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Siede al suo posto con la testa capellona sul piatto, il vapore del brodo gli dilata i brufoli e piega i peli lunghi e sottili che spuntano senza progetto in attesa di diventare barba. Dal rumore delle posate credo ci stia lavorando, invece mangia troppo poco. Rimesta a lungo con il cucchiaio e lo porta alla bocca semivuoto. Evita i nostri occhi, sa che lo guardiamo e gli contiamo le proteine ingerite e quelle che lascia sul fondo.
Mastica silenzio.
Non riesco ad amarlo tutto, questo ragazzo. Alto, secco, un corpo di linee spezzate e mai curve, una debolezza improvvisa nel disegno delle gambe, appena sotto il ginocchio.
La nonna lo tratta sempre da bambino, non so come regolarmi, io. È un adolescente, a volte sembra meno.
Provavo per lui una facile tenerezza quando era una creatura dai boccoli scuri e le labbra a cuore, allora possedeva in abbondanza la grazia necessaria ai piccoli per la continuazione della specie. Lo tempestavo di baci nei pomeriggi sfiniti che me lo davano in custodia. Sapeva di cucciolo, adesso gli capita di lasciarsi dietro l’aspro delle ascelle o una persistenza di capelli grassi mentre si sposta muto.
Se toglie la maglietta, è un paesaggio di costole in rilievo da un lato, vertebre dall’altro. Si curva, assume la postura di chi ha appena ricevuto una pallonata nella pancia. Di spalle non sempre lo riconosco da lontano, è cresciuto così in fretta.
Ci troviamo intorno a questa tavola ricostruita che non appartiene a nessuno di noi. Ciascuno aveva la propria, la nonna vedova nella sua casa di paese, io in centro città e lui con la mamma non distante; loro due erano tornati a vivere qui da un anno e mezzo, quando è successo. Ora stiamo insieme, noi tre soli nell’appartamento assegnato. È nostro nipote, mio e di mia madre.
Non avevamo bisogno del terremoto. Ognuno possedeva già i suoi dolori. Mia sorella però era contenta di essere rientrata con il figlio, un ripiego accettabile, diceva. Si riappropriava dei luoghi, delle relazioni sospese, del tempo rallentato. Addolciva il distacco subìto.
Le domeniche pomeriggio d’inverno prendevamo il caffè da nostra madre sedute sotto il lampadario basso della sala da pranzo. Ci viziava con il cioccolatino trovato come per caso accanto alla tazzina fumante, più tardi la ciotola di frutta sbucciata tesa da una mano invisibile, il pretesto di dover raccogliere i panni in cortile per liberare le confidenze a due.
Quando non usciva con gli amici veniva anche lui, attaccato alle cuffie. Ci isolava. Così fa adesso certe mattine, se perde l’autobus e lo accompagno in macchina. Adopera la musica che si versa nelle orecchie come filo spinato tra me e lui. A quell’ora è forse più vulnerabile, più attento a difendere la distanza. Sta tutto dentro il suo giaccone, alza il bavero, ispessisce il panno e si rende irreperibile.
Guarda ostinato fuori, o l’orlo dei pantaloni e le scarpe. Si regge fino a sbiancare le nocche, per non essere proiettato verso di me dalle curve a destra. A quelle contrarie si appiccica al vetro con la faccia e la spalla, tiene disponibili solo gli spigoli dalla mia parte, l’anca, il gomito, casomai mi sbilanci io nella sua direzione. Di fronte alla scuola il saluto quasi non lo sento, ma chiude la portiera con insospettabile delicatezza.
Alcuni giorni fa ci siamo incontrati davanti al portone, lui con lo zaino e io con le buste pesanti della spesa. Mi precedeva di qualche passo, ha bofonchiato un mezzo ciao di schiena e lasciato aperto prima di salire. Ma poi, scaricata la sua zavorra al piano, è venuto giù per le scale ad aiutarmi, ha preso il sacchetto di patate e la confezione dell’acqua minerale che tenevo con un indice ormai cianotico. Gli ho detto grazie, nessuna risposta.