Così ti sei innamorata di Cesare, mio padre. Ma come hai potuto, è tuo cugino! Vi conoscevate appena, ecco perché. Lui abitava più a valle, a parecchi chilometri di sentieri fra le campagne. Galeotto fu un ballo dove vi siete ritrovati, di colpo cresciuti e desiderabili. Poi ce ne furono altri e ogni volta fissavate un appuntamento segreto e dubbio, al torrente, al boschetto di faggi o all’Acquasanta.

A casa dicevi di andare a prendere il caglio o il lievito madre da Tubbiole e raggiungevi il luogo convenuto. Oppure lui compariva a sorpresa sui pascoli sotto a Pietra Lunga, balcone adriatico del Monte Camicia. Una volta la sorpresa ve la fece Fioravante che piombò come un fulmine a marchiare gli agnelli quando, seduti su un masso, parlavate fitto fitto vicini vicini. Il tuo Ulisse riuscì giusto in tempo a tuffarsi in mezzo al gregge e se la svignò così, di pecora in pecora, mentre tu coprivi la vista a Polifemo e gli rispondevi che Nessuno era venuto lì.

Fu un amore contrastato e sorvegliato quanto basta. La questione della consanguineità venne sollevata, ma ritenuta poco interessante. Cesare era il figlio maggiore di Maria Concetta, una sorella di Serafina. Le famiglie dovevano invece risultare compatibili per storia e attaccamento al lavoro. Cercavano l’accordo i patriarchi, che tua madre chiamava la lima e la raspa, due caratteracci uguali. Uguali non lo erano affatto: Fioravante un dittatore comunista, direi, Rocco fascista.

No, non me lo riporto il melone, dobbiamo ancora consumare quello che ho preso ieri l’altro.

Ottenuto un accigliato consenso da suo zio, Cesare poteva venire a casa vostra a parla’. Arrivava dopo cena, o anche prima, a volte. D’inverno mangiavate alle sei, poi si allungavano benigne le ore del buio senza sonno per voi, da stare seduti a chiacchierare sottovoce su due sedie vicine in un angolo del grande camino. Di fronte sonnecchiava Fioravante, con il mento sul petto e un occhio semiaperto da gattone infido. Le sorelle schizzavano fuori dalla stanza dove venivano confinate, tutte sghignazzi e risolini. Nives voleva bere ogni dieci minuti. Sul tavolo sparecchiato era rimasta solo la candela accesa, vi splendeva sulle guance, negli occhi e nel sorriso il riverbero della fiamma che alimentavi di tanto in tanto con nuova legna. Tuo padre si agitava nel sonno, farfugliava qualcosa. Muovevate le gambe per svegliarle dal torpore, ma mi raccomando, tu sempre composta e ginocchia strette, che porti la gonna.

No, il melone non me lo prendo, abbiamo ancora quell’altro.

La notte diventava fonda. Serafina aveva sostituito Fioravante sulla sedia per il suo turno di guardia, nel sonno teneva la bocca aperta verso il cielo, il lavoro di cucito in grembo. In tutta la loro esistenza non hanno mai conosciuto un divano. La testa attraversava fasi di instabilità, con bruschi cedimenti verso il basso o da una parte, accompagnati da inspirazioni rumorose, poi riguadagnava una posizione duratura. Voi sempre lì a parlare, con sussurri ormai, e la vampa attenuata addosso.

Vi si faceva tardi all’improvviso, Cesare si alzava e diceva buonanotte vicino all’orecchio della zia svegliandola di soprassalto. Qualche volta l’ago l’ha anche punta. Poi il tuo eroe apriva la porta sulla luna crudele e affrontava il ritorno. Te lo vedevi camminare su viottoli gelati mentre spegnevi i tizzoni rimasti.

Non me lo riporto perché a casa ne ho un altro ancora da mangiare.


Ti sei sposata il ventisette dicembre millenovecentosessanta. La Chiesa ha dovuto concedervi un nulla osta particolare per via della consanguineità.

La sarta Fafina ti aveva confezionato un vestito semplice, lungo poco oltre il ginocchio, e un cappottino bianco. A Montorio hai preso scarpe e borsetta, sempre bianche. Sere prima, amici, vicini e parenti di voi Scialomè sono venuti a un ricevimento nella tua casa paterna per la consegna dei regali. Dopo qualche giorno anche dallo sposo. Per lui erano servizi di piatti e bicchieri, a te si completava il corredo di cui Nives aveva redatto un inventario da presentare a tua suocera, semianalfabeta. L’ho ritrovato, guarda, in fondo a un cassetto. Coperte numero cinque, lenzuola numero dieci paia, pannetti di lino, incredibile, numero cento, per le mestruazioni di una vita. Si usava così. Le famiglie superavano il limite tra povertà e miseria pur di non sfigurare con i consuoceri. Serafina no, stava accorta, e la sua controparte era una sorella. L’avevate invitata una domenica a vedere la spasa del corredo sul letto matrimoniale dei tuoi genitori, tutto infiocchettato con fazzoletti bianchi. Infiocchettati dai parenti erano anche gli agnelli e i polli vivi destinati alle famiglie dei promessi e le canestre ricche di ogni ben di Dio che pure portavano in dono per rimpinguare le dispense svuotate dalle cene prima delle nozze.

Alla tempesta di fiocchi delle tue sorelle non sfuggì nemmeno la giumenta, che ti portò sul dorso coperto dalla mantella buona lungo il sentiero da casa alla strada carrozzabile. Lì vi aspettava un autobus noleggiato per l’occasione che fece poi il giro fra Colledara e Tossicia prendendo su gli invitati in vari punti di raccolta. Fioravante smadonnò anche quel giorno, perché i pantaloni cuciti dal famoso artigiano di Colledara risultarono più corti su una gamba e furono tagliati sull’altra per renderli pari. Disse che il Padreterno l’aveva fatto bene e il sarto l’aveva stroppiato.

Eri raggiante, salutavi le persone dal finestrino. Non è vero che tutte le spose sono belle.

A Tossicia, alle undici, nella chiesa di Santa Sinforosa profumata d’incenso, don Emilio era pronto e voi già davanti all’altare. Cesare cercava di calmarsi serrando i denti con i muscoli pulsanti della mascella. Dalla nicchia presso la seconda colonna a sinistra della navata centrale, la madonna sdraiata dal Quattrocento vi guardava sbigottita nella sua lignea fissità. Intitolata alla Divina Provvidenza, non sapeva che sarebbe stata presa e poi rinvenuta in un mercatino di Londra, anni dopo.

Ti sei voltata con una mossa rapida del collo verso il primo banco, dove sedevano i tuoi genitori e le tue sorelle. Una non c’era. Stava in fondo, nell’angolo più scuro, nascondeva la sua sciagura al mondo e al Dio che non l’aveva guardata dal fuoco. Si pentiva solo un attimo di non essere morta. Mancava all’appello nel cuore di Serafina che la cercava con occhi inquieti. Ma lei no, non si fece vedere fino all’andate in pace, per non guastarti la cerimonia.

Dopo la fotografia davanti alla chiesa, segnata dalla stessa assenza, l’autobus portò tutti verso casa della sposa, fin dove poteva, certo. Nina la Storta, cavalla fedele, aspettava da ore brucando l’erba rada e cercando di scacciare le grandi mosche bianche disubbidienti che le padrone Valchiria e Clorinda le avevano annodato la mattina alla coda e alle orecchie.

Da due giorni Maria la Scacciamberne, cuoca dei grandi banchetti della zona, stava preparando il pranzo nuziale con l’aiuto delle donne di casa e di alcune vicine. In mancanza di frigoriferi preferiva lavorare d’inverno, ossessionata dalla paura che la larva di mosca infestasse le carni. Raccomandava di continuo alle sue aiutanti di coprire cibi cotti e crudi con vecchie tovaglie pulite. Custodiva gelosamente un involto con gli ingredienti che non poteva trovare presso le famiglie contadine: burro, mozzarella, alici sott’olio, parmigiano e alcune spezie misteriose. Usava quantità smodate di pepe.

Per te aveva preparato un antipasto di salumi, pecorino della casa e pastella fritta in forma di fiori. Seguiva uno stracotto di pecora al rosmarino e proprio su quel piatto Diamante si fratturò un incisivo superiore già guasto, con una scheggia d’osso nascosta nel sugo. Tenne poi tutto il pomeriggio la mano davanti alla bocca.

I primi si aprivano con la tradizionale stracciatella in brodo di gallina, subito accompagnata dal suo lesso. Arrivava quindi un pesante timballo rosso con rigaglie di pollo a pezzetti, mozzarella, uovo sodo e parmigiano. Infine tagliatelle al ragù di carni miste, servite più tardi con i piselli.

Spazzolate le fettuccine regolamentari, si alzarono tutti per seguire la consueta sfida di Vittorio Giuviddì a se stesso. Riusciva a impolparsi tre porzioni di pasta a qualunque banchetto avessero il coraggio d’invitarlo, ma quella volta si superò con quattro. Perché erano più meglio delle altre, disse tra le risate dei tifosi.

Dopo ogni portata giravi tra i commensali a ringraziare, chiedere se era buono, assicurarti del pane e del vino in tavola. Correvi un attimo a prendere una caraffa d’acqua. E parlavi, parlavi con tutti, dimenticando di mangiare dalla felicità. Cesare si stufò di seguirti e, all’altezza dell’agnello al forno con patate, ti accarezzò furtivo una guancia e se ne andò in una stanza libera a giocare a bestia con gli amici.

La pizza dolce da cento uova con doppia farcitura di crema pasticciera e crema di cacao arrivò in tavola che era fatto buio, ubriaca di alchermes e maraschino.

Sfiniti dall’insolita abbondanza, i parenti portarono via un cartoccio con intere porzioni di timballo, carne avanzata e, ben separate, alcune fette di torta per i familiari e per i giorni a venire. In una tasca del vestito una velina racchiudeva cinque confetti di Sulmona, cui tua madre non aveva voluto rinunciare per la figlia maggiore.


Avete abitato dai tuoi, i primi due anni. Sono nata un pomeriggio di febbraio e nevischio nelle mani della stessa mammana Rosetta, arrivata da Tossicia a dorso di un altro mulo. Cesare è rimasto deluso, perché aspettava un maschio e non mi ha voluta vedere per tre giorni. Poi ha sbirciato nella culla e si è innamorato della boccuccia piccola, ha detto. Quando da adolescente combattevo i baffetti pensavo sempre che era colpa sua che mi aveva desiderata maschio. E tu come ti sei permessa di fasciarmi? Io dovevo sgambettare, dovevo! Ti hanno costretta, per prevenire le gambe storte. Ma a quaranta giorni hai notato che, invece di piangere come al solito, ti fulminavo con lo sguardo e hai smesso.

Ero la bambola delle tue sorelle più piccole. Tornavano da scuola tutti i giorni, con la pioggia e con il vento, per potermi prendere in braccio. Quando mi stufavo di passare dall’una all’altra e di sentire i loro strilli DAMMELA A ME DAMMELA A ME, gli graffiavo la faccia.

Come posso ricordarmi di tutto? Me l’hai raccontato tu, molti anni fa.