PROLOGO
Mi sono reso conto molto presto che la storia (a differenza della matematica) non è interpretata ovunque allo stesso modo. Fu quando iniziai a frequentare le scuole elementari a Parigi, in un’epoca in cui a ogni scolaro francese si insegnava che i «nostri» antenati erano i galli. Il libro di lettura che utilizzavamo conteneva un’immagine del condottiero gallo Vercingétorix (che ispirò il personaggio della famosa serie a fumetti Asterix, creata nel 1959) che aveva sfidato i conquistatori romani, era stato sconfitto da Giulio Cesare nella battaglia di Alesia, tratto prigioniero a Roma, fatto sfilare per le strade e infine giustiziato. Eravamo pieni di simpatia e pietà per l’uomo in catene trascinato dietro al cocchio del malvagio conquistatore.
Un paio d’anni dopo, nel 1954, i miei genitori si trasferirono a Milano e mi ritrovai in una scuola elementare italiana. Fatto confortante, le tabelline erano le stesse, ma nelle pagine di storia del nostro sussidiario, dell’eroe gallo non era fatta menzione. Chiesi alla maestra di «Vercingétorix». Dopo un istante di esitazione disse: «Ah, sì, Vercingetorige», aggiungendo, «uno dei tanti barbari schiacciati dalla potenza delle legioni romane di Cesare». Mi fece una certa impressione: un eroe nazionale francese era quasi sconosciuto in Italia, un paese confinante, dove si celebrava il bruto che lo aveva ridotto in catene.
Fu la migliore lezione di storia della mia vita. Da allora ho sempre guardato con sospetto alcune certezze nazionali, non per un particolare merito personale, ma per esperienza di vita. Da ebreo nato in Egitto con passaporto inglese, ottenuto presumibilmente per ragioni coloniali dai miei antenati, scolarizzato in Francia, poi in Italia e in seguito nel Regno Unito e negli Stati Uniti, mi riuscì più facilmente che ad altri evitare di cadere preda delle mitologie nazionali, comprese quelle ebraiche. Benché abbia sempre cercato di scrivere per un pubblico più vasto, i miei libri precedenti rientravano nell’ambito cosiddetto «rispettabile» dell’università. Dopotutto la storia è un argomento d’interesse generale ed estremamente accessibile, al contrario di molte discipline scientifiche e delle sfere più recondite e specializzate della critica letteraria, della filosofia, della sociologia e dell’economia.
Quando qualcuno mi chiede quale sia lo scopo della storia, rispondo, secondo il mio umore, o che non ha scopo alcuno, che è puro divertimento – come la musica o il disegno – oppure, più seriamente, che la storia è qualcosa di cui nessuna società, nemmeno le più primitive, può fare a meno, perché le domande «da dove veniamo?» e «che cos’è accaduto tanto tempo fa?» se le pongono tutte. Si cercano risposte che a volte si trovano, altre volte si inventano; da qui nascono i racconti, le favole, i miti, le religioni e… la storia. Più recentemente, vale a dire dal XIX secolo, molti storici hanno finalmente smesso di compiacere i potenti e di celebrare le loro gesta, e hanno cercato di fornire risposte basate su solide prove e su un’analisi spassionata delle fonti. È naturalmente difficile essere equilibrati, abbandonare i propri pregiudizi, essere giusti, ma ci si prova, anche se non sempre con successo. Ottenere queste cose non dipende semplicemente dalla disposizione personale. Dev’esserci un ambiente in cui lo storico possa perseguire il suo compito senza timori. È ovviamente più facile essere uno storico in una democrazia che nella Russia staliniana o nella Germania nazista, mentre si può essere un valente scienziato in entrambe. L’Unione Sovietica aveva buoni storici, ma erano abbastanza intelligenti da tenersi a debita distanza dalla storia recente. I pericoli che si correvano non rispettando la giusta interpretazione di Pietro il Grande non erano gravi come quelli corsi trasgredendo quella di Stalin.
Nelle democrazie moderne gli storici sono più liberi, anche se non contano granché (un prezzo che vale la pena di pagare per la libertà). La gente apprende la «propria» storia soprattutto dai romanzi, dai film e dalla televisione. Gli uomini politici spesso usano la storia come un supermercato, mettendo nel carrello tutto quello che torna utile. Gli storici, con l’eccezione dei pochi che hanno dominato l’arte della comunicazione sul piccolo schermo, devono accontentarsi di fornire il materiale grezzo per cineasti e romanzieri. La maggior parte di loro è contenta che i propri libri siano usati in questo modo. In paesi che valorizzano ciò che i francesi chiamano il roman national, la narrazione fondativa dello stato, potrebbero esserci problemi ma, in generale, il revisionismo (termine che denota una sfida all’ortodossia) è consentito e, a volte, anche premiato. I cosiddetti «nuovi» storici irlandesi e israeliani, pur soggetti talvolta a vigorose – e occasionalmente feroci – critiche da parte di altri storici e da certi politici, non sono stati fucilati o deportati, né hanno perso il lavoro. Se non altro, il tentativo di liberare gli irlandesi o gli israeliani dai miti di fondazione dei loro rispettivi stati ne ha resi alcuni famosi; e meritatamente, perché era un atto coraggioso da compiere. Di conseguenza, presto divenne possibile scrivere della carestia irlandese come frutto di cause principalmente sociali ed economiche e non come qualcosa deliberatamente progettata dagli inglesi, o da questi crudelmente ignorata. In Israele, per studiosi come Benny Morris, Avi Shlaim e Ilan Pappé, divenne possibile scrivere che circa 700.000 palestinesi erano stati vittime di pulizia etnica durante la guerra del 1948 e non che se ne erano andati di loro spontanea volontà, come mi fu insegnato anni fa alla scuola ebraica.
In Gran Bretagna la questione è più tranquilla. Nel XIX secolo prevaleva l’interpretazione Whig della storia, con la sua benigna visione di progresso nazionale attraverso le riforme, ma oggi non è più così. Non ci sono più miti nazionali britannici di grande importanza. Naturalmente in molti pensano che la Gran Bretagna abbia vinto la seconda guerra mondiale praticamente quasi da sola, o che il colonialismo britannico avesse solo intenti nobili, o che l’Inghilterra/Gran Bretagna sia stata la prima democrazia del mondo, ma sono pochi gli studiosi seri che ci credono.
In Gran Bretagna è dunque facile essere uno storico imperturbabile e composto. Quasi non vi sono rischi. Ma niente di tutto ciò significa che io non debba cercare di controllare le mie passioni politiche, anche se non sempre ci riesco. Vi sono diversi modi di essere autocritici. Quando scrivo, mi piace immaginare di avere, appoggiato sulle spalle, un omino petulante che sputa consigli in modo fastidioso. Legge tutto quello che scrivo in maniera ipercritica, dicendo frasi come: «Questo non significa niente, sii più chiaro; questa frase è troppo lunga: accorciala; questo come lo sai? Dove sono le prove? Questo non è molto originale, qualcuno deve averlo già detto». A volte ascolto, a volte no: ma se si aspira a essere uno storico decente, bisogna ascoltare seriamente. Questo libro tuttavia, benché scritto da uno storico, non vuole essere «equilibrato». Non è un libro di storia. È una polemica – ispirata dalla storia naturalmente – e, a differenza di alcuni di quelli che ho scritto in passato, è misericordiosamente breve.