa 80.000 effettivi delle truppe regolari. Giovani con qualifiche adeguate, spiegava un arruolato gay, possono fare più soldi «che guadagnare 17.000 sterline per strisciare nella pioggia e nel fango dello Yorkshire».25
La sconfitta dell’ISIS è dovuta a una combinazione di potenza aerea russa, milizie sciite appoggiate a terra dall’Iraq, gli hezbollah appoggiati dall’Iran, l’esercito siriano e le forze curde appoggiate a terra dagli americani. La riconquista di Mosul, strappata all’ISIS nel luglio 2017, è stata compiuta da forze del governo iracheno con il sostegno delle forze aeree degli Stati Uniti che, presumibilmente, contribuirono anche al numero paurosamente alto di vittime civili.26 Nell’ottobre 2017 Raqqa, la cosiddetta «capitale» del cosiddetto «califfato», fu riconquistata da truppe curdo-siriane sostenute da attacchi aerei statunitensi. Una città un tempo di 200.000 abitanti ora giace «a pezzi», secondo la rivista «Time», «con quasi ogni edificio danneggiato o distrutto».27 Un rapporto di Amnesty International del 5 giugno 2018 ha stabilito che le forze di coalizione guidate dagli Stati Uniti avevano distrutto la città, uccidendo centinaia di civili mentre procedevano alla loro «liberazione» dall’ISIS.28 Alla faccia dell’intervento umanitario. Guerre come queste portano inevitabilmente a numeri considerevoli di vittime civili, come spiegava il generale maggiore Rupert Jones, il più alto ufficiale britannico allora di stanza in Iraq: «La guerra è un inferno ed è impossibile sconfiggere l’ISIS senza uccidere dei civili».29
Il conflitto nella zona è probabile continui a diffondersi e a complicarsi ulteriormente con altri interventi turchi. In tutto ciò i britannici sono stati (e continueranno a essere) ininfluenti quanto Hilary Benn e i suoi sciocchi paragoni dell’ISIS a Hitler.
Certe similitudini non sono una novità. Nel 1956 il primo ministro britannico Anthony Eden e il leader dell’opposizione Hugh Gaitskell paragonarono entrambi Nasser a Hitler per aver avuto la temerarietà di nazionalizzare il canale di Suez. Durante una sessione del World Affairs Council a Boston, il 15 febbraio del 1984, il segretario di stato USA George Shultz disse che il Nicaragua «sembra la Germania nazista». Nel marzo 2014 Hillary Clinton, non più segretario di stato ma ancora un falco in politica estera, paragonò l’occupazione della Crimea di Putin all’occupazione dei Sudeti di Hitler del 1938. Vi sono, ovviamente, alcune somiglianze, ma la parola «Hitler» non fa pensare ai Sudeti, ma ad Auschwitz, al genocidio, alla seconda guerra mondiale, e chi fa questi paragoni è perfettamente consapevole che la semplice menzione di Hitler è sufficiente a evocare un mostro. Un po’ come dire a un vegetariano: «Toh, un vegetariano: come Hitler!».
A Oslo, il 10 dicembre 2009, durante la sua prolusione per il conferimento del premio Nobel, Barack Obama paragonò i leader di al-Qaeda a Hitler.30 Più recentemente, nel marzo 2018, in seguito al tentato omicidio presumibilmente per mano russa di Sergei Skripal’ (un russo che spiava per conto della Gran Bretagna ed è stato poi scambiato con spie russe in Occidente) e di sua figlia a Salisbury, Boris Johnson, parlando alla commissione parlamentare esteri e rispondendo a domande rivoltegli dal deputato laburista Ian Austin, esortò l’Inghilterra a ritirarsi dal Mondiale di calcio (tenutosi in Russia) e concordò, con il suo caratteristico understatement, sul fatto che Putin avrebbe usato la competizione nello stesso modo in cui Hitler aveva usato le Olimpiadi del 1936. Questa naturalmente è solo una delle numerose, assurde dichiarazioni di Johnson. Iain Duncan Smith, in un articolo nel «Daily Mail» (e dove altrimenti?), tracciò un paragone tra la posizione della Confederation of British Industry (la confindustria britannica) di pacificazione con Hitler negli anni Trenta alla sua attuale opposizione a Brexit31 (i Tory, all’epoca, furono i principali propugnatori della pacificazione, ma conta forse la storia quando si cerca di guadagnare punti in un dibattito?). Madeleine Albright, che in storia non è meglio di quanto non fosse da segretario di stato americano, dà del «fascista» a chiunque non le piaccia, come il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, mentre Trump è un fascista potenziale.32 E, da ultimo, ma niente affatto di minore importanza, il principe Mohammad bin Salman, il capo de facto dell’Arabia Saudita, ha dichiarato che «il supremo leader iraniano mette Hitler in buona luce».33
Tutto ciò va a confermare quanto è noto come legge di Godwin, dall’asserzione dell’avvocato americano Mike Godwin secondo cui, man mano che si sviluppa una discussione politica, aumenta la probabilità di un paragone con Hitler. Hitler è poco più che una metafora per «la persona peggiore che si possa pensare e di cui chiunque abbia sentito parlare». Nel medioevo era Satana. Almeno Hitler è veramente esistito.
A parte Hitler, la storia insegnata nelle scuole della maggior parte d’Europa si basa su un presupposto fondamentale: la storia del proprio paese. A questo presupposto si aggiunge un pizzico di storia greca e romana, presumibilmente la nostra eredità culturale, un concetto inventato nei secoli precedenti, alcuni eventi importanti (la peste nera, la rivoluzione francese) e alcuni punti di riferimento come il rinascimento e l’illuminismo (solitamente ben orientati verso il proprio paese). I popoli degli stati-nazione europei non scelsero la propria nazione. Hanno ricevuto nazionalità e costruzione nazionale dall’alto. Alla fine divennero britannici, tedeschi, francesi, italiani, spagnoli e belgi. Potrebbero essersi sentiti scozzesi o cornovagliesi, guasconi o bretoni, bavaresi o prussiani, siciliani o piemontesi. Per molti è ancora così, ma alla fine, grazie a una burocrazia e a un sistema scolastico che ha dato loro un linguaggio comune e una storia «comune», e grazie a guerre, inni nazionali, tornei sportivi, al concorso canoro Eurovision, a radio e televisioni nazionali e a un insieme di altre iniziative, gli europei hanno imparato a identificarsi con una gamma particolare d’istituzioni politiche che chiamano «nazione».
In molti casi alcune circostanze politiche fortuite hanno portato gli abitanti di una particolare regione a sviluppare uno spirito nazionale. I nizzardi oggi sono francesi, e molti probabilmente sono orgogliosi di esserlo, ma fino al 1860 Nizza faceva parte del piemontese Regno di Sardegna. Gli abitanti parlavano il patois locale, il niçois (una specie di occitano). Poi, nel 1860, l’imperatore Napoleone III ottenne Nizza e il territorio circostante dal Regno di Sardegna in cambio dell’aiuto che aveva dato durante la guerra contro l’Austria (1859). Nizza e i suoi abitanti erano ora «francesi» e, indubbiamente, presto si sentirono patriottici come se fossero nati a Lille (che era diventata «francese» nel 1688) o a Lione. Se questo non fosse successo, la riviera italiana sarebbe stata molto più estesa, forse i turisti avrebbero banchettato a base di zuppa di pesce anziché bouillabaisse, e i suoi abitanti avrebbero tifato la nazionale italiana di calcio e non quella francese.
Faccio un esempio. Immaginiamo che accada qualcosa di tremendo al Regno Unito, per esempio un grosso crollo dell’economia post-Brexit, qualcosa che infine persuadesse gli scozzesi, i nordirlandesi e perfino i gallesi a separarsi.
L’Inghilterra resterebbe sola. Immaginiamo poi che il crollo fosse tanto serio da indurre altre regioni dell’Inghilterra, mettiamo la Cornovaglia, a decidere di volere l’indipendenza. Oggi il Partito nazionalista cornovagliese esiste, anche se è generalmente considerato una burla. Ma lo erano anche i nazionalisti scozzesi. Immaginiamo la Cornovaglia come un paese indipendente. Non impossibile, giacché ha una popolazione di circa 520.000 abitanti (il Lussemburgo ne ha 590.000) e un’area di 3563 chilometri quadrati (1000 in più del Lussemburgo). Il nuovo governo nazionalista comincerebbe immediatamente a costruire un’identità e una cultura cornovagliese. Al momento sembra che solo 3000 persone al massimo sappiano parlare il cornico (o kerneweg), ma il nuovo governo cornovagliese potrebbe obbligare le scuole a insegnarlo. Dopotutto nel 2002 il governo laburista di allora, forse in un disperato tentativo di ingraziarsi certi elettori (ci sono assai pochi sostenitori Labour in Cornovaglia), richiese che il cornico fosse inglobato nella Carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Siccome l’Unione Europea promuove le identità regionali locali, nel 2005 stanziò 80.000 sterline per lo sviluppo del cornico; non una somma principesca, ma l’equivalente dei salari di un paio di maestri elementari. Nel 2014 l’UE ha riconosciuto i cornovagliesi come gruppo minoritario nazionale.
La Cornovaglia è una delle regioni più povere del Regno Unito, anzi, una delle più povere dell’UE e beneficiaria di fondi europei; non che questo l’abbia dissuasa dal votare a favore di Brexit nel 2016, probabilmente in preda all’illusione e al miraggio che, una volta fuori dal Regno Unito, Londra finanzi il rilancio dell’economia cornovagliese.34
Ma, nel nostro esempio fittizio, il nuovo governo indipendente cornovagliese potrebbe porre come condizione per i dipendenti del pubblico impiego la conoscenza del cornico o la disponibilità a impararlo. Potrebbe sovvenzionare un quotidiano in cornico (anche ora uno dei giornali locali ogni tanto ha un articolo in cornico). Non c’è una letteratura cornovagliese vera e propria, ma non significa che il nuovo governo non possa annettersi figure letterarie con agganci alla Cornovaglia, per esempio William Golding, premio Nobel per la letteratura, noto per Il signore delle mosche, e Donald Michael Thomas, autore di L’albergo bianco, entrambi nati lì, o Daphne du Maurier, che visse in Cornovaglia e vi ambientò la maggior parte dei suoi romanzi. Anzi, nel suo ultimo romanzo, Un bel mattino, Du Maurier immagina un movimento secessionista in Cornovaglia represso con la forza dagli americani.35 Una Cornovaglia indipendente potrebbe anche appropriarsi di antiche storie folcloriche come quella di Tristano e Isotta, buona parte della quale si svolge in Cornovaglia e su cui Wagner basò la sua famosa opera prendendone il tema in prestito da un tedesco del Duecento, Gottfried von Strassburg, il quale lo prese a sua volta da Tommaso d’Inghilterra, probabilmente un normanno stabilitosi in Inghilterra, che l’aveva scritta in langue d’oïl, cioè in francese antico. Non molto cornico da queste parti.
Dopo qualche decennio d’intervento pubblico sistematico, forse anche prima, la Cornovaglia diventerebbe una nazione orgogliosa di sé, proprio come tutte le altre.
Per costruire una nazione, la cosa migliore è avere uno stato, esigere tasse, controllare l’istruzione e i media, avere una forza di polizia e un esercito. All’Unione Europea mancano questi meccanismi e pochi vorrebbero che li avesse. È impossibile costruire l’identità europea nel modo in cui è stata realizzata quella francese, britannica o tedesca.
Inoltre, proprio ora, mentre lo stato-nazione resta il principale focus dell’identità, una crescente porzione di europei è arrabbiata con i propri politici e vota sempre più massicciamente per partiti euroscettici antisistema di destra, partiti che agitano lo spauracchio dell’immigrazione, o non vota affatto. Si votano anche persone che non sono mai state politici, come se un lavoro nel campo immobiliare o in quello televisivo (Donald Trump e Silvio Berlusconi), nella finanza (Emmanuel Macron), nell’intrattenimento (Beppe Grillo), o nell’industria alimentare (il leader ceco Andrej Babiš) offra garanzie d’integrità politica. Anche nel caso di Jeremy Corbyn, il suo ovvio disinteresse verso la convenzionale politica di partito, nonostante una vita spesa in politica, è stato un vantaggio.
I commentatori hanno notato che «il popolo» è arrabbiato con le «élite». Bisognerebbe dedicare più tempo a esaminare come mai la qualità del personale politico in Occidente sia tanto scaduta. Spero non sia visto come un aggrapparsi ai «bei tempi andati» fare confronti tra i vecchi leader come Harold Macmillan, Harold Wilson, Margaret Thatcher, Helmut Schmidt, Willy Brandt, Konrad Adenauer, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Aldo Moro, Charles de Gaulle, François Mitterrand, Adolfo Suárez, Felipe González, Andreas Papandreou e suo padre Georgios e i nuovi leader politici. A favore dei primi.
Ma a fare la differenza non sono i grandi uomini e le grandi donne, bensì le circostanze che li producono. Dove sarebbero Franklin Delano Roosevelt, de Gaulle e soprattutto Churchill senza la seconda guerra mondiale? I russi non avrebbero pianto in massa la morte di Stalin nel 1953 se non fosse stato considerato il vincitore della guerra, invece del paranoico assassino che era. In epoche morbose la metafora latina «nanos gigantum humeris insidentes» (nani sulle spalle di giganti) non funziona. Questa è un’epoca di pigmei che dei giganti non hanno alcuna memoria.