Mio padre ci ha fatto trovare il fuoco acceso. Ora fa il giro delle stalle per chiuderle dopo un ultimo sguardo agli animali. Mia madre toglie la giacca, ma fatica a separarsi dalla borsa, la tiene stretta. Apparecchio. Mi servo l’insalata prima di aggiungere il sale per loro, la preferisco senza. Mentre arrostisco le salsicce sulla brace, la sento trafficare a tavola con le stoviglie e mi volto. Ha accostato il piatto al mio e con movimenti orizzontali di va e vieni si prende tutta la porzione di lattuga. Poi guarda intorno indecisa, non ricorda il suo posto. Sovrappone il piatto a quello di Cesare e si siede. Non ci aspetta. Mastica piano, con quella fissità. È così stanca. Ogni tanto mi chiede non mangi o se ho bisogno di aiuto.
Ora siamo tutti e tre a tavola. Dopo l’insalata, guarda la tovaglia, i bicchieri, smarrita. Addenta il pane. Le passo due salsicce, una volta terminate allunga la forchetta su una piccante di fegato, non ha riconosciuto il colore. L’avverto, la posa. Dopo un attimo ci ritorna, ripeto che brucia e lascia. Di nuovo la infilza, Cesare dice prova prova, lei morde e si lagna, gliela mette davanti. Lui la gusta ridendo, dice che nella quantità di peperoncino si è pure contenuto.
Ci avviciniamo con le sedie al focolare. Mia madre mi tocca la gamba all’improvviso e parla di questa mia gonna così morbida. È nuova? Apprezza la stoffa con le dita deformi e intanto ho la mano addosso. Quello, cerca. Vuole me. Spesso lo fa con le maglie, mi prende il braccio e valuta la lavorazione, dice potrei farla al buio, presuntuosa. Si attarda sulla lana, si stacca con un movimento lungo dalla spalla verso il polso, come una carezza, una nostalgia.
Soffro il contatto, avverto il disturbo. Vorrei chiudere forte gli occhi e aspettare che smetta, tremando un po’. Controllo la reazione. Cerco di sembrarle disponibile ma non mi credo, sono rigida. Dove si posa il palmo, la pelle scotta sotto il tessuto. Incontra un pezzo di ghiaccio secco e ruvido, con una peluria di brina in superficie che si attacca e ustiona. Quando va via resto irritata, per un po’.
Ancora mi cerca, solo a volte. Non mi trova. Mi cerca. Quanto a me, ho paura.
Sediamo accanto zitte, ora. Si è ritirata. Mi addentro in lei, lo sento. Vado a perdermi nella vastità del suo vuoto. Quando penso di impazzire abbastanza ritorno da me, nel solito spavento. Uno stesso numero di telefono a volte lo ricordo e a volte no. Sere fa a cena un amico ha detto che suo padre aveva un’unica dote, non so più quale. Quell’attore deve aver interpretato un altro film, ma il titolo sfugge. Sono le sviste di una memoria sovraffaticata o l’eredità che comincio a riscuotere?
Mi penso tra vent’anni, più o meno all’età di mia madre. Ho nostalgia di quello che dimenticherò. Ho nostalgia di chi sarò stata.
Sonnecchia, con la testa ciondoloni. Accosto la sedia alla sua e le offro il braccio sinistro come appoggio. Al primo movimento nella mia direzione ci si abbandona. La guardo di traverso, l’annuso. Non sa di niente, solo il calore del fuoco che la investe. Fisso la fiamma, tranquilla. Il suo corpo mi gravita addosso con una vibrazione leggera, pulsa piano, ostinato.
Mio padre elenca piccole angustie quotidiane, parla anche di lei prima che si svegli, che ascolti. Mi aggiorna. Dice che ieri l’ha trovata a mangiucchiare con un cucchiaio nella pentola degli avanzi per i cani: pasta fredda, tozzi di pane raffermo, ossi rosicchiati.
Stiamo a lungo in silenzio, evitiamo d’incrociare gli sguardi per non specchiarci nel dolore dell’altro.