Non avevo mai visto nelle mani di un uomo attrezzo più osceno del cerchio di ferro che don Cesidio Sparacannone portava nella tasca dei calzoni sostenuti dalle bretelle bisunte. Si sedeva al tavolo nella cucina del mezzadro, con le gambe larghe per accogliere la pancia a cocomero pronta a scoppiare sotto l’abbottonatura della camicia. Di un’età indefinibile sopra i cinquanta, era quasi calvo e la corona di capelli superstiti non riusciva a coprire le pieghe di ciccia dietro la nuca. Nella bocca i denti superiori separati da spazi cadevano all’interno dell’arcata inferiore, in un ingranaggio a coccodrillo. Agli angoli una schiuma di saliva emulsionata, che si tendeva anche al centro tra le labbra come un elastico gialliccio, quando si accalorava nella disputa.

Una volta accomodato, tua sorella gli doveva servire un bicchiere del vinello di casa e disporre, sulla tovaglia di plastica fantasia, tutte le uova raccolte. Cominciava la selezione. Intanto un lungo sorso seguito da un brivido di piacere con schiocco della lingua. Poi il fattore concentrava gli occhietti porcini lacrimosi sull’anello, tenuto con la mano sinistra, mentre le dita a salsicciotto della destra provavano a passarci l’uovo: se lo attraversava era del contadino, se ci restava bello incastonato come una gemma era suo, anzi, del padrone.

Don Cesidio, signore dei servi e servo del signore, opprimeva per conto del proprietario terriero le famiglie dei mezzadri che vivevano e lavoravano nei vari possedimenti dei Cantalupo.

In piedi accanto al tavolo, con le braccia conserte e il peso su una gamba, Diamante lo guardava torva, bisbigliando possa fare il vomito del sangue.

Si formavano due popoli di uova: da un lato quelle che le galline avevano perso senza sforzo e dall’altro le grosse, partorite con dolore. La zia sistemava queste ultime in una canestrella di vimini, in mezzo alla paglia, attenzione, se qualcuno dopo si rompeva era colpa sua. Poi la provvista spariva nel bagagliaio della cinquecento familiare del fattore, insieme agli ortaggi appena colti, due polli spennati e sviscerati, una damigianetta di olio da cinque litri, tre fiaschi di vino, barattoli di salsicce e di sottaceti, una forma di cacio fresco o stagionato, secondo il periodo. Chissà se la madama sarà contenta, dubitava ad alta voce il marpione appestando l’aia con il gas di scarico della carretta in partenza. La contentezza della padrona dipendeva da quanta roba lui sgraffignava prima della consegna a palazzo Cantalupo.


Una sera d’inverno Diamante aveva chiesto in un sussurro a vostro padre il consenso al matrimonio con Gaetano, che da tempo veniva a casa a parla’ con lei. Il patriarca, in dormiveglia davanti al fuoco, la guardò attraverso la fessura del solito occhio semiaperto, poi tirandosi su tossicchiò e disse la figlia di un comunista con un mezzadro ci si può maritare, ma deve sapere che passerà i guai.

Dopo alcuni mesi la zia partì con l’anello del suo uomo al dito. A breve morirono i suoceri e intanto nascevano i bambini, uno dopo l’altro. Stavano ad Atri, nella zona più interna, dove non si vede il mare. Da Tossicia andavamo a trovarli, Cesare a guardarsi intorno s’innamorava di quella campagna uguale al suo sogno. Fu il cognato a fargli sapere poi che la proprietà confinante era in vendita e a incoraggiarlo al grande passo. Vorrei prenderla io, diceva Gaetano, ma non ho una lira, Cantalupo e don Cesidio mi strozzano.

Così diventammo vicini di casa e, nell’anno della zia Clarice con noi, eravate in tre, sorelle a portata di voce. Diamante abitava a quattro o cinquecento metri, ma quando i trattori si spegnevano chiamavi forte Diama’ Diama’ con le mani a imbuto davanti alla bocca e lei rispondeva oooooh. Avverava in silenzio la profezia del padre, faticando come un asino disperato e orgoglioso che si teneva in piedi con la forza dell’odio. Tu l’hai aiutata, trovavi sempre un momento per correre con un involto tra le mani e un fiume di chiacchiere da strapparle prima o dopo un sorriso.

Il padrone non andava troppo spesso da loro, era un uomo segaligno con la faccia butterata dagli esiti dell’acne giovanile che nessuna ricchezza gli aveva cicatrizzato. Esercitava sui suoi sottoposti un potere freddo e duro, Diamante ha sempre avuto paura di lui e, in assenza di Gaetano, chiamava i bambini accanto a sé non appena la mercedes bianca faceva il suo ingresso nell’aia. Temeva di essere infastidita. Secondo le dicerie, le mogli dei mezzadri venivano possedute da Cantalupo nei fienili, dietro i covoni del grano, nelle stalle anche. Tutti posti eccitanti per lui, a letto gli bastava quella gallina spelacchiata della moglie. Con la zia non ci ha mai provato, solo una volta una carezza sulla guancia con il rovescio dell’indice, mentre Gaetano guardava altrove. Ma Evuccia, sposata con un colono di una contrada vicina, partorì un bimbo identico al padre padrone e da ragazzo la stessa acne gli devastò il viso.

La signora, quella non si faceva mai vedere, comandava da lontano, impartiva gli ordini al marito, il marito al fattore e il fattore al mezzadro o alla moglie. Don Cesidio rubava ai contadini e rubava al proprietario, era odiato da tutti. Cantalupo rubava i frutti del lavoro altrui, nel rispetto della legge iniqua sulla divisione dei prodotti tra le parti.

Diamante era ladra del suo, ladra senza colpa di creature e frutti nati tra le sue dita coperte di calli e screpolature annerite. Ha nascosto il cibo per campare la famiglia, per il figlio ritardato, tutto il giorno sulle scale con lo sguardo perso dietro il volo delle mosche e poi all’improvviso un battere le mani.

Attenta ai pulcini, li proteggeva dalla volpe. Una paperetta zuppa e freddolosa, trovata nell’erba dopo la pioggia, quasi pronta per il trapasso, la teneva accanto al fuoco in una vecchia calza di lana e la imboccava con una pappa sottile di farina gialla. Le dava un nome, Luigina, per richiamarla dolcemente alla vita. Succedeva di trovare un batuffolo cadavere all’alba, ma il più delle volte guariva e di nuovo nell’aia con le sorelle. Appena adulta l’adocchiava don Cesidio e quella davanti al recinto dei maiali spennamela per stasera, Diama’. La zia subito su un’altra, con una finta, ormai Luigina era figlia sua e l’avrebbe uccisa la vecchiaia.

Sotto padrone prese il vizio del mugugno, di solito contro il fattore. Uno di questi giorni ti lego alla quercia formicosa, ma con il sole cocente, e ti faccio sudare tutto quel grasso, oppure: se va avanti così gli scarfello la pelle della faccia a quel porco. Non era facile fregarlo, contava i cespi d’insalata, le teste d’aglio, le cipolle, annotando tutto su un taccuino a quadretti con una grafia fitta e minuta. I pomodori maturavano a ondate successive: alla prima lui stimava l’intero raccolto della stagione e lo convertiva in bottiglie di salsa da consegnare alla signora. Se poi una grandinata o la siccità distruggevano l’orto, non era affare di don Cesidio né dei Cantalupo. Veditela con il Padreterno, l’avrai bestemmiato, si sentiva rispondere Gaetano alla richiesta di diminuire le pretese.

Diamante si appellava alle incursioni della volpe per giustificare la scomparsa dei polli scannati di notte al riparo dalle visite imprevedibili di Sparacannone. Poi ogni volta lui chiedeva ai bimbi il menu del pranzo e li provocava accusando la loro mamma di non mettere mai la carne in tavola. Eeeeeh don Cesi’, la risposta del più grande, ha fatto la frittata con quegli ovetti piccolini che ci hai lasciato l’altro giorno. Si toglieva la corda del fuciletto di canne dalla spalla e glielo puntava al petto adiposo, pam pam, te lo ammazzo io un pollastro, se lo vuoi. Non lo imbrogliavi, quel ragazzino.

La trebbiatrice era un dinosauro rosso sbiadito dal sole che da un lato ingoiava covoni e, attraverso un sistema di pulegge e nastri rotanti, espelleva chicchi dall’altro. Svitando dei componenti in legno posti sotto la pancia della macchina, una parte del grano finiva lì all’insaputa del fattore, tutto concentrato a contare i sacchi che si riempivano alle bocche di uscita. Poi lui non aspettava che il mezzo si muovesse dall’aia, era preso dal trasporto del frumento nei magazzini del padrone e dalla solita sosta per alleggerire il carico. Allora il colono recuperava e setacciava il suo raccolto clandestino, pane futuro.

Gaetano, con l’aiuto di Cesare, faceva sparire in fretta nel segreto del nostro fondaco i quattro quintali sottratti, li avrebbe prelevati poco alla volta, a seconda delle necessità. Da fiero piccolo proprietario, a mio padre ribolliva il sangue per le angherie subite dal cognato e come confinante non gli mancavano le occasioni per appiccicarsi con Cantalupo o il suo faccendiere. La prima quando si trattò di dividere le spese per portare l’acqua corrente da noi, appena arrivati, e dallo zio, che la richiedeva da anni. Il primo tratto è in comune e lo paghiamo mezzo ciascuno, disse papà, il resto solo vostro. No, per don Cesidio tutto a metà. Cesare lo richiamò al buon senso sforzandosi di dominare la rabbia che gli montava in petto. Si diede a tracciare nella polvere con un bastone il percorso dei tubi, sottolineando più volte il solo segmento condiviso. Lo zio ascoltava in silenzio, appoggiato di schiena alla portiera della sua vecchia seicento. Al fattore sfuggì detto cafone ignorante. Mio padre gli puntò i denti di ferro della forca all’altezza dell’ombelico, con la promessa tra poco le tue budella penderanno dalla corda dei panni come le calze delle femmine. Il coniglio riparò nella macchina di Gaetano strillandogli di partire subito e più tardi lo zio ci riferì il fuoco d’artificio di scorregge dentro lo stretto abitacolo. Era l’effetto dello spavento su don Cesidio Sparacannone.

Con gli anni andò appena meglio per Diamante, a mano a mano che le percentuali del raccolto venivano modificate in favore dei mezzadri, ridotti alla fame durante le stagioni magre. La zia si è ricordata di chi era figlia, si è informata sui suoi diritti. Ha raddrizzato la schiena e smesso di borbottare, se necessario urlava e minacciava. Con la legge numero duecentotre del millenovecentottantadue, che convertiva i vecchi patti agrari in contratti di affitto a coltivatore diretto, si sono aperti molti contenziosi tra padroni e contadini, sostenuti dalle associazioni di categoria. Non poteva mancare la causa di Gaetano versus Cantalupo. Si è trascinata per anni, intanto lo zio è stato costretto ad affittare il fondo di un altro proprietario. Deluso dai sindacati, ha desistito infine dalla richiesta di risarcimento. Ha potuto acquistare un fazzoletto di terra con una casa a un solo piano poco prima di ammalarsi di cancro ai polmoni. Non aveva mai fumato. Non aveva respirato la libertà con l’aria.

Quando sono andata a trovarlo, a un mese dalla morte, sputava muco schiumoso in un bicchiere di plastica che teneva in mano. Ho sentito il suo odore di gallina bagnata. Era seduto in cucina e si sforzava di parlare. Non riuscivo a bere il succo di frutta dal bicchiere uguale al suo. Diamante, in piedi dietro di lui, gli ravviava con le dita i quattro capelli sudati. Mi guardava, senza parole.