4. IL CROLLO DEI PARTITI TRADIZIONALI
La crisi della socialdemocrazia tradizionale
Nel 2018 divenne fin troppo evidente – anche a coloro, a sinistra, per i quali l’ottimismo è una posizione necessaria («il futuro è nostro» e simili altri mantra consolatori che appartengono anche ai fascisti) – che la socialdemocrazia riformista era stata sconfitta in tutta Europa. Sopravvivrà in una forma o l’altra? Forse in Svezia, dove è ancora al potere, pur essendo, anche lì, in grossa difficoltà. Nel 2014, con la leadership del primo ministro Stefan Löfven, il Partito socialdemocratico svedese (SAP) era stato costretto, per la prima volta in decenni, a una coalizione (con i Verdi), ma, come se non bastasse, senza maggioranza. Il SAP aveva ottenuto poco più del 30% dei voti, il suo peggior risultato di sempre. I suoi alleati Verdi meno del 7%. Avendo rifiutato la possibilità di una coalizione con il Partito della sinistra (al 5,7%), il governo del SAP era così debole da aver bisogno di qualche sostegno dalla destra per approvare almeno il bilancio. La socialdemocrazia svedese ha i giorni contati.
Se il modello svedese, un tempo celebrato, offre ora un triste spettacolo per i socialdemocratici, il resto della Scandinavia può essere descritto solo come una valle di lacrime. In Danimarca i socialdemocratici non sono al potere dal 2015 (quando avevano ottenuto solo il 26,3% pur essendo rimasti il primo partito davanti al destrorso Partito del popolo danese, con il 21%).
In precedenza i socialdemocratici erano stati a capo di un governo debole costretto a fare compromessi con tutti, l’alleanza rosso-verde alla sua sinistra e i liberali alla sua destra.
Con il primo ministro Helle Thorning-Schmidt, un esponente della cosiddetta «terza via», la Danimarca ha partecipato ai bombardamenti NATO in Libia, ha abbassato le tasse ai ricchi, tagliato i sussidi del welfare, e, nel 2014, ha venduto azioni della Dong Energy (un’azienda statale) a Goldman Sachs e altri (che ci hanno guadagnato il 150% quando hanno rivenduto tre anni e mezzo dopo).1
La vendita travolse il governo e, l’anno seguente, Helle Thorning-Schmidt non era più in carica, aprendo la strada a una coalizione di centrodestra sostenuta dal Partito del popolo danese, di estrema destra.
In Norvegia, il Partito laburista è stato a lungo considerato il partito naturale di governo, avendo mantenuto il potere ininterrottamente dal 1945 al 1963, e poi per circa venticinque anni tra il 1971 e il 2013. Nel 2001 raggiunse il peggior risultato di sempre (24,3%). Nel 2017 ha fatto un po’ meglio: 27,4%. Invaghitosi sempre di più dell’economia di mercato mentre era al governo, privatizzò i beni pubblici, tagliò i servizi sanitari e aiutò i ricchi ad arricchirsi. È all’opposizione dal 2013.
Alle elezioni del 2016, in Islanda, uno dei paesi più duramente colpiti dalla crisi finanziaria del 2008, i socialdemocratici, che fino al 2003 avevano più del 30%, sono crollati al 5,7%, il peggior risultato di sempre, ottenendo solo tre miseri seggi parlamentari. Hanno recuperato alle elezioni del 28 ottobre 2017 ottenendo il 12% dei voti e sette seggi, ma sono ormai il terzo partito. Il primo partito è il conservatore ed euroscettico Partito dell’indipendenza, nonostante la perdita di consensi dopo scandali sessuali e fiscali che hanno coinvolto il primo ministro uscente. Il secondo partito è il Movimento sinistra verde, euroscettico, ambientalista e anti-NATO. Sono seguite complicate negoziazioni che hanno portato a un governo guidato dalla leader del Movimento sinistra verde, Katrín Jakobsdóttir, in coalizione con il Partito dell’indipendenza e il Partito progressista di centrodestra. È un’alleanza eterogenea e precaria.
Anche in Finlandia, nel 2015, i socialdemocratici hanno ottenuto il loro peggior risultato con il 16,5%, diventando il quarto partito e arrabattandosi all’opposizione. Il partito «centrista», guidato da Juha Sipilä, è andato al potere in coalizione con i Veri finlandesi, euroscettici e di destra, diventati il secondo partito in parlamento, sebbene si è poi scisso nel luglio 2017, lasciando nella coalizione solo i membri della nuova formazione prodottasi.
Se ci allontaniamo da quella che si era soliti considerare la roccaforte della socialdemocrazia europea, le cose per la sinistra tradizionale vanno anche peggio. A volte perde nei confronti dell’estrema destra, altre nei confronti dell’estrema sinistra.
Alla fine degli anni Novanta, il Partito socialista al potere in Portogallo proseguì con alacrità le privatizzazioni dei suoi predecessori. Riuscì a rispettare i parametri per la partecipazione all’eurozona adottando il tipo di contabilità «creativa» in auge presso Grecia e Italia. All’inizio, con António Guterres (attuale segretario generale dell’ONU), vi fu una crescita economica sostanziale, attenuatasi però dal 2002. Poi i socialisti persero il potere e i conservatori del Partido Social Democrata, guidati da José Manuel Barroso (ex maoista, in seguito presidente della Commissione europea e attualmente presidente non esecutivo di Goldman Sachs), formarono una coalizione. Questa non ottenne pressoché nulla e preparò la strada a una vittoria schiacciante dei socialisti nel 2005. L’economia declinò ancora di più, i salari aumentarono di poco (restando ben al di sotto della media di quelli dell’Europa occidentale) mentre la disoccupazione schizzava alle stelle. La recessione globale del 2007-2008 peggiorò ancora la situazione. I socialisti vinsero di poco le elezioni del 2009. A quelle del 2011 furono completamente travolti crollando al 28% dal 45% del 2005. Sono tornati al governo nel 2015, nonostante avessero ottenuto un misero 32,3%, riuscendo a formare un governo solo perché l’euroscettico Bloco de Esquerda o «blocco di sinistra» (10,2%) e l’ugualmente euroscettica Coalizione democratica unitaria di comunisti e Verdi (8,3%) accettarono di sostenerli.
A dispetto dello scetticismo diffuso sulla stabilità di questa coalizione «di sinistra», nel 2017 il Portogallo se l’è cavata abbastanza bene, con un tasso di crescita ragionevolmente alto. La situazione resta molto instabile non solo perché il paese è povero e la sua economia in difficoltà, ma perché l’affluenza elettorale si è contratta spettacolarmente: da più del 90%, quando fu ripristinata la repubblica nel 1975, a meno del 56% nel 2015.
Nel 2013, in Austria, il Partito socialdemocratico (SPÖ) era ancora il primo partito ma con solo il 26,8% dei voti, di poco davanti ai suoi oppositori cristiano-democratici del Partito popolare (ÖVP, ora chiamato, alla Blair, il «Nuovo» ÖVP). Questi due partiti hanno dominato la politica austriaca dal 1954, di solito governando assieme e dividendosi varie cariche, comprese le nomine nella pubblica amministrazione (il sistema noto come proporz). Ciononostante, sono diventati sempre meno popolari. La coalizione SPÖ-ÖVP aveva già cercato di placare la xenofobia frenando l’immigrazione, chiudendo le frontiere ai rifugiati che percorrevano la via balcanica e introducendo il «bando del burqa». Simili politiche opportunistiche non hanno aiutato i socialdemocratici, anzi. Cupi cambiamenti erano all’orizzonte. Alle elezioni presidenziali del maggio 2016 i candidati dei due partiti di governo hanno ottenuto magri risultati, piazzandosi al quarto e quinto posto. Il terzo posto se l’è aggiudicato Irmgard Griss, un’indipendente, già presidente della corte suprema.
Era la prima volta dal 1945 che i candidati dei due partiti di governo non riuscivano a passare al secondo turno, che ha visto in lizza il candidato dell’estrema destra Norbert Hofer e quello dei Verdi Alexander Van der Bellen, che ha vinto per pochi voti. Ma è stato solo un sollievo momentaneo (tra l’altro il presidente austriaco è solo una figura di rappresentanza). Alle elezioni dell’ottobre 2017 Sebastian Kurz, del Partito popolare austriaco (ÖVP), poco più che trentenne, ha spostato il proprio partito a destra (come ha fatto lo SPÖ) in un tentativo disperato di arginare il supporto all’estrema destra del FPÖ (Partito della libertà), guidato da Heinz-Christian Strache che, ventenne, fu arrestato per aver preso parte a una manifestazione organizzata da un movimento neonazista messo al bando, che aveva a modello la gioventù hitleriana. Kurz ha vinto le elezioni, ma con solo il 31,5% dei voti. Ha formato una coalizione con il Partito della libertà di Strache, che si è aggiudicato i ministeri chiave tra cui Esteri, Interni e Difesa. Con il 26,9%, lo SPÖ è riuscito a posizionarsi appena davanti al FPÖ (26%): pessima performance per un partito al potere quasi ininterrottamente dal 1954 e che, nel 1975, aveva poco più della metà dei voti. Di fronte alla prospettiva dell’antisemita Partito della libertà al governo, la comunità ebraica austriaca ha espresso energicamente la propria preoccupazione annunciando che avrebbe boicottato il Giorno della memoria qualora dovessero parteciparvi esponenti del Partito della libertà, sebbene il primo ministro dello «stato ebraico» Netanyahu si fosse affrettato a telefonare a Kurz per congratularsi della vittoria.2 Nell’aprile 2016, Heinz-Christian Strache ha già trovato il modo di riciclarsi come filosemita e di «farsi kosher», andando in Israele e portando un tributo al Memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem (su invito di Netanyahu).3
I risultati olandesi del 15 marzo 2017 sono stati altrettanto catastrofici per la sinistra: tre partiti di sinistra, il Partito laburista (Partij van de Arbeid, PVDA), i socialisti e i Verdi, hanno ottenuto insieme una percentuale di voti minore (23,9%) del Partito laburista da solo nel 2012 (24,8%). Il Partito laburista ha conseguito il risultato peggiore della sua storia, piazzandosi dietro gli altri due partiti di sinistra. Per tenere fuori la destra estrema (come il PVV di Geert Wilders), i quattro partiti di centrodestra hanno formato una coalizione instabile sotto Mark Rutte, leader del promercato Volkspartij voor Vrijheid en Democratie (VVD). Nel frammentato sistema a tredici partiti la nuova alleanza otterrà un unico seggio.
Nel 1997 i partiti socialdemocratici e laburisti erano al potere in undici su quindici stati membri dell’Unione Europea. Poco più di vent’anni dopo, questi partiti sono al governo (a stento) in un pugno di paesi non molto rilevanti.
In Italia il Partito democratico (PD) è rimasto al potere fino alle elezioni del marzo 2018. Il PD fa parte della «famiglia» socialdemocratica ed è erede del Partito comunista. Ma è stato quasi completamente «decomunistizzato». I comunisti non pentiti sopravvivono in formazioni come Rifondazione comunista, ma per ottenere la rappresentazione parlamentare Rifondazione ha dovuto formare alleanze con altre entità minori. Il Partito democratico in sé non è un «vero» partito socialdemocratico, qualunque cosa significhi, giacché è il risultato di un processo di assorbimento da parte degli ex comunisti e gruppi, partiti e rimasugli di vari partiti che includono liberal-progressisti e cattolici che non hanno radici in nulla che ricordi una tradizione socialista (per questo motivo nessuno dei simboli del socialismo appare in bandiere, loghi e nomi del partito). Dal 2011, quando Silvio Berlusconi ha perso il potere consegnandolo al PD, si sono susseguiti quattro presidenti del consiglio. Il primo, Mario Monti, era un economista liberale indipendente sostenuto da una grande coalizione che comprendeva il Partito democratico. Ha governato per meno di diciotto mesi perseguendo politiche di austerity. Dopo le elezioni del 2013 gli è succeduto Enrico Letta, esponente del PD, durato in carica meno di un anno (2013-2014). Poi è stato il turno di Matteo Renzi, allora leader del PD, presidente del consiglio per venti mesi alla testa di una coalizione che comprendeva una fazione dissidente del partito di Berlusconi. Infine, nel 2016, Paolo Gentiloni, altro esponente PD, è diventato presidente della stessa coalizione. Nessuno di questi leader di un’apparente coalizione di «centrosinistra» era mai stato comunista, socialista o almeno di sinistra: Monti era un liberale, Letta e Renzi erano stati democristiani e Gentiloni, di estrema sinistra da studente, era tra i fondatori di un’estinta formazione di «sinistra» cattolica chiamata La Margherita. Prima del 2011 Romano Prodi, il leader della formazione di centrosinistra L’Ulivo, presidente del consiglio nel periodo 1996-1998 e 2006-2008, era democristiano. Di tutti i capi di governo dell’era post-Tangentopoli solo Massimo D’Alema (in carica nel periodo 1998-2000) aveva un passato chiaramente a sinistra (da comunista). Dunque, per un lungo periodo, nessun governo italiano «di sinistra» è stato guidato da qualcuno che appartenesse alla tradizione socialista.
Altrove per la socialdemocrazia tradizionale la situazione è anche peggiore.
In Gran Bretagna il Partito laburista ha perso le elezioni nel 2010 e nel 2015, pur ottenendo un buon risultato nel giugno 2017 sotto la guida di Jeremy Corbyn, insultato e messo alla gogna da quasi tutti i suoi colleghi parlamentari e gran parte della stampa liberale. In Francia, alle elezioni presidenziali dell’aprile 2017, il candidato socialista ufficiale, Benoît Hamon, è stato escluso dal secondo turno riuscendo a ottenere soltanto il 6,3% dei voti, piazzandosi perciò quinto dopo il candidato «né di destra, né di sinistra» Emmanuel Macron, la destra estrema di Marine Le Pen, il moderato di destra François Fillon e perfino la sinistra estrema di Jean-Luc Mélenchon. Due mesi più tardi, al primo turno delle elezioni legislative, il Partito socialista (con alleati) ha ottenuto il 9,5%, meno del Front National (13,2%) e meno della France Insoumise di Mélenchon (11%). Per il Parti socialiste si è trattato del risultato più disastroso in tutta la storia della Quinta Repubblica, con l’eccezione di Gaston Defferre, che alle presidenziali del 1969 ottenne solo il 5%.
La situazione non è migliore in Germania. I socialdemocratici della SPD, i cui leader sono stati cancellieri nel 1969-1974 (Willy Brandt), nel 1974-1982 (Helmut Schmidt) e nel 1998-2005 (Gerhard Schröder), si sono ridotti a fare da semplici comprimari nelle grandi coalizioni guidate dai cristiano-democratici di Angela Merkel (2005-2009 e 2013-2017) o all’opposizione, come nel periodo 2009-2013. Alle politiche del 2017 la SPD ha raggiunto un misero 20,5% dei voti, il suo peggior risultato di sempre, metà di quanto aveva nel 1979. Il leader della SPD, Martin Schulz, acclamato come uno «su cui si poteva contare» per ravvivare la SPD e che – a differenza di Corbyn – era considerato eleggibile, ha perso. Alla fine ha dato le dimissioni ed è stato sostituito da Andrea Nahles, la prima donna della storia alla guida della SPD. I veri vincitori sono stati AfD, che diventa terzo partito, nonostante faccia bene anche Partito democratico liberale (FPD), rientrando nel Bundestag dopo che ne era stato escluso per quattro anni. Il voto anti-establishment è stato particolarmente pronunciato nell’ex RDT (Germania dell’Est), dove il partito di estrema sinistra Die Linke ha fatto meglio della SPD, mentre AfD ha superato la CDU.
Anche la CDU di Merkel ha ottenuto il peggior risultato dal 1949 (246 seggi, 65 meno del 2013), con l’arduo compito di formare un governo con i liberali e i Verdi, dopo che la SPD (con 153 seggi, 40 in meno del 2013) ha deciso di non far parte della nuova coalizione. Poi la SPD ha cambiato idea. Dopo oltre sei mesi di doloroso negoziato, è finalmente emersa una nuova «grande coalizione» CDU-SPD, anche detta GroKo. Le prospettive sono fosche. Il partito «gemello» bavarese della CDU, la CSU (Christlich-Soziale Union), ha cominciato a comportarsi in modo tutt’altro che fraterno. In termini elettorali ciò non ha avuto i risultati sperati: alle elezioni amministrative dell’ottobre 2018 la CSU, con il 37,2%, è scesa sotto il 40% per la prima volta in assoluto; mentre i Verdi hanno fatto assai bene (17,5%), la SPD si è vista dimezzare le preferenze e AfD ha ottenuto il 10,2%. Un risultato simile è stato espresso in Assia, dove i due partiti principali hanno perso più del 10%, rispettivamente a vantaggio dei Verdi (che in Assia hanno quasi rimpiazzato la SPD come secondo partito) e di AfD, che si è assicurata il 13%.
Nei paesi dell’ex blocco sovietico, la reazione contro il comunismo sembra essersi estesa ai neonati partiti socialdemocratici, nati spesso dalle ceneri del comunismo.
L’Ungheria era il più liberale dei paesi comunisti. Aveva un settore privato vasto e fiorente. Nel settembre 1989, la leadership comunista riformista aprì il proprio confine con l’Austria permettendo a migliaia di tedeschi orientali di fuggire nella Germania Ovest. Il Muro di Berlino aveva perso il suo scopo. Era la fine del comunismo. L’erede del partito comunista fu il Partito socialista ungherese (MSZP). Dopo un avvio stentato, divenne il partito leader nel nuovo sistema. Nel 2006 poteva ancora raggiungere il 43% e stare al governo. Nel 2010 crollò al 19%, migliorando leggermente nel 2014 (25%). Tuttavia, nell’aprile 2018, mentre Viktor Orbán ha confermato la sua supremazia, i socialisti ungheresi hanno ottenuto solo un misero 12%.
In Slovenia i socialdemocratici sono stati al governo nel 2014, ma solo come partito assai minore in un governo centrista, avendo ottenuto alle elezioni meno del 6%. Nel 2008 erano al 30%. Come in altri paesi ex comunisti, la politica in Slovenia è veramente instabile. Un partito chiamato Slovenia Positiva era il primo partito nel 2011; tre anni dopo era scomparso. Il partito principale presentatosi alle elezioni del 2018 è stato il Partito del centro moderno (Stranka modernega centra), formato nel 2014 e che ottenne più del 34% dei voti alle elezioni di quell’anno. In precedenza si chiamava Partito di Miro Cerar ed era guidato, come è facile intuire, da Miro Cerar. Cerar è uno dei pochi leader liberali in Europa orientale: ha fronteggiato l’impeachment per il sostegno dato a un richiedente asilo siriano (Ahmad Shamieh) che rischiava la deportazione e che, sebbene arrivato da poco, aveva imparato lo sloveno e si era integrato con successo. L’opposizione contro Cerar è continuata senza tregua. Quando nel 2017 la corte suprema del paese ha annullato un referendum su un importante progetto ferroviario ordinando la ripetizione del voto, Cerar ha dato le dimissioni (marzo 2018). Le elezioni del giugno dello stesso anno hanno visto l’anti-immigrati Partito democratico sloveno (SDS) al primo posto, ma solo con il 25% dei voti. Il suo leader, Janez Janša, aveva scontato sei mesi di prigione nel 2014 dopo esser stato accusato di corruzione (la condanna è stata in seguito revocata dalla corte costituzionale). Il partito di Cerar si è piazzato quarto e ha solo dieci seggi. A votare si è recata solo metà degli elettori. Un partito di centrosinistra, la Lista di Marjan Šarec (LMS), si è aggiudicato il secondo posto con il 12,6% dei voti e tredici seggi (Šarec è un ex comico). Nel settembre 2018 Šarec è stato incaricato di formare un governo di minoranza. La situazione è instabile come sempre. La vita è dura per i liberali in Europa orientale.
Nella Repubblica Ceca l’ascesa di Andrej Babiš ha significato anche il capolinea dei partiti tradizionali. I socialdemocratici erano il primo partito alle elezioni del 2013 e formarono un governo, ma da allora hanno ottenuto solo il 20% dei voti, che li ha costretti a coalizzarsi con i minori centristi cristiano-democratici e ANO, un altro partito che si professa «né di destra, né di sinistra», il cui acronimo sta per Azione dei cittadini scontenti (Akce nespokojených občanů) ed è guidato da Andrej Babiš, il quale non ha granché da essere scontento perché è un milionario. Fondato nel 2012, ANO era già il secondo partito nel 2013 con quasi il 19% dei voti. Nel 2017 aveva sfiorato il 30%. I socialdemocratici furono polverizzati (crollati a poco più del 7%, il loro peggior risultato di sempre, anche dietro i comunisti), come pure i cristiano-democratici, benché l’economia andasse meglio che nella maggior parte degli altri paesi dell’UE. Anche il cosiddetto Partito pirata, campione della democrazia diretta, ha ottenuto risultati migliori dei socialdemocratici (10,8%). Non avendo tuttavia una maggioranza in parlamento, ANO potrebbe non essere in grado di formare un governo duraturo giacché tutti i partiti, eccetto i comunisti e l’estrema destra, hanno escluso un’alleanza fintanto che il suo leader, Andrej Babiš, sarà sotto inchiesta per finanziamenti illeciti.
Babiš, spesso definito il Trump ceco, è stato un membro del Partito comunista sotto il comunismo ed è diventato milionario sotto il capitalismo, con una forte partecipazione finanziaria nell’industria chimica e alimentare. Aveva poi utilizzato i profitti per acquisire organi d’informazione. Babiš è stato ministro delle Finanze (2014-2017) fino all’allontanamento per presunti illeciti finanziari ed evasione fiscale. È stato formalmente incriminato il 9 ottobre 2017 (due settimane prima della sua elezione). Naturalmente ANO è contro la corruzione e l’evasione fiscale. Babiš gode inoltre della protezione del presidente ceco Miloš Zeman, rieletto nel 2018 contro il centrista filo-UE Jiří Drahoš, già presidente dell’Accademia delle scienze ceca, il quale aveva dichiarato che, se eletto, non avrebbe permesso ad Andrej Babiš di mantenere l’incarico come primo ministro a causa delle accuse pendenti su di lui. Finì che un rapporto dell’unità antifrode dell’UE concluse che Babiš aveva violato numerose leggi per ottenere fondi europei e, come diretta conseguenza, fu passato contro di lui un voto di sfiducia costringendolo alle dimissioni. È riemerso qualche mese dopo, nel luglio 2018, quando è riuscito a formare un governo di minoranza con i socialdemocratici e il sostegno dei quindici deputati comunisti (il loro partito aveva ottenuto solo il 7,8% alle elezioni precedenti), i quali, tuttavia, resteranno fuori dal governo: una stramba (e instabile) alleanza di politici senza principi.
Babiš ha rifiutato le quote di rifugiati dell’UE e ha fatto commenti sprezzanti sui rom, ma nella Repubblica Ceca c’è di peggio: il partito di estrema destra Libertà e democrazia diretta, fondato solo nel 2015. È guidato da Tomio Okamura, un imprenditore in parte giapponese, nato a Tokyo, che è rabbiosamente anti-immigrati, vuole uscire dall’UE e ha incitato i cechi a portare a spasso i maiali vicino alle moschee e a non mangiare kebab. Il partito di Okamura ha ottenuto il 10,64% dei voti nel 2017.
La situazione non è migliore in Slovacchia dove la sinistra era ancora al potere nel 2017. Questa è una «sinistra» strana. Il primo ministro, Robert Fico (in carica dal 2012, dopo essere già stato al potere nel 2006-2010), è il leader di Direzione – Socialdemocrazia (Smer – sociálna demokracia, SMER-SD), formazione nata da una scissione dal Partito socialdemocratico (che da allora è scomparso), e ha iniziato a governare il paese in coalizione con l’estrema destra nazionalista anti-rom e anti-ungherese del Partito nazionale slovacco, descritto dall’«Economist» come neonazista.4 Nel 2016 Robert Fico, settimane prima di assumere la presidenza dell’UE, dichiarava che in Slovacchia per l’islam non c’è posto.5 Lui e il suo partito furono espulsi dal Partito dei socialisti europei (PES) nel 2006 per la loro alleanza con il Partito nazionale slovacco, ma sono stati riammessi nel 2008 e ne sono tuttora membri, pur avendo formato un’altra alleanza con lo stesso partito nel 2016. Con notevole ipocrisia, il 19 novembre 2015 il Partito dei socialisti europei dichiarava: «Respingiamo fermamente ogni forma di odio razziale, xenofobia, antisemitismo, islamofobia e ogni forma d’intolleranza ed estremismo».6 Ma Fico è ancora il benvenuto fra le loro fila. Dopo l’omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak e della sua fidanzata (febbraio 2018), che avevano collegato Fico alla mafia italiana, ed enormi manifestazioni, Fico ha dato le dimissioni per lasciare l’incarico al suo vice, Peter Pellegrini.
L’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca sono contrarie all’idea di distribuire i rifugiati in UE secondo una formula stabilita a Bruxelles (dimenticando che, sotto il comunismo, i loro rifugiati, benché assai meno in pericolo di quelli provenienti da paesi straziati dalla guerra, spesso trovavano ospitalità in Europa occidentale). Questa posizione anti-immigrati è quasi normale in Europa orientale. Scrivendo nel 2016, un analista notava che in questo contesto la distinzione destra-sinistra in Europa orientale «si è dimostrata quasi irrilevante […] quasi non c’è un partito tradizionale nella regione che abbia osato sfidare l’attitudine prevalente di respingere i rifugiati».7
Come già detto, i migranti in Europa orientale sono davvero pochi. Nella classifica dei paesi con più migranti sulla popolazione totale, l’Ungheria, la Lituania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Bulgaria, la Romania e la Polonia si trovano agli ultimi posti.8
Diversamente dagli altri partiti socialdemocratici europei, quello rumeno (Partidul Social Democrat) è di gran lunga il primo partito nel suo paese, avendo raccolto almeno il 46% dei voti nel 2016 (per la verità con l’affluenza alle urne più bassa di tutta l’UE: meno del 40%), non sufficiente, comunque, per poter governare da solo. Il livello di corruzione nel Partito socialdemocratico e tra i suoi alleati si è rivelato eccessivo perfino per gli standard est europei: dal 2006 è stato condannato un ex primo ministro e sono stati incriminati in venti tra ex e attuali ministri, cinquantatré vice e diciannove senatori. Nell’aprile 2016 il leader socialdemocratico, Liviu Dragnea, è stato riconosciuto colpevole di brogli e ha ricevuto una condanna a due anni con la sospensione condizionale, ma è stato rieletto leader dal suo partito con entusiasmo. Poco più tardi la coalizione al governo produceva un decreto per condonare gli arrestati per corruzione se la somma in questione non eccede i 200.000 lei (43.000 euro). In altre parole: se proprio vuoi rubare, fallo, ma senza esagerare. Questo ha scatenato enormi proteste (febbraio 2017) e il decreto è stato ritirato. Nel giugno 2018, Dragnea è stato condannato a tre anni e mezzo di reclusione per incitamento all’abuso di ufficio, ed è in attesa di appello. In Romania la democrazia illiberale imperversa. Il Partito socialdemocratico al potere, autonominatosi campione dei contadini, cercò perfino di organizzare un referendum per restringere la definizione costituzionale della famiglia, che in sostanza escluderebbe la possibilità di legalizzare i matrimoni fra persone dello stesso sesso.
I matrimoni fra persone dello stesso sesso sono legali nella maggior parte dei paesi europei occidentali, ma non nella maggior parte di quelli orientali. La Polonia, la Slovacchia, la Bulgaria, la Lituania e la Lettonia non offrono alcun riconoscimento legale per questo genere di rapporti. Per i gay l’avvento del postcomunismo non è stata una gran liberazione.
In Spagna, il PSOE (Partido Socialista Obrero Español – Partito operaio socialista spagnolo) ha governato ininterrottamente dal 1982 al 1996 con la maggioranza assoluta dei seggi, ha perso nel 1996, poi ha governato ancora tra il 2004 e il 2011 con José Zapatero. Nel 2011 si è verificato un disastro. Il PSOE ha sofferto la peggiore sconfitta dal ritorno della democrazia nel 1977. Alle elezioni del 2015 riuscì a ottenere soltanto il 20%, e nel 2016 non molto di più. Eppure nel 1982 il partito aveva il 48% dei voti, una delle percentuali più alte mai raggiunte da un partito socialdemocratico nell’Europa del dopoguerra. Lo scontento popolare nei confronti dei socialisti, così come per il conservatore e cristiano-democratico Partido Popular (Partito popolare), si è manifestato con l’ascesa di due nuovi partiti. Il primo, Podemos, di sinistra, ha ottenuto il 20% nel 2015 e il 21,2% nel 2016. Il secondo, il liberale Ciudadanos (Cittadini), ha raggiunto oltre il 13% in entrambe le tornate elettorali. È stato in parte il crollo del bipartitismo, giacché formare un governo è diventato difficile anche per i vincitori (il Partito popolare). In aggiunta alle complicazioni che i partiti spagnoli tradizionali devono affrontare, si è mostrato anche un picco di nazionalismo catalano che ha portato alla crisi del 2017, mentre nel maggio 2018 il tribunale penale supremo ha sentenziato che il Partido Popular al governo era implicato in un giro di tangenti. Il primo giugno 2018 il suo leader, Mariano Rajoy, ha dato le dimissioni. Gli è subentrato il socialista Pedro Sánchez, pur avendo il suo partito solo 84 seggi in un parlamento di 350. E per quanto Sánchez si sia comportato con notevole generosità, accogliendo i profughi in pericolo respinti dal ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini (che in passato è stato accusato di razzismo per aver dichiarato tra l’altro di voler fare «una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti sono», aggiungendo: «Quelli che possiamo espellere, facendo degli accordi con gli stati, li espelleremo. Gli italiani purtroppo ce li dobbiamo tenere» – si veda «la Repubblica», 19 giungo 2018).
L’economia ha giocato una grossa parte nella crisi dei tradizionali partiti politici in Spagna. Nei vent’anni precedenti la recessione globale del 2007, la Spagna era cresciuta più rapidamente della media europea. Dopo il 2007 è successo l’opposto: la crescita è precipitata, la disoccupazione è aumentata enormemente, la popolazione è cresciuta e la distribuzione del reddito è diventata ancora più diseguale, mentre il debito privato è salito alle stelle. Le politiche di austerity hanno solo esacerbato la situazione.9
Ancora più disastroso lo stato della socialdemocrazia in Grecia, dove l’economia è andata molto peggio che in Spagna. Come in Spagna, i socialdemocratici del PASOK (Movimento socialista panellenico) avevano dominato la politica per la maggior parte degli anni Ottanta e Novanta. Alle elezioni del 1981 il PASOK, guidato dal carismatico leader Andreas Papandreou, conseguì una vittoria schiacciante con il 48% dei voti. Seguì un periodo di riforme sostanziali, che riguardavano tra gli altri il servizio sanitario nazionale e i diritti civili. Il partito vinse ancora nel giugno 1985 (46%). Si sentì obbligato a adottare politiche di austerità e il PASOK, pur registrando ancora il 40% alle elezioni del giugno 1989, perse nei confronti dell’opposizione conservatrice (Nuova democrazia), che ottenne il 44%. Ciò non fu sufficiente a formare un governo senza il PASOK. Seguirono governi deboli e altre elezioni. Il PASOK non era ancora finito. Alle elezioni dell’ottobre 1993 ottenne una vittoria schiacciante (47%) e Andreas Papandreou divenne ancora una volta capo del governo. Gli succedette il meno carismatico Costas Simitis, a sua volta seguito dall’ancor meno carismatico George Papandreou, figlio di Andreas (il quale era a sua volta figlio di Georgios Papandreou, primo ministro nel periodo 1944-1945 e 1963-1965). Dunque tra il 1981 e il 2011 il PASOK è stato al potere per circa ventitré anni.
Con l’aiuto di Goldman Sachs, uno dei beneficiari della crisi dei mutui subprime del 2007 che ha ridotto la Grecia in disgrazia, le statistiche furono alterate in modo fraudolento perché risultassero rispettati i parametri dettati dalle linee guida per mantenersi all’interno dell’Unione Europea e dunque ottenere il permesso di entrare nell’eurozona.10
Ma i contabili non possono nascondere all’infinito i problemi reali e durante la recessione globale il PIL greco crollò di quasi 7 punti percentuali, e con lui la popolarità del PASOK. Nel 2015 il partito era sceso al 5% (mentre nel 2009 aveva quasi il 44%). In questo vuoto entrò l’estrema sinistra di SYRIZA guidata da Alexis Tsipras, fondata nel 2004 come una coalizione di partiti di sinistra, anche radicale. SYRIZA ottenne il 36%, solo un seggio meno della maggioranza assoluta, il che la obbligò a un’alleanza scellerata con Greci indipendenti, un partito nazionalista, conservatore e anti-UE. Il partito neonazista Alba Dorata raggiunse minacciosamente il 7%. Quanto al PASOK, divenne, a tutti gli effetti, un partito morto.
In Turchia, dove la sinistra non è mai stata forte, la situazione naturalmente non è granché migliore. Il Partito democratico del popolo (HDP), una recente coalizione di forze assortite di sinistra, è riuscito a ottenere il 13% alle elezioni del 2015 (di cui circa la metà da regioni curde). È stato il risultato più alto dell’estrema sinistra in Turchia. L’anno successivo ci fu il tentato colpo di stato da parte dei sostenitori del religioso musulmano residente negli USA Fethullah Gülen. A questo è seguita una repressione che ha colpito ben al di là della cerchia dei seguaci di Gülen, coinvolgendo altri partiti e soprattutto i media. In questo clima di repressione le possibilità che il HDP emerga come forza significativa sono assai scarse. Sarà fortunato se sopravvive.11 Le elezioni tenutesi il 24 giugno 2018 hanno confermato il potere di Erdoğan.
In India, l’Indian National Congress Party – di sinistra e a lungo al potere – ha lasciato il posto al Bharatiya Janata Party (BJP, Partito del popolo indiano) guidato da Narendra Modi, di nuovo al potere dal 2014. Questo ha portato l’Indian National Congress a scivolare verso una forma di nazionalismo indiano e, nelle parole dell’editorialista pakistano Fakir S. Aijazuddin, a comportarsi «come un anziano camaleonte smemorato [che] cerca di reimparare come cambiare colore, dal sicuro mimetismo del secolarismo di Nehru a un provocatorio zafferano Hindutva».12
Il Giappone sembra aver evitato la crisi dei partiti tradizionali, giacché il conservatore Partito liberaldemocratico ha chiaramente vinto le elezioni dell’ottobre 2018 con il 48% dei voti e Shinzō Abe è rimasto primo ministro, uno dei capi di governo più duraturi della storia giapponese del dopoguerra. Il secondo partito, il cosiddetto Partito della speranza (Kibō no Tō), anch’esso conservatore, formato appena prima delle elezioni con un programma antinucleare, ha ottenuto il 20%. Un altro nuovo partito, il Partito costituzional-democratico, emerso da una scissione con il Partito liberaldemocratico, ha ottenuto l’8,7%. In altre parole, due nuovi partiti conservatori sono riusciti a ottenere quasi il 30%. Quanto alla sinistra, la situazione è catastrofica: mentre il Partito comunista ha registrato il 9% ma ha ottenuto un solo seggio, il Partito socialdemocratico, che nel 1958 era al 33% e ancora riceveva un rispettabile 24% nel 1990, è riuscito a sopravvievere con un irrisorio 1%.
Allo stesso tempo il Giappone, la cui economia è stagnante da più di vent’anni, soffre di un tasso di natalità eccezionalmente basso, che ridurrà la popolazione da 127 milioni nel 2015 a 107 milioni nel 2050, quando il 42,5% della popolazione avrà sessantacinque anni o più. Sembrerebbe essere tutta colpa delle donne che non fanno abbastanza figli (il Giappone ha il tasso di natalità più basso del mondo) e che non lavorano (rispetto alle donne di altri paesi con economie simili). In realtà i sondaggi d’opinione suggeriscono che le donne sarebbero più inclini alla maternità se i loro mariti le aiutassero con la cura dei figli e le faccende domestiche (soltanto l’1,7% dei mariti ha approfittato del congedo di paternità nel 2009). Per di più, quando le donne restano incinte, sono spesso «incoraggiate» a lasciare il proprio lavoro. Infine, non ci sono quasi immigrati in Giappone.13 Niente immigrati, niente bambini, molti pensionati: il futuro sembra lugubre, sebbene il disastro per il Giappone sia stato previsto più di una volta.
Il futuro appare ancora più fosco per la sinistra in America Latina. Attorno al 2005 era al potere in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Ecuador, Nicaragua, Paraguay, Uruguay e Venezuela.
In Venezuela in molti percepirono una nuova avanzata rivoluzionaria lanciata dalla vittoria di Hugo Chávez nel 1998. Adesso l’economia del Venezuela è in rovina, devastata dall’inflazione e dalla pessima amministrazione del successore di Chávez.
In Brasile, il Partito dei lavoratori, al potere per quattordici anni dopo il 2002 e guidato da Luiz Inácio Lula da Silva e in seguito da Dilma Rousseff, dal 2011 al 2016, è stato destituito dai conservatori, con il candidato della destra estrema Jair Bolsonaro divenuto presidente alla fine del 2018.
Un destino simile è toccato al Partito peronista che ha governato l’Argentina dal 2003 al 2015. Né Lula né i peronisti sono stati in grado di arginare la destra.
In Cile la socialista Michelle Bachelet ha governato dal 2006 al 2010 e dal 2014 al 2018. Il suo successore come presidente del Cile è Sebastián Piñera, del partito conservatore Rinnovamento nazionale.
Mentre scrivo, Lula sta scontando una lunga sentenza per aver accettato mazzette. In Argentina, nel 2015, Cristina Kirchner è stata accusata di frode. In Nicaragua, ancora oggi uno dei paesi più poveri dell’America Latina, Daniel Ortega, un tempo beniamino della sinistra, si è rivelato responsabile di una repressione di vaste proporzioni trentanove anni dopo la vittoria della cosiddetta rivoluzione sandinista (benché i sandinisti fossero all’opposizione tra il 1990 e il 2006).14 In Messico, l’elezione alla presidenza del candidato anticorruzione Andrés Manuel López Obrador (2018) offre qualche speranza per il futuro, ma è ancora presto per dirlo.
Dunque la socialdemocrazia tradizionale, il tipo di socialdemocrazia che aveva prevalso ed era stata al governo a volte per lunghi periodi, è stata ampiamente sconfitta non solo in Europa, ma pressoché ovunque. Niente di tutto ciò dovrebbe sorprendere. La maggior parte dei partiti democratici ha abbracciato una politica di austerity, ha permesso la stagnazione dei salari, la crescita delle disuguaglianze e ha privatizzato i servizi pubblici in misura inimmaginabile trent’anni fa. Questo ha avuto un duplice effetto negativo: ha fatto pensare che i neoliberali avessero ragione ad affermare che il settore privato poteva gestire meglio questi servizi e, quando divenne chiaro che i servizi non erano particolarmente migliorati, i socialdemocratici non poterono nemmeno dire «ve l’avevamo detto». Hanno permesso alle disuguaglianze di aumentare e non hanno osato tassare i facoltosi beneficiari. Come ha scritto Joseph Stiglitz, «la teoria che i tagli fiscali e la deregulation avrebbero […] portato a una nuova era di crescita elevata è stata screditata del tutto […] l’austerity non ha mai funzionato».15
Anche il FMI, un tempo roccaforte del neoliberalismo, ha cominciato a dubitare dei dogmi del passato. I suoi rapporti più recenti hanno riconosciuto che diminuire le tasse ai ricchi è controproducente e aumenta le diseguaglianze, e che non è vero che dare più denaro ai ricchi aumenterà gli investimenti, l’occupazione, la crescita. In altre parole, il FMI pensa che, dopotutto, l’economia «trickle down» sia un nonsenso. Ne furono pionieri gli incentivi fiscali del giustamente vituperato presidente Herbert Hoover dopo il crollo del 1929, usati dal presidente Ronald Reagan per giustificare i propri tagli alla tassa sul reddito e cui era stata data una (molto) sottile patina di rispettabilità pseudoaccademica da Arthur Laffer e dalla sua del tutto screditata Curva di Laffer. Secondo un rapporto di economisti del FMI (2016), «aspetti dell’agenda neoliberale […] non hanno soddisfatto come ci si aspettava»; i benefici delle politiche neoliberali «sembrano abbastanza difficili da accertare quando si guardi a un ampio gruppo di paesi», e «i costi in termini di disuguaglianza aumentata sono prominenti». Concludeva con il seguente eufemismo: «I benefici di certe politiche che sono parte importante dell’agenda neoliberale sembra siano stati in qualche modo esagerati».16
Non sorprende che certi commentatori abbiano sostenuto che il FMI è diventato «Corbynista».17 È sempre rischioso per un partito politico di sinistra accettare così tanto dell’agenda della destra.
Nel frattempo chi è molto ricco oggi può esserlo anche di più dei ricchi di ieri, gli assai disprezzati ricchi della cosidetta Gilded Age americana all’inizio del XX secolo, famiglie come i Carnegie, i Rockefeller e i Vanderbilt. Oggi i cinque individui più ricchi del mondo – Jeff Bezos (Amazon), Bill Gates, Warren Buffett, Amancio Ortega (lo spagnolo proprietario di Inditex, il massimo rivenditore di abbigliamento del mondo, che comprende Zara) e Mark Zuckerberg di Facebook – possiedono 245 miliardi di azioni, l’equivalente di un sesto del prodotto interno lordo del Regno Unito. Nessuno di loro è nella manifattura, anzi: nella lista Bloomberg delle 100 persone più ricche vi sono solo tredici industriali.18 Il capitalismo di oggi, più che mai, è «tra le nuvole» (il «cloud») o nella vendita al dettaglio.
Fonte: «The New York Times».
La diseguaglianza nella ricchezza ha colpito anche in luoghi che erano considerati oasi di decenza capitalistica come la Svezia, dove «la diseguaglianza di reddito è cresciuta più rapidamente che in qualsiasi altro paese dell’OCSE fin dagli anni Novanta, benché partendo da un livello molto basso».19 Negli USA le diseguaglianze sono cresciute ancora più drammaticamente.20
Tuttavia, secondo il World Inequality Report 2018 (tra i cui autori figura l’economista francese Thomas Piketty) la diseguaglianza nel reddito, definita come la quota di reddito nazionale ottenuta dal 10% al vertice, è cresciuta dal 1980 molto meno in Europa che in Medio Oriente (che registra la diseguaglianza più elevata, seguito da Cina e Brasile). Il 50% più in basso ha tuttavia ottenuto benefici grazie all’elevata crescita della Cina, ma, dal 1980, l’1% degli individui più ricchi del mondo si è aggiudicato due volte tanto ciò che è toccato loro.21 L’ascesa della diseguaglianza nella ricchezza è stata pronunciata anche negli Stati Uniti, dove la quota di ricchezza dell’1% al vertice è cresciuta dal 22% nel 1980 al 39% nel 2014. La maggior parte di quell’aumento della disuguaglianza era dovuta all’aumento della ricchezza dello 0,1% dei massimi possessori di ricchezza, vale a dire gli ultraricchi. Nel Regno Unito solo poche famiglie ricevono un reddito pro capite chiaramente sopra la media del PIL.22 Lo 0,1% al vertice estremo comprende solo 50.000 persone, su una popolazione di 65,5 milioni. Giacché nessuno può vincere le elezioni favorendo questo 0,1%, per tacere del 10% della fascia alta, anche i conservatori sono preoccupati. In realtà il Regno Unito è molto più diseguale (in termini di rapporto dell’1% con il reddito medio) della Germania, la Francia, l’Italia e la Spagna.23 La crescente diseguaglianza di reddito è «uno dei massimi eventi economici del nostro tempo». Il suo livello nei più diseguali dei paesi ricchi è «insostenibile».24
La lotta contro le disuguaglianze avrebbe potuto essere un’ovvia carta da giocare da parte della socialdemocrazia. Invece i partiti di quest’area hanno optato per ciò che ritenevano fosse una cautela: assecondare la dominante ideologia filomercato. E così hanno perso la partita.
I partiti «cattivi»
Nel 2002, dopo due sconfitte elettorali, quando il vacuo Iain Duncan Smith era ancora il leader del Partito conservatore britannico, Theresa May – appena nominata presidente del partito e ancora tredici anni prima di diventare premier – ammonì il suo partito all’annuale congresso con una memorabile protesta: «Non prendiamoci in giro. Ci vorrà molto prima di poter tornare al governo […] la nostra base è troppo limitata così come l’occasionale simpatia di cui godiamo. Lo sapete come ci chiama qualcuno: il partito cattivo».
A volte i politici dicono la verità. Per poi, spietatamente, continuare: «Alle ultime elezioni politiche sono stati eletti trentotto nuovi deputati Tory. Di questi una sola è donna e nessuno appartiene a qualche minoranza etnica. È giusto? Metà della popolazione ha forse diritto a un solo posto su trentotto?».25
Eppure, quando Theresa May era ministra dell’Interno (2010-2016) entrarono in vigore nuove regole che richiedevano agli immigrati dai Caraibi (arrivati su invito della Gran Bretagna) di dimostrare che avessero vissuto in Gran Bretagna per decenni pena la deportazione (saltò fuori che il ministero dell’Interno aveva distrutto le carte di sbarco quando gli immigrati erano arrivati). Anche un tabloid anti-immigrazione come il «Daily Mail» s’indignò per l’«orrendo» trattamento riservato a questi migranti.26 Alcuni caddero in uno stato di profonda ansia quando, dopo decenni di lavoro e di tasse pagate, si videro privati dell’impiego, della casa e scoprirono che erano state loro precluse le terapie anticancro.
Tali furono le proteste che Theresa May, ora premier, e Amber Rudd, sua ministra degli Interni, nell’aprile 2018 furono costrette a supplichevoli scuse, scaricando disonestamente la colpa sui funzionari pubblici che, dopotutto, avevano solo eseguito degli ordini. Questo non era un «errore». Nel 2012 David Cameron aveva organizzato l’«Hostile Environment Working Group» (Gruppo di lavoro ambiente ostile), rivolto a migranti che avrebbero potuto trovarsi nel Regno Unito senza documenti adeguati; l’oltraggiosa espressione «ambiente ostile» era stata originariamente usata quando agli Interni era ministro il laburista Alan Johnson. In seguito, in un discorso sull’immigrazione (25 marzo 2013) Cameron, con il sostegno del leader dei liberali Nick Clegg e dell’allora ministra degli Interni Theresa May, dichiarò che «stiamo per inasprire radicalmente il modo in cui trattiamo gli immigrati illegali che lavorano in questo paese. Adesso, francamente, essere un migrante clandestino in Gran Bretagna è troppo facile».27 E per chiarire quanto cattiva sarebbe stata, Theresa May incoraggiò i clandestini ad andarsene volontariamente nel 2013 facendo gironzolare alcuni furgoni con il minaccioso messaggio: «In the UK illegally? Go home or face arrest» (Nel Regno Unito illegalmente? Tornate a casa o rischiate l’arresto). Uno dei risultati delle politiche di «ambiente ostile» fu che a migliaia di studenti stranieri, nel Regno Unito legalmente, fu ordinato di andarsene sulla base di prove dubbie e discutibili.28 L’Immigration Act del 2015 e 2016, promulgato dal ministero dell’Interno (guidato da Theresa May e poi da Amber Rudd), obbligava inoltre i padroni di casa, i datori di lavoro, le banche e i servizi sanitari a effettuare controlli sullo stato dell’immigrazione, trasformandoli di fatto in informatori della polizia e incoraggiandoli a discriminare e umiliare chiunque non sembrasse «davvero» britannico. Il paese stava diventando sempre più cattivo.
I conservatori, in Gran Bretagna o altrove, non sono stati sempre i partiti «cattivi». L’Europa occidentale è stata caratterizzata da una sorta di conservatorismo compassionevole che non ha celebrato il capitalismo, ma lo ha accettato entro certi limiti. Per questo nella Germania dell’Ottocento Bismarck fu pioniere del welfare state, come anche il Partito liberale britannico; e per questo perfino i Tory si fecero promotori di riforme sociali. In Francia, durante la Terza Repubblica, i cattolici filomonarchici erano «reazionari» in tutti i sensi, ma, sulle questioni sociali, non erano regressivi come i politici di centro, i cosiddetti «radicali». Verso la fine degli anni Cinquanta il conservatorismo francese, sotto la bandiera di Charles de Gaulle, era «compassionevole» in molti modi, soprattutto riguardo all’adozione di riforme sociali e alla regolamentazione del mercato. Questo permise a de Gaulle di superare la caratterizzazione destra o sinistra (ben prima che Macron usasse quest’antica formula come se l’avesse inventata lui).29 In Austria i cristiano-democratici, solitamente alleati dei socialisti, sono stati alla guida del paese con il settore pubblico più grande in Europa occidentale. In Germania, i cristiano-democratici hanno sostenuto un’economia di «mercato sociale», dove il «sociale» era importante quanto il «mercato».
In Gran Bretagna i Tory, al potere per tutti gli anni Cinquanta fino al 1964, desistettero dallo smantellare il welfare state e costruirono più alloggi popolari di quanto non avesse fatto il Labour in precedenza.30 In Italia la Democrazia Cristiana, al potere ininterrottamente dal 1945 agli anni Novanta, cercò, spesso riuscendovi, di arginare l’avanzata del socialismo con l’introduzione di riforme del welfare e puntò al cosiddetto «compromesso storico» tra capitalismo e socialismo. Controllava anche un sindacato e ampliò vistosamente il settore pubblico, creato da Mussolini per proteggere il sistema bancario italiano, allora sotto la minaccia del crollo del 1929. Quando la Democrazia Cristiana si dissolse, schiacciata dallo scandalo di Tangentopoli, tornò al nome originario, Partito popolare italiano, ma nessuno, nemmeno i partiti politici, possono essere vergini due volte. Per sopravvivere, gli elementi più progressisti del cattolicesimo sociale italiano confluirono nel Partito democratico, insieme a quell’area di centrosinistra erede dei comunisti.
Alla fine i conservatori europei divennero «cattivi» soprattutto in Gran Bretagna, dove Margaret Thatcher ricostituì il Partito conservatore come un partito neoliberale ben definito dietro la foglia di fico del nazionalismo. I poveri divennero scrocconi e le ragazze madri «incapaci»; i conservatori tradizionali che si opponevano a tanta «cattiveria» furono definiti «molli».
Al congresso del partito conservatore del 1992 il già citato Peter Lilley, all’epoca segretario di stato per la Sicurezza sociale, si produsse in una parodia davvero infame del Mikado di Gilbert e Sullivan. Fu uno dei discorsi più disgustosi della politica britannica moderna (il dileggio dei poveri da parte di un benestante davanti a una platea di benestanti). Lilley dichiarò, nella sua più odiosa espressione: «Sto chiudendo la società del qualcosa in cambio di nulla» (il «qualcosa in cambio di nulla» divenne un tropo consolidato nei circoli della destra antiwelfare: suona bene e non significa nulla). Per poi intonare:
§§§Ho una piccola lista
di colpevoli di reati a cui tra breve darò la caccia
E che non sarebbero mai mancati a nessuno
Ci sono giovani donne che rimangono incinte solo per saltare
le graduatorie degli alloggi
E papà che non manterranno i bambini
di donne che hanno… baciato
E non ho nemmeno menzionato tutti quei socialisti scrocconi
Li ho nella mia lista
E nessuno di loro manca
Nessuno di loro manca.31
In barba alle promesse di Lilley, gli «scrocconi» da allora devono ancora essere debellati e vent’anni dopo il governo ancora ci provava, mentre figure come Richard Branson, il capo della Virgin, è un «esule fiscale» e la sua azienda conserva il suo status off-shore per ridurre le tasse da pagare al Regno Unito. Qualcuno l’ha forse messo nella propria lista?
Nel frattempo Lilley, un ultrà di Brexit, riceveva (legalmente) più di 400.000 dollari in azioni come direttore non esecutivo della Tethys Petroleum, un’azienda petrolifera con sede alle Cayman, mentre era ancora «membro a tutti gli effetti» della camera dei comuni. È stato uno dei tre deputati a votare contro il Climate Change Act del 2008 (sostenuto largamente sia dalla maggioranza sia dall’opposizione), una posizione coraggiosa che deve aver ricevuto il caloroso sostegno dei suoi datori di lavoro alla Tethys Petroleum. Si è naturalmente meritato l’elevazione a lord nel 2018.
Tornato al potere nel 2010, il giustamente vituperato cancelliere dello scacchiere George Osborne varò un colossale programma di austerity mentre tagliava le tasse ai ricchi, vale a dire chi guadagna più di 150.000 sterline l’anno (circa 167.000 euro). Nel 2010, Iain Duncan Smith, ex leader conservatore, ora ministro del Lavoro e delle pensioni nonché uno degli esponenti meno amabili della coalizione liberal-conservatrice del 2010-2015, presentò l’Universal Credit, un «credito universale» con lo scopo di semplificare il welfare state. Il piano era di convogliare un certo numero di sussidi in un unico reddito mensile studiato per «riportare al lavoro» le persone. Uno dei numerosi problemi è che occorre aspettare sei settimane prima di ricevere qualsiasi sussidio e per molti poveri sei settimane sono troppe: i conti vanno pagati, l’affitto non aspetta, i figli devono mangiare ogni giorno, non ogni sei settimane. Gli aventi diritto che chiamavano il numero «verde» sborsavano 55 pence al minuto (oltre 60 centesimi di euro). Le proteste sono state tali che il governo, nel 2017, è stato vergognosamente costretto a ritirare le tariffe telefoniche e a tagliare l’attesa da sei a cinque settimane e solo dopo il febbraio 2018. Alcuni disoccupati avrebbero dovuto impegnare trentacinque ore la settimana per cercare un lavoro sotto una supervisione, simulando in questo modo «la giornata lavorativa», e ponendo fine alla cultura britannica del «qualcosa in cambio di nulla».32 Nel 2014 lo stesso Iain Duncan Smith aveva frenato gli sgravi fiscali per le famiglie ponendo il limite ai primi due figli. Così avrebbero imparato a non fare il terzo figlio. Solo i benestanti potevano permetterselo. Duncan Smith descrisse la misura come un’«idea brillante». La criticò perfino il «Daily Mail».33 Il 18 marzo 2016 Duncan Smith, nello stupore generale, rassegnò le dimissioni dal governo, affermando di non poter accettare i tagli pianificati dal governo ai sussidi per i disabili e attaccandone il programma di austerity come divisivo e ingiusto. L’anno precedente aveva detto alle persone disabili di tirarsi fuori dalla povertà lavorando. In quello successivo aveva trovato una coscienza, presumibilmente la propria.
Secondo il thinktank The Resolution Foundation, il cui presidente esecutivo è l’ex ministro conservatore David Willetts, per alcune famiglie l’Universal Credit significa rimetterci 2.800 sterline (oltre 3.000 euro).34 Nel giugno 2018 il National Audit Office, dopo aver analizzato il sistema di Universal Credit, ha stilato un rapporto sfavorevole nel quale valuta che il progetto costerebbe più del sistema di sussidi che va a sostituire e che non è di aiuto a nessuno. In altre parole, il programma è stato un disastro senza appello. Mentre scrivo, il governo sta cercando di fare marcia indietro in mezzo allo sdegno generale.
L’austerità è continuata dopo la vittoria del Partito conservatore del 2015. Allora aveva una maggioranza ridotta ma funzionante e non aveva più bisogno dei liberali. Benché questi fossero stati inefficaci e incompetenti, costituivano una mite barriera contro la cattiveria. Ora questa è venuta meno. Il cancelliere dello scacchiere George Osborne lanciò, con ovvio compiacimento, un’offensiva contro i richiedenti sussidio. La sua Welfare Reform and Work Bill (pilotata nel luglio 2015 da Iain Duncan Smith) costringeva 200.000 disoccupati a lungo termine o a svolgere lavori socialmente utili, o a recarsi tutti i giorni al Job Centre (ufficio di collocamento). Il non trovare lavoro era ovviamente considerata una colpa. Il gruppo parlamentare del Partito laburista, più che mai allo sbando dopo aver perduto di nuovo le elezioni politiche e impegnato nell’individuare un leader, una volta sconfitto il proprio emendamento decise di astenersi dal voto sul Welfare Bill (anziché votare contro, come dovrebbe fare l’opposizione), terrorizzato all’idea che gli elettori potessero considerarlo tenero con gli scrocconi. La leader temporaneamente in carica, Harriet Harman, spiegò che «non possiamo semplicemente dire al pubblico che alle elezioni si sbagliavano», un non sequitur assurdo, come dire che chi aveva votato Labour si sbagliava.35 Ciò richiamava alla memoria il 1997, quando il Labour, assecondando i Tory e timoroso di non essere sufficientemente a favore del mondo imprenditoriale, decise di mantenere i piani di spesa dei Tory per i due anni successivi nel tentativo di dimostrarsi degno di fiducia sull’economia; di conseguenza il partito, con Harriet Harman nella carica di segretario per la Sicurezza sociale, decise di tagliare i benefici a tutti i genitori unici (soprattutto donne) dei bambini al di sotto dei cinque anni.
Nel 1997 i dissidenti Labour al voto contro la legge sul welfare erano stati quarantasette; nel 2015 furono in quarantotto. Si unirono a loro lo Scottish National Party (SNP), i liberaldemocratici, Plaid Cymru, l’unico deputato verde, e perfino il Democratic Unionist Party dell’Irlanda del Nord. Jeremy Corbyn fu l’unico dei quattro candidati alla leadership del Labour Party a votare contro. Sarebbe presto asceso alla guida del partito. Diane Abbott, Sadiq Khan e David Lammy, candidati a sindaco di Londra, sfidarono anche loro i dirigenti del partito. Sadiq Khan sarebbe stato presto eletto sindaco di Londra, spiazzando profezie (inutili) secondo cui Tessa Jowell, una blairiana che seguiva la linea del partito, avesse più possibilità di vincere le amministrative.36 La politica del Labour si stava sfilacciando in mezzo allo sconcerto dei commentatori.
I conservatori erano stati il partito «cattivo» per lungo tempo, e gli attivisti e ancor di più i fedeli che si presentano al congresso annuale del partito erano spesso spregiativamente descritti da alcuni leader Tory (e non solo da loro) come la brigata dei «forcaioli». Ai bei tempi, prima di Thatcher, la leadership si fidava del fatto che, accanto a normali opinioni reazionarie, gli attivisti fossero imbevuti di una deferenza fuori moda e contenti, a mo’ di gregge, di lasciare la politica vera e propria ai baroni del partito. «Forcaioli» è una descrizione abbastanza accurata della base del partito. Secondo uno studio condotto alla Queen Mary University of London, i conservatori sono una «specie a parte» rispetto ai membri di altri partiti politici, con forti tendenze verso atteggiamenti illiberali e autoritari: tra loro gli omofobi aumentano, sostengono la pena di morte, sono a favore del controllo dei media per la difesa dei buoni costumi e sono, per la stragrande maggioranza, a favore dell’austerità (mentre l’opposizione all’austerità prevale per il 98% tra i sostenitori del Labour, per il 93% nel Partito nazionale scozzese e per il 75% tra i Libdem).37
Poi arrivò Thatcher, che parlava il loro linguaggio. Un linguaggio terribile. Fece uscire il genio cattivo dalla lampada e gli attivisti conservatori poterono finalmente dire quello che pensavano. Ma dopo le schiaccianti vittorie del 1979, 1983 e 1987, e la risicata vittoria di John Major nel 1990, i Tory persero tre elezioni di seguito (1997, 2001 e 2005), furono incapaci di ottenere la maggioranza nel 2010 (donde la coalizione con i liberali), poi vinsero una piccola maggioranza nel 2015, prontamente perduta nel 2017. In altre parole, è dal 1987 che i Tory non ottengono una vittoria soddisfacente.
E tutto questo nonostante, rispetto al Labour, avessero maggiore disponibilità di denaro per fare campagna elettorale, la maggior parte della stampa dalla propria parte e perfino l’aiuto dell’australiano Lynton Crosby, stratega politico definito da alcuni il «Mago di Oz» (gioco di parole sul diminutivo di Australia, «Oz») che era ovviamente molto bravo nel persuadere le persone di poter vincere le elezioni, ma non altrettanto a vincerle davvero. Aveva gestito la campagna del 2005 per i conservatori, che persero nonostante gli slogan razzisti che aveva suggerito di usare. Fu loro consulente di nuovo nel 2015. Questa volta vinsero di poco. E ancora nelle elezioni per il sindaco di Londra del 2016: un’altra sconfitta, sebbene Crosby ottenesse un cavalierato diventando così «sir» Lynton Crosby. Il suo spregevole tentativo di collegare il candidato Labour (Sadiq Khan) al terrorismo fu un boomerang e Khan sbaragliò il belloccio ma non molto intelligente candidato conservatore Zac Goldsmith. Infine Crosby fu anche «stratega» delle elezioni di Theresa May alle politiche del 2017, nelle quali, benché ci si aspettasse una larga vittoria, perse invece la maggioranza parlamentare.
La strategia di Crosby consiste nel condurre sondaggi d’opinione e poi dire alla gente quel che vuole sentirsi dire. Per tale intelligente intuizione è stato pagato milioni di sterline (4, secondo il «Daily Telegraph»).38 La «teoria» è che non serve a nulla cercare di far cambiare idea alle persone, come se non fosse ovvio che se la gente non cambiasse idea ci sarebbe ancora la pena di morte e l’omosessualità sarebbe considerata ancora un crimine. La campagna Labour del 2017 ha fatto a meno del «consiglio» di personaggi come Crosby: è stata migliore ed è costata meno, soprattutto perché il gruppo parlamentare del Labour non era molto coinvolto ed era stato assai correttamente ignorato. Tim Bell, il pubblicitario e uomo di pubbliche relazioni che fece da consulente a Margaret Thatcher durante le sue vittorie elettorali negli anni Settanta e Ottanta, nel 2017 ha detto di Lynton Crosby: «La campagna è stata del tutto negativa […] è lo stile di Lynton Crosby. Ha un’unica freccia al proprio arco».39 Fu Crosby a consigliare a Theresa May lo slogan: «Strong and stable Leadership» (Leadership forte e stabile), slogan da allora incessantemente sbeffeggiato. Pare che May si fosse stufata di sentirsi ripetere «forte e stabile». «Mi fai sembrare stupida», protestò invano con sir Lynton.40
Nel 2009 i Tory fecero il proprio ingresso formale tra i partiti più «cattivi» d’Europa quando David Cameron, per ammansire l’ala euroscettica del suo partito, ritirò i suoi deputati al parlamento europeo dal gruppo del Partito popolare europeo – considerato troppo «federalista» –, per formare l’«Alleanza di conservatori e riformisti in Europa» accanto a partiti chiaramente di destra ed estrema destra anti-UE, come il polacco Partito di diritto e giustizia, il ceco Partito civico democratico, il finlandese Partito dei finlandesi o altri partiti nazionalisti di quella risma.
Negli altri paesi dove in un modo o nell’altro prevaleva la cattiveria, a soffrire veramente furono – come c’era da aspettarsi – le fasce più povere della società. In Francia, durante i cinque anni di presidenza di Nicolas Sarkozy (2007-2011) più di metà dei tagli fiscali avvantaggiarono le famiglie più abbienti. Un’altra porzione fu a favore delle imprese. I tagli erano compresi in una legge descritta con l’acronimo TEPA: Travail (lavoro), Emploi (impiego) e Pouvoir d’achat (potere d’acquisto).41 La Francia divenne meno competitiva e la disoccupazione aumentò.42
Naturalmente in Europa ci sono partiti molto peggiori dei Tory britannici o dei Républicains di Sarkozy. In Polonia c’è il Partito di diritto e giustizia (PIS, Prawo i Sprawiedliwość), fondato nel 2001 dai gemelli Jarosław e Lech Kaczyński (Lech è morto in un incidente aereo nel 2010). Il partito vinse le elezioni del 2005, Lech Kaczyński divenne presidente e Jarosław primo ministro. Poi il PIS perse nelle elezioni del 2007 e del 2011 (contro partiti conservatori) prima di tornare al potere nel 2015.
La politica polacca ha virato a destra. La sinistra è morta nel 2015 quando Zjednoczona Lewica (Sinistra unita, ZL), un’alleanza politica di vari gruppi, non raggiunse la soglia dell’8% prevista per una coalizione e non ottenne alcuna rappresentanza parlamentare. Il partito conservatore principale (a «sinistra» del Partito di diritto e giustizia) è Piattaforma civica, una formazione sfacciatamente neoliberale che, nel 2015, aveva ottenuto quasi il 25%. Ad aggiungersi al surrealismo della politica polacca, il terzo partito nel 2015 era Kukiz’15, una formazione di destra che prende il nome dal suo leader, il musicista punk Paweł Kukiz (21%).
Con solo il 37,5% dei voti, il PIS ha ottenuto, grazie al sistema elettorale, una maggioranza assoluta in parlamento. Pur favorevole al welfare, guarda con interesse a uno stato forte e autoritario e difende i valori «morali tradizionali» della Polonia, cioè quelli della chiesa cattolica. Cerca di controllare il potere giuridico e l’amministrazione pubblica, di rendere la vita difficile agli omosessuali e di ostacolare il ricorso all’aborto. I contraccettivi per via orale sono difficili da ottenere, mentre la pillola del giorno dopo richiede una prescrizione, dopo una legge (luglio 2016) che sfida i gruppi in difesa dei diritti umani e le linee guida delle agenzie mediche europee.43
Lo smantellamento dei diritti delle donne era cominciato molto prima, nel marzo 1993, sotto «normali» governi conservatori, uno dei quali guidato da una donna, Hanna Suchocka, che ha prodotto una delle legislazioni sull’aborto più restrittive d’Europa: l’interruzione di gravidanza è permessa solo quando questa minaccia la vita o la salute della madre, se il feto è seriamente danneggiato, o se la donna ha subito violenza.44
Nel dicembre 2017 il parlamento polacco ha approvato alcune proposte che concedono al Partito di diritto e giustizia un controllo effettivo sulle nomine giudiziarie, una mossa molto criticata come lesiva dell’indipendenza giudiziaria da parte dell’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa, così come dal presidente del Consiglio d’Europa ed ex primo ministro conservatore polacco Donald Tusk e da Lech Wałęsa, il fondatore di Solidarność.
La Commissione europea ha formalmente ammonito la Polonia segnalando che «valori fondamentali» sono a rischio se il paese continua nei suoi piani di controllo della giustizia e dei media.
Il PIS è fortemente islamofobo in un paese che (come si è visto) di musulmani è quasi privo (sono meno dello 0,1%).45 Il PIS si crogiola in memorie di finta autocommiserazione sostenuto dall’«altra Polonia»: rurale, pia, i silenziosi perdenti della spericolata «trasformazione» neoliberale e del crollo dell’industria statale.46 Nel novembre 2017, decine di migliaia di dimostranti nazionalisti hanno manifestato a Varsavia per commemorare il «giorno dell’indipendenza» della Polonia. Alcuni indossavano o urlavano slogan in favore di un’Europa «bianca»; altri cantavano «Polonia pura, Polonia bianca!», «Fuori i profughi!» e «Pregate per un olocausto islamico!». Un dimostrante intervistato dalla TV di stato, che descriveva l’evento come «una grande marcia di patrioti», ha dichiarato di manifestare per «togliere il potere alla comunità ebraica». Il ministro dell’Interno Mariusz Błaszczak lodava i manifestanti.47 La Polonia non è un posto ameno neanche per i liberali, o gli ebrei, i musulmani, i gay, o le donne che hanno bisogno di interrompere la gravidanza. Quando la prima ministra Beata Szydło ha dato le dimissioni nel dicembre 2017, il suo successore Mateusz Morawiecki (il vero capo era però Jarosław Kaczyński) dichiarò immediatamente che il suo «sogno» era di ricristianizzare l’UE.48 In Ungheria e in Polonia il femminismo è visto dai gruppi al potere come un progetto straniero che rema contro l’interesse nazionale.49
Questi sintomi morbosi hanno una molteplicità di cause. La «terapia d’urto» (shock therapy) attribuita, forse ingiustamente, all’economista Jeffrey Sachs (non un neoliberale) ha portato a una gigantesca emigrazione (più di due milioni dall’ingresso della Polonia in UE nel 2004) e contribuito alla convinzione di molti fra coloro rimasti nel paese che la Polonia sia stata tradita dalle élite cosmopolite filoeuropee (sebbene molto di quanto sia migliorato in Polonia si debba ai fondi dell’UE di cui la Polonia, con l’Ungheria, è congrua beneficiaria).50
Anche in Ungheria il primo ministro Viktor Orbán invoca «valori cristiani» mentre srotola fili spinati e schiera gli idranti ai confini del paese per tenere fuori i profughi. La Commissione europea ha deciso di portare l’Ungheria assieme alla Polonia davanti alla Corte di giustizia per essersi rifiutate di ricevere la quota di profughi loro assegnata. Orbán inveisce, oltre che contro il politicamente corretto e i media indipendenti, contro «l’immoralità dell’Occidente» e delle sue «élite liberali», così come contro gli «avidi banchieri»; dichiara guerra alle ONG (mettendo in agitazione le Nazioni Unite e Amnesty International), che accusa di interferire negli affari interni dell’Ungheria e cerca di far chiudere la Central European University sovvenzionata da George Soros, la sua bestia nera.51 Mentre i socialisti, un tempo innamorati del blairismo, restano forti a Budapest, il partito di Orbán, FIDESZ (Alleanza civica ungherese) – un tempo il partito della gioventù metropolitana progressista e dell’intellighenzia –, è ora il partito della retroguardia rurale del paese, del nazionalismo cattolico, della xenofobia, dell’euroscetticismo, dei valori familiari ed è, per ultimo, ma non meno importante, il partito degli oligarchi.52
Orbán divenne primo ministro nel 1998, quando il suo partito ottenne soltanto il 26% dei voti. Presto dovette cedere il passo a un’amministrazione socialista e rimase escluso dal potere fino al 2010. Poi irruppe nuovamente con un impressionante 52% e due terzi dei seggi parlamentari, ottenendo la rielezione nel 2014. Utilizzò la propria maggioranza per mettere sotto controllo la giustizia, la radio e la televisione, e facendo chiudere il principale giornale d’opposizione, «Népszabadság». Questo fu poi comprato, assieme ad altri giornali, da uno dei suoi migliori amici, Lőrinc Mészáros, divenuto ricco oligarca solo dopo che Orbán era diventato primo ministro. Orbán attacca regolarmente «la leadership dell’UE debole, sclerotica, fuori dal mondo». È stato lesto a congratularsi con Recep Tayyip Erdoğan dopo il referendum vinto nell’aprile 2017, che ha garantito a Erdoğan maggiori poteri. E, naturalmente, è sostenitore e ammiratore di Vladimir Putin come di Donald Trump. In Ungheria non c’è quasi un’opposizione di sinistra di qualche rilievo.
Il 22 luglio 2017, in un discorso al ventottesimo Bálványos Summer Open University and Student Camp (a Băile Tușnad, in una zona della Romania con una significativa minoranza ungherese), Orbán descrisse la lotta mondiale tra un’«élite transnazionale» e leader patriottici nazionali come lui e Donald Trump («siamo i precursori di questo approccio, la nuova politica patriottica europea»). Ha poi attaccato l’«alleanza» formatasi a Bruxelles contro l’Ungheria: «I membri di questa alleanza sono i burocrati di Bruxelles e la loro élite politica e il sistema che potrebbe essere descritto come l’Impero Soros. […] C’è un piano Soros (per portare in Europa migranti musulmani). […] Sia i burocrati di Bruxelles sia George Soros hanno interessi particolari a indebolire l’Europa centrale […] dobbiamo difendere il terreno dal network mafioso di Soros, dai burocrati di Bruxelles e dai media di cui fanno uso».53
In Ungheria l’isteria anti-Soros non conosce limiti. Un grande poster che lo raffigura è stato incollato al pavimento del tram della linea 49 a Budapest, così che i passeggeri gli camminino sulla faccia.54 Durante la campagna per le elezioni del 2018, invischiate in scandali e un’incessante retorica anti-immigrazione e islamofobica, Orbán ha paragonato la lotta degli ungheresi contro gli ottomani, gli Asburgo e i sovietici alla lotta contro «lo zio George».55 Ovviamente ha funzionato: Orbán è stato rieletto accrescendo la sua maggioranza (con anche una più alta affluenza alle urne), e controllando i due terzi del parlamento (con poco meno del 50% dei voti).
Il 9 ottobre 2017 András Aradszki, segretario di stato per l’Energia, dichiarava che quello che aveva chiamato il «piano Soros» era «ispirato da Satana» e che era dovere dei cristiani combatterlo.56 György Schöpflin, che ha vissuto nel Regno Unito dal 1950 al 2004 come mediocre professore presso la School of Slavonic and East European Studies, e che è diventato deputato europeo, ha disonorato la sua ex professione ma ottenuto i suoi quindici minuti di notorietà con l’invito a disseminare teste di maiale lungo il confine con l’Ungheria come deterrente per i profughi musulmani, accompagnando il gesto con il tweet: «Le teste dei maiali dissuaderebbero più efficacemente».57 Sia Aradszki sia Schöpflin sono membri dell’ungherese Partito popolare cristiano democratico (KDNP), un partito che senza l’aiuto di FIDESZ non passerebbe la soglia di sbarramento alle elezioni.
Anche Israele ha mollato ogni pretesa di liberalismo. Questo era un paese fondato da sionisti «socialisti» e a lungo guidato da un Partito laburista che oggi, confluito nell’Unione sionista, è stato incapace di raccogliere più del 18,6% alle elezioni del 2015. Ora Israele è governato, e lo è stato per molti anni, da Benjamin Netanyahu (quattro volte primo ministro), spregiudicato apostolo del «libero mercato». Questi ha liberalizzato il sistema bancario, privatizzato quello che era un enorme settore statale, introdotto un programma di sussidi all’occupazione e tagliato le pensioni mentre sovvenzionava copiosamente i 600.000 coloni nella Cisgiordania illegalmente occupata, mettendo gli ebrei progressisti in allarme.58
Netanyahu ha istericamente cercato di spaventare e sottomettere la stampa israeliana e ha regolarmente attaccato il potere giudiziario e la polizia che ne raccomandavano la condanna per corruzione, tangenti e frode.59 Non sarebbe il primo uomo politico israeliano coinvolto in illeciti (Wikipedia ha una voce apposita con l’elenco dei personaggi pubblici condannati: «List of Israeli public officials convicted of crimes or misdemeanors»). Avraham Hirschson, già ministro delle Finanze, fu condannato nel 2009 per aver rubato milioni di shekel dalla National Workers Labour Federation durante il suo mandato da presidente. Ricevette una condanna a cinque anni e cinque mesi: ha scontato tre anni e quattro mesi. Ehud Olmert, primo ministro (2006-2009) e per dieci anni sindaco di Gerusalemme, è stato incriminato per corruzione ed evasione fiscale e condannato a ventisette mesi di prigione (ne ha scontati sei). Ancora più grave il caso di Moshe Katsav, presidente dello stato di Israele (2000-2007), accusato di molteplici stupri, condannato, imprigionato e rilasciato nel 2016 dopo aver scontato solo sei anni.
Netanyahu è un falco in politica estera: vorrebbe tanto distruggere l’Iran e non ha alcuna intenzione di ritirarsi dalla Cisgiordania illegalmente occupata o di alleviare l’esistenza ai suoi abitanti palestinesi, e tutto questo mentre finge di cercare la pace, uno stratagemma che convince i soliti idioti e quelli in cattiva fede. Nell’ottobre 2017 anche il presidente israeliano Reuven Rivlin (un membro del Likud, il partito di Netanyahu) ha perso la pazienza e, in un discorso alla Knesset (il parlamento), ha criticato il comportamento antidemocratico di Netanyahu.60
Negli Stati Uniti molti ebrei sono lacerati; la maggioranza sostiene il sogno sionista mentre votano per i democratici, ma sono turbati dalla crescente influenza dei sionisti di destra e dal loro assecondare il nazionalismo americano. Israele sta rapidamente perdendo la presa sui giovani ebrei americani, che si rendono conto che lo «stato ebraico» è l’antitesi dei loro valori liberali.61
Fanno bene a preoccuparsi: nel 2017 la Zionist Organization of America ha invitato Steve Bannon, l’attivista islamofobo «alt-right» (vale a dire di estrema destra) alla sua serata di gala annuale, assieme a un certo numero di falchi sionisti, compresi l’importante avvocato Alan Dershowitz e Joe Lieberman, candidato democratico alla vicepresidenza USA nel 2000.
Netanyahu si vanta delle sue amicizie con personalità, tutte di destra, come Silvio Berlusconi, Viktor Orbán e Donald Trump. I candidati della nazionalista AfD si professano a stragrande maggioranza filo-Israele.62
Obama non è amico di Netanyahu: al meeting del G20 nel 2011, alcuni microfoni lasciati accesi per errore ne diffusero la voce mentre diceva a Sarkozy, che gli aveva appena detto che Netanyahu era un «bugiardo»: «Non ne puoi più di lui? Io ci devo avere a che fare tutti i giorni».63 Questo non impedì a Obama di firmare, nel 2016, un accordo con Israele per un pacchetto di aiuti alla difesa militare per il decennio successivo, il più grande aiuto di questo genere della storia americana.64 Con l’elezione di Trump e con il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele (un nuovo, ampiamente criticato scivolone della politica estera americana) per Netanyahu è andata ancora meglio. Solo sette stati, a parte Israele e gli USA, hanno appoggiato immediatamente l’iniziativa statunitense in un voto alle Nazioni Unite. E che stati! Il Guatemala (un paese governato da Jimmy Morales, un comico televisivo cristiano evangelico di destra, che si fregia di una laurea ad honorem della Hebrew University di Gerusalemme), l’Honduras (un regime autoritario con il più alto tasso al mondo di omicidi), il Togo (una dittatura particolarmente sanguinaria), Nauru (di fatto un protettorato dell’Australia noto, incidentalmente, per essere in vetta alla classifica mondiale dell’obesità), la Micronesia, Palau, e le Isole Marshall: tutti membri della COFA (Compact of Free Association), dominata dagli Stati Uniti.
Israele aveva ricambiato in anticipo il gesto di Trump votando – unico altro paese oltre agli USA – contro una risoluzione dell’ONU del novembre 2017, che condannava l’embargo economico americano verso Cuba (191 stati contro 2). Trump minacciò di tagliare gli aiuti agli stati che sostenevano la risoluzione (che avrebbe compreso alcuni dei principali beneficiari degli aiuti americani in Medio Oriente). Questo non ha spaventato nessuno e ha portato John O. Brennan, ex direttore della CIA, a dichiarare con un tweet che la minaccia della Casa Bianca «è quanto mai oltraggiosa. Dimostra che Trump si aspetta lealtà cieca e sottomissione da parte di tutti: caratteristiche di solito tipiche di autocrati narcisisti e vendicativi».65
Trump sarà pure amico di Israele, ma lo è anche degli ebrei? Ha lodato il pastore Robert Jeffress della First Baptist Dallas Church, il quale disse una volta che gli ebrei non possono essere salvati.66 Tuttavia gli ebrei sono in buona compagnia, giacché il lunatico pastore aveva detto lo stesso dei mormoni, dei musulmani e degli indù. Nulla di tutto questo gli ha impedito di essere invitato a contribuire alla cerimonia di apertura della nuova ambasciata degli Stati Uniti di Gerusalemme.67
Netanyahu è in realtà il volto «soft» del governo di Israele. Quello «duro» appartiene ad Avigdor Lieberman, immigrato moldavo e leader del partito nazionalista Yisrael Beiteinu, che gode del sostegno del milione circa di ebrei che lasciarono l’ex Unione Sovietica. Zeev Sternhell, il noto storico israeliano, l’ha definito come «l’uomo forse più pericoloso di Israele».68
Lieberman considera l’Iran «la minaccia più grande per il popolo ebraico dalla seconda guerra mondiale».69 Voleva la pena di morte per i deputati arabo-israeliani che s’incontrano con Hamas.70 Ha dichiarato: «Dipendesse da me, comunicherei alle autorità palestinesi che domani alle dieci del mattino bombarderemo tutti i loro luoghi di lavoro a Ramallah», aggiungendo: «Distruggere i fondamenti di tutta l’infrastruttura delle autorità militari, tutti gli edifici della polizia, gli arsenali, tutte le sedi delle forze di sicurezza […] che nulla rimanga in piedi. Distruggere tutto» (2002). Dopo che a 250 prigionieri palestinesi era stata concessa un’amnistia, nel 2003 dichiarò: «Sarebbe meglio annegare questi prigionieri nel Mar Morto […] perché è il punto più basso del mondo».71 Quasi altrettanto dura quanto Lieberman è la sua collega del Likud, Tzipi Hotovely, viceministra degli Esteri (Netanyahu tiene per sé il ministero degli Esteri), che praticamente ovunque passerebbe per fanatica religiosa. Mentre Netanyahu fingeva di negoziare un accordo annunciò, riferendosi ai territori occupati: «Dobbiamo tornare alle verità fondamentali dei nostri diritti su questo paese. Questa è la nostra terra. È tutta nostra».72 Una grossa maggioranza di ebrei israeliani, il 61%, crede veramente che Israele sia stata data da Dio agli ebrei.73
Hotovely e altri religiosi politici israeliani paiono ignorare che, se dobbiamo credere al racconto biblico, Dio «diede» agli ebrei tutta la terra dall’Eufrate fino al fiume d’Egitto. Secondo il libro della Genesi (15,18-21), Dio disse ad Abramo: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate; la terra dove abitano i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, gli Ittiti, i Perizziti, i Refaìm, gli Amorrei, i Cananei, i Gergesei e i Gebusei». Giacché l’Eufrate scorre dalla Turchia al Golfo Persico (essendo confluito nel Tigri) e postulando che il «fiume d’Egitto» sia il Nilo, e non l’inaridito torrente Wadi el-Arish a sud di Gaza, si potrebbe affermare sulla base della Genesi che Dio abbia promesso agli ebrei non soltanto l’Israele di oggi e i territori occupati, ma anche il Libano, la Siria, la Giordania, il Kuwait, la maggior parte della Turchia e forse anche l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e pezzi di Egitto. Ci si può inoltrare parecchio nella follia con la Bibbia in una mano e nell’altra la spada.
Di questa divina promessa potrebbe aver tenuto conto Eli Ben-Dahan, del partito La casa ebraica e rabbino ortodosso: anche lui dichiarò che i palestinesi sono «animali, non umani». All’epoca era viceministro dei Servizi religiosi (in seguito sarebbe diventato viceministro della Difesa).74 C’è di peggio: Dov Lior, quando era rabbi di Kiryat Arba (un insediamento nella Cisgiordania occupata), «decretò» che Baruch Goldstein (che aveva massacrato ventinove arabi alla Tomba dei Patriarchi nel 1994) era «più santo di tutti i martiri dell’Olocausto».75 Ha inoltre giustificato l’omicidio di non ebrei, ha detto che gli ebrei non dovrebbero affittare agli arabi e che gli attacchi terroristici al teatro Bataclan di Parigi nel novembre 2015 (in cui persero la vita 170 persone) erano la punizione per quanto fatto dagli europei agli ebrei nell’Olocausto.76 Ora vive tranquillo a Gerusalemme Est. In qualunque altro paese sarebbe considerato uno psicopatico.
La «sinistra israeliana», vale a dire il Partito laburista israeliano, è in condizioni di poco migliori, ma non troppo. Il suo nuovo leader, Avi Gabbay, che fino al 2013 era il capo di una compagnia telefonica e poi ministro in uno dei governi Netanyahu e che è entrato nel Partito laburista israeliano solo nel 2016, ha spinto il partito ancora più a destra di quanto non lo sia dichiarando che gli insediamenti erano «il volto bello e devoto del sionismo» e che Israele deve mantenere il controllo della valle del Giordano in qualunque accordo di pace con i palestinesi.77 Nel novembre 2017 ha sostenuto il piano del primo ministro Netanyahu di espellere i lavoratori immigrati aggiungendo, proprio come la già citata Tzipi Hotovely, che «l’intera Terra di Israele è nostra, perché fu promessa al nostro patriarca Abramo da Dio».78
E questa è la cosiddetta «sinistra» israeliana ufficiale.
L’Europa del 2018 è inondata da partiti «cattivi», più cattivi dei conservatori tradizionali: in Svizzera l’Unione democratica di centro (quasi il 30% nel 2015); in Belgio la Nuova alleanza fiamminga (31% nelle Fiandre nel 2014); in Bulgaria il Fronte nazionale per la salvezza della Bulgaria (solo il 7%); in Lettonia l’Alleanza nazionale (nome ufficiale Alleanza nazionale tutti per la Lettonia! Per la patria e la libertà!; 16% nel 2014), che fa parte della coalizione di governo; la Lega in Italia; il Front National in Francia; i Democratici svedesi; il Partito dei finlandesi (già noto come Veri finlandesi); il Partito della libertà in Austria; Jobbik in Ungheria; il Partito della libertà in Olanda; Alba Dorata in Grecia e altri ancora.
L’ascesa della destra è stata accompagnata da un deterioramento del linguaggio politico. Donald Trump, in una serie di tweet e sparate che provocano la disperazione di alcuni e il divertimento di altri, usa quasi tutti i giorni un tipo di linguaggio e di pensieri tipici delle rabbiose chiacchiere da bar, di una chiassosa aggressività maschile e/o di adolescenti violenti affetti da insicurezza narcisistica. Non per nulla il senatore Bob Corker commentava che «la Casa Bianca è diventata un asilo nido per adulti», mentre James Comey, ex capo dell’FBI licenziato da Trump, nell’epilogo del suo libro A Higher Loyalty: Truth, Lies, and Leadership («Una lealtà più alta. Verità, bugie e leadership») scrive: «Questo presidente è non-etico e svincolato dalla verità e dai valori istituzionali», e lo paragona a un boss mafioso. Evoca poi alcuni «flashback dell’inizio della mia carriera come pubblico ministero contro la mafia. La cerchia omertosa di consenso. Il boss che detiene il controllo totale. I patti di lealtà. La visione del mondo noi-contro-tutti. Il mentire su ogni cosa, grande o piccola, al servizio di un codice morale che mette l’organizzazione al di sopra della moralità e della verità». Michael Wolff, autore di Fuoco e furia. Dentro la Casa Bianca di Trump, spiegava, nell’«Hollywood Reporter» (gennaio 2018): «“Roba del genere non si inventa.” Il mio anno nella folle Casa Bianca di Trump».79
L’avvicendamento in questo «folle asilo nido» è notevole. Michael Flynn, consigliere alla Sicurezza nazionale, è rimasto in carica un mese; Reince Priebus, capo di stato maggiore, sei mesi; Katie Walsh, vicecapo di stato maggiore alla Casa Bianca, due mesi; George Papadopoulos, consulente alla Politica estera, dieci mesi; Sean Spicer, ufficio stampa, sei mesi; Steve Bannon, «capo stratega» di Trump, sette mesi; il ministro della Sanità, Tom Price, otto mesi (dopo rivelazioni riguardanti le enormi somme di denaro pubblico spese per i suoi viaggi con aerei privati); Rex Tillerson, segretario di stato, poco più di un anno.80 Tillerson è stato destituito da Trump nel marzo 2018 a favore di Mike Pompeo, già capo della CIA, ma prima (l’incarico alla CIA lo doveva a Trump) Pompeo non era che un membro del congresso del Kansas e un fedelissimo del Tea Party. Gli piace Israele, non gli piacciono i musulmani e i gay, è contro l’aborto e nega il cambiamento climatico. A succedergli a capo della CIA è stata la sua vice, Gina Haspel, prima donna al comando dell’agenzia, che, secondo il «New York Times», avrebbe responsabilità nella pratica di torture.81
Nel marzo 2018 Gary Cohn, capo consulente economico (e già presidente di Goldman Sachs) annunciò le proprie dimissioni. Ne è degno successore Larry Kudlow, un esponente di teorie pseudoeconomiche di trickle down, opinionista radiotelevisivo ed ex cocainomane (per cui era stato rimosso da Bear Stearns nel 1995), il quale, a pochi mesi dalla crisi globale del 2007, predisse che l’economia si sarebbe ripresa.82
Non ultimo, va ricordato anche il ridicolo Anthony Scaramucci, direttore della comunicazione, durato due settimane. Hope Hicks, che gli è subentrata, è rimasta più a lungo: quasi sette mesi. Nell’ottobre 2018 Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti presso l’ONU, ha annunciato le proprie dimissioni tra indiscrezioni secondo le quali avrebbe accettato doni quando era governatrice della Carolina del Sud. Un mese dopo Trump ha praticamente cacciato Jeff Sessions, il capo del dipartimento della Giustizia, che si era dimostrato riluttante al coinvolgimento nell’indagine Mueller sui collegamenti fra la Russia e lo stesso Trump. Più in basso nei ranghi la faccenda è più seria: Robert Roger Porter, capo di gabinetto della Casa Bianca, ha dovuto dare le dimissioni nel febbraio 2018, dopo che non meno di due mogli lo avevano accusato di violenza domestica. Aveva frequentato Hope Hicks, ma senza picchiarla. La reazione di Trump è stata: «Ha fatto un ottimo lavoro» (come capo di gabinetto, non come marito). Nell’ottobre 2017 il responsabile della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, è stato accusato di riciclaggio di milioni di dollari «guadagnati» grazie al lavoro di lobby per conto dell’ex presidente ucraino filorusso Viktor Janukovyč.83 Nel marzo 2018 Herbert Raymond McMaster, consigliere per la Sicurezza nazionale, è stato rimosso e sostituito dal super falco e guerrafondaio John Bolton, un relitto dell’era Bush che, come Donald Trump e Bush Jr, era riuscito a evitare l’invio in Vietnam durante il conflitto. Infine, ma indubbiamente la saga continuerà, nel luglio 2018 Scott Pruitt, l’amministratore dell’Agenzia per la protezione ambientale che nega i cambiamenti climatici, colpito da indagini e scandali, è stato costretto a dare le dimissioni.
A essere sinceri, sotto questo punto di vista la Casa Bianca di Bill Clinton non era messa meglio di quella di Trump. Mark Gearan, vicecapo di gabinetto e poi responsabile della comunicazione di Clinton, ha detto che lo staff alla Casa Bianca spesso «si comportava come una squadra di calcio di bambini di dieci anni».84 Un passo avanti, comunque, rispetto all’asilo nido per adulti di Trump.
Come ha scritto Machiavelli: «E la prima coniettura che si fa del cervello d’uno signore, è vedere li uomini che lui ha d’intorno».85
Fatto abbastanza significativo, alla Casa Bianca non ci sono economisti. Regna l’ignoranza: nel gennaio 2018, durante un’audizione della commissione giuridica del senato, è stato chiesto a Kirstjen Nielsen, segretario di stato per la Sicurezza nazionale, se la Norvegia (dalla quale Trump accoglierebbe migranti, anziché da quelli che lui ha definito «paesi di merda» come Haiti) è prevalentemente bianca. La Nielsen ha risposto in modo disarmante: «Non saprei, ma immagino sia così».86 Con un nome come Kirstjen Nielsen, cosa avrebbe mai potuto saperne della Norvegia, come di qualsiasi paese scandinavo? Forse stava cercando di proteggere il presidente. La risposta esatta, ovviamente, avrebbe dovuto essere: per quale ragione i norvegesi dovrebbero recarsi in un paese dove non c’è congedo parentale, con costose università, niente ferie pagate e privo di controllo sulle armi da fuoco?
Trump ha vinto le elezioni presidenziali, ma non il voto popolare. Sono state avanzate ogni sorta di «teorie» per spiegare la sua «vittoria», suggerendo che era stato capace di mobilitare quelli «rimasti indietro», in altre parole i perdenti e, in particolare, le vittime della cancellazione dell’industria manifatturiera negli USA, uno dei temi principali della sua campagna elettorale. Per questo si è immediatamente ritirato dal North American Free Trade Agreement, permettendo a Xi Jinping, il «leader comunista» cinese, di diventare l’improbabile campione del libero mercato globale.
La verità è che Hillary Clinton ha ottenuto più voti di Trump e che Trump ha vinto perché 77.744 votanti in stati chiave – Pennsylvania, Michigan e Wisconsin – sono stati decisivi nel dargli una maggioranza nel collegio elettorale, donde la sua vittoria alle presidenziali. Il collegio elettorale è un’istituzione concepita originariamente dai padri fondatori James Madison e Alexander Hamilton, i quali, non fidandosi degli elettori ordinari, hanno preferito che la scelta finale fosse compiuta da quelli con intelletto più elevato, vale a dire un’élite, i grandi elettori. Si staranno rivoltando nella tomba. I grandi elettori di Trump sono stati 304 contro i 227 di Clinton. Ma Hillary Clinton ha ottenuto 65.853.516 voti (48,2%), 2.868.691 più di Trump (che ha ottenuto solo 62.984.825 voti, cioè il 46,1%). Inoltre, solo il 55,5% ha votato, dunque Trump è stato eletto veramente da un americano su quattro, gli altri hanno votato per Clinton o non hanno votato. Siamo lontani dalla vittoria schiacciante come quella di Ronald Reagan contro Walter Mondale nel 1984, quando Reagan ottenne il 58,8% del voto popolare.
Poi c’è la «teoria» secondo cui i russi avrebbero favorito la vittoria di Trump. Questo è abbastanza assurdo: se i russi fossero tanto sofisticati da influenzare gli elettori chiave in tre stati, governerebbero il mondo. L’enorme controversia sull’«interferenza» russa si riduce a poco più di un invio di email e al fatto che alcuni consiglieri di Trump, come Michael Flynn, e il figlio di Trump, Donald Jr., e magari suo cognato Jared Kushner, si sono incontrati segretamente con funzionari russi che avrebbero potuto dare loro notizie compromettenti su Clinton.
Nel marzo 2018 tredici cittadini russi sono stati condannati per avere postato sui social media, presumibilmente con il sostegno del governo russo, idee per danneggiare Clinton e sostenere Trump. Tutta la questione ha ricevuto una copertura straordinaria nei media occidentali, come se avesse fatto la minima differenza per il risultato delle presidenziali. In realtà la questione è del tutto politicizzata: nell’aprile 2018 l’House Intelligence Committee degli Stati Uniti ha pubblicato il suo lungo rapporto (più di 300 pagine) su presunte interferenze russe: il verdetto è che non vi sono prove di collusione tra la campagna di Trump e la Russia, e la valutazione dell’intelligence secondo cui il presidente russo Putin avrebbe cercato di aiutare Donald Trump è stata messa in discussione. Il problema è che a votare a favore di questo rapporto erano tutti repubblicani (la maggioranza) e a votare contro erano democratici.87 Anche il «New York Times», in un commento genericamente anti-Putin, ha ammesso che non vi sono prove conclusive d’interferenze russe.88
Dal marzo 2018 non solo i russi avrebbero assicurato la vittoria di Trump. La bacchetta magica sarebbe stata manovrata dalle mani di un’oscura organizzazione chiamata Cambridge Analytica (poi fallita). Il suo amministratore delegato, Alexander Nix, subito sospeso, è riuscito a convincere alcuni giornalisti di testate liberal come il «Guardian» e il «New York Times» – che volevano essere convinti – che Cambridge Analytica aveva indotto 77.000 elettori in tre stati chiave a trasferire i propri voti da Clinton a Trump. L’unica cosa difficile da credere è che un numero così elevato di persone abbia potuto dare credito alle spacconate infantili di un simile personaggio, che il «Financial Times» ha definito «un pubblicitario che decanta la propria azienda di data-science».89 Ma del resto è altrettanto difficile immaginare che Nix fosse così miope e ingenuo da lasciarsi incastrare in un’operazione sotto copertura orchestrata da alcuni reporter di Channel 4 News (video mandato in onda il 19 marzo 2018) in cui si vantava di poter offrire «belle ragazze ucraine» al fine di screditare uomini politici.
È naturalmente possibile che i russi (o alcuni russi) abbiano cercato di danneggiare Hillary Clinton (un falco in politica estera), ma lei ha comunque ottenuto più voti di Trump. Inoltre, gli Stati Uniti hanno «interferito» per decenni in tutto il mondo come se fosse routine. C’è un intero database che punta a tracciare la lunga storia delle interferenze americane in elezioni straniere (ben diverso dallo sponsorizzare occupazioni militari se l’ingerenza non basta).90 L’America è intervenuta nelle elezioni italiane fin dal 1948 (questo è ampiamente documentato) così come nelle elezioni in Germania, Giappone, Israele, Congo eccetera. Negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, gli Stati Uniti hanno sostenuto finanziariamente e militarmente i ribelli Contras contro il leader sandinista Daniel Ortega, eletto nel 1984. Nel 1990 fornirono aiuti e denaro a Václav Havel in quella che allora era la Cecoslovacchia; in Israele a Shimon Peres, poi a Ehud Barak contro Netanyahu; a Vojislav Koštunica contro Slobodan Milošević in Serbia; e a chiunque capitasse di essere il candidato antirusso in Ucraina. Ha interferito sistematicamente – compresi colpi di stato contro governi democraticamente eletti – in gran parte dell’America Latina. Durante il referendum su Brexit in Gran Bretagna, Barack Obama (naturalmente esortato da David Cameron) è intervenuto apertamente ammonendo la Gran Bretagna che se il paese avesse lasciato l’UE sarebbe stato l’«ultimo della fila» in caso di accordi commerciali.91 Più di recente, in barba ai più elementari principi della diplomazia, Richard Grenell, il nuovo ambasciatore in Germania, nominato da Trump e in carica da quattro settimane, dichiarava in un’intervista rilasciata al sito dell’ultradestra «Breitbart News» di voler rafforzare altri leader conservatori (cioè l’estrema destra) in Europa.92 Donald Trump, alla vigilia della sua visita in Gran Bretagna nel luglio 2018, ha concesso un’intervista al «Sun» che violava ogni criterio minimo della diplomazia, rimproverando Theresa May per non aver seguito il suo consiglio sulle proposte Brexit ed esprimendo la propria ammirazione per Boris Johnson (che era appena uscito dal governo sbattendo la porta), il quale, disse, sarebbe stato «un ottimo primo ministro».93
Il leader straniero che «interferisce» di più nella politica statunitense (e assai più apertamente) è l’israeliano Netanyahu, tra i cui sponsor principali figura Sheldon Adelson, il miliardario magnate dei casinò, che aveva sostenuto anche la campagna di Trump con 25 milioni di dollari e che da qualche tempo accarezzava il proposito di far cambiare sede all’ambasciata portandola da Tel Aviv a Gerusalemme.94 Su questo, Trump ha ottemperato – 25 milioni spesi bene.
Quanto ai russi e al loro hacking nelle email di Hillary Clinton… Nel 2010 Obama fu informato del fatto che l’Agenzia per la sicurezza nazionale aveva monitorato il telefono cellulare della cancelliera tedesca Angela Merkel (anche prima che diventasse cancelliera). Le permise di continuare, così come permise l’attività di una rete globale di ottanta centri di intercettazione, compresi diciannove luoghi di ascolto europei (senza risparmiare gli alleati: Parigi, Roma, Berlino e Madrid).95
Molte delle «spiegazioni» della vittoria di Trump sono basate su una lettura dei discorsi dei candidati principali, qualche intervista con elettori per selezionare quelli che si adattano alla «teoria» e poi sull’ipotesi non garantita che gli elettori si siano trovati d’accordo con questo o quell’aspetto dei programmi dei candidati. Benché lungi dall’essere perfetti, i sondaggi condotti il più possibile a ridosso delle elezioni (come gli exit poll) sono una migliore indicazione di chi ha votato per chi. Sappiamo così che una maggioranza di bianchi (compresa una maggioranza di donne bianche) ha votato per Trump e che la stragrande maggioranza degli elettori afroamericani (88%) e due terzi degli ispanici hanno sostenuto Clinton. L’opinione secondo cui Trump aveva il sostegno di individui arrabbiati di estrazione operaia non è suffragata dagli exit poll, secondo cui Clinton aveva la maggioranza dell’elettorato della fascia di reddito più bassa (redditi sotto ai 50.000 dollari annui) contro il 41% che aveva votato Trump. Il suo consenso tra i redditi sotto ai 30.000 dollari, benché in calo rispetto a quello per Obama nel 2012, era assai maggiore (53% contro il 41%) di quello per Trump. Trump ha conquistato il voto rurale con il 62% contro il 34%, e quello suburbano con il 50% contro il 45%, mentre Clinton si è aggiudicata il voto metropolitano con il 59% contro il 35%. E Trump ha avuto una netta maggioranza nella fascia over quarantacinque anni di età, mentre la Clinton è stata più popolare presso gli elettori più giovani. Non è stata la «working class» a votare per Trump, è stata la «working class bianca», persone che beneficiano dei programmi di welfare come Food Stamp e Medicaid. Dunque come mai hanno votato per gente come Trump, che favorisce i ricchi e i benestanti? Forse perché sono ignoranti e pieni di pregiudizi?
La vasta maggioranza dei repubblicani tradizionali ha votato per Trump, mentre la vasta maggioranza dei democratici tradizionali ha votato per Hillary Clinton. Il sostegno a Trump di cristiani evangelici praticanti era all’80%, benché, a differenza di altri presidenti, non menzioni Dio quasi mai (e ha avuto, finora, tre mogli e infinite relazioni).96
Con questo non si vuole negare che dietro il voto a Trump (così come quello per Brexit) vi fosse un elemento «di sinistra»: opposizione al neoliberalismo, alla libertà di circolazione di capitali, un rifiuto dei baroni di Wall Street (che sostenevano Hillary Clinton), la corruzione di Washington eccetera. Ma quelli che hanno capitalizzato su questi aspetti sono stati candidati di destra, da Donald Trump a Nigel Farage, nel Regno Unito. Come ha detto Anthony Barnett: «La sinistra ha perso davvero quando nemmeno capisce che ha perso».97
Sia il messaggio di Trump sia quello di Farage erano «no-global», un tema che in precedenza aveva una chiara impronta «di sinistra». Allo stesso modo, l’idea che il paese fosse governato da pochi miliardari a Wall Street o da una potente classe dirigente di Washington è un tropo populista di sinistra e di destra ben consolidato, sanzionato da molti film hollywoodiani dove il «piccolo uomo» sfida il sistema, da Mr. Smith va a Washington di Frank Capra (premio Oscar per il miglior soggetto) a Wall Street di Oliver Stone (1987) con il suo famoso discorso «l’avidità è un bene», a Erin Brockovich – Forte come la verità di Steven Soderbergh (2000), dove Julia Roberts lotta (vincendo) contro una grossa azienda energetica. Il celebre «It’s the economy, stupid» di Clinton suonava bene, ma era stupido nel suo presupporre che sia sempre l’economia a determinare le elezioni.
Questo populismo non fa per niente parte dell’immagine ideologica delle élite repubblicane schierate con il grande business. Di certo non sono «no-global». La distanza fra queste élite e la base dei repubblicani esiste da molto tempo, ma finora non è stata facilmente individuabile. Ora lo è. Importanti repubblicani, compresi George W. Bush, John McCain (candidato alla presidenza nel 2008) e il senatore Bob Corker, hanno espresso il proprio sgomento per Trump mentre, finora, la base del partito resta schierata con il «suo» Trump.98 Vedremo se «la straordinaria ascesa alla presidenza di Donald Trump nel 2016 è stata una coincidenza di celebrità e circostanze» o il presagio di un’enorme trasformazione nel sistema americano dei partiti.99
Gli elettori di Trump hanno votato «razionalmente»? Bryan Caplan, nel suo The Myth of the Rational Voter: Why Democracies Choose Bad Policies («Il mito dell’elettore razionale. Perché le democrazie scelgono carttive politiche», 2007), pensa che gli elettori siano economicamente irrazionali. Naturalmente lo sono, giacché è difficile calcolare quello che è nel proprio interesse (io, per esempio, non ci riesco) e quali politiche giovano a un particolare individuo. In realtà, è pressoché impossibile stabilire una qualsiasi ragione «razionale» per votare chicchessia, o semplicemente per votare. È già abbastanza difficile essere «razionali» quando si comprano cibo o abiti.
Nel suo Psicologia delle folle (1895), il pensatore reazionario Gustave Le Bon sostenne, ben prima dei politologi contemporanei, che «la folla» sarebbe stata sempre influenzata dal pensiero irrazionale e sentimentale. Mentre lamentava che il progresso nell’istruzione fosse utopistico – giacché la gratuità scolastica creava un esercito di giovani scontenti, non disposti a tornare alla pacifica vita rurale – era anche compiaciuto che le folle, quando sottomesse, sarebbero state sempre pronte a seguire un leader superiore, qualcuno capace di sedurle, di fingere partecipazione ai loro travagli, e di fare promesse esagerate.100 Sembra Trump, ma quanti lo considererebbero un leader «superiore»?
Gli elettori spesso non hanno bisogno di essere ingannati: nel 2003 sette americani su dieci continuavano a credere che l’Iraq di Saddam Hussein avesse avuto un ruolo negli attacchi dell’11 settembre, anche se l’amministrazione Bush e le indagini del congresso hanno sempre affermato che non vi fossero prove.101 Gli americani medi hanno scelto semplicemente di dare una ragione razionale per quello che era naturalmente del tutto irrazionale (invadere l’Iraq).
Questo è il contesto in cui andrebbe vista la vittoria di Trump. Sì, ha ottenuto meno voti di Clinton, eppure è riuscito ad avere dalla propria parte quasi metà dell’elettorato e ha chiaramente vinto le primarie repubblicane contro altri sedici candidati. Ma che candidati! Alcuni di loro sono perfino riusciti a farlo apparire un politico serio, gente come i senatori Ted Cruz e Rand Paul (entrambi convinti sostenitori del Tea Party, una lobby conservatrice in costante declino), come Jeb Bush (fratello di George Bush Jr. e figlio di George Bush senior), governatore della Florida noto soprattutto per una campagna elettorale costosa e inefficace. C’era poi Ben Carson, neurochirurgo creazionista che aveva definito l’Obamacare la cosa peggiore «dai tempi della schiavitù» (Carson è nero); Rick Santorum, della Pennsylvania (che è antiaborto e antigay); Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas e pastore battista del Sud; e il senatore Marco Rubio, della Florida, che aveva accusato Barack Obama di cercare di rendere l’America «più simile al resto del mondo» mentre lui (Rubio) avrebbe fatto dell’«America il paese più grande del mondo». I candidati repubblicani alla presidenza sembravano avere un’unica cosa in comune: una triste mediocrità.
La stampa americana liberal (il «New York Times», il «Washington Post», il «Los Angeles Times» e così via) e network come la CNN non credevano nemmeno che Trump potesse vincere le primarie, figuriamoci la carica più importante. Thomas Frank, autore dell’arrabbiato e intelligente Listen, Liberal, avvertì che «per sconfiggere Trump, i media devono affrontare i propri difetti», elencandone alcuni:
i numerosi, mostruosi fallimenti giornalistici degli ultimi decenni: la bolla della dotcom, calorosamente festeggiata dalla stampa economica; la guerra in Iraq, favorita dai massimi saggi del giornalismo; il fallimento completo nel notare l’epidemia d’illiceità professionali che hanno reso possibile la crisi finanziaria del 2008. Tutto ciò che fanno lo fanno in gregge, anche quando si tratta di gettarsi giù da una rupe.102
Ma l’arcivolgare Trump li ha battuti tutti impiegando un linguaggio semplice, ripetitivo e spesso grossolano, un simbolo della nostra epoca morbosa. È difficile immaginare Franklin Delano Roosevelt o Charles de Gaulle, Konrad Adenauer o Harold Wilson, o anche Willy Brandt scendere a livelli anche solo vagamente paragonabili alla volgarità contemporanea, sebbene in privato de Gaulle ricorresse al turpiloquio.103 Impossibile immaginare qualcuno di loro vantarsi delle dimensioni del proprio pene, come ha fatto Trump in un dibattito televisivo il 3 marzo 2016 con un candidato rivale (e, una volta presidente, del fatto che il suo pulsante nucleare fosse «più grande» di quello di Kim Jong-un, con cui è andato poi d’accordo meglio che con i suoi alleati europei, dichiarando che Kim è «un tipo sveglio, gran negoziatore e penso che ci capiamo»); o chiamare le donne che non gli piacciono grasse, maiale, cagne, o disgustosi animali; oppure (ma non pubblicamente e nel lontano 2005), illustrando quella che si potrebbe definire la sua «tecnica di seduzione» con le donne, dire: «Quando sei una star puoi permetterti di tutto. Prendile per la fica»; o la sua promessa nella campagna elettorale del 2015 di «rompere il culo all’ISIS»; o i commenti seguiti alla violenza a Charlottesville, Virginia, il 12 agosto 2017 (dove un’attivista per i diritti umani è stata uccisa da un’auto guidata da un suprematista bianco) che mettevano i dimostranti antirazzisti e non violenti sullo stesso piano di quelli razzisti e violenti.104 O come quando, nel novembre 2017, diffondeva i tweet di un piccolo gruppo neonazista britannico (Britain First), tra i cui sostenitori figurava l’assassino della deputata britannica Jo Cox, ampliandone così a dismisura la visibilità (è stato debitamente ringraziato da uno dei leader di Britain First con un «Dio benedica Donald Trump»). In precedenza, quell’anno, in pubblico, aveva definito «figli di puttana» i giocatori di football americano che si inginocchiavano anziché rimanere in piedi durante l’inno nazionale. Nel gennaio 2018 alla Casa Bianca, discutendo con membri del congresso d’immigrazione da Haiti, El Salvador e altri paesi africani, chiese retoricamente: «Come mai abbiamo tutta questa gente che viene qua da paesi di merda?».105 Trump ha negato di averlo detto, ma nessuno gli ha creduto. Né può negare di aver detto ripetutamente, durante la campagna presidenziale, che i migranti dal Messico sono degli stupratori e i musulmani dei terroristi.
Secondo il «Washington Post», nei suoi primi 347 giorni in carica Trump ha fatto 1950 affermazioni fuorvianti o del tutto false.106 Ha usato Twitter per insultare 551 tra persone, luoghi o cose: ha definito Joe Scarborough (conduttore di Morning Joe sulla NBC) «matto», «psicopatico»; Don Lemon (CNN) «un buffone», «scemo come un asino»; Tom Steyer (filantropo e ambientalista) «del tutto svitato»; e Kim Jong-un «basso e grasso». Hillary Clinton è stata la più insultata, di solito definita «corrotta», ma anche «burattino di Wall Street», «la persona più corrotta che abbia mai corso per la presidenza», «dovrebbe essere in galera», «molto stupida», «asseconda i peggiori istinti della nostra società», «una candidata piena di difetti». Quanto a Obama, gli è andata un pochino meglio: «Matto», «un disastro», «debole», «terribile», «orribile», «incompetente», «cerca di distruggere Israele», «il peggior presidente nella storia degli Stati Uniti».107
Trump si esprime in quello che potremmo chiamare «demotico», vale a dire il modo in cui si esprimono le persone comuni. Come ha scritto John McWhorter (uno specialista in linguistica della Columbia University), «la retorica “casual” di Mr. Trump» fa parte del suo appeal, «parla nel modo in cui un gruppo qualunque di persone parlerebbe al bar e molti di noi si sorprenderebbero nel trovare elementi di quello stile nel nostro eloquio disimpegnato se fosse trascritto».108 Trump è di certo un caso estremo di pubblica volgarità e mancanza di decoro, ma non l’unico.
Nel febbraio 1988 il presidente francese Jacques Chirac, colto da un microfono durante difficili negoziazioni con Margaret Thatcher, fu udito mormorare: «Cos’altro vuole da me questa casalinga? I miei coglioni su un piatto?».109 Nel 1991 Édith Cresson, politica socialista e prima donna a diventare primo ministro in Francia, dichiarò, mentre era a capo del governo, che i giapponesi erano come delle laboriose formiche «gialle» e che l’omosessualità era un problema anglosassone.110
Boris Johnson, che è diventato – tra il divertimento di alcuni e lo sbigottimento di molti – il ministro degli Esteri del Regno Unito nel giugno 2016 (dopo essere stato sindaco di Londra tra il 2008 e il 2016), aveva sviluppato in precedenza la propria perizia diplomatica con l’assimilare Hillary Clinton a «un’infermiera sadica in un ospedale psichiatrico» con «capelli ossigenati e labbra a cuoricino» («Daily Telegraph», 1o novembre 2007), commentando che la regina ama il Commonwealth, in parte perché le fornisce regolarmente folle festanti di «negretti con bandierine […] e sorrisi a forma di fetta di cocomero» («Telegraph», 10 gennaio 2002), e con il comporre una poesia in cui il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan fa sesso con una capra, vincendo così il certamen poetico dello «Spectator» intitolato Poesia offensiva sul presidente Erdoğan:
C’era un giovane ragazzo di Ankara
Che era un gran coglione
Fino a quando se la sposò
Con l’aiuto di una capra
e non si è fermato nemmeno per ringraziare.
Quand’era ancora sindaco di Londra, nel 2015, e rispondendo all’affermazione di Trump secondo cui certe zone della città erano diventate così radicalizzate che la polizia temeva per la propria vita, Johnson disse: «L’unico motivo per il quale non vorrei visitare New York è il rischio reale di incontrare Donald Trump».111 Ma in politica dei principi ci si sbarazza col cambiare dei tempi e, nel 2018, il ministro degli Esteri Boris Johnson accusò il sindaco di Londra Sadiq Khan di mettere «a rischio» la speciale relazione tra il Regno Unito e gli Stati Uniti dopo che Trump aveva cancellato la sua visita di stato a Londra (la sua visita successiva non fu ufficiale).
Nicolas Sarkozy, all’epoca presidente francese, visitando il Salone dell’agricoltura nel febbraio 2008 disse a qualcuno che si era rifiutato di stringergli la mano: «Casse-toi, pauv’ con!» («Vaffanculo povero stronzo!»).112 Silvio Berlusconi ha interi siti web dedicati alle sue gaffe e alle sue volgarità, tanto più degne di nota giacché i politici italiani, prima degli anni Novanta, erano spesso criticati per l’uso di un linguaggio eccessivamente complesso e raffinato. Al parlamento europeo, all’inizio della presidenza di turno dell’Italia (luglio 2003) l’allora presidente del consiglio Berlusconi disse a Martin Schulz, leader della delegazione della SPD, che sarebbe stato «perfetto» nel ruolo del kapò in un film sui campi di concentramento nazisti.113 Nell’aprile 2009 Berlusconi consigliò ai sopravvissuti sfollati del terremoto, costretti a dormire nel rigore invernale abruzzese, di considerarlo come un fine settimana in campeggio. Lo stesso anno cercò di convincere banchieri americani a investire in Italia con una battuta che ovviamente considerava divertente: «Un altro motivo per investire in Italia è che abbiamo bellissime segretarie […] splendide ragazze».114
Berlusconi fu alla fine accusato di evasione fiscale e venne chiesta per lui una pena di 3 anni e 8 mesi di prigione nell’ottobre 2012. Il Tribunale di Milano lo condannò a 4 anni di reclusione, ridotti a uno per via dell'indulto da scontare ai «servizi sociali» come stabilito dalla Corte di appello di Milano nel 2013. Ha subito numerosi altri processi, tra cui quello per aver organizzato l’intercettazione telefonica di un membro dell’opposizione, o quello per aver avuto rapporti a pagamento con una ex prostituta minorenne (da presidente del consiglio). Non sta scontando alcuna detenzione per via dei numerosi appelli e, dati gli incredibili ritardi della giustizia italiana e i tempi previsti per la prescrizione, le possibilità che entri mai in una cella sono poche. In tutto è stato coinvolto in più di trenta processi, ma è stato condannato solo in uno.115
In Italia il campione di linguaggio volgare era Umberto Bossi, leader della Lega Nord, prima antimeridionale, poi xenofoba e islamofoba (che nel 2017, sotto la leadership del successore di Bossi, l’ancora più di destra Matteo Salvini, ha eliminato il «Nord» dalla bandiera per unire al partito gli xenofobi e islamofobi meridionali). Nei comizi Bossi urlava «Noi della Lega ce l’abbiamo duro»; o «Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo».116 Al suo famigerato razzismo aggiungeva una pronunciata omofobia: «Quanti partiti democratici hanno omosessuali dichiarati, cioè donnicciole, nei loro posti chiave?».117
Nel 2002, in Polonia, il demagogo euroscettico Andrzej Lepper, che divenne in seguito vice primo ministro nel 2006 (con Jarosław Kaczyński primo ministro e presidente suo fratello gemello Lech), disse: «Quando saranno nell’Unione Europea, i polacchi saranno schiavi. Puliranno le natiche delle donne tedesche o spazzeranno le strade…».118 Lepper, già accusato di calunnia, nel 2010 fu anche incriminato per molestie sessuali e giudicato colpevole. Ciò non gli impedì di essere insignito di un dottorato honoris causa da un’«università» privata ucraina, la Interregional Academy of Personnel Management di Kiev (dove anche il leader del Ku Klux Klan David Duke ha ottenuto un falso PhD in storia), che promuove attivamente l’antisemitismo e incolpa gli ebrei per la devastante carestia degli anni 1932-1933. Lepper si è tolto la vita nel 2011.
Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine, ha dato del «figlio di puttana» a Obama nel 2016. Ha utilizzato lo stesso epiteto per Philip Goldberg, ambasciatore degli Stati Uniti nelle Filippine, e per papa Francesco, la cui visita aveva causato intasamenti nel traffico di Manila nel 2015.119 Una volta attenuata la sua guerra alla droga per soddisfare «le anime belle» in Occidente (dopo che in migliaia erano stati uccisi dalla polizia e da assalitori ignoti) si scagliò contro le potenze occidentali: «Figli di puttana […] interferite nei nostri affari perché siamo poveri. Stronzi. La fase colonialista è passata. Non ci rompete i coglioni». Nel febbraio 2018 Duterte, parlando ai soldati, disse loro di sparare «nella vagina» alle donne ribelli perché, senza vagina, «le donne sono inutili».120 Come era prevedibile, l’Alto commissario per i diritti umani dell’ONU ha dichiarato che Duterte «necessita di un esame psichiatrico».121 Altrettanto prevedibilmente Duterte si è ritirato dalla Corte penale internazionale.
In Asia Duterte ha alcuni rivali, benché nessuno altrettanto rozzo. In Pakistan, per esempio, Fakir S. Aijazuddin, uno dei più brillanti commentatori del paese, nella sua rubrica sul quotidiano in lingua inglese «Dawn», ha scritto sconsolato:
Islamabad sta gradualmente degenerando dalle facezie alle comiche, e ora nella farsa […]. Al centro del palcoscenico un burattino di primo ministro [Shahid Khaqan Abbasi] che deve periodicamente visitare il proprio burattinaio, un primo ministro destituito [Nawaz Sharif] per farsi tirare i fili. […] Ai margini un ministro delle Finanze [Ishaq Dar] sotto accusa per illeciti finanziari. Eppure siede spensierato alle riunioni del governo, lasciando la propria lercia reputazione fuori, nel guardaroba.122
Almeno il religioso islamico Khadim Hussain Rizvi, presidente di Tehreek-e-Labaik, partito fondato nel 2015, ha dichiarato che non tollererà alcun «cattivo linguaggio». Allude al dileggiare il profeta Maometto, un’offesa criminale in Pakistan, punibile con la morte.
Nel 1999 Vladimir Putin spiegò le proprie vedute sull’antiterrorismo parlando di inseguimento dei terroristi nei bagni pubblici. «Li rincorreremo dappertutto. Se sono in un aeroporto, allora in un aeroporto. E se li troviamo, perdonate, li butteremo giù per la toilette. E questo chiuderà la faccenda.» Discutendo con l’allora primo ministro Ehud Olmert il caso del presidente israeliano Moshe Katsav, accusato di stupro e molestie sessuali (e che in seguito aveva ricevuto due condanne per stupro), Putin esclamò: «Si è rivelato un uomo forte, ha violentato dieci donne. Chi se lo sarebbe mai aspettato, ha sorpreso tutti, tutti lo invidiamo!».123
Il suo rivale principale, Aleksej Naval’nyj, un nazionalista etnico russo in seguito lodato in Occidente per essere anti-Putin, fu espulso dal partito liberale Jabloko nel 2007 per xenofobia e (durante il conflitto con la Georgia, nel 2008) diede dei «roditori» ai georgiani.124
Altrove il comportamento è semplicemente volgare: sir Michael Fallon, ministro della Difesa britannico, disse alla collega Andrea Leadsom (a un meeting della commissione parlamentare del Tesoro tra il 2010 e il 2012) che si lamentava di avere le mani fredde: «So dove potresti metterle per scaldarle».125
Nel 2002, la deputata conservatrice Ann Winterton fu espulsa dal governo ombra per aver raccontato, in pubblico, una «barzelletta» razzista sui pakistani. Due anni dopo le fu tolta la carica di capogruppo per aver detto (alludendo alla morte recente di ventitré cinesi raccoglitori di molluschi a Morecambe Bay) un’altra disgustosa storiella razzista: «Uno squalo dice a un altro di essere stufo di continuare a inseguire tonni e l’altro gli dice: “Perché non andiamo a farci un cinese a Morecambe Bay?”». In seguito si scoprì che lei e il marito, anche lui deputato, avevano «ritoccato» le proprie spese parlamentari. Nel 2005 dichiarò di essere grata del fatto che il Regno Unito fosse un «paese prevalentemente bianco e cristiano». Per fortuna, in seguito allo scandalo delle spese parlamentari, non è più al parlamento.126
Questo cattivo gusto e queste volgarità sono in perfetta sintonia con i nostri tempi morbosi. Un tempo i profumi si chiamavano, in modo discreto, N. 5 (Chanel, 1921) o Gentleman (colonia per uomo Givenchy, 1969). Nel settembre 2017 lo stilista (e regista) americano Tom Ford ha lanciato una fragranza unisex dal nome accattivante: Fucking Fabulous. Il profumo costa 310 dollari per 50 ml e il nome ha ovviamente attratto molta più pubblicità che se si fosse chiamato Ford N. 6.
Peraltro, gli slogan elettorali sono sempre stati insulsi. Nel 1952 lo slogan per Dwight Eisenhower era «I like Ike»; nel 1964 Barry Goldwater, il candidato americano di destra, si inventò «In your Heart you Know he’s Right» (Nel tuo cuore lo sai che ha ragione), copiato da Michael Howard alle elezioni britanniche del 2005 con l’inquietante «Pensate anche voi quello che pensiamo noi?» (sottotesto: che ci siano troppi immigrati); vi furono poi il piatto «Nixon’s the One» alle presidenziali statunitensi del 1968; «Putting People First» (Bill Clinton 1992); «Yes, America Can!» (George W. Bush 2004) e il simile ma meglio noto «Yes, We Can!» (Barack Obama 2008).
François Mitterrand, nel 1981, aveva l’insignificante «La force tranquille»; Nicolas Sarkozy nel 2007 optò per un vagamente socialista «Ensemble tout devient possible» (Insieme tutto diventa possibile). Berlusconi sfodera regolarmente l’attraente «Meno tasse per tutti», ma si è inventato anche, nel 2001, «Un presidente operaio per cambiare l’Italia», il che, detto da uno degli uomini più ricchi d’Italia, dovrebbe fargli vincere il premio per la migliore sfacciataggine dell’anno. In Spagna, nel 2015, il conservatore Partito popolare produsse l’enigmatico «España en serio» (Spagna sul serio) mentre Podemos, di sinistra, propose il banale «Un país contigo» (Un paese con te) così come «Sí se puede» (Yes, we can), preso in prestito da Obama (anche Podemos vuol dire «possiamo»), mentre il socialista PSOE optò per «Vota por un futuro para la mayoría» (Vota per un futuro per la maggioranza – forse il contrario di votare per il passato per una minoranza?). Nella sinistra italiana il vuoto d’immaginazione fu palese quando, come si è già detto, Walter Veltroni, incapace di controllare la sua infatuazione per gli Stati Uniti, propose, in inglese, nel 2008, «I care» e «Yes, We Can», nella perplessità dei suoi seguaci meno anglofoni. Tutto questo fa sembrare il «Let’s make America great again» di Trump quasi shakespeariano. Simili slogan politici, ispirati dalla moderna pubblicità, trattano gli elettori con disprezzo mentre fingono di assecondare la gente. Chi dispera della politica non ha torto.
La cosiddetta «estrema» sinistra. Il caso Corbyn
L’avanzata dell’estrema destra non è stata accompagnata dall’avanzata dell’«estrema» sinistra. Oggi anche l’espressione «estrema sinistra» è stata allargata per includere posizioni che tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso facevano parte della socialdemocrazia tout court. Pur comportandosi come se fosse nuovo, gran parte del linguaggio di questa nuova sinistra è vecchio. Usando le tecniche del populismo afferma di parlare per conto della stragrande maggioranza, il 99% contro lo spregevole 1%, presumibilmente il più ricco 1%, come se quel 99% non fosse diviso per classe, genere, politica, religione, istruzione, localismi, età eccetera. L’1% sta per ciò che si usava chiamare «classe dominante», le «classi agiate», i «ricchi», le «élite», il «sistema», «l’establishment» e, in Italia (e Spagna) «la casta».127
Un tempo i comunisti e la sinistra assortita cercavano di unire tutti contro un non ben definito «capitalismo monopolista». In Francia, negli anni Trenta, i partiti del Fronte popolare, radicali, socialisti e comunisti, esortavano a contrastare insieme le «Deux Cents Familles», che, affermavano, governavano e possedevano il paese. Populismo sarà anche la parola in voga per descrivere la destra e, occasionalmente, la sinistra estreme, ma il populismo è tutt’altro che nuovo: cinquant’anni fa, due importanti politologi, Ghita Ionescu ed Ernest Gellner, avevano annunciato che «uno spettro si aggira per il mondo: il populismo».128
La cosiddetta «sinistra estrema» (cosiddetta perché quarant’anni fa sarebbe stata chiamata, più semplicemente «la sinistra») che includerebbe SYRIZA in Grecia, Bernie Sanders negli Stati Uniti, Podemos in Spagna, il Bloco de Esquerda in Portogallo, La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, e Jeremy Corbyn, ha avuto un relativo successo negli ultimi dieci anni, ma è andata al potere solo in Grecia, e quello della Grecia era un caso speciale. In Portogallo il Bloco de Esquerda guidato da Catarina Martins, un’attrice con un dottorato di ricerca entrata in politica, ha ottenuto il 10,2% nel 2015, mentre i comunisti l’8,3%. In altre parole, almeno un elettore portoghese su cinque ha votato per la sinistra «estrema». I socialisti hanno formato un governo con i tre partiti di sinistra andando dunque controcorrente rispetto alla socialdemocrazia tradizionale. Pur essendo presto per dare un giudizio ponderato, le prime mosse sono state più che simboliche: aumento del salario minimo, eliminazione di alcuni balzelli sulla salute, inversione della privatizzazione della compagnia aerea di bandiera TAP, maggiore accesso ai sussidi sociali, aumento dei salari dei dipendenti pubblici, riduzione della tassa sul reddito per le fasce reddituali basse, ritorno alla settimana di trentacinque ore per i funzionari pubblici e approvazione dell’adozione da parte delle coppie gay.129
Nel 2016, in Spagna, Podemos (il nome completo è Unidos Podemos) ha ricevuto il 21,2% dei voti mentre il PSOE, il Partito socialista ufficiale, ha ottenuto il 22,63%. Insieme, PSOE e Podemos avrebbero potuto superare il vittorioso Partido Popular (PP), di centrodestra, che ha preso il 33%. Podemos deve il proprio successo alla sua opposizione, che ha origine nel movimento anti-austerità degli indignados sorto nel 2011, ma trae forza anche dall’elevata disoccupazione, dagli scandali di corruzione e dalla consapevolezza che qualcosa è andato storto nel processo d’integrazione della Spagna nell’economia globale. Il leader di Podemos, Pablo Iglesias, è quasi sicuro che sia stata la débâcle dell’eurozona a fornire al suo partito l’opportunità di emergere.130
Il fattore chiave nell’emergere di Podemos, come per altri movimenti simili, è il vantaggio della novità, immacolata, capace di denunciare gli scandali per corruzione che hanno compromesso i partiti tradizionali, mentre la disoccupazione aumenta a un tasso più alto che altrove in Europa occidentale e mentre i partiti al governo insistono con un’impopolare politica di austerità. Non è chiaro a favore di cosa sia esattamente Podemos, ed è un vantaggio in simili circostanze. Nel giugno 2016, appena prima delle elezioni, Pablo Iglesias, parlando a Madrid nell’opulento Hotel Ritz (con accanto il comunista Alberto Garzòn) davanti a una platea di imprenditori, presentò Podemos come «la nueva socialdemocracia», lodò Marx ed Engels, ma poi aggiunse che «se c’è una parola che descrive la nostra candidatura è “patriottica”».131 Com’è spesso vero, il contraddirsi da soli è inevitabile, particolarmente nel caso di «partiti-movimento» d’opposizione.
Podemos, SYRIZA, il portoghese Bloco de Esquerda ma anche movimenti come l’italiano Movimento 5 Stelle potrebbero tutti essere etichettati come «partiti-movimento» anti-austerity e anti-establishment.132
Ma non c’è bisogno di un partito nuovo per sfidare la classe dirigente: Jeremy Corbyn e Bernie Sanders (come Donald Trump) hanno lavorato con i partiti esistenti, in buona parte perché un sistema bipartitico molto trincerato e sostenuto da un particolare sistema elettorale rende difficile a una terza forza trovare uno spazio nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Così Bernie Sanders, in origine un senatore indipendente del Vermont che si autodefinisce un socialista democratico (in un paese dove «socialismo» è una parolaccia), ha cercato di ottenere la candidatura a presidente nelle primarie dei democratici, un partito in cui era entrato da poco. Ha fatto assai bene, ottenendo, tra i democratici, il 43% contro il 55% di Hillary Clinton, un segno del risentimento contro la Clinton, ampiamente considerata il candidato della classe dirigente. Ha impostato la sua campagna su un programma che, sotto l’inevitabile retorica populista («abbasso i ricchi»), aveva scopi socialdemocratici abbastanza moderati (salario minimo, un servizio sanitario nazionale eccetera).
In Francia, alla prima tornata delle elezioni presidenziali del 2017, l’«estrema sinistra» di Jean-Luc Mélenchon ha ricevuto il 19,58%, sbaragliando il candidato socialista ufficiale Benoît Hamon, che ha ottenuto solo il 6,3%. Se solo metà dei voti di Hamon fossero andati a Mélenchon, questi avrebbe ottenuto più voti di Marine Le Pen (che ha preso il 21,3%) e il secondo turno delle presidenziali sarebbe stato fra lui ed Emmanuel Macron. È improbabile che in simili circostanze Macron avrebbe vinto così nettamente come ha fatto contro Marine Le Pen.
Il caso di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna è abbastanza speciale, poiché Corbyn lottava contro la classe dirigente del proprio partito quasi quanto contro i conservatori. La storia merita di essere raccontata un po’ più approfonditamente. Nel 2015, con l’avvicinarsi delle elezioni, si riteneva, diffusamente ed erroneamente, che i conservatori non sarebbero riusciti ancora una volta a ottenere una chiara maggioranza parlamentare e avrebbero dovuto appoggiarsi ai liberaldemocratici, come avevano fatto dal 2010. Invece riuscirono a ottenere una maggioranza autonoma.
A perdere davvero furono i liberali, severamente puniti per aver partecipato a un governo che aveva seguito chiare politiche di austerity. Tanto erano stati ingenui riguardo ai principi strategici basilari delle politiche di coalizione da non ottenere, né cercare, alcuna delle massime cariche dello stato: il ministero delle Finanze, quello dell’Interno o quello degli Esteri. Il loro leader, l’inadeguato Nick Clegg, si accontentò di diventare il «vice primo ministro», una carica ornamentale la cui mancanza di poteri fu ampiamente dimostrata dal fatto che il suo predecessore in quel ruolo era stato John Prescott, un politico di seconda categoria e pieno di sé. Clegg (oggi «sir» Nick Clegg) nel 2015 fu ben descritto dalla comica e giornalista Rosie Fletcher (anche se un po’ crudelmente) come «un omino nascosto in un cubicolo che finge di essere più potente di quanto non sia. Un inutile pallonaro ripetutamente smascherato da un cagnolino. Un imbroglione. Un reo confesso impostore».133 Nel 2010 i liberali avevano il 23% dei voti, nel 2015 sono scesi al 7,9% e hanno ottenuto solo otto seggi invece dei precedenti cinquantasette. Clegg ha dato le dimissioni. Il suo successore, Tim Farron, era un cristiano evangelico di modesta intelligenza e con opinioni peculiari sulla moralità sessuale. Non è durato a lungo.
Ma le elezioni del 2015 hanno visto anche la chiara sconfitta del Partito laburista guidato da Ed Miliband, che ha rassegnato immediatamente le dimissioni. Il crollo del voto Labour non va attribuito tanto ai risultati in Inghilterra, quanto alla perdita di quasi tutti i suoi seggi scozzesi passati allo Scottish National Party, che ne ha ottenuti cinquantasei dei cinquantanove disponibili. Il Partito laburista si è ritrovato ridotto a un partito prevalentemente inglese e gallese. Senza i seggi scozzesi è difficile che vinca altre elezioni.
Si aprì così la battaglia per il successore di Ed Miliband. I candidati erano quattro. Uno di loro era Jeremy Corbyn, un eterno dissidente, avviato verso i settant’anni, senza particolari ambizioni personali. Gli altri tre erano abbastanza scialbi: Andy Burnham, che cercava di collocarsi leggermente a sinistra (benché nel 2010 ancora approvasse la «decisione iniziale» di intervenire in Iraq, dal momento che «aveva dato a una ventina di milioni di persone in Iraq la speranza di una vita migliore, una verità che non si può proprio ignorare»);134 Yvette Cooper, la migliore dei tre, il cui manifesto per la leadership, pur senza troppa originalità, spuntava le caselle giuste, come aumentare i bassi salari, proteggere il clima, creare più occupazione, costruire più case, aiutare i profughi e così via; infine Liz Kendall, che affermava di essere la candidata «modernizzatrice» ma era ampiamente vista come una «blairiana», un pessimo viatico in molti ambienti, donde il suo continuo ripetere di non esserlo. Kendall ricevette il supporto, tra gli altri, di Alistair Darling, ex ministro delle Finanze, in un lungo articolo del «Guardian» in cui, tranne i soliti cliché sul cambiamento, la modernità e il realismo, di lei si parlava appena: «Dunque voterò per Liz Kendall, perché penso riconosca l’ordine di grandezza della sfida che ci aspetta. È una realista, ma comprende anche che se non saremo il partito del cambiamento potremmo facilmente diventare un partito del passato».135
Questi tre candidati avevano un unico messaggio: il Labour ha bisogno di un leader eleggibile (una qualità che ovviamente era mancata a Ed Miliband nel 2015, come anche a Gordon Brown nel 2010, a Neil Kinnock nel 1987 e nel 1992, a Michael Foot nel 1983, a James Callaghan nel 1979, a Harold Wilson nel 1970, a Hugh Gaitskell nel 1959 e a Clement Attlee nel 1951 e nel 1955). Non c’era il più vago sentore di cosa fosse andato veramente storto nell’opposizione ai Tory di Cameron nei cinque anni precedenti, o se Kendall, Cooper e Burnham fossero effettivamente eleggibili. Per molti membri del partito erano noiosi e stanchi: nessuno pensava potessero vincere. Si presentarono con il solito mantra pro-business senza sfidare l’austerity e si astennero sul Welfare Reform Bill, che parve come un tradimento eccessivo.
Corbyn era ovviamente il candidato anti-classe dirigente, l’unico dei quattro a non avere mai ricoperto incarichi, al governo o nel governo ombra. Tutta la sua vita politica era passata senza che cercasse avanzamenti o cariche. Aveva una lunga storia di riottosità alla disciplina di partito, di avversione alla guerra e alle cosiddette armi nucleari «indipendenti» britanniche. Era anche repubblicano in un paese a stragrande maggioranza monarchico.
All’epoca non era ancora chiaro che questa mancanza di ambizione si sarebbe rivelata uno dei suoi massimi punti di forza. Era ai margini: uno sciocco per i più e un uomo di principi per pochi. Al punto che fu appena in grado di ottenere i trentacinque voti dai colleghi deputati necessari per entrare nella rosa dei candidati. Tra i firmatari del modulo delle candidature per Corbyn ci fu chi lo faceva per compassione e per zittire le lagne della sinistra, come l’ex ministro degli Esteri laburista Margaret Beckett. Che in seguito si pentì, dicendo di essere stata un’«idiota».136 La maggioranza dei deputati laburisti e quella dei commentatori erano talmente fuori dal mondo da non aver mai pensato che Corbyn potesse farcela. Invece vinse, sbaragliando i suoi tre rivali al primo turno con più voti di tutti loro messi insieme: il 59,5%. Avrebbe vinto anche senza il sostegno di coloro che, secondo le nuove regole interne, avevano pagato 3 sterline per avere il diritto di voto, giacché si era aggiudicato comunque il 49,6% dei votanti di diritto.
Nessun leader di partito aveva mai ottenuto un consenso così ampio. E nessun leader di partito aveva avuto un sostegno altrettanto scarso da parte del gruppo parlamentare. O da parte dei media: secondo uno studio universitario condotto dal dipartimento Media e comunicazione della London School of Economics, durante i suoi primi due mesi da leader dell’opposizione gran parte della stampa ha ignorato o riportato erroneamente le sue opinioni.137
È stato rappresentato ingiustamente, spesso negandogli la parola, sistematicamente trattato con disprezzo e scherno. È stato ripetutamente associato a organizzazioni terroristiche come l’IRA, Hamas e Hezbollah (soprattutto dal «Sun» e nel «Daily Express»). Abbastanza tipico il profilo di Corbyn tratteggiato nel «rispettabile» quotidiano «Daily Telegraph» dall’opinionista di destra Allison Pearson, la quale, solo pochi giorni dopo la sua elezione, lo descrisse come «un tipo barbuto abbastanza noioso che per hobby fotografa tombini, non beve alcol né mangia carne e indossa pantaloni corti abbinati a lunghi calzini scuri che mostrano lunghi stinchi inglesi bianchi e pelosi».138
Martin Amis, un romanziere di talento che appartiene alla patetica categoria di personalità che provano il disperato bisogno di mantenersi sotto i riflettori snocciolando opinioni oltraggiose e rivelando spesso un’ossessione paranoica per l’islam, così pontificava su Corbyn: «È mal istruito […] non ha humour […] quest’uomo senza humour è una barzelletta, una che non capirà mai. […] Tutto quello che dice Corbyn, senza eccezioni, è sbiadito e di terza mano […] del tutto incapace di cogliere il carattere nazionale, un’abissale mancanza per ogni uomo politico, figuriamoci per un portabandiera».139 Ma il premio per i commenti più ridicoli va senz’altro al «Sunday Express», il cui titolo SVELATO: Il mostro malvagio che tormenta il passato di Jeremy Corbyn… svelava appunto che, oltre un secolo e mezzo fa, un antenato di Corbyn gestiva un ospizio per i poveri nell’Inghilterra vittoriana.140
Mentre le elezioni per la leadership procedevano, Tony Blair riemerse dalle remunerative consulenze ai dittatori per darne ai sostenitori del Labour: «Se il vostro cuore è con Jeremy Corbyn, fatevi un trapianto» («The Guardian», 22 luglio 2015); Peter Mandelson, con una sicumera impermeabile agli errori del passato, spiegava che «il Partito laburista è in pericolo mortale» («Financial Times», 27 agosto 2015); l’ineleggibile Gordon Brown spronò il Labour «a non essere il partito della protesta scegliendo Jeremy Corbyn» («The Guardian», 17 agosto 2015).141 Di bile contro Corbyn abbondava particolarmente il «Guardian». Sconsolato Jonathan Freedland: «La tribù Corbyn tiene all’identità, non al potere» («The Guardian», 24 luglio 2015); beffarda Suzanne Moore: «Il Labour di Corbyn è un partito senza argomenti, guidato da un ribelle con una causa» («The Guardian», 16 settembre 2015); preoccupata Anne Perkins: «Iscritti al Partito laburista, per favore pensateci prima di votare per Jeremy Corbyn» («The Guardian», 22 luglio 2015). Andrew Rawnsley avvertiva che Corbyn era un «sogno di candidato» per i conservatori, aggiungendo la settimana dopo che «il Labour trangugia un fatale cocktail di fatalismo, rabbia e fantasie». E poi, baldanzosamente, «il Labour dovrebbe andare avanti, fare un regalo a Cameron, scegliere Jeremy Corbyn e schierarlo come proprio leader alle prossime elezioni, cosicché la tesi che il Labour perde perché non è abbastanza di sinistra è finalmente messa alla prova fino alla distruzione che merita così ampiamente» («Observer», 19 luglio e 26 luglio 2015). A essere distrutta fu la credibilità di Rawnsley come acuto commentatore (che però ancora commenta). Martin Kettle, un altro «acuto» commentatore del «Guardian», dichiarò che «la nomina di Jeremy Corbyn ha aiutato Burnham perché, nella corsa, significa che non può essere definito tanto facilmente come quello di sinistra» (presumendo dunque che quelli di sinistra non possano vincere) e che Liz Kendall «ha dimostrato che c’è un corposo sostegno per un candidato blairiano».142 Il «corposo sostegno» di Kendall ammontava al 4,5%. Il fatto che Kettle si fosse sbagliato non gli ha impedito, due anni più tardi, di dispensare consigli non richiesti a Corbyn: «Il mio consiglio a Jeremy Corbyn: creare un Labour con tutti i talenti».143
Caroline Wheeler, allora caporedattrice politica del «Sunday Express», non nota per l’acume politico o per l’accuratezza delle sue previsioni, fece un titolo da prima pagina: Con Corbyn leader… CIAO CIAO LABOUR.144
Nel «Daily Telegraph» Allister Heath (futuro direttore di quello stesso giornale), nato in Francia e trasferitosi in Gran Bretagna a diciassette anni, pontificava: «Una cosa è chiara: Jeremy Corbyn non capisce il popolo britannico» (30 settembre 2015).
In realtà nessuno «capisce» il popolo britannico, giacché dovrebbe risultare ovvio anche a un opinionista del «Telegraph» che «il popolo britannico» non è un blocco monolitico (una delle ragioni principali per cui ci sono le elezioni). Il povero David Cameron pensava di «capirlo», da cui il referendum sull’Europa, che ha perso. Lo pensava anche Theresa May: per questa ragione ha convocato le elezioni anticipate nel giugno 2017 presumendo di ottenere una maggioranza gigantesca. Nessuno «capisce» il «popolo britannico». I commentatori si basano semplicemente su agenzie di sondaggi che spesso, anche se non sempre, si sbagliano.
Il 23 giugno 2016, meno del 52% dei votanti ha scelto leave, cioè l’uscita dall’UE (con un’affluenza del 72%, perciò di tutto il «popolo britannico» quelli a favore del leave sono stati il 37,46%). Il Partito laburista aveva fatto una campagna a favore del remain, ma aveva tenuto un profilo basso, a eccezione di deputati come Kate Hoey, nettamente a favore di Brexit. Prevedibilmente, Corbyn fu criticato per essere stato tiepido circa il rimanere nell’UE, anche se nei discorsi precedenti il referendum aveva dichiarato che «noi, il Partito laburista, siamo a stragrande maggioranza per restare, perché crediamo che l’Unione Europea abbia portato investimenti, occupazione e protezione per i lavoratori, i consumatori e l’ambiente».145 Questo fu davvero uno dei pochi commenti positivi sull’UE durante l’intera campagna, mentre il grosso dei remainer preferiva aggrapparsi al cosiddetto «Project Fear» (Progetto paura), ponendo l’accento sulle disastrose conseguenze dell’abbandono dell’UE. Alla fine della campagna referendaria, i passaggi sui media di Corbyn superavano di sei volte quelli di Boris Johnson, ma la BBC e altri media dedicarono molto più tempo a quest’ultimo che a Corbyn. Essere dei buffoni aiuta. Tanto che nel primo mese di campagna il Partito laburista aveva attratto un mero 6% di copertura, mentre i conservatori ne arraffavano il 32%.146
Alan Johnson, un critico di Corbyn alla guida della campagna «Labour In for Britain», fu inefficace quanto lo era stato in qualità di ministro ombra delle Finanze sotto Ed Miliband. Non ebbe nemmeno grande impatto nel suo collegio di Hull: la città votò al 67% per il leave. Naturalmente Alan Johnson incolpò Corbyn di questo.
Qualche giorno dopo quello che si era rivelato come il peggiore errore mai compiuto da un governo conservatore, cioè convocare un referendum e perderlo, il gruppo parlamentare laburista, invece di capitalizzare sulla sconfitta dei conservatori e le dimissioni di David Cameron, in quella che deve essere classificata come una delle mosse meno intelligenti fatte da qualsiasi partito ovunque in Europa (quando il nemico è a terra lo si finisce, non si perde tempo in autolesionismi), presentò una mozione di sfiducia contro la leadership di Corbyn. Questa mozione ebbe il sostegno di un imponente numero di deputati (172 su 212) così come della maggior parte del governo ombra. Come scrissero Tristram Hunt e Alan Lockey: «La faziosità intestina che aveva accolto la sua [di Corbyn] elezione getta ombra su un partito in cui tutte le correnti si trovano in una sorta di catatonia intellettuale».147
Fu la loro scelta, per dirla con Milton che parlava per conto di Dio: «Ognun che stette, / Libero stette, e libero pur cadde / Ognun che cadde» («Freely they stood who stood, and fell who fell»).148
Tuttavia, la catatonia era assai più prevalente tra gli angosciati anti-Corbyn. Un gruppo parlamentare con un briciolo d’intelligenza collettiva avrebbe indagato su come mai ci fosse un simile enorme divario tra loro e gli attivisti del partito che ritenevano di rappresentare. Ma fu un briciolo introvabile. Corbyn rifiutò di dare le dimissioni in quanto eletto dagli attivisti del partito e non dai deputati laburisti. Owen Smith, allora ignoto e ignoto da allora, sfidò Corbyn per la leadership sulla base di un considerevole sostegno in parlamento – in mancanza di meglio –, ma poco al di fuori. Corbyn si sbarazzò della sfida ottenendo almeno il 62% dei voti e fu rieletto leader (settembre 2016), consegnando Owen Smith a un meritato oblio. Ci furono più dimissioni, più problemi alle elezioni locali (400 membri dei council non furono rieletti alle amministrative del 2017), e fu persa un’importante elezione suppletiva (Copeland), sebbene il Labour mantenesse il Galles e vincesse la carica di sindaco di Londra. Eppure le proteste contro l’ineleggibile Corbyn continuarono. Nulla di tutto questo era accaduto quando, con Gordon Brown primo ministro, il Labour aveva ottenuto il peggior risultato in quarant’anni alle amministrative del maggio 2008, finendo al terzo posto. Alle elezioni europee del 2009, ancora sotto Gordon Brown, il Labour aveva ottenuto soltanto il 16% dei voti finendo al terzo posto dietro i conservatori e l’UKIP. Eppure il dissenso interno contro Brown fu minimo. La maggior parte del gruppo parlamentare del partito era rimasta quieta, le loro teste, come ostriche, sepolte nella sabbia, per levarsi solo cinque anni più tardi contro Jeremy Corbyn. Ma se le teste sono prive d’intelligenza politica, non importa che siano sotto o sopra la sabbia.
L’ipotesi generale era che, con il Labour ridotto così, i conservatori avrebbero vinto. Questo indusse un’inizialmente riluttante Theresa May, nel pieno dei negoziati su Brexit, a convocare, inaspettatamente, le elezioni anticipate, presumendo di vincere con un’enorme maggioranza così da offrire al paese «un governo forte e stabile». Non fu considerato un grosso azzardo, giacché la maggior parte dei sondaggi le attribuiva una maggioranza sicura. I sondaggisti sbagliarono di molto. Il più ridicolo fu lord Ashcroft il quale, alla vigilia delle elezioni, spiegava fiducioso che il «modello Ashcroft» aveva calcolato che i Tory avrebbero avuto una maggioranza potenziale di almeno sessantaquattro seggi.149
Ma fu una scommessa che Theresa May perse, assieme alla sua maggioranza. Temendo Corbyn (a differenza dei media abbastanza disinformati, come della maggioranza dello sprovveduto gruppo parlamentare del Partito laburista) aveva riposizionato il suo partito a sinistra (come il «New» Labour si era a suo tempo ricollocato a destra in seguito alle vittorie della Thatcher). Il manifesto elettorale del Partito conservatore «Forward, Together. Our Plan for a Stronger Britain and a Prosperous Future» (Avanti, insieme. Il nostro piano per una Gran Bretagna più forte e un prospero futuro) stupiva letteralmente per la nettezza con cui si sbarazzava di tutto quello che la Thatcher aveva sostenuto: i conservatori (ora) «non credevano in un libero mercato senza freni»; rigettavano «il culto dell’individualismo egoista»; aborrivano «le divisioni sociali, l’ingiustizia, l’iniquità e la diseguaglianza»; cercavano la rappresentanza operaia nei consigli di amministrazione delle aziende; avrebbero assicurato che i diritti dei «lavoratori» conferiti ai cittadini britannici dall’appartenenza all’UE «sarebbero rimasti». I conservatori ora affermavano che il servizio pubblico era «una nobile vocazione, che celebreremo»; denunciavano le ingiustizie sociali sopportate da chi aveva frequentato scuole pubbliche, da chi è di estrazione operaia, da chi è nero (trattati dal sistema giudiziario criminale più duramente dei bianchi), da quelli che sono nati poveri (perché muoiono «in media nove anni prima degli altri») e dalle donne («perché guadagnano meno degli uomini») eccetera.150
Suggerendo apparentemente che le politiche di austerity perseguite da George Osborne (che lei aveva costretto alle dimissioni) fossero state troppo dure, Theresa May sfidò anche indirettamente il vecchio mantra del «New» Labour di Blair, cioè che l’austerity fosse l’unica alternativa o che il Labour avrebbe dovuto presentare una versione più gentile di thatcherismo.
L’anno precedente, al congresso del Partito conservatore (5 ottobre 2016), Theresa May, insediatasi da poco come premier, si era già prodotta in un nuovo populismo: «Oggi nella nostra società vediamo divisioni e ingiustizie ovunque. […] Tra la ricchezza di Londra e il resto del paese. Ma forse, soprattutto, tra i ricchi, chi ha successo, i potenti e i loro concittadini. […] Ma oggi, troppe persone in posizioni di potere si comportano come se avessero più in comune con le élite internazionali che con l’uomo della strada, le persone che assumono e quelle davanti alle quali passano per la via […] ma se ti credi un cittadino del mondo, sei un cittadino di nessun luogo. Non capisci cosa significa la parola “cittadinanza”».151 Compresi nella categoria «cittadini di nessun luogo» (in un’altra epoca avrebbe anche potuto usare l’espressione «cosmopoliti sradicati») c’erano «avvocati di sinistra dei diritti umani» che «tormentano i più coraggiosi fra i coraggiosi» (cioè i soldati reduci). Se Jeremy Corbyn avesse usato un simile linguaggio sarebbe stato accusato da molti nel suo partito di essere antisemita. Una docente universitaria, scrivendo sulla «London Review of Books», dichiarava di essersi «sorpresa che un discorso che condannava genericamente le élite finanziarie, gli avvocati dei diritti umani e le persone senza nazionalità non fosse interpretato come antisemita».152
Del tutto scollegati da questi sviluppi, gli oppositori di Corbyn all’interno del gruppo parlamentare del Partito laburista dichiararono a gran voce che Corbyn era un residuo degli anni Sessanta. Parevano accettare che non ci fossero alternative al thatcherismo, che non fosse solo la Lady a non tornare indietro, ma tutto il paese. Questo significava rinunciare a tutte le idee radicali, a qualsiasi innovazione, a tutti gli ideali di giustizia sociale, spesso proprio le ragioni che li avevano avvicinati alla politica. L’unica politica valida era una variante del thatcherismo o, per coniare una nuova espressione, un thatcherismo dal volto umano. Nella retorica, se non nei fatti, il gruppo parlamentare del Partito laburista si trovò esso stesso superato a sinistra dai conservatori.
Nel suo manifesto del 2017, Theresa May non aveva nulla da dire sull’ambiente. Sei mesi dopo, grazie a un documentario televisivo girato dal celebre David Attenborough – beniamino del pubblico britannico – scoprì un nuovo devastante nemico: i rifiuti di plastica erano ora «una delle grandi piaghe ambientali del nostro tempo».153 Come mai allora non era citata nel manifesto? Perché non aveva ancora visto il documentario alla TV? Era un modo di fare politica navigando a vista.
La svolta a sinistra dei conservatori non ingannò nessuno (i manifesti elettorali li leggono comunque in pochi). Theresa May perse la sua maggioranza. L’impegno di avere i lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende fu abbandonato rapidamente. La Social Mobility Commission, istituita dalla coalizione guidata dai conservatori nel 2012 per monitorare i progressi nel migliorare la mobilità sociale, diede le dimissioni a sei mesi dalle elezioni appellandosi alla «mancanza di leadership politica».
La svolta elettorale del Labour nel 2017 (più 9,6%), pur non sufficiente ad assicurare la vittoria, è stata la più consistente di ogni precedente elezione dal 1945. Il Labour ha avuto successo in particolare tra i giovani elettori, sgomenti del voto per Brexit dell’anno precedente. Corbyn ha conquistato il sostegno di due terzi degli elettori sotto i ventiquattro anni di età, e oltre metà di quelli tra i venticinque e i trentaquattro anni, lasciando i conservatori in testa solo tra gli elettori dai quarantacinque anni in su. Tra i giovani diciotto-trentaquattrenni, il Labour era davanti in tutte le classi sociali (al 70% tra i lavoratori non qualificati, semiqualificati e i disoccupati, fasce in cui tuttavia l’affluenza era stata bassa).154 Può anche aver influito il fatto che i giovani fossero la prima generazione del dopoguerra a essere più povera di quella precedente, e su molti gravavano enormi debiti per le tasse universitarie.
La quota di sostegno per il Labour è salita al 40%, cinque punti sopra Blair nel 2005 aggiungendo 3,5 milioni di voti al totale del Labour di Ed Miliband nel 2015. In quella che è stata la più forte affluenza alle urne in vent’anni – un impressionante 68,7% – il Labour ha mantenuto la sua maggioranza tra i lavoratori semiqualificati e non qualificati e i disoccupati.155 Il partito ha aumentato i propri voti presso quasi tutte le fasce di età eccetto gli over settantenni, mentre vi è stato un aumento nel numero di persone più anziane che votavano conservatore, presumibilmente ex elettori dell’UKIP che «tornavano» ai Tory.
La svolta a favore del Labour è stata più pronunciata nei collegi visitati da Corbyn, salendo di quasi il 19%, mentre le visite di Theresa May hanno fatto scarsa differenza.156 Corbyn raccolse più consenso nelle zone operaie del Nord, come Oldham West e Royton, dove la fluttuazione del voto è stata superiore al 10%, tutto il contrario dell’impressione che Rafael Behr del «Guardian» cercò di dare durante le elezioni suppletive del dicembre 2015, quando spiegò che «a Oldham, Jeremy Corbyn non è che un’altra faccia del Labour “radical chic”» (2 dicembre 2015). Due anni dopo ha ritrattato: «I sostenitori di Jeremy Corbyn hanno correttamente compreso che la sua candidatura rappresentava una totale rottura con il passato del partito».157 Peccato che era stato Behr a non capirlo. I politici, anche quelli intelligenti, non hanno fatto meglio: Sadiq Khan, nell’agosto 2016, aveva spronato gli iscritti al Labour a votare Owen Smith dicendo che «non possiamo vincere con Corbyn […] dunque voterò per Owen Smith» («The Guardian», 21 agosto 2016).
I commentatori e i giornalisti, che dovrebbero essere ben informati, hanno sbagliato completamente, in particolare quelli che scrivevano per la stampa moderatamente di sinistra. Il «New Statesman» aveva intonato: «Il fallimento di Corbyn non è una scusa per il fatalismo» (31 marzo 2017) e nello stesso numero Nick Pearce (dell’Institute for Policy Research e docente universitario) spiegò urbi et orbi che «il corbynismo è ora invisibile. Non ha segreti da nascondere».
Il 25 febbraio 2017, dopo una pesante sconfitta alle elezioni suppletive a Copeland, Jonathan Freedland, nel «Guardian», dichiarò che «Copeland dimostra che Corbyn se ne deve andare» e portentosamente spiegava che «la cupa verità è che la pressione che conta non verrà da quelli come me, persone che ammonivano che Corbyn sarebbe stato un disastro dall’inizio», ma dagli attivisti (i quali, fortunatamente per il Labour, non prestarono la minima attenzione a Freedland). Freedland, però, dopo la misera performance del Labour alle elezioni amministrative, ci riprovava: «Basta scuse: la colpa di questo sfacelo è di Jeremy Corbyn» («The Guardian», 5 maggio 2017). Per poi chiedersi altezzosamente, come se sbraitasse in un bar, «di quali altre prove hanno bisogno la leadership del Labour e i suoi sostenitori? Questo non era un sondaggio. Non era un giudizio espresso dall’odiata stampa generalista. Questo è stato il verdetto dell’elettorato espresso nell’urna, e non avrebbe potuto essere più chiaro, o più di condanna». Naturalmente, come spesso accade, soltanto un terzo dell’elettorato aveva votato alle amministrative. Anche ai mediocri studenti di scienze politiche si spiega che è una regola elementare dell’analisi politica il non poter dedurre i risultati delle politiche dalle amministrative. Sarebbe consigliabile a Freedland di munirsi di un paio di manuali.
Sull’«Observer» (19 marzo 2017) Nick Cohen, nella sua solita modalità, vale a dire di isteria incandescente, urlava: «Non ditemi che non eravate stati avvertiti su Corbyn», chiedendosi se dopo le elezioni ci sarebbero rimasti «150, 125, 100 deputati laburisti». Il suo consiglio in proposito era di «pensare a un numero e dimezzarlo». Poi aggiungeva, rivolgendosi ai sostenitori di Corbyn – nel caso non avessero colto –, che le parole «ve l’avevo detto fottuti idioti!» sarebbero state sbattute loro «in faccia da chiunque avesse ammonito che la vittoria di Corbyn avrebbe condotto a una storica sconfitta». Il Labour non ha ottenuto i «150, 125, 100 deputati» di Cohen, ma ben 262. Eppure Nick Cohen è ancora al suo posto a sputare insulti.
La stampa liberal-radicale si è sbagliata perché prigioniera della propria ideologia antisinistra e ha scambiato i propri desideri e brame per la realtà. I commentatori, anziché sforzarsi di pensare, si sono uniti al coro. Così, anche sbagliando, si sarebbero trovati in buona compagnia.
I professori universitari sono stati più dignitosi, ma in molti si sono sbagliati altrettanto. Ecco Tom Quinn (Department of Government, University of Essex), nel suo blog il 13 marzo 2017, ripetere lo scontato mantra: «Jeremy Corbyn ha reso il Labour ineleggibile», per poi aggiungere che «Corbyn già sembra uno dei più inefficaci e impopolari leader dell’opposizione del secondo dopoguerra».158
Anche la classe dirigente del Partito laburista si è sbagliata, caduta vittima ancora una volta della realtà. Questo è un partito che rifiuta di imparare dalla storia. Negli anni Trenta riuscì perfino a espellere tre uomini politici oggi rivelatisi i quasi leggendari architetti del welfare state britannico moderno nel governo laburista del 1945-1951: Stafford Cripps, poi ministro delle Finanze; Nye Bevan, poi ministro della Sanità; George Strauss, in seguito ministro delle Forniture belliche, tutti colpevoli di aver raccomandato un fronte popolare con i comunisti.
Il 9 giugno 2017 sono stati resi noti i risultati delle elezioni britanniche: tutti hanno riconosciuto che Theresa May è stata la vera sconfitta, avendo perduto la sua maggioranza. Pur non avendo vinto, Corbyn ha ottenuto un risultato migliore dei precedenti leader Labour, e si è trovato a guidare un partito in salute, con una base di iscritti spettacolarmente ampia (il Labour ora è il partito che vanta la più vasta base in Europa, con ben oltre 500.000 iscritti). Secondo il caporedattore politico della BBC Laura Kuenssberg, alcuni dei deputati che avevano visto aumentare il proprio gruppo grazie a Corbyn avevano «sfacciatamente promesso ai propri elettori […] che se ne sarebbe andato dopo le elezioni e che, più precisamente, avrebbero contribuito a rimuoverlo».159
I nazionalisti scozzesi hanno perso voti, l’UKIP è quasi annegata nell’oblio, i liberali si sono ripresi un po’ dalla loro raccapricciante performance del 2015. In Irlanda del Nord i vecchi partiti della classe dirigente, l’Ulster Unionist Party e il Social Democratic and Labour Party, un tempo il principale partito repubblicano, sono stati spazzati via dal parlamento, mentre l’ultraprotestante DUP ha ottenuto dieci deputati e il repubblicano Sinn Féin sette.
Theresa May, ancora premier di un «governo né forte né stabile», è stata costretta a fare un accordo con il DUP, uno dei partiti più oscurantisti in Europa occidentale. In cambio ha promesso 200 milioni di sterline più 75 milioni l’anno per fornire banda larga super-veloce in Irlanda del Nord e altri 100 milioni l’anno per due anni per la trasformazione del sistema sanitario… In totale l’accordo costerà al contribuente britannico un miliardo di sterline.160 Chiunque definirebbe tutto questo corruzione sfacciata, eppure, cosa abbastanza incredibile, è legale. Più nello specifico, la crescente sicurezza di sé delle forze del liberalismo civico nella Repubblica d’Irlanda, che ha portato alle vittorie nel referendum per la legalizzazione dei matrimoni fra persone dello stesso sesso (maggio 2015) e dell’aborto (maggio 2018), ha evidenziato quanto sia arretrata l’Irlanda del Nord, dove matrimoni gay e aborto sono banditi in gran parte a causa dell’opposizione del DUP, il migliore amico di Theresa May.
Mentre il Partito laburista è rifiorito grazie a una base d’iscritti accresciuta e fiduciosa, i conservatori, come partito, sopravvivono appena. A metà del 2017 il Labour aveva 552.000 iscritti, i liberaldemocratici 102.000, il SNP 118.000 (in proporzione il maggior partito perché ancorato perlopiù alla Scozia). Al dicembre 2013 i conservatori avevano 149.800 iscritti.161 Il partito ha paura di fare brutta figura pubblicando i dati più recenti. Ha quasi certamente meno di 100.000 iscritti, forse solo 70.000.162 Nel 1952 ne aveva 2.750.000.163 Non più. Oggi è un partito di anziani: il 71% dei suoi iscritti sono maschi contro il 63% dei Libdem e il 53% del Labour.164 Tuttavia la classe dirigente del Labour continua a comportarsi come se i Tory fossero il partito naturale di governo.
Inutile a dirsi, pochi commentatori hanno fatto ammenda dopo la sorpresa delle elezioni del 2017. Si sono rassettati gli abiti per continuare con la stessa arroganza di prima, attenuandola appena. Andrew Rawnsley ha scritto, in modo poco convincente: «Non eravamo solo noi. Quasi nessuno se l’aspettava. Non se l’aspettavano soprattutto i politici. Le loro sfere di cristallo erano piene di crepe». (Forse giornalisti, professori e uomini politici dovrebbero usare il cervello e lasciare le sfere di cristallo ai druidi celtici che, a quanto pare, le inventarono.) Poi ha incolpato i Tory che «hanno cercato scioccamente di farne una corsa presidenziale guidati da qualcuno incapace nella vendita politica al dettaglio quanto la signora May, che non saprebbe vendere un bicchiere d’acqua a uno che muore di sete». Peccato non l’avesse detto prima.165
Owen Smith ha ammesso di essersi «chiaramente sbagliato nel pensare che Jeremy non sarebbe stato in grado di far bene. Penso che abbia dimostrato che mi sono sbagliato come molti altri e mi tolgo il cappello…».166 Mandelson ha riconosciuto che la campagna di Corbyn è stata «molto solida». Quattro mesi prima, a un evento organizzato dal «Jewish Chronicle» aveva spiegato pazientemente che Corbyn «non aveva idea di come comportarsi nel XXI secolo da leader di un partito che in un’elezione democratica si propone al governo del nostro paese». Aggiungendo che «lavoro ogni giorno nel mio piccolo per accelerare la fine del suo incarico».167 Si sarebbe lasciato trasportare dalla corrente se solo avesse saputo in che direzione fluiva. Invece è rimasto ad annaspare.
Harriet Harman ha detto in un tweet di aver «sovrastimato» Theresa May e sottostimato Jeremy Corbyn. Quelli come Stephen Kinnock, Hilary Benn e Chuka Umunna, che avevano dato addosso a Corbyn, ora, grazie a lui, mantenevano i propri seggi con una maggioranza enormemente aumentata.168 La notte dei risultati Stephen Kinnock era così visibilmente sconvolto dal successo di Corbyn da dover ricevere da sua moglie, l’ex premier danese Helle Thorning-Schmidt, ovviamente ben più scaltra da un punto di vista politico, apposite indicazioni su come reagire.169
Ebbene, si può sempre sperare che imparino qualcosa. Come dice Tito Livio nel suo Ab Urbe Condita, con lampante chiarezza: «Eventus docet: stultorum iste magister est» («L’esperienza insegna, essa è la maestra degli stolti»).170 I commentatori e gli uomini politici hanno cercato di giustificare il loro discredito di Corbyn nei termini della sua ineleggibilità. Avessero avuto un briciolo d’integrità, avrebbero contestato le sue politiche, anziché continuare a ripetere che non poteva vincere. Naturalmente non ha vinto, ma nessun leader laburista avrebbe potuto farlo avendo contro tutta la stampa, la classe dirigente del suo partito e, soprattutto, senza la Scozia. E la Scozia era andata perduta prima che Corbyn entrasse in scena.
Ma qual era la posizione di Corbyn? Era contro il rinnovo del programma di armamenti nucleari Trident (indipendente solo di nome); contro l’austerità e dunque contro i tagli al welfare e ai servizi pubblici, di alcuni dei quali proponeva una rinazionalizzazione; contro l’interventismo militare all’estero e l’abolizione della Private Finance Initiative; era a favore della tassazione dei ricchi, dell’aumento del salario minimo, della lotta all’evasione fiscale, dell’abolizione dei benefici alle scuole private e delle tasse universitarie e via dicendo. Le proposte sono state attaccate perché di «estrema sinistra». Tuttavia, come ha scritto un astuto commentatore, «la realtà è che ha proposto nulla più che un ritorno a quella che un tempo sarebbe stata vista come una versione moderata di socialdemocrazia».171 Ha anche rischiato di scontentare i suoi tradizionali elettori di estrazione operaia prendendo una posizione di principio sull’immigrazione.
Il vero problema sotteso alla lista delle proposte di Corbyn è quello in cui s’imbattono quasi tutti gli uomini politici: come pagherai tutto questo? Se la risposta è: «Metteremo più tasse», allora bisogna domandare se ci sono davvero così tanti ricchi. Se invece la risposta è: «Chiederemo un prestito», allora bisogna domandare quali saranno le conseguenze. Dire semplicemente che politici come Corbyn sono «ineleggibili» significa sottrarsi a simili questioni.
In passato Corbyn è stato freddo con l’Europa (ha votato contro i trattati di Maastricht e di Lisbona), ma durante la campagna referendaria ha scelto un approccio «equilibrato»: sì a un’Europa sociale, osservando che l’UE aveva portato lavoro, investimenti, protezione per i lavoratori, ordinamenti ambientali, e aveva impedito alle compagnie telefoniche di «rapinarci», ma protestando per il controllo burocratico e la sua enfasi sulla deregulation.172 Era anche contrario all’accordo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) tra gli USA e l’UE, ma lo erano anche Donald Trump e Hillary Clinton, allora in lotta per la presidenza, mentre il presidente François Hollande aveva detto che avrebbe posto il veto sul TTIP così com’era.
I media descrissero queste politiche come «estremiste», un ritorno agli anni Settanta o Sessanta. In realtà, molte delle politiche proposte da Corbyn godevano di largo sostegno tra la popolazione. La maggioranza era a favore dell’eliminazione delle armi nucleari, in particolare se la questione verteva sul denaro risparmiato.173 Un sondaggio YouGov dell’ottobre 2016 mostrava che le politiche di Corbyn erano più popolari di quelle dei conservatori: il 45% dei consultati riteneva che il governo dovesse aumentare la spesa pubblica, mentre solo il 13% che si dovesse proseguire con i tagli; il 58% si opponeva al coinvolgimento del settore privato nel servizio sanitario pubblico, mentre solo il 21% era a favore; il 51% sosteneva la rinazionalizzazione delle ferrovie – cosa non sorprendente visto il caos in cui si trovano (aziende come la Virgin Trains non sono nemmeno state penalizzate per aver portato la concessione ferroviaria al tracollo) –, mentre solo il 22% era contrario.174
Rinazionalizzare il servizio idrico è altrettanto popolare in particolare perché aziende come Thames Water sembrano aver fatto tutto il possibile per rendersi impopolari: quasi non paga tasse, i suoi azionisti ricevono dividendi enormi, ha un debito gigantesco ed è stata multata per perdite fognarie non trattate sversate nel Tamigi.175 Eppure il 33% pensava che i conservatori avessero le politiche economiche migliori, mentre a credere che le avesse il Labour era solo il 13%. Ovviamente molto dipende da com’è posta la domanda, ma queste cifre mostrano che le politiche di Corbyn erano tutt’altro che impopolari.176 Dove Corbyn (e il Labour) hanno tentennato ed esitato è stato su Brexit, combattuti tra il prendere una chiara posizione per smarcarsi dai Brexiteers Tory alienandosi così alcuni degli anti-UE a sinistra. Hanno scelto di tergiversare.
Poco prima delle elezioni Gary Younge, uno dei pochi commentatori del «Guardian» a non lasciarsi irregimentare nella corrente anti-Corbyn, ha scritto:
Negli ultimi due anni, l’opinione prevalente è stata che […] il Partito laburista con Corbyn non fosse eleggibile. Non solo che avrebbe perso, ma che non poteva plausibilmente competere. Queste non erano presentate come opinioni, ma come fatti. Chi le metteva in discussione era trattato come un negazionista climatico. […] Prendere sul serio le prospettive del Labour di Corbyn era come rinunciare a prendere sul serio sé stessi.177
Al festival di Glastonbury, un paio di settimane dopo le elezioni del giugno 2017, il pubblico festante di giovani lo accolse con quello che era già diventato un famoso slogan («Oooh, Jeremy Corbyn!» sul motivo di Seven Nation Army dei White Stripes).178 I cori sono continuati per almeno venti minuti prima che Corbyn salisse sul palco. Ha radunato la folla più vasta del festival di quell’anno. Una cosa simile non sarebbe riuscita a nessun uomo politico. Quando Corbyn è entrato nella neoeletta camera dei comuni, i suoi deputati senza incarichi di governo, molti dei quali avevano passato i due anni precedenti complottando contro di lui, lo accolsero da eroe. Polly Toynbee, che era stata tutt’altro che entusiasta di Corbyn nell’aprile 2017 («la stupefacente inettitudine del leader dell’opposizione presiederà alla catastrofe del suo partito»), a settembre riconobbe con grazia il proprio errore e il di lui successo:
Oh, Jeremy Corbyn! Quanta differenza fa un anno. […] Questo è ora un partito unito, di Corbyn-credenti e chi, tra i dubbiosi residui del Labour, può obiettare un punto qualsiasi di questo programma? Credere che possa davvero vincere non è mai stato così facile. La sua curva di apprendimento è stata meteorica, questo discorso autorevole e abbondante di promesse, sia necessarie, sia popolari.179
Zoe Williams fu tra i pochi a dedicare un intero pezzo all’ammissione del proprio errore: «Ho sostenuto Owen Smith contro Jeremy Corbyn. Ma ora me ne pento» («The Guardian», 2 gennaio 2018). Anche Gordon Brown si pronunciò in quello che era un tardivo riconoscimento del «fenomeno» Corbyn e del fatto che «esprime la rabbia della gente per quanto accaduto».180 Non è mai troppo tardi.
Lo è naturalmente per Philip Collins, ex autore dei discorsi per Tony Blair e ora editorialista del «Times», il quale, nel novembre 2017, ha paragonato Corbyn a Robert Mugabe e Ratko Mladić (il macellaio di Srebrenica). La ragione apparente, in un articolo che ne era privo, risiedeva nel fatto che Corbyn si era opposto alla guerra in Kosovo e al bombardamento di Belgrado (sostenuto invece da Collins e che provocò centinaia di vittime civili). Ovviamente Collins non riesce a distinguere Srebrenica dal Kosovo. Il suo articolo è infarcito di quel tipo d’insulti che si trovano nella stampa tabloid: per esempio, Edward Herman (coautore di libri assieme a Noam Chomsky) lo chiama «un oscuro sciocco», mentre Chomsky lo descrive come «il decano della sinistra ciarlatana». I commenti dei lettori erano perlopiù favorevoli. Collins conosce il proprio pubblico, conoscenza che lo solleva dalla fatica di ragionare.181
Corbyn aveva l’enorme vantaggio di non essere al potere. L’opposizione è relativamente facile quando non si deve fronteggiare la brutale realtà dei vincoli politici nazionali e internazionali. Questo è il problema che SYRIZA ha dovuto affrontare in Grecia quando, inaspettatamente, ha vinto le elezioni nel 2015. Il paese era stato particolarmente danneggiato dalla recessione globale del 2007-2008: l’economia era strutturalmente debole, l’evasione fiscale diffusa, l’economia «sommersa» assurdamente dilagante. La Grecia, ma non solo la Grecia, violava regolarmente i criteri di stabilità dell’eurozona, perché, pur di adottare l’euro, i governi greci precedenti avevano usato dubbie statistiche sulle dimensioni del debito e del deficit pubblici (statistiche che furono accettate prontamente dal resto dell’Unione Europea per ragioni politiche). La recessione globale del 2008 ha portato a una crisi di fiducia, a un crescente disavanzo commerciale, a una riluttanza ad acquistare titoli di stato greci e a una serie sfinente di aumenti delle tasse richiesti dal FMI e dalla Banca centrale europea (BCE) in cambio di un bailout.
Verso la fine del 2011, con il sistema politico in disfacimento e in mezzo a una crescente protesta popolare, il governo guidato dal PASOK (socialista) ha dato le dimissioni. Nel 2009 il PASOK aveva vinto le elezioni con il 44%. Nella prima delle due elezioni tenute nel 2012 era crollato al 13%, nella seconda aveva perso un altro punto percentuale. Nel 2015, quando ci sono state altre due elezioni, il PASOK era un partito morto, che racimolava tra il 4% e il 6%.
Il partito conservatore tradizionale, Nuova democrazia (ND), ha fatto meglio del PASOK: nel 2009 aveva il 33%; nel maggio 2012 era sceso al 19%, ma, un mese dopo, era di nuovo risalito al 30%. Nelle due elezioni del 2015 si è mantenuto appena sotto al 30% e, a differenza del PASOK, è sopravvissuto.
Il partito che era balzato in avanti era SYRIZA, un’alleanza tra partiti della sinistra radicale. Nel 2009, prima che la crisi colpisse la Grecia, SYRIZA era stata capace di raccogliere solo il 4,6% (mentre i comunisti del KKE avevano il 7,5%). Dal maggio 2012 SYRIZA era il secondo partito greco con il 16,8%. Un mese dopo era salito al 27% e nelle due elezioni del 2015 aveva raggiunto il 35-36% formando un governo con il supporto dell’euroscettico Partito indipendente.
In precedenza un’alleanza di socialisti e conservatori (cioè ND e PASOK) aveva applicato drastiche politiche di austerità per placare la BCE e il FMI: aumentarono drammaticamente la povertà, la disoccupazione e la disperazione sociale. Fu questa la base del successo di SYRIZA, ma i vincoli non erano cambiati. La posizione di estrema debolezza in cui il paese si trovava significò che SYRIZA aveva pochissimo spazio di manovra.
Come notato da Costas Douzinas, docente universitario a Londra e deputato di SYRIZA dal 2015, SYRIZA non era pronto per governare «in condizioni così dure» (ma del resto senza le dure condizioni non sarebbe andato al potere); «delle promesse del manifesto non erano stati calcolati accuratamente i costi»; «molti ministri non avevano una buona conoscenza del loro portafoglio» eccetera.182 SYRIZA poteva sventolare la bandiera anti-austerity ma c’era poco altro che potesse fare. Lasciare l’euro avrebbe semplicemente significato un crollo della nuova valuta che lo avrebbe dovuto sostituire all’istante (al contrario dell’euro, introdotto dopo lunghe preparazioni). L’inevitabile, enorme svalutazione della nuova moneta avrebbe spazzato via i risparmi di molti cittadini greci. La Grecia fu così costretta a rimanere nell’eurozona e a tenersi i suoi debiti.
Alexis Tsipras, il leader di SYRIZA, era stato eletto primo ministro su una piattaforma anti-austerity. Ma la cruda realtà lo convinse che aveva bisogno di fare compromessi con la cosiddetta Troika (la Commissione europea, il FMI e la BCE) per evitare di essere cacciato dall’eurozona. Convocò un referendum il 5 luglio 2015 per decidere se accettare le condizioni imposte. L’elettorato respinse le condizioni a grande maggioranza (oltre il 60%). Per alcuni, come il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, allontanato poco dopo il referendum, Tsipras sperava che il referendum avrebbe approvato il bailout, sebbene avesse (Tsipras) fatto una campagna per il suo rifiuto, così da non essere incolpato di sottomettersi al «diktat» europeo.183 L’esito fu che SYRIZA, per ottenere i fondi del bailout, dovette adottare politiche di austerità simili a quelle che loro stessi (e l’elettorato) avevano respinto in precedenza.
Anche l’UE aveva vincoli da rispettare, legata com’è da trattati e regolamenti. Dispensarne la Grecia avrebbe provocato le proteste da parte di altri paesi come il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e Cipro, che avevano dovuto accettare le regole.
L’unica alternativa all’accettazione delle regole dell’UE sarebbe stata per la Grecia quella di andare in default e lasciare l’eurozona, causando grossi danni al sistema bancario europeo. I greci avrebbero potuto scommettere che l’UE avrebbe battuto ciglio per prima (Varoufakis alla BBC spiegò che «non è un giocare a chi batte ciglio per primo») e aiutato lo stesso la Grecia.184 Era questo il «piano B», vale a dire il «Piano dracma» della fazione di sinistra di SYRIZA guidata da Panagiotis Lafazanis e Dimitris Stratoulis, una specie di «se non fai come dico io mi faccio saltare in aria e con me tutti gli altri». Comprensibilmente, nessuno ebbe il coraggio o fu tanto folle da giocare a un azzardo simile. In barba al suo radicalismo, la soluzione alla crisi proposta da SYRIZA era tradizionale keynesismo: aiutateci ad aumentare la spesa pubblica e alla fine saremo in grado di ripagare i nostri debiti. SYRIZA non contemplò mai seriamente l’ipotesi di lasciare l’euro uscendo dall’UE. La Grecia potrà sentirsi insicura nell’UE, ma lo sarebbe di più standone fuori. Più sorprendente, date le credenziali di sinistra, è che la Grecia fosse uno dei pochi paesi della NATO a spendere almeno il 2% nella difesa, al secondo posto dopo gli USA (e per questo calorosamente congratulata da Trump).185 Ancora una volta la paura della Turchia e il bisogno di usare la leva militare per tenere bassa la disoccupazione giovanile hanno contato assai più che la paura della Russia o la lealtà nei confronti dell’alleanza atlantica.
Il dilemma affrontato da SYRIZA è stato quello di tutte le forze europee di sinistra, da Podemos a Corbyn, da Mélenchon al portoghese Bloco de Esquerda: operano in un mondo capitalista globalizzato e interdipendente dove nessuno può isolarsi. Sono deboli e non sono potenti egemoni internazionali. L’Unione Sovietica non c’è più. La Cina non è (ancora) abbastanza forte. Gli Stati Uniti sono in declino. L’Europa è allo sbando.