1. IL VECCHIO MUORE
Nella cella di una prigione fascista a Turi, nell’Italia meridionale, nel 1930, un anno dopo il crollo di Wall Street del 1929, otto anni dopo la marcia su Roma di Mussolini, tre anni prima dell’avvento al potere di Hitler, il leader del Partito comunista italiano Antonio Gramsci scrisse questa famosa riflessione:
La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.1
Per descrivere la situazione attuale, a poco più di ottant’anni dalla sua morte avvenuta nel 1937, sono ancora importanti queste sue parole? Non siamo negli anni Trenta. Il fascismo non è alle porte. La democrazia liberale vige in un numero di paesi maggiore che in qualsiasi altro periodo del passato. La disoccupazione potrà anche essere aumentata se paragonata agli anni d’oro del boom del dopoguerra, ma la recessione globale del 2007-2008, per quanto seria, non è stata per nulla catastrofica come la grande depressione del 1929, almeno finora. Gramsci spiegava che la crisi, quando il vecchio muore e il nuovo non è ancora nato, consisteva in una «crisi di autorità»: le classi dominanti stavano perdendo terreno, scemava il consenso che ne sosteneva il potere e la presa ideologica sulle masse stava loro sfuggendo. Queste masse, spiegava, non seguivano più le ideologie tradizionali, ma stavano diventando progressivamente più ciniche e scettiche. Non credevano più nelle élite. E questo le élite lo sapevano. Eppure il «nuovo» rimaneva imprevedibile. Tradizionalmente i marxisti vedevano le crisi come un’opportunità per un cambiamento radicale. Gramsci, più vicino a noi, è meno ottimista. La congiuntura che descriveva era un «interregno» brulicante di sintomi morbosi, non una situazione potenzialmente rivoluzionaria. Non escludeva un ritorno al vecchio, benché sperasse (con quello che chiamava «ottimismo della volontà», in contrasto con il «pessimismo dell’intelligenza») che i sintomi morbosi potessero offrire un’opportunità di progresso.
La principale caratteristica dell’interregno tra vecchio e nuovo è l’incertezza. È come guadare un largo fiume. La vecchia sponda è alle spalle, ma la nuova non si distingue ancora. Le correnti possono risospingerti indietro. Potresti annegare. Incapaci di anticipare quel che succederà, si è sopraffatti dalla paura, dall’ansia e dal panico.
Un critico di Gramsci potrebbe obiettare che, quando scrisse queste parole, un indesiderato «nuovo» era già comparso: il fascismo italiano, di certo un «sintomo morboso», ma anche una nuova forma di stato, che godeva di un certo consenso popolare. Il vecchio stato liberale si era dissolto; le speranze generate dalla Rivoluzione di ottobre si erano infrante e le attese rivoluzioni in Occidente non si erano materializzate. In gran parte d’Europa, dopo la fine della Grande guerra, i rivoluzionari che avevano sperato di ripetere le conquiste dei bolscevichi erano stati completamente sconfitti. La rivoluzione ungherese guidata da Béla Kun nel 1919 era stata repressa con la violenza. In Austria i consigli dei soldati e dei lavoratori (i «Soviet»), guidati dai comunisti, non riuscirono a distruggere la nascente repubblica borghese. In Germania la rivoluzione spartachista del 1918-1919 era stata schiacciata nel sangue dai Freikorps, un’organizzazione paramilitare di destra, sotto la direzione del socialdemocratico Friedrich Ebert. I leader spartachisti Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht erano stati assassinati. In Italia l’occupazione delle fabbriche e le proteste contadine degli anni 1919-1920, il cosiddetto «biennio rosso», erano fallite. Mussolini fu nominato primo ministro mentre i suoi seguaci marciavano su Roma (28 ottobre 1922). Qualche anno più tardi s’instaurava la dittatura fascista.
Nulla di altrettanto radicale accadde in Francia, negli Stati Uniti o nel Regno Unito. Nel 1920, in Gran Bretagna, i portuali si rifiutarono di caricare le navi destinate a un intervento militare contro il regime bolscevico. Nel 1926 ci fu uno sciopero generale, ma durò soltanto nove giorni, mentre i minatori continuarono le loro lotte per mesi. Poi, piegati dalla fame, tornarono alle miniere. L’establishment britannico rimase solido come sempre. In Francia la moneta si svalutò, i governi si alternarono, ma vi furono poche proteste dopo l’ondata di scioperi del maggio 1920.
Nel 1921 in West Virginia, negli Stati Uniti, vi fu una delle più importanti proteste operaie della storia americana, che coinvolse circa 10.000 minatori armati (la battaglia di Blair Mountain).2 L’intervento dell’esercito schiacciò lo sciopero, uccidendo decine di minatori. Poi le cose tornarono all’abituale violenza americana. In America pochi conoscono questo episodio che quasi non è menzionato nei romanzi, nelle canzoni o nei film.
La sinistra era stata sconfitta ovunque, ma gran parte del «vecchio» – il regime zarista, l’impero austro-ungarico, l’impero ottomano – era finito; e c’era del «nuovo»: la nascita dell’Unione Sovietica, della Iugoslavia, dell’Ungheria, dell’Austria, della Turchia.
Presto gli Stati Uniti si sarebbero imbarcati nel New Deal. In Cina il governo nazionalista guidato da Chiang Kai-shek, dopo aver sconfitto vari signori della guerra e ucciso, nel 1927, centinaia di comunisti (già suoi alleati), riuscì a estendere il controllo su gran parte del paese.
Sulla scia della Rivoluzione di ottobre non emerse un solo regime comunista (eccezion fatta per la Mongolia). I comunisti furono banditi, perseguitati o incapaci di emergere dall’irrilevanza politica fuorché in Germania (dove però furono presto distrutti dai nazisti) e in Francia. Nel periodo tra le due guerre non vi furono rivoluzioni socialiste. Alla vigilia della seconda guerra mondiale i governi autoritari di destra dominavano in gran parte l’Europa. Nel 1923, in Bulgaria, un colpo di stato militare portò alla dittatura di re Boris. Nel 1928, in Albania, un capo locale, Ahmet Zogu, impadronitosi del potere nel 1924, si proclamava re Zog senza temere il ridicolo. Nel paese vigeva un ferreo stato di polizia quando, dopo la seconda guerra mondiale, i comunisti guidati da Enver Hoxha lo trasformarono in un regime ancora più repressivo.
Dal 1935 in poi anche la Polonia divenne, di fatto, una dittatura militare. Nel 1932, in Lituania, Antanas Smetona, che aveva assunto il potere nel 1926, instaurò un regime a partito unico. Nel 1929 re Alessandro era a capo di un regime autoritario in Iugoslavia. Nel 1934, in Estonia, toccò a Konstantin Päts diventare un dittatore. Nello stesso anno, in Lettonia, Kārlis Ulmanis, un antisemita, inscenò un suo colpo di stato. Nel 1938, in Romania, re Karol II ottenne pieni poteri, divenendo di fatto un dittatore. Per tutto il periodo fra le due guerre (e fino al 1944) l’Ungheria fu governata dall’ammiraglio Miklós Horthy, il quale, come Mussolini, introdusse leggi razziali nel 1938.
C’erano dittature anche in Europa occidentale: l’Italia fascista naturalmente, poi la Germania nazista, la Spagna di Francisco Franco, il Portogallo di António de Oliveira Salazar e la Grecia di Ioannis Metaxas. Negli anni Trenta, in Finlandia, sotto la pressione del quasi-fascista movimento di Lapua, il governo promulgò una serie di leggi che bandivano pubblicazioni comuniste e portarono all’arresto dei leader comunisti e socialisti. In Austria, Engelbert Dollfuss assumeva poteri dittatoriali nel 1933, solo per essere assassinato da elementi filonazisti l’anno successivo. La dittatura durò fino all’annessione del paese da parte di Hitler, nel 1938.
L’Europa pre-1945 era alla mercé dell’autoritarismo di destra.
In carcere, Gramsci fece quello che i rivoluzionari intelligenti dovrebbero sempre fare: riflettere sulle cause della propria sconfitta. Stava anche scrivendo all’ombra di quella che allora pareva una notevole battuta d’arresto capitalistica: la grande crisi del 1929. Per alcuni era come se la crisi del capitalismo, a lungo attesa e a lungo prevista, si fosse finalmente manifestata. Eppure la sinistra fu incapace di riorganizzarsi. La situazione della classe operaia era disastrosa.
Negli anni Trenta i tassi di disoccupazione erano davvero spaventosi: al 17,2% in Germania, al 22% negli Stati Uniti, quasi al 20% in Canada e Australia, al 16% in Austria, al 15% nel Regno Unito, e al 12% in Belgio.3
Anche oggi la disoccupazione, specialmente quella giovanile, è un problema. Nel 2017 la disoccupazione media nell’Unione Europea era all’8% (ma del 20% per i giovani). Poco più alta nell’eurozona: 9,4%. Era una questione assai seria in Spagna (17,4%, 40% per i giovani) e nella maggior parte dei paesi balcanici (Bosnia 25,8%, Macedonia 22%, Montenegro 17,7%, Albania 15%, Serbia 14,4%, sebbene la Croazia, con l’11,5%, fosse allineata con l’Italia). Ma nella maggior parte dei paesi ex comunisti la disoccupazione era attorno alla media dell’Unione Europea, aggirandosi tra il 9,4% della Lituania, il 9% della Slovacchia, il 4,2% in Ungheria e il 3,2% nella Repubblica Ceca. La situazione non era per nulla buona a Cipro (11,9%), in Portogallo (11,2%), Italia (11,6%; 30% per i giovani) e in Francia (9,9%; 20% per i giovani). La Grecia era un caso a parte, con la disoccupazione oltre il 23% (40% per i giovani). La Finlandia era appena sopra la media dell’UE, la Svezia appena sotto. Il Canada e l’Irlanda erano di poco sopra il 6%; Israele, Russia, Australia e Nuova Zelanda appena sopra il 5%; gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Cina e la Svizzera meno del 5%; la Germania solo il 3,8%, il Giappone solo il 2,9% e Singapore solo il 2,1%.4 È un quadro variegato, la disoccupazione rimane un problema serio (soprattutto per i giovani) e potrebbe giocare a favore dei partiti xenofobi, ma – come risulta evidente considerando che in certi paesi dell’Europa dell’Est la destra radicale è forte nonostante la disoccupazione non sia particolarmente pronunciata – non sembrerebbe esserci una stretta correlazione tra l’impennata dei partiti estremisti e il tasso di disoccupazione.
La situazione dell’occupazione odierna non è dunque buona, benché non abbia nulla a che vedere con quella degli anni Trenta. Eppure anche noi ci troviamo di fronte a «sintomi morbosi», con leader autoritari eletti democraticamente in gran parte dell’Europa orientale, in Ungheria (Viktor Orbán), in Russia (Vladimir Putin), ma anche in Occidente, come l’ineffabile Trump negli Stati Uniti, e in Israele Benjamin Netanyahu, costantemente indagato per corruzione.
Si verifica una perdita di sostegno popolare per i partiti tradizionali che hanno governato l’Europa dal 1945, soprattutto la sinistra socialdemocratica, ma anche i partiti conservatori e, soprattutto, un’ascesa della xenofobia in gran parte dell’Occidente.
E poi si registra la disintegrazione del «sogno europeo», cioè l’idea che un’Europa forte, sicura e integrata avrebbe affrontato, unita, le sfide del domani. A soli quindici anni dall’annuncio di Jeremy Rifkin – guru costantemente sui giornali e solitamente in errore – secondo cui l’Europa stava quietamente eclissando il «sogno americano»,5 il Regno Unito (e l’UE) si trovano davanti alla Brexit; la Spagna potrebbe continuare ad affrontare il separatismo catalano; per la Grecia sembrano arrivare giorni ancora più duri di quelli appena passati; per il Belgio è difficile formare governi e tenere unito il paese. In Italia sono i partiti euroscettici a farla da nuovi padroni.
Questo libro non offre alcuna soluzione, ma un po’ di disperazione. Si concentra principalmente sull’Occidente, ma i «sintomi morbosi» sono ovunque: in India – un paese che cresce economicamente mentre ancora prevale un’immensa povertà e in cui, secondo le statistiche ufficiali del 2016, ogni tredici minuti viene violentata una donna, ogni sessantanove minuti viene assassinata una sposa per la dote, e ogni mese vengono aggredite con l’acido diciannove donne –6 c’è Narendra Modi. E in Turchia c’è Recep Tayyip Erdoğan (inizialmente lodato da tutti quanti compresi il «Financial Times» e il «New York Times» e ora aspramente criticato non del tutto ingiustamente), mentre in Turkmenistan troviamo Gurbanguly Berdymukhamedov, rieletto presidente per la terza volta nel 2017 con il 98% del voto popolare (in un’altra vita era stato il leader del Partito comunista turkmeno). In Brasile c’è Jair Bolsonaro, nostalgico dei bei tempi della dittatura, omofobo dichiarato, misogino, difensore della tortura, razzista e così via: le ha proprio tutte.
In Sudafrica c’era Jacob Zuma (un poligamo accusato di stupro e corruzione, obbligato infine alle dimissioni dal suo stesso partito); il suo successore, Cyril Ramaphosa, era un leader sindacale divenuto milionario, membro del consiglio di amministrazione della Lonmin, l’azienda mineraria britannica che nell’agosto 2012 aveva chiamato la polizia per stroncare uno sciopero dei minatori a Marikana, causando la morte di trentaquattro scioperanti e ferendone settantotto.
Nelle Filippine c’è il pericoloso psicotico Rodrigo Duterte, lodato da Donald Trump per gli assassinii extragiudiziali di chi fa uso di droga.7 Secondo le statistiche ufficiali, più di 4000 persone – c’è chi dice tra 12.000 e 80.000 – sono state assassinate in operazioni antidroga da quando Duterte è diventato presidente. Tutto questo ha portato a un’inchiesta da parte della Corte penale internazionale. Eppure, ispirato da un simile esempio, lo Sri Lanka ha annunciato che anche lì cominceranno a impiccare gli spacciatori, ponendo fine a quasi venticinque anni di moratoria sulla pena di morte.
In Messico, nell’ultimo decennio, le cosiddette guerre della droga sono costate la vita a 230.000 persone.8 Nel 2018, durante la campagna elettorale, sono state uccise più di 103 persone tra candidati alle elezioni del 1o luglio e attivisti, probabilmente a causa della loro opposizione ai cartelli della droga.9 Il neoeletto presidente, Andrés Manuel López Obrador, che ha impostato contro la corruzione la sua campagna elettorale, avrà un arduo compito.
Nel Myanmar, mentre pogrom omicidi e pulizia etnica imperversavano contro i musulmani rohingya (con 6700 persone assassinate solo in un mese nel 2017, secondo Medici senza frontiere) il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi rimaneva colpevolmente muta.10 La guerra in Afghanistan, la più lunga della storia americana, continua a mietere decine di migliaia di vittime. L’Iraq non è pacificato. La primavera araba, che aveva portato grandi speranze in così tanti cuori, è finita nel disastro: in Tunisia, dove era cominciata, dopo nove governi e pochi cambiamenti reali, l’insoddisfazione popolare non si è placata. In Egitto una dittatura sanguinaria guidata con il sostegno dell’Occidente da Abdel Fattah al-Sisi (lodato da Trump) fa rimpiangere i giorni del precedente dittatore, Hosni Mubarak. In Libia, nonostante o proprio a causa dell’intervento «umanitario» occidentale, la guerra civile ha lacerato il paese. La Siria, dopo aver sofferto uno straordinario numero di vittime (appena sotto le 500.000), mentre scrivo si trova in quelli che ci si augura siano gli stadi finali di una terribile guerra civile, con il regime di Assad ancora al potere. In Yemen il vicino regime saudita sta conducendo una spietata guerra con annessa una gigantesca crisi umanitaria.
In Occidente pensiamo che i terroristi musulmani uccidano molti occidentali. Non è così. I musulmani hanno ucciso un numero assai maggiore di musulmani. I paesi più colpiti dal terrorismo sono Iraq, Afghanistan, Pakistan, Nigeria e Siria. In Nigeria i jihadisti di Boko Haram hanno ucciso decine di migliaia di persone e ne hanno disperse 2,3 milioni. Hanno anche preso di mira moschee «moderate» come quella di Kukawa, uccidendo almeno cento persone nel luglio 2015. Tra il 2003 e il 2007, secondo il South Asia Terrorism Portal (SATP), ci sono state almeno 63.000 vittime della violenza terrorista in Pakistan.11
Nell’ottobre del 2017 a Mogadiscio, in Somalia, il gruppo terrorista al-Shabaab ha ucciso circa 300 persone facendo esplodere un camion pieno di tritolo. La notizia è stata relegata a pagina 6 del «Financial Times» e a pagina 10 del «Daily Mail». Come ha scritto la romanziera anglo-somala Nadifa Mohamed, facendo un confronto con la reazione all’attacco terroristico al teatro Bataclan di Parigi l’anno precedente: «Londra, la mia città, non ha marcato quest’atrocità come quelle nelle città occidentali: nessuna bandiera a mezz’asta, niente illuminazione del London Eye nel blu e bianco della bandiera somala, nemmeno un tweet dal sindaco Sadiq Khan».12
Il mese successivo, nel Sinai settentrionale (in Egitto), militanti armati hanno ucciso più di 300 fedeli durante le preghiere del venerdì alla moschea di al-Rawda. Il 28 dicembre 2017, a Kabul, un attacco suicida ha ucciso quarantun persone ferendone centinaia, ma il giorno seguente il fatto ha ricevuto appena una menzione sul sito della BBC: la notizia più importante era un incendio a New York in cui avevano perso la vita dodici persone.13 E potrei continuare: nel luglio 2018 un attentatore suicida ha ucciso almeno 128 persone durante un comizio nel Pakistan sudoccidentale, ancora una volta con una copertura minima da parte dei media occidentali. In Occidente vi saranno pure abbondanti sintomi morbosi, ma altrove è assai peggio.