«Napoleone Bonaparte ha soltanto ventisei anni e gli alti gradi dell'esercito si sono molto adontati della sua ingerenza, senza contare che giudicano folle il piano con cui spera di impadronirsi del porto occupato dalla flotta inglese» spiegò Pierre con un po’ di imbarazzo.

«Per riconquistare Tolone ci serve appunto un pazzo: conferma al capitano Bonaparte tutta la mia fiducia» concluse Robespierre, rivolgendosi poi sottovoce al commissario: «Dimmi, cittadino, è vero che la Francia non mi ama?» .

«Se così fosse, smetteresti di fare ciò che stai facendo?» chiese Etienne di rimando.

«No, ma a volte mi chiedo se il nostro paese sia pronto a essere governato da uomini onesti» mormorò l’Incorruttibile, come se parlasse a se stesso.

No, pensò Etienne rattristato: il popolo voleva guerrieri con spade fiammeggianti, paladini invincibili, vergini ispirate dal cielo, eroi a cavallo di focosi destrieri, santi, profeti, arringatori, roventi tribuni, generali indomiti, ferrigni crociati, condottieri intrepidi, fieri conquistatori. Robespierre, invece, era uno scialbo borghesuccio dall’aria dimessa, con le spalle strette, le mani sottili, i capelli incipriati, gli occhialini tondi, la giacca severa, la cravatta fin troppo accuratamente pieghettata e due occhi gelidi afflitti dalle contrazioni nervose.

«Che ne pensi?» domandò Blas quando rimasero soli, con una esitazione che la diceva lunga sul timore di un giudizio severo da parte del suo migliore amico.

«È un uomo per cui sarei disposto a rischiare la vita» rispose Etienne senza enfasi alcuna.

12 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (3 OTTOBRE 1793)

Rue Feydeau, Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie, sezione Le Peletier Qualche giorno dopo, nella sede ormai deserta del Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie, Caroline Mathieu esaminava per l’ennesima volta il disegno frutto del suo rapido sopralluogo nella casa di Gabriel Sauthier.

Dal bottonificio aveva seguito la pista dell’amante di Francine fino allo studio del notaio, dove era riuscita a mettere le mani su alcune delle sue carte, in modo decisamente poco consono ai dettami della legge: di fatto, quella che aveva commesso era una vera e propria effrazione, che nemmeno il diritto di cronaca poteva giustificare. Adesso però il risultato era tra le sue mani: uno schizzo molto, molto particolare, sottratto al cassettino dove giaceva assieme ad altri dello stesso genere, che aveva fatto in tempo a scorrere in fretta, rendendosi conto appieno della loro rilevanza.

Se, come le aveva confidato la cara Léonie, l'amante di Frantine era implicato nei delitti del “Boia”, allora aveva in pugno il colpo giornalistico dell’anno, perché l’uomo ritratto in pose inequivocabili su quei fogli rispondeva in tutto e per tutto alla descrizione del misterioso lacchè.

Il suo primo istinto, da buona patriota, era stato quello di confidarsi con il commissario; il secondo, da buona giornalista, di pubblicare tutto a caratteri cubitali su un nuovo quotidiano, stampato in proprio dalla tipografia Zéphirin.

Il Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie, infatti, era in smobilitazione da quando Claire Lacombe era stata chiamata a rispondere davanti alla Convenzione di supposte attività sovversive e tutto lasciava prevedere che presto sarebbe stato chiuso: che Claire se la cavasse o meno, il bollettino non sarebbe uscito mai più e comunque era un giornale troppo serioso e ingessato per riscuotere un largo consenso popolare. Il foglio cui stava pensando, invece, avrebbe dato spazio alla politica, ma anche agli omicidi passionali, ai delitti raccapriccianti, alle trame misteriose, ai complotti o alle congiure. E la parte del leone, naturalmente, sarebbe spettata al “Boia”.

Caroline esitò: smascherando pubblicamente il mostro poteva diventare la giornalista più famosa di Parigi, mentre il dovere le avrebbe imposto di additare il colpevole alla giustizia rivoluzionaria. Un dovere tanto più ostico, quanto più scorbutici e misogini erano gli ufficiali della Sicurezza, si disse pensando al rigido Verneuil: sarebbe bastato poco perché diventasse un uomo decente, un po' di cortesia, ad esempio. Forse non era troppo tardi per tirar fuori quel che di buono c’era in lui, vagheggiò, ancora dubbiosa sul da farsi.

 

Osteria della Coccarda, sezione Tuileries All’osteria in faccia alle Tuileries, i clienti mangiavano, bevevano e giocavano come ai tempi della monarchia. Ma anche qui la Rivoluzione aveva lasciato il segno.

«Vinco io, che ho in mano tre leggi, mentre tu hai da calare soltanto una coppia di artiglieri!» esclamò un avventore, sbattendo sul tavolo le nuove carte, che presto sarebbero diventate le uniche legali.

Il perdente aggrottò le sopracciglia, augurandosi di aver memorizzato bene i nuovi simboli repubblicani, da cui erano stati espunti tutti gli odiati simboli della feudalità: era facile farsi imbrogliare, con le quattro virtù al posto delle vecchie regine e i re sostituiti dai geni della pace e della guerra, ma anche da filosofi come Rousseau e Voltaire, difficili a distinguersi per chi, come lui, non era mai andato a scuola.

A mettere fine alla discussione intervenne il garzone, che arrivava con due scodelle di “zuppa alla Coccarda”, il piatto forte dell’osteria, costituito da poche verdure non troppo fresche, ma patriotticamente disposte in forma di rosetta.

Proprio in quel momento du Plessis entrò nel locale e il commissario gli fece segno dal tavolo su cui fumava una gagliarda terrina di rognoni.

«Un disastro, cittadino!» disse Frangois-Xavier accasciandosi trafelato. «Nel Comitato di Sicurezza si è scatenata una lotta fratricida tra gli hebertisti che chiedono lo stato di accusa per i deputati girondini e i robespierriani che rifiutano di concederlo. Temo che ciò ritarderà l'inchiesta sulle malefatte di Nicolas Caron: per mantenersi in sella, i nostri hanno bisogno dell’appoggio degli Indulgenti, dunque sarebbe impensabile attaccare l’uomo di fiducia di Hérault de Séchelles proprio in questo momento.»

A Verneuil andò di traverso il boccone. «Compromessi, accordi, accomodamenti. . . non ne posso più di tutti questi tatticismi politici!»

«Con i grandi ideali e le bandiere al vento si prendono le Bastiglie, ma il difficile viene dopo» gli fece osservare l’abate.

«Morale della favola, noi abbiamo un sospetto, ma non possiamo procedere.»

«Il contrasto nel Comitato di Sicurezza prima o poi sarà superato, lasciandoci liberi di continuare la nostra caccia. Nel frattempo, potremmo seguire altre piste, quella monarchica, per esempio. . . a proposito, Talleyrand mi manda notizie da Londra sul figlio di quel condannato di cui parlavamo tempo fa. Pare che il giovane Chateau Bois sia ricercato dalla giustizia inglese per aver ucciso un avversario in un duello sleale: è stato visto per l’ultima volta un mese fa sulla costa, da dove suppongono si sia imbarcato clandestinamente per la Bretagna.»

Fabien in Francia. Fabien a Parigi. Fabien dietro a una canna puntata sulla sua testa. Fabien con Amelie. Era venuta davvero l'ora di stanare dal suo rifugio l’ambigua Mademoiselle de Saint-Cyr, si disse il commissario, sentendo improvvisamente scemare tutto il suo robusto appetito.

13 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (4 OTTOBRE 1793)

Croissy Croissy era un borgo di pastori piuttosto particolare, osservò Verneuil appena sceso dalla carrozza. Benché autentico, era tanto lindo da parere finto come il villaggetto austriaco del Petit Trianon a Versailles, dove Maria Antonietta si dilettava a mungere le mucche travestita da contadinella, mentre fuori i contadini veri si divertivano molto meno, alle prese com’erano con i rigori del freddo, i morsi della carestia e le vessazioni dei tributi.

Secondo l'abate du Plessis, l’ameno paesino sulla Senna era un covo di preti refrattari e nobili decaduti, rifugiatisi sotto l’ala protettrice del signor di Chanorier, padrone del castello e allevatore di pecore merinos, un aristocratico di vedute abbastanza larghe da aderire tra i primi alla Rivoluzione, per poi farsi da parte non appena il terreno aveva cominciato a scottare sotto i piedi.

Di fatto, la generosa accoglienza di Chanorier forniva un servizio prezioso per i ci-devant, che trovavano a Croissy un asilo tranquillo lontano dalla ghigliottina, ma anche per la Repubblica, cui il disinvolto nobiluomo garantiva discretamente la sorveglianza degli illustri ospiti, nessuno dei quali era mai stato accusato di colludere con il nemico: si trattava di semplici villeggianti che sentivano l’esigenza di respirare aria buona lontano dalla turbolenta Parigi, esigenza che si era fatta sempre più pressante dopo la recente approvazione della legge dei sospetti.

Molti traslochi, infatti, erano tuttora in corso.

«Ci serve un aiuto per l’armadio!» sbuffavano in quel momento due facchini, alle prese con un mobile pesantissimo davanti al numero 6 bis della Grande-Rue.

«Oh, sciocchezze, si tratta di salire un solo piano, uno scherzo per dei giovanotti forti come voi!» replicò soavemente un'elegante signora sui trent’anni, con la coccarda tricolore bene in vista sull’eccentrico cappellino all’ultima moda, che lasciava ricadere sulla fronte un paio di vezzosi boccoli scuri. Il tono, squisito ma fermo, era quello di chi è abituata a chiedere con estrema cortesia, ma anche a essere obbedita senza discussioni: «Su, su, spicciatevi! Eugène, Hortense, forza bambini, entrate in casa!» .

«Abbiamo quasi finito, signora!» disse un uomo di mezza età che inalberava un superbo paio di baffi, affacciandosi alla balconata aperta tutto attorno alla massiccia magione borghese. Alle sue spalle, seminascoste dalle tende della portafinestra, Verneuil scorse alcune giovani ben vestite, intente a rassettare l'appartamento al posto della servitù, come spesso accadeva da quando i ci-devant, messi in ginoccchio dall’ondata rivoluzionaria, erano stati costretti a rinunciare a molti dei loro lussi. Nel momento in cui una delle damigelle retrocesse di qualche passo, volgendo repentinamente il capo, a Verneuil parve di riconoscerne la chioma di oro brunito: poteva trattarsi veramente di Amelie? si chiese, riluttante a credere di aver fatto centro al primo colpo.

Poco dopo si presentava all’ineffabile signora del trasloco.

«Viva la Nazione!» disse lei, degnandolo di un rapido cenno del capo, mentre gli porgeva la punta delle dita in una morbida mossa più adatta al baciamano che a una vigorosa stretta rivoluzionaria. «Sono la cittadina Beauhar-nais, moglie del generale in capo dell'armata del Reno. Mi sto trasferendo per qualche mese in questo grazioso villaggio con i miei figli, alla cui salute poco giova l’aria insalubre della città.»

Sull'alto comando del fronte orientale stava per piombare la bufera dei commissari politici, foriera di non pochi cambiamenti nelle gerarchie militari, per cui l’accorta signora aveva pensato di mettersi al sicuro per tempo, tradusse Verneuil mentre si produceva in un vago inchino che, sebbene poco ugualitario, poteva sempre interpretarsi come un omaggio all’indubbio fascino della generalessa, anziché alla sua posizione sociale.

«Sono a vostra completa disposizione, commissario» mormorava intanto lei con voce soave. «Ma prima dovete farmi un favore. . . vedo che siete agile e robusto: sareste così gentile da dare una mano a trasportare il mio armoiri A Parigi si temono sommosse e non mi andava di lasciarlo incustodito all’hotel, è un caro ricordo di famiglia. . .»

Colto alla sprovvista, Etienne non ebbe la presenza di spirito di rifiutare, così si ritrovò, lui commissario speciale del Comitato di Sicurezza, a far da facchino a una possibile sospetta. Sì, perché l'affascinante signora, ben conosciuta in certi ambienti, era repubblicana da poco, essendo nata con il nome di Rose-Josephine Tascher de la Pagerie in una grande piantagione della Martinica, coltivata da manodopera schiavile. E suo marito - quel Beauharnais maresciallo di Francia cui pochi mesi prima era stata offerta la poltrona di ministro della Guerra - altri non era se non un visconte, nobile come la maggior parte degli ufficiali di un’armata che fino a pochi anni prima aveva negato ai plebei i gradi superiori.

«Ecco, spingete pure il mobile nella loggia, ci penserà il caro Restif a metterlo a posto. Ma perché mi cercavate, commissario, avete forse notizie dal fronte?» chiese la bella creola atteggiando la bocca a un sorriso grazioso, che non riuscì tuttavia a celare del tutto la sua ansia di madre: Verneuil notò il movimento nervoso degli occhi, che correvano continuamente ai piani alti della casa, dove erano saliti i figli bambini.

«Desidero parlare a una vostra amica, Mademoiselle de Saint-Cyr» azzardò Etienne, tirando a indovinare.

A differenza di quanto si aspettava, la manierosa signora non negò affatto di conoscere Amelie. «La cittadina Saint-Cyr? Veramente non si tratta affatto di un’amica, soltanto di una conoscente. . .» si schermì prudentemente.

Una Saint-Cyr, una Tascher de la Pagerie: a quanti altri ci-devant dava rifugio Chanorier, ultimo signore e primo sindaco di Croissy, sulle terre in cui si era ritirato con la scusa di allevare pecore? pensò Verneuil mentre, scrutando perplesso l’anziana matrona che usciva in quel momento da un portone della Grande-Rue, si chiedeva se il modesto abito nero non nascondesse per caso una principessa del sangue.

Proprio allora udì dietro di lui lo zoccolio affrettato di un cavallo al galoppo.

Etienne riconobbe i capelli biondi dell’amazzone, sciolti dalla loro crocchia nella foga della corsa: Amelie, beffatolo una seconda volta, cavalcava a spron battuto verso Parigi.

Quando Verneuil imprecò con voce tonante, la generalessa non era più in vista. Il gentiluomo con i baffi, in compenso, gli si era messo al fianco dandosi da fare per consolarlo: «Suvvia, non prendetevela troppo: alle donne di razza piace farsi inseguire!» .

Fu allora che il commissario ricordò il nome citato dalla Beauharnais.

«Siete forse il celebre Restif de la Bretonne?» chiese, sforzandosi di usare un tono ammirato che tuttavia suonò poco convincente, dato che i libri ammiccanti e pruriginosi del famoso scrittore erotico non erano affatto il suo genere.

«Non vi sbagliate, cittadino, siete al cospetto di Nicolas-Edme in persona!» dichiarò immodestamente il giulivo romanziere.

«Ma vi prego, levate quella brutta esse dal mio nome, si pronuncia Rétif, solo Rétif, come non mi stanco di ripetere ai miei lettori più affezionati, di cui senza dubbio anche voi fate parte. Ditemi allora, qual è il vostro libro preferito, tra i tanti che ho scritto, Le Pornographe o Le Paysan pervertì? Oppure La Femme infidèle?»

Etienne fu costretto ad ammettere la sua ignoranza: «Negli ultimi tempi ho avuto scarse occasioni di dedicarmi alla narrativa. . .» .

«Troppo impegnato a correr dietro alle gonnelle, eh?» finse di rimproverarlo il baffuto. «Ah, tutti uomini galanti, voi della Rivoluzione! Ho appunto in programma un nuovo volume sui piaceri proibiti delle dame repubblicane: sono certo che andrà a ruba!»

«La donna che interessa a me è una sola, quella che mi è sfuggita sotto il naso pochi minuti fa» precisò Verneuil.

«Smettete di crucciarvi, non siete il primo che vede involarsi la sua colombella! Venite, parleremo di come gettarle le reti bevendo qualcosa alla locanda!» propose poi con insperata disponibilità.

Restif bevve, infatti, e mangiò come se da mesi non avesse toccato cibo, tutto a spese del commissario. Conosceva di vista la leggiadra Mademoiselle de Saint-Cyr, una protetta di Madame de Beauharnais, sulla cui amicizia lui stesso faceva affidamento, ammise masticando senza sosta.

«Che donna, la generalessa: potreste vestirla di stracci e vincerebbe in eleganza qualunque dama lussuosamente abbigliata! Possiede una classe favolosa, una spregiudicatezza assoluta e fascino da vendere: in altri tempi sarebbe stata destinata a diventare la favorita reale, ma la Repubblica offre meno opportunità, temo che oggigiorno le sarà difficile arrivare tanto in alto!» sospirò Restif, continuando, in barba alla sua dichiarata fede rivoluzionaria, a gratificare le ci-devant dei loro titoli obsoleti. Sì, certo, Mademoiselle de Saint-Cyr era stata l'amichetta di Lussard, ma tant’è, anche i giacobini più accesi avevano le loro debolezze.

Erano giorni duri, quelli, tutti erano costretti ad arrangiarsi, anche le ragazze di nobile nascita cadute in disgrazia; senza dubbio la cara Amelie avrebbe presto avuto bisogno di un altro protettore, magari più prestante e appetibile del defunto deputato, il commissario doveva soltanto avere la pazienza di aspettare, concluse strizzando l'occhio con un’aria di complicità che a Etienne piacque pochissimo.

«Porta la miglior bottiglia della tua cantina, oste: il mio amico è un intenditore!» ordinò subito dopo Restif, cui evidentemente non era bastato scroccare un lauto pranzo. «Ah, si vede subito che siete uomo capace di apprezzare le cose buone della vita! Purtroppo, quelli che oggi siedono in alto - bravissime persone, s'intende, onestissime e virtuosissime - hanno idee piuttosto ristrette sulla condotta morale, sebbene tra loro ci sia anche chi, nella sua turbolenta giovinezza, ha tentato perfino di far concorrenza al sottoscritto!» esclamò lo scrittore ridacchiando. Verneuil si morse la lingua, certo che Restif alludesse al famigerato Organi, il poema erotico in ottomila versi composto da Saint-Just a diciannove anni, che ancora circolava sottobanco nell’aula della Convenzione, con grande delizia degli avversari politici della Montagna.

«Ho bisogno di ritrovare al più presto la Saint-Cyr!» lo riportò in carreggiata Verneuil, deciso a mettere fine al colloquio prima che il facondo scrittore si scolasse l’intera riserva di vino della locanda.

«Brindo alla vostra indocile gazzella!» alzò il bicchiere Restif e, prima di proseguire, si sciacquò la bocca con l’ultimo sorso, schioccando le labbra in senso di approvazione: se il commissario proprio ci teneva a fare la prima mossa - e lui, da esperto di vita galante, non glielo consigliava affatto, perché era meglio lasciarsi desiderare - poteva forse cercare nel quartiere del Gros-Caillou presso il Champ de Mars, dove gli risultava che Amelie fosse ancora titolare di un fabbricato pressoché inagibile, che proprio grazie alle sue pessime condizioni era sfuggito alla confisca dei Beni Nazionali.

Ottenuta l'informazione desiderata, Etienne si alzò di scatto e, accomiatatosi con una fretta eccessiva, pagò il salatissimo conto con i suoi ultimi assegnati, lasciando Restif a discutere animatamente con l’oste.

«Come sarebbe a dire che rifiutate di farmi credito per un'ultima bottiglia? Sapete almeno con chi avete a che fare, buon uomo? Le mie tirature superano quelle di Voltaire e Rousseau messi assieme! Sono l’autore più venduto di Francia, e se per una volta ho dimenticato a casa il borsellino. . .» lo udì protestare, mentre varcava la soglia.

14 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (5 OTTOBRE 1793)

Gros-Caillou, Champ de Mars, sezione Invalides Per tutto il pomeriggio seguente Verneuil battè il quartiere del Gros-Caillou, a ridosso del Champ de Mars, ripetendo inutilmente a destra e a manca la descrizione di Amelie. Della ragazza, però, nessuno sapeva niente e nemmeno del palazzotto male in arnese di cui gli aveva parlato Restif de la Bretonne.

Stava ormai annottando quando una vecchia che sembrava non avere nulla da fare se non impicciarsi degli affari altrui, gli indicò un edificio decrepito nei pressi della nuova pompa dell’acqua: prometteva di essere proprio quello giusto. Una casa pericolante era pur sempre meglio delle segrete della Salpétrière, doveva essersi detta la schizzinosa Mademoiselle de Saint-Cyr, accampandosi nel fatiscente fabbricato dopo la repentina fuga da Croissy: da una finestra del primo piano infatti trapelava una lama di luce.

Il bagliore di una candela, riconobbe il commissario osservando dalla strada le tenui oscillazioni che danzavano tra le persiane. Suo malgrado, si figurò l'agile silhouette della ragazza come l’aveva vista in rue des Fontaines, mentre scioglieva i capelli al tremolio della fiamma, prima di sgusciare fuori dalla candida camicia.

Il suo amor proprio aveva pagato a duro prezzo quell’istante di abbandono, ma forse ne era valsa la pena, ammise per la prima volta Etienne, avvertendo una sorta di meschino compiacimento per aver avuto la donna destinata al suo eterno rivale.

Stava per rivederla, per chiederle conto dei suoi raggiri e stavolta non si sarebbe fatto abbindolare, pensò in preda a una palpabile eccitazione.

Subito dopo armeggiava con la serratura, che cedette al primo giro di grimaldello; nell’atrio lo accolsero brandelli di tendaggi, frammenti di mobili, stucchi in rovina, puzza di chiuso, polvere e ragnatele.

Raggiunto a tentoni il corrimano della scala, il commissario cominciò a salire al buio verso l’uscio da cui filtrava la striscia luminosa. Aveva quasi raggiunto il pianerottolo, quando incespicò su un gradino sbrecciato, andando a sbattere il piede contro un punzone di ferro battuto, unico residuo di un antico cancello da tempo riforgiato in forma di preziose baionette.

Il rumore, lievissimo, bastò perché la luce si spegnesse.

Non gli sarebbe sfuggita una terza volta, reagì vigorosamente Etienne e, contro ogni elementare prudenza, soffocò il dolore alla caviglia per gettarsi di slancio contro il battente.

L’impatto fu più mite del previsto. Troppo mite. Mentre la porta si spalancava, un acciarino scattò e la candela si riaccese sul bagliore metallico di una pistola.

«Ti aspettavo, Etienne» disse una voce che Verneuil conosceva bene: era la stessa che aveva incitato i servi a colpirlo più forte, nel prato davanti al castello. Il morso della sferza, le labbra strette per non urlare, lo squittio querulo del bambino vestito di azzurro, rammentò il commissario, rivedendosi davanti Fabien pochi anni dopo, già forgiato nelle spigolose asprezze dell'adolescenza, l’odio negli occhi, la spada nella mano. Il sibilo della lama, uno scarto repentino, il polso si torce, le dita cedono, la spada cambia di mano e si abbatte sul viso dell’erede dei Chateau Bois a imprimere una firma indelebile, poche gocce di sangue, un graffio sottile, la sua personale Rivoluzione.

Il gesto, troppo fiero, gli era costato l'esilio perpetuo da Chateau Bois. Per Fabien, però, non era stato abbastanza: la cicatrice sarebbe stata sempre lì, visibile sul suo volto come un marchio di infamia, a ricordargli che un servo aveva levato contro di lui l’arma dei gentiluomini, proclamandosi suo pari.

«Sono tornato per ucciderti!» esclamò infatti.

Un insicuro, un bambinetto che non riesce a farsi prendere sul serio, riflette Etienne esorcizzando la paura: tentare di parlargli ragionevolmente sarebbe stato inutile, conveniva esasperarlo fino a fargli perdere il lume della ragione. . .

«Andiamo Fabien, chi credi di impressionare? Sappiamo entrambi che hai lasciato il tuo comodo rifugio inglese solo perché rischiavi la forca!»

«Somigli al vecchio, la stessa arroganza, la stessa insopportabile insolenza! Lo vedevo ammirarti, affascinato dalla tua rozza vitalità contadina, quando galoppavi a rotta di collo, mentre io avevo paura a montare in sella. “Doveva essere lui il mio erede” mi disse dopo averti fatto frustare e io seppi allora che ti avrei ucciso.»

Etienne ascoltava incredulo: Fabien, il superbo e altezzoso Fabien, roso dalla gelosia per il figlio di una serva. . .

«Mi strappasti la spada, una volta, ma adesso tutto è cambiato. Non hai più di fronte un ragazzino esitante, ma un uomo temibile. L'intera Parigi trema davanti a me, sono l’eroe del trono e dell’altare, il vendicatore dei martiri, il carnefice dei giacobini, l’affossatore di quell’abominio che chiamate Rivoluzione!» Fabien l’imprendibile vendicatore? si chiese perplesso il commissario. Diceva il vero o stava millantando al suo solito?

«Vuoi farmi credere di essere Jeanne?» affermò dubbioso, citando l’unico dettaglio che soltanto il “Boia” poteva conoscere.

«Spero che lui mi veda mentre ti ammazzo, dall'inferno in cui l’hai spedito!» sogghignò l’altro, senza afferrare minimamente l’allusione.

«Sai perfettamente che tuo padre era un traditore.»

«Mio padre, dici? Dimentichi che era anche il tuo? Sempre che tu non sia stato concepito con uno stalliere di passaggio. . .» Non doveva rispondere a nessuna provocazione, pensò Etienne. Se avesse indotto Fabien a vomitare i vecchi rancori, a umiliarlo a lungo prima di premere il grilletto, forse avrebbe trovato il modo per cavarsela: ogni istante speso a rivangare il passato era guadagnato alla vita. «Non sapeva che farsene di una serva di cucina, il marchese di Chateau Bois. La rimandò nella sua capanna a morire partorendo il suo bastardo, mentre tornava a Versailles per far la ruota a corte, da superbo pavone qual era!»

Bisognava spegnere lo stoppino, ragionò febbrilmente Verneuil senza nemmeno ascoltarlo: se aveva mancato il bersaglio già una volta in place de la Maison Commune, Fabien non doveva essere un gran tiratore e per di più adesso era sconvolto dalla collera. . .

Con una mossa improvvisa, finse di cadere di lato, per gettarsi invece sulla candela e scagliarla via. Preso di sorpresa, l’altro esitò a premere il grilletto quel tanto che bastava per consentire a Etienne di rotolare sul pavimento, fuori dalla portata del proiettile.

Il colpo esplose sullo specchio della console, mandandolo in mille pezzi.

Adesso Fabien avrebbe sprecato qualche istante prezioso a ricaricare la pistola al buio, pensò il commissario, ancora riverso a terra. Ma non era buio, si accorse con sgomento: nell’angolo in cui era caduto il mozzicone di cera si era acceso un bagliore rossastro.

L'erede di Chateau Bois sollevò lo sguardo dall’arma e alla vista delle fiamme che cominciavano a sprigionarsi dalle tende, il viso gli si deformò in una smorfia di panico. Con un’imprecazione sorda, rovesciò il pesante tavolo di quercia addosso al suo vecchio nemico e retrocedette tremando verso la scala.

Verneuil vide la massa scura calare su di lui e piombò nelle tenebre.

Doveva essere caduto da cavallo, si disse: ricordava di essere partito a brìglia sciolta verso il castello, ancora sconvolto dalla rivelazione delle sue origini. Si era sempre creduto l'orfano di un colono, finché non aveva appreso di dover partire per il collegio: era una grande fortuna che il padrone si fosse ricordato di lui, aveva detto compunto il vecchio Guillaume, non tutti provvedevano ai figli naturali, soprattutto se nati da donne di umili condizioni. Etienne, attonito e frastornato, si era sentito sopraffatto dalla vergogna: non per sua madre, ma per l’uomo che l’aveva lasciata sola a morire, mentre si esibiva sgargiante nelle cacce e nei balli, sculettando con il gonnellino damascato come un ridicolo galletto in amore.

Guillaume ci aveva messo del bello e del buono a fargli capire che non aveva scelta se non quella di obbedire, rendendo grazie al cielo per quel tardivo interessamento, e intanto scuoteva la testa, biascicando che il sangue non era acqua, e che nessun figlio di contadino avrebbe inalberato tanto stupido orgoglio davanti a una simile opportunità.

Etienne era balzato a cavallo, lanciandosi a spron battuto verso il castello, per incontrare faccia a faccia quel padrone che per nessuna ragione al mondo avrebbe chiamato padre: meglio, infinitamente meglio, sapersi generato dall'ultimo dei bifolchi, piuttosto che dal despota che ora si permetteva di beneficarlo con un’insultante elemosina. . .

Non ricordava la caduta, in pieno galoppo, ma di certo aveva battuto la testa, perché gli faceva un male d’inferno, si disse aprendo gli occhi.

Nel torpore confuso, vide chino su di lui un volto pallido, una bocca sottile, un naso lungo e dritto e una chioma lucida che brillava alla fiamma dello stoppino come una colata d’oro brunito.

«Ti stai svegliando, eh? L'erba cattiva non muore mai!» disse Amelie mentre gli stendeva una pezzuola bagnata sulla fronte. Etienne fece mossa di rialzarsi, ma ricadde a terra, con la tempia dolorante. «Sono tornata appena in tempo: un altro po’ e mi mandavi a fuoco la casa!»

In un lampo Verneuil ricordò la scena di poco prima: la pistola puntata, le tende in fiamme, il sogghigno di Fabien.

«Dov’è?» gridò con voce strozzata.

«Di chi parli? Non c’è nessuno qui, e comunque non è affar tuo chi ricevo in casa mia!» ribattè piccata la ragazza, stringendosi addosso il fazzoletto di lino che indossava incrociato sul petto, al modo delle popolane. Le mancava solo la coccarda, pensò Etienne prima di notare che, piccolissima, portava anche quella, affondata nella massa dei capelli bruniti.

«Tiralo fuori!» esclamò lui tentando di rimettersi in piedi, ma incerto com’era ancora sulle gambe, non seppe infondere alle sue parole sufficiente imperiosità.

«Ecco che cosa capita a cedere alla debolezza per un uomo che ignora completamente le buone maniere! Non ti è bastato privarmi del comodo alloggio presso la vedova Gallimard, ora vieni anche a rimproverarmi un rivale. . .»

«Rivale un corno! Se è la seconda volta che Chateau Bois tenta di uccidermi, non lo fa certo per i tuoi begli occhi!» protestò Verneuil, meravigliandosi che l'arpia, la sirena, la maliarda, gli apparisse ora nelle vesti di un’innocua damina in vena di schermaglie amorose. Non devo ricascarci, s’impose, è furba come una volpe e infida come una serpe. . . «Sei nei guai, cara mia: hai dato asilo a un agente nemico che ha appena ammesso di essere il “Boia di Parigi”!»

«Lasciati dire che è assai poco galante sostenere di essere venuto a farmi visita solo per inseguire un criminale» flautò Amelie, atteggiando le labbra a una smorfia offesa.

«Smetti di fingerti un'oca giuliva! Hai menato per il naso Lussard, estorcendogli le informazioni sui turni di guardia alla Tour du Temple per trasmetterli ai tuoi complici monarchici; sei fuggita da rue des Fontaines dopo avermi abbordato come l’ultima delle prostitute e ti sei affrettata a lasciare Croissy non appena mi hai visto comparire!»

«Se così fosse, perché invece di prendere il largo mentre eri fuori combattimento, mi sarei preoccupata di farti da infermiera? A proposito, ridammi la mia pezzuola, sei perfettamente in grado di curarti da solo!» sbottò lei, infastidita. «Stavo arrivando a casa quando dalla strada ho scorto nelle mie stanze una luce troppo vivida per provenire da una candela o da una lanterna. Conosco bene i pericoli del fuoco, così mi sono precipitata di sopra a soffocare l’incendio» disse Amelie indicando il secchio vuoto sul pavimento. «È stato allora che ti ho visto sotto il tavolo: deliravi di un cavallo e di un tizio di nome Guillaume. . .»

«Che ho detto?» impallidì Verneuil, afferrandole il braccio.

«Niente, niente, soltanto frasi sconnesse» rispose elusiva la ragazza.

«E Chateau Bois? Il tuo fidanzato mi ha appena sparato addosso!» grugnì il commissario, cercando di distogliere gli occhi dalle morbide onde dei capelli. Ricordava come cadevano morbidi fino alle reni, una volta sciolti, ma ricordava anche che Léonie era scomparsa, Francine si era riempita i polmoni con l’acqua della Senna e altre quattro vittime erano state uccise in modo orribile.

«D'accordo, ti ho mentito» confessò Amelie. «Sapevo che Fabien era a Parigi, perché mi scrisse un biglietto, chiedendo di incontrarmi. Però non fui io a recarmi all’appuntamento, bensì Lussard.»

Lussard conosceva la casa nel Gros Caillou, ragionò Verneuil, nonché i turni delle sentinelle. E se avesse progettato tutto, intrecciando apposta rapporti con Amelie per riuscire a contattare Fabien e vendere a peso d'oro gli orari della torre ai monarchici che progettavano di liberare il delfino? No, l’idea era assurda: il bambino Capeto era stato affidato ai Simon soltanto ai primi di luglio, mentre la relazione tra la signorina di Saint-Cyr e il deputato era iniziata in primavera. Gli orari dei guardiani, tuttavia non erano le uniche informazioni capaci di interessare i monarchici. . .

«Sostieni dunque di non aver più incontrato il tuo promesso da quando ha fatto ritorno in Francia?» chiese Verneuil, cui una Amelie innocente, manovrata dal machiavellico amante, avrebbe fatto molto comodo.

«Il contratto di fidanzamento venne firmato da mio padre senza il mio consenso, quindi non mi ritenevo vincolata» rettificò la ragazza.

«Questo non spiega che cosa ci facesse Chateau Bois in casa tua! A meno che. . .» L'aggressione poteva anche non essere premeditata, ragionò alla svelta Verneuil, tentando di dar corpo a un’altra versione dei fatti: Fabien entra nella casa in rovina di cui Lussard gli ha dato l’indirizzo, forse per cercarvi qualcosa, poi spiando dalla finestra lo vede arrivare, lo riconosce e coglie al volo l’occasione per vendicarsi dei torti subiti, inventando lì per lì le battute a effetto: «Ti aspettavo. Sono tornato per ucciderti!» .

«Lussard ti aveva affidato qualcosa prima di morire, vero?» chiese con una improvvisa intuizione, mentre spiava sul volto di Amelie i segni di un tacito consenso. «Di che cosa si trattava? Un carteggio? Gioielli, denaro, monete d’oro?» azzardò, dando per scontato che difficilmente Lussard avrebbe rischiato il capestro per gli inflazionatissimi assegnati della Repubblica. Comunque, doveva essere un oggetto abbastanza piccolo perché la ragazza lo tenesse addosso quando, uscita mezza nuda dal suo letto, aveva avuto a malapena il tempo di indossare un mantello prima di darsi alla fuga. Non una valigia, dunque, né un baule, né una cassa. . .

«Una chiave» comprese infine il commissario e un impercettibile tremolio tra le sopracciglia di Amelie gli fornì la sospirata conferma.

«È una specie di piastrina» confessò la ragazza. «Quando un certo affare fosse andato in porto, mi avrebbe comunicato per iscritto come usarla, sigiando l’ordine con tutte e tre le sue iniziali, / AL, Jéròme Augustin-Lussard, che pochi conoscevano.»

«Dunque temeva di essere imbrogliato. Possibile che non ti abbia detto altro?»

«No, ma so che stava trattando l'acquisto di un vasto fondo agricolo all’asta dei Beni Nazionali.»

«Un'asta truccata, ovviamente!» Trame, macchinazioni, cabale, intrighi, affari sporchi, come ai tempi dell’ancien regime: i furbastri stavano incamerandosi tutto il possibile, prima che i piccoli appezzamenti di terreno da vendere ai contadini prendessero il posto delle grandi proprietà cedute al migliore offerente, ovvero quello che scuciva la tangente più grossa. E, guarda caso, l’ultima asta, quella cui Lussard avrebbe dovuto partecipare, era gestita da Nicolas Caron in persona. . .

«Dov’è ora quella chiave? Ne ho bisogno per arrivare al “Boia”!» chiese Verneuil, ormai convinto che Fabien si fosse vantato falsamente di essere il famoso assassino.

«Jéròme se la fece restituire!»

Amelie mentiva, comprese subito il commissario: si teneva certamente la chiave addosso, riflettè, ricordandola in rue des Fontaines, con i seni nudi su cui spiccava il medaglione d'argento dove dame d’altri tempi avevano serbato le ciocche di capelli dei loro amanti. Non era certo il caso di trascinare la ragazza in guardina per farla perquisire, a rischio di non trovare un bel nulla, decise, risolvendosi a combatterla con le sue stesse armi.

«Dove mi porterai adesso? Non sono abbastanza importante per la Conciergerie.»

«Eh, quanta fretta di farti rinchiudere!» la interruppe lui, circondandole con un braccio la vita sottile, mentre le sfiorava la nuca vellutata alla ricerca del famoso pendente: sarebbe bastata una piccola pressione per aprirlo, si disse, mentre lei cedeva con morbida arrendevolezza al tocco delle sue mani.

Amelie teneva gli occhi chiusi, divisa tra paura e speranza. Gli uomini della Rivoluzione erano così giovani, così belli, così onesti e lei era stanca di mele marce, di molli sanguisughe, dei tanti Fabien e Lussard di cui era piena Parigi. Chissà se era davvero troppo tardi per ricominciare daccapo? Ma un uomo integro come Verneuil sarebbe certamente inorridito sapendo il delitto di cui si era macchiata. . .

Per un attimo Amelie si permise di sognare, poi un grido di trionfo la riportò bruscamente alla realtà.

«L’ho presa!» esultò in quel momento il campione di onestà, sventolando la piastrina sottratta con mezzi subdoli al medaglione.

“Lurido verme! ” avrebbe voluto insultarlo Amelie, ma una vita di abili raggiri non si dimentica in un giorno, per cui mormorò invece, con il tono più tenero del belato di un’agnella: «Non portarmela via! Lussard era in combutta con gli agenti nemici. Se Fabien si trovava davvero qui, significa che i monarchici vogliono quella chiave e per averla non esiteranno ad uccidermi!» .

«Una ci-devant in meno da appendere alla lanterna!» replicò lui. «E non contare su un arresto che ti permetterebbe di atteggiarti a vittima: ti lascio ai tuoi amici, incantevole Amelie!»

«Ma potrebbero seviziarmi, credendo che sappia chissà cosa!»

«Niente di più facile: la tortura era largamente praticata nel vostro ancien régime!»

«Non starai dicendo sul serio, vero? Intendi davvero abbandonarmi in balia di una masnada di fanatici?»

«Grazie e a non rivederci» la salutò Verneuil avviandosi alla porta.

«Ti supplico, ti supplico!» gridò lei e gli si aggrappò, piangendo a dirotto.

Alla Porce, pensò Verneuil, in mezzo ai delinquenti comuni. No, meglio alla Salpétrière, tra prostitute e accattoni. O forse a Saint-Sulpice, nella sezione riservata ai detenuti politici. Oppure al Lussemburgo. Alla Bicétre, stava per aggiungere, prima di ricordare chi ci era stato rinchiuso e che fine aveva fatto. Forse però esisteva un’altra possibile soluzione. . .

 

Quai de la Maison Commune, ci-devant quai de la Grève, appartamento di Etienne Verneuil, sezione Maison Commune Quando il commissario introdusse la ragazza nel suo appartamento era notte fonda. Tutto si aspettava dunque, salvo di trovare Pàquerette ad aspettarlo.

«Ah, no! Ne ho sopportate due, di una terza non se ne parla nemmeno!» tuonò la governante. «Sono stanca di vivere sotto lo stesso tetto delle tue sgualdrine. O questa cambia aria o me ne vado io!»

Vedendosi trattato a quel modo da una domestica in presenza di Amelie, Etienne si sentì avvampare: «Fino a prova contraria, questa è casa mia!» replicò. L’anziana governante, che aveva contato sulle solite scuse condite da qualche moina, non credette alle sue orecchie: dieci anni di devozione al servizio di quello sciagurato, ed ecco la ricompensa! Soffocando le lacrime, raccolse le ampie gonne con un gesto di sussiego, drizzò le spalle e si apprestò a uscire.

«Vi prego, signora, restate!» mormorò l'infingarda con la voce suadente. «Ho pensato soltanto alla mia salvezza, senza tener conto di quanto sarebbe imbarazzante per voi ospitare un’ex aristocratica!» Aristocratica. La parola magica non mancò il suo effetto sulla vecchia, che rivolse al padrone uno sguardo interrogativo.

«Come figlia di un conte emigrato, la cittadina Saint-Cyr suscita le diffidenze dei rivoluzionari, ma corre anche seri rischi per via di un segreto che disturba i monarchici.»

«Aspettate, cittadina. . . volevo dire signorina» disse la governante, accennando un goffo inchino.

«I diritti feudali sono stati aboliti!» le ricordò Verneuil, seccato di quell’ossequio servile: che ne sarebbe stato della Repubblica dei liberi e degli uguali se perfino Pàquerette era disposta a piegare la schiena davanti a una qualunque ex nobile?

«Resta inteso che questa volta la porta dovrà rimanere sbarrata: la cittadina è una detenuta! E adesso lasciaci soli!» ordinò il commissario spingendo la ragazza sulla scala, fino allo stanzino sotto i tetti.

Erano entrambi sulla soglia quando, in un sussulto di vitalità, Etienne la trasse a sé senza reale convinzione, quasi a riaffermare che le cose erano cambiate e adesso era lui ad avere tutti i diritti. Anziché sottrarsi, lei dischiuse la bocca in un lungo bacio prima di precederlo con la bugia in mano verso il modesto giaciglio dove aveva dormito Léonie.

Il fazzoletto della poverina era ancora piegato sulla trapunta. Amelie si tolse il mantello con un rapido gesto e ve lo seppellì sotto, quasi a cancellare ogni segno della precedente ospite. Ma quando volse il capo, il sorriso cui aveva atteggiato le labbra si spense di colpo: la stanza era vuota e la porta sbarrata.

17 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (8 OTTOBRE 1793)

Rue Mouffetard, Tipografia Zéphirin, sezione Observatoire Vedendo comparire sulla soglia della tipografia Caroline, che tornava in quel momento dalle Tuileries, Violaine Zéphirin alzò gli occhi dalla pressa.

«Com'è andato l’interrogatorio di Claire Lacombe?»

«È inaudito che, dopo essersi battuti per il suffragio universale, ora i giacobini sospettino di una patriota decisa a percorrere fino in fondo la loro stessa strada, chiedendo quella completa uguaglianza politica tra uomini e donne che manca ancora alla nostra Repubblica! Claire si è difesa come una leonessa davanti ai convenzionali al gran completo, tutti maschi, tutti diffidenti, tutti scettici sulla sua buona fede!»

«Farebbe bene a lasciare Parigi. Dopo l’assassinio di Marat a opera della Corday, non tira aria buona per le donne troppo coinvolte nel processo rivoluzionario: la presidente del Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie viene tacciata di agitatrice sanculotta, mentre le girondine Olympe de Gouges e Madame Roland sono ancora agli arresti» commentò Violaine.

«Per noi non cambia niente. Hai riflettuto sul mio progetto?»

«Ci sto: faremo il giornale!» esclamò la tipografa aprendosi in un sorriso smagliante che la fece sembrare quasi bella: Caroline preparasse gli articoli, lei li avrebbe stampati, poi non restava che incollarne alcune copie sui muri e assumere gli strilloni per diffondere il foglio in tutti i quartieri.

«Abbiamo notizie straordinarie da pubblicare!» gongolò la gazzettiera. «Parleremo del processo all’Austriaca, ma anche delle soldatesse parigine che combattono al fronte a dispetto dei divieti. Il pezzo forte, però, sarà sul “Boia di Parigi”, su cui possediamo notizie esplosive!»

«Sarebbe meglio se riferissi alle autorità quanto hai scoperto a casa del notaio.»

Caroline, però, non aveva nessuna intenzione di condividere il risultato delle sue indagini con i bacchettoni della Sicurezza e soprattutto con il più odioso di tutti, lo scorbutico Verneuil.

«A me non sembra tanto male» dissentì la tipografa, e la cittadina Mathieu cominciò a nutrire qualche dubbio: se fosse riuscita a trovare quel maledetto sbirro in un momento buono - ma esistevano momenti buoni per il commissario Verneuil? - gli avrebbe fatto vedere lo schizzo e, rendendosi conto di quanto era in gamba, lui l’avrebbe guardata con occhi diversi, accorgendosi anche delle sue ciglia lunghe, del naso ben fatto e del corpicino niente male.

Era un uomo solo, burbero e poco socievole, lo giustificò la ragazza in vena di indulgenza, niente mogli, amanti o conviventi in casa sua, soltanto una vecchia serva brontolona. Il disegno in suo possesso le offriva l’opportunità di fare la pace, forse ciò che gli mancava era soltanto un gesto gentile e la compagnia di una donna capace di apprezzarlo. . .

19 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (10 OTTOBRE 1793)

Rue des Fontaines, sezione Gravilliers Verneuil si aggirava per l’appartamento di rue des Fontaines come un leone in gabbia, ma, per quanto osservasse, frugasse e passasse a setaccio la mobilia, non riusciva a capire la funzione della piastrina sottratta ad Amelie.

Eppure, quel pezzetto di legno era senza dubbio una chiave: i minuscoli pioli inseriti nel quadrato parlavano chiaro. Il difficile, però, era cercare la serratura.

Non si trovava nell'armadio, perquisito a lungo, non dietro alla mediocre veduta di Saint-Sulpice che campeggiava sul camino e nemmeno nel camino stesso, già controllato dall’interno a prezzo di una camicia nuova. Restava il letto a baldacchino, fin troppo evocativo delle passate trasgressioni di Amelie; il commissario si arrampicò fino in cima, solo per scoprire un ricettacolo di ragnatele e insetti morti.

Fu da lassù che notò il contrasto tra la fodera verde della nicchia e l'intonaco dei muri, luridi di macchie disgustose. Un balzo e già strappava la decorazione orientale, bussando dappertutto per percepire l’eco di una cavità.

«Ma sei matto? Avevo rinnovato quella carta da parati solo l'anno scorso!» gridò un omone dalle sopracciglia cespugliose affacciandosi alla porta dell’appartamento proprio nel momento in cui Verneuil si risolveva a desistere, senza aver trovato nessun doppio fondo.

«Fuori, è in corso un’indagine!»

«Fuori un corno, questa è casa mia! L'ho affittata per raggranellare qualche spicciolo, adattandomi a vivere con i miei suoceri sopra l’Osteria del Berretto frigio, un localaccio frequentato da facchini e scaricatori disoccupati, i cui schiamazzi mi tengono sveglio fino a mattina. Ecco che cosa succede a fidarsi di un giacobino: ora dovrò rimettere tutto a posto!» si lamentò il nuovo venuto additando lo scempio della nicchia. «Senza contare che, oltre i danni, ci ho rimesso anche la reputazione!»

«Suvvia, non è la prima volta che qualcuno si porta una donna in camera. . .»

«Passi la mantenuta, ma un maschio. . . i dirimpettai se la sono presa con me, sono bravi repubblicani, gente che vive secondo natura, mica debosciati come i ci-devant, che una ne facevano e cento ne pensavano!»

«Quale maschio?» domandò Verneuil attento.

«Un tizio equivoco, con gli occhi bovini e una cicatrice in faccia.» Fabien, riconobbe il commissario eccitato: dunque Amelie non aveva mentito, era stato Lussard a tramare a sua insaputa con i monarchici!

«Bisogna stare attenti a chi ci si prende in casa, di questi tempi, cittadino: la città rigurgita di spie!» lo redarguì Verneuil in tono vagamente accusatorio.

«Io non so niente, quel tizio non l'ho neanche visto!» si affrettò a conciliare l’irsuto, temendo di andarci di mezzo. «Ehi, ma la carta da parati a me chi la rimborsa?»

Brava la vicina, bravi i patrioti, brave le Sentinelle della Patria e bravi tutti i parigini che non riuscivano proprio a occuparsi dei fatti loro, pensò Etienne sollevato, allungandogli tutti i soldi che aveva in tasca. A dispetto del “Boia”, a dispetto delle beghe che gli impedivano di mettere le mani su Caron, a dispetto della serratura introvabile, uscendo da rue des Fontaines il commissario si sentì più disteso.

Quello, in effetti, doveva essere un giorno particolarmente fortunato, perché quando giunse sulla soglia di casa trovò ad attenderlo du Plessis in forma smagliante - ed era dir molto, per l’incolore abatino - ansioso di comunicargli una grande notizia: la ribelle Lione era stata espugnata dopo due mesi di durissimo assedio.

Amelie innocente, Lione caduta: tutto era ancora possibile, pensò Verneuil sorprendendosi a fischiettare.

20 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (11 OTTOBRE 1793)

Atelier di Jacques-Louis David, sezione Muséum David voleva parlargli, gli avevano detto alla Sicurezza, l'avrebbe trovato nell’atelier che la Repubblica gli aveva messo a disposizione al Louvre.

Giungendo davanti allo studio dell'artista, da cui di norma proveniva il vociare eccitato di tanti allievi e ammiratori, Verneuil si preoccupò non poco dell’insolito silenzio.

David, infatti, tendeva alla malinconia e dopo il divorzio dalla moglie monarchica, soltanto gettandosi a capofitto nella politica aveva evitato di soccombere a una crisi di sconforto; solo di rado, tra un'emergenza e l’altra, riusciva quindi a mettere mano ai pennelli. In quei giorni, tuttavia, stava dedicandosi anima e corpo alla tela che l’intera Convenzione gli aveva chiesto di dipingere fin dal giorno in cui il gran cuore di Marat si era fermato per sempre.

Non appena entrato nell'atelier, Etienne fece un balzo indietro, convinto di aver visto un fantasma: davanti a lui, riverso su una sedia con la fascia bianca attorno al capo, giaceva l’“Ami du Peuple”, integro come se il pugnale della Corday l’avesse appena trapassato.

«Una somiglianza straordinaria, non trovi?» disse David. «Ti presento la cittadina Albertine Marat, sorella del defunto tribuno, che ha accettato di posare per me. Nel quadro, ovviamente, al posto della sedia c'è la vasca da bagno in cui l’“Ami du Peuple” è stato barbaramente assassinato» spiegò l’artista.

In quella tinozza Marat - afflitto dalla grave malattia cutanea contratta fuggendo i suoi inseguitori attraverso le fogne - aveva letto, scritto, studiato, pensato, redatto i suoi articoli infuocati per l’“Ami du Peuple” e infine si era esposto alla lama della traditrice girondina. E poiché la penna era stata la sua unica arma, David intendeva raffigurarla accanto alla mano ormai inerte, come la spada che il guerriero rilutta ad abbandonare anche in punto di morte.

«Ho votato la mia esistenza alla memoria di mio fratello, quindi plaudo a ogni iniziativa che ne celebri la grandezza» intervenne la donna con uno sguardo duro, quasi ritenesse insufficiente l’omaggio che la Rivoluzione aveva reso al suo martire, imbalsamandone il cuore come in altri tempi si faceva con le reliquie dei santi.

Dopo averla congedata, il pittore si rivolse aspramente al commissario:

«Così non va, maledizione! Pierre insiste nel darti fiducia, ma io comincio a nutrire seri dubbi. L’inchiesta è cominciata da più di un mese e il “Boia” se la ride ancora indisturbato, preparandosi magari a mozzare le teste degli stessi Robespierre e Saint-Just!»

«Sto cercando le prove dei contatti di Caron con gli agenti monarchici» si giustificò Verneuil.

«Ma, dico io, possibile che, con tutto il tuo indagare, tu non abbia mai avuto sottomano qualche monarchico o qualche girondino su cui far cadere l’accusa?» sbottò David.

«Credevo che voleste la verità!»

«Certo che la vogliamo, ma il momento è tanto difficile che ci sarebbe di grande conforto sapere i buoni dalla nostra parte e i cattivi dall’altra!» sospirò il pittore.

«La carta dei biglietti con cui il “Boia” si firma, al microscopio di Lamarck è risultata la stessa in uso presso i funzionari della Repubblica. Difficilmente un monarchico potrebbe esserne in possesso.»

«Sciocchezze! Potrebbe averla sottratta al cassetto di qualche membro della Convenzione!»

«Ti piaccia o no, il “Boia” dev’essere per forza in contatto con i nostri» ribadì Verneuil.

«Anche alcuni agenti monarchici purtroppo lo sono. Non è atroce che ci si debba scannare tra fratelli?» disse David guardando con nostalgia il ritratto della moglie lontana. «Mi manca, sai? Nessuno mi era più caro al mondo!»

«Un giorno la rivedrai» si sforzò goffamente di rincuorarlo Etienne, per nulla portato a fungere da spalla su cui piangere.

«Sempre che i prussiani non prendano Parigi, che gli austriaci non rimettano sul trono un altro re e che noi non finiamo tutti alla ghigliottina!» esclamò abbattuto David, accasciandosi sulla sedia.

Il commissario girò lentamente attorno al cavalletto e rivolse al pittore un muto sguardo interrogativo, additando il quadro celato da un panno bianco, che si rabboccava sul fondo per lasciare intravedere, ancora umida, una sola scritta: «A Marat. David» .

Verneuil tolse il panno e rimase a bocca aperta.

«Non ti piace?» dubitò l’artista mordendosi le labbra.

«Sono ammutolito dall’emozione, Jacques-Louis. Non ho parole, non ci sono parole per descriverlo!»

«È solo un uomo morto in una vasca da bagno» si schermì il pittore con falsa modestia.

«Un uomo morto in una vasca da bagno più potente di qualunque Achille, più glorioso di qualunque Ettore, più epico di qualunque Leonida, più drammatico di qualunque eroe vittorioso mai dipinto finora. Nessuno aveva mai osato niente di simile: hai dato alla Rivoluzione il suo simbolo, alla Francia il suo capolavoro!»

«Tra qualche giorno lo esporrò, qui al Louvre!» annunciò David, emozionato.

«Ci rimarrà per sempre, Jacques-Louis!» sorrise Etienne con entusiasmo.

«È il mio dono alla Nazione» gli confermò il pittore, il viso illuminato da una gioiosa fierezza che durò lo spazio di un solo istante. Un attimo dopo, David, già rabbuiato, chiedeva al commissario, stringendogli il braccio con forza: «Se però qualcosa andasse storto, se la Rivoluzione fosse sconfitta, se i Borboni dovessero tornare. . . giurami che i monarchici non metteranno mai le mani sul mio Marat! Si prendano pure tutto il resto, tutto ciò che ho dipinto e dipingerò in futuro, ma non il mio Marat!» .

«Non lo avranno. E non avranno neppure Parigi!» gli assicurò Verneuil, che aveva cominciato a credere davvero a una possibile vittoria.

21 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (12 OTTOBRE 1793)

Quai de la Maison Commune, ci-devant quai de la Grève, appartamento di Etienne Verneuil, sezione Maison Commune La mattina dopo, Caroline, acconciata con un tubino minuscolo da cui sfuggivano alcuni boccoli rossi e tre leggere piume di struzzo, si fermò davanti alla porta ad accomodarsi la giacca stretta, tagliata apposta per evidenziare le forme senza nulla togliere alla sua praticità di donna impegnata, lavoratrice, rivoluzionaria. Perfetto, valutò soddisfatta, bussando alla porta del commissario.

«Sì, è in casa!» la introdusse nello studio Pàquerette con un mezzo mugugno: non voleva avere nulla a che fare con le tresche del padrone, lei, ignorava che fosse un tale vagheggino quando si era messa al suo servizio, forse era stata la Rivoluzione a montargli la testa, se la vedesse da solo con tutte quelle femmine d'assalto, convinte che passando da un letto all’altro avrebbero cambiato la storia.

Fu così che Caroline, rimasta sola, occhieggiò curiosa verso l’atrio in cui si apriva la scala della soffitta: chissà se quella simpatica ragazza che le aveva fornito tante informazioni utili era ancora lì? si chiese, salendo senza far rumore.

Il momento, però, non era dei più opportuni: un po’ per la gioia della presa di Lione e molto sotto la suggestione delle immagini evocate dal letto di rue des Fontaines, la sera precedente Etienne, prima di chiudere a chiave la cameretta sotto i tetti, era entrato a sua volta, certo di trovare buona accoglienza.

Così, non appena Caroline, piena di buona volontà e anche di un certo inconfessato trasporto, spalancò l’uscio della soffitta, lo sguardo le cadde sul groviglio di coperte in mezzo alle quali il commissario giaceva accanto a una smorfiosa in camicia, con i capelli languidamente sciolti sulle spalle.

«Merde!» sibilò la giornalista, sentendo le lacrime salirle agli occhi. «Merde, merde e ancora merde!»

Un istante dopo si precipitava giù per la scala come se avesse alle calcagna un battaglione di agguerritissimi prussiani.

Lussard colluso con i monarchici, Lussard assassinato, pensava Etienne mentre si rivestiva, fingendo una sovrana indifferenza all'irruzione di Caroline. E se il “Boia”, con il suo macabro rituale, avesse inteso mascherarne l’omicidio in mezzo a tanti altri, in modo da celarne il movente? Il deputato giacobino non poteva aver fatto tutto da solo, gli occorreva un referente in alto, e chi se non l’altezzoso Caron?

Avrebbe voluto sfruttare meglio il risentimento della Poupeau che, in quanto amante in titolo del membro della Convenzione, presumibilmente conosceva i suoi maneggi; l'attrice non sarebbe certo tornata dall’esilio per testimoniare, ma, a detta di du Plessis, aveva avuto un marito e forse era possibile rintracciarlo. . .

«Fabien vuole la tua morte» gli disse Amelie a un tratto. «Me lo confidò anni fa, durante una cena in casa Kornaszewski, prima ancora che il vecchio marchese venisse trucidato. Ti odia, ma odiava suo padre ancora più di te: parve piuttosto soddisfatto quando gli dissero che avevi prodotto delle lettere autografe a testimonianza dei suoi rapporti con lo stato maggiore nemico.»

«È una faccenda di cui non devi occuparti, Amelie» tagliò corto Etienne.

«Noi tutti abbiamo alle spalle storie tremende, a volte atroci» rispose lei stringendogli il volto fra le mani. «Perché, se questo è un nuovo mondo, non ci è permesso di vivere in pace?»

«Lo faremo quando la Rivoluzione sarà al sicuro!» promise Etienne andandosene, non senza aver chiuso la porta a doppia mandata.

 

Ufficio dello stato civile, faubourg Saint-Honoré, sezione Champs-Elysées Il viaggio procedeva a rilento, né il cocchiere giudicava necessario affrettare l'andatura per compiacere un commissario della Sicurezza. C’era stato un tempo in cui le scintillanti carrozze dagli alteri blasoni facevano il bello e il cattivo tempo nelle strade, incuranti di travolgere i passanti; adesso le vetture erano poche e prudenti, perché il popolo di Parigi aveva perso la sua proverbiale pazienza e se un incauto conducente si fosse azzardato a investire un bambino o a schiacciare una donna contro il muro, i sanculotti si sarebbero gettati davanti ai cavalli, pronti a trascinare il disgraziato giù da cassetta e magari ad appenderlo a un lampione.

Fu così che Verneuil ci mise un bel pezzo per arrivare all’anagrafe.

L'ufficiale dello stato civile, un certo Dumarais, lo fissò con lo sguardo disperatamente miope che gli era valso un categorico rifiuto quando aveva chiesto di arruolarsi nell’esercito, poi sorrise beato, come se avesse atteso a lungo e con trepidazione la sua visita. Non potendo difendere la patria in armi, infatti, Dumarais la serviva con zelo dal suo ufficietto striminzito, catalogando scartoffie, apponendo timbri e aggiornando archivi, grato a un mestiere che gli permetteva di contemplare da un osservatorio privilegiato la città di Parigi, quindi la Rivoluzione, quindi il glorioso tragitto dell’umanità verso un futuro più giusto e felice.

«Lunga vita alla Nazione, cittadino! Le cose vanno bene, molto bene!» esclamò, esibendo un fascio di appunti. «Il numero dei matrimoni è raddoppiato, in quanto le giovani coppie confidano nel roseo avvenire di una patria libera e repubblicana!» E anche perché tutti gli uomini stanno partendo per il fronte, aggiunse Etienne fra sé. «Le cerimonie nuziali, tuttavia, mancano di solennità. . . in questa petizione, che ti affido perché la consegni a chi di dovere, mi permetto di suggerire un grande rito collettivo davanti all'altare della patria, accompagnato dalla promessa di crescere i figli nell’odio per i tiranni» disse Dumarais mettendogli in mano un’istanza già pronta.

«A dire il vero sono qui per un’altra ragione.»

«Ma certo, vuoi sicuramente controllare il registro dell'ultimo mese! Eccolo qui: sono nati un Gracco, tre Marat, due Cincinnati, un Voltaire, un Tacito e parecchi Bruti. Con le femmine va ancora meglio: quattro Liberté, undici Egalité, tre Lucrezie, una Convenzione e perfino una Montagnarda. Avvalendomi delle mie prerogative, inoltre, ho posto fine alla discriminazione con cui si bollavano i trovatelli come Trouvé o Dieudonné: ogni figlio di Francia ha diritto di cominciare la sua esistenza sotto i migliori auspici!» gongolò Dumarais mostrando una lunga lista di Victor, Victoire, Victrice e Victorien. «Mi aspetto che il nuovo calendario, ispirato alla natura, suggerisca presto nuovi nomi di alberi e di fiori!» Così anche la vecchia Pàquerette, con il suo assurdo nome di fiore selvatico, sarebbe diventata di gran moda, pensò il commissario reprimendo un sorriso. «Purtroppo c’è ancora chi insiste nel chiamare i figli Jean, Denis, o addirittura Etienne!»

«C'è da non crederci!» deplorò Verneuil, lesto ad inserirsi con una precisa domanda nell’interminabile rapporto onomastico.

«Lo stato civile è stato istituito da poco e molti registri parrocchiali sono rimasti nelle chiese d’origine» spiegò Dumarais e, arrampicatosi in men che non si dica su una scala piuttosto traballante, scavò nello scaffale fino a estrarne un poderoso raccoglitore. Infine, oscillando sui pioli come un aquilone al vento, ridiscese con insperata agilità, stringendo al petto il suo tesoro: «Qual è il nome?» .

«Adrienne Poupeau.»

«Non starai parlando della famosa attrice, vero? Perché in questo caso, sei davvero fortunato: alcune sere or sono, mentre mi attardavo in ufficio per mettere in ordine delle carte, mi è caduto l’occhio su un attestato che citava il suo nome.»

«Di matrimonio?»

«Non riesco a ricordarmene. . . su, dammi una mano!»

Qualche istante dopo i due sedevano in terra, in mezzo a caterve di quadernetti e cartelline gualcite tra i quali lo zelante impiegato si muoveva con la disinvoltura di una trota nelle acque limpide di un torrente di montagna.

«Aspetta, c’è un altro sportello qui dietro!» esclamò Dumarais, spostando una pila di scartoffie per accedere allo scomparto retrostante. Nella testa di Etienne suonò un campanello di allarme: un doppio fondo, come quello che aveva inutilmente cercato a casa di Lussard. . .

«Trovato!» esultò poco dopo Dumarais, sventolando un foglio. «Si tratta di un attestato di morte: il marito della Poupeau è defunto da quasi tre anni!»

Deluso, Etienne prese in mano il documento e fu quasi per caso che l'occhio gli cadde sull’intestazione: Saint-Philippe du Roule, la parrocchia di Léonie e Francine! L’attrice conosceva le due operaie del bottonificio Parisot o si trattava soltanto di un caso? si chiese mettendosi forsennatamente a controllare tutte le note, nella speranza di scoprire qualcosa. Ad un tratto il suo sfogliare frenetico s’interruppe.

Nelle mani stringeva il certificato di battesimo di Philippe Blondeau, nato il 25 luglio 1791 da Léonie Blondeau e padre sconosciuto.

Philippe, detto Flipot! Léonie aveva un figlio, ed ecco come il “Boia” era riuscito a stanarla dal suo sicuro rifugio, comprese con un brivido. L'assassino aveva avuto gioco facile nell’attirarla fuori di casa, facendole credere che il piccolo fosse malato, o chiedesse di lei. E, da buona madre, la povera ragazza si era subito precipitata a soccorrerlo.

Un'altra delusione, un’altra amarezza, pensò Etienne: per colpa sua, quel piccino era rimasto orfano e solo. Ma se era troppo tardi per salvare la madre, a questa mancanza avrebbe ancora potuto rimediare.

 

Parrocchia di Saint-Philippe du Roule, sezione République Gli fu abbastanza facile trovare il parroco Sauvy, un sacerdote costituzionale che, avendo regolarmente prestato giuramento alla Nazione, contava pochissimi fedeli.

Nessun quadro monumentale, nessun arredo superfluo in canonica, nemmeno un inginocchiatoio: scomunicato da Roma, il prete riceveva ora dalla Repubblica un salario irrisorio, che condivideva con i poveri del quartiere.

«Hai battezzato pubblicamente il bambino, non si tratta dunque di un segreto» insistette Etienne, vedendolo esitare.

«Léonie è una delle poche fedeli a non avermi voltato le spalle, ha cuore quella ragazza, si è svenata per mantenere il figlio a balia, mentre tu chissà dov'eri» lo redarguì il prete, fraintendendo l’interesse di Etienne. «L’ho aiutata come potevo: ogni due mesi mi recavo in campagna sul carretto del legnaiolo, per portare alla nutrice i soldi del baliatico e accertarmi che il piccolo stesse bene.»

«D'ora in poi me ne occuperò io!» si offrì Verneuil, tremando al pensiero di come l’avrebbe accolto Pàquerette quando le si fosse presentato con il moccioso in braccio.

«Il tuo ravvedimento giunge troppo tardi, figliolo: non sempre il Signore ci concede di riparare alle nostre mancanze» disse severo il sacerdote. «Il bimbo non si trova più, è stato rapito solo pochi giorni fa. La balia ha visto un uomo che si allontanava a cavallo. . . povero me, dove troverò il coraggio di dirlo a sua madre?» gemette, nascondendo la testa tra le mani.

«Chi l’ha portato via, un brigante, un bandito, un accattone?» scolorò il commissario, mentre la mente gli correva ai tanti trovatelli che i pitocchi senza scrupoli storpiavano per lucrare più proficuamente sulla questua.

«No, pare che non fosse un comune delinquente. La balia può sbagliarsi, ma le sembra di aver riconosciuto un repubblicano, o almeno qualcuno che portava il pennacchio tricolore!» rivelò il prete, lasciando Verneuil con l’amaro in bocca.

 

Rue Neuve des Petis-Champs, forno Magalou, sezione Montagne I guai non vengono mai da soli, di solito arrivano a grappolo, tutti assieme: mentre il commissario tornava scorato sui suoi passi, gli fu infatti fornito un amaro assaggio dei problemi cui doveva fare quotidianamente fronte il Comitato.

Già dietro place des Piques si avvertivano le prime avvisaglie di un'adunata non propriamente legittima: capannelli di massaie nervose, gruppi di popolani muniti di sciabole e bastoni, drappelli di manovali con lo stocco in mano stavano dirigendosi con intenzioni tutt’altro che pacifiche verso il forno Magalou, in rue Neuve des Petits-Champs.

«Avanti! Il viceprocuratore della Comune Hébert ci ha assicurato che non tenteranno nemmeno di fermarci!» afferrò il commissario in un brandello di discorso.

«Ma se tutti facessero come noi. . .» obiettò un apprendista.

«Preferisci aspettare che il pane venga a dartelo Robespierre?» gli chiuse la bocca il suo compagno.

«Spicciatevi, o resteremo a bocca asciutta!» li esortò una robusta virago che inalberava alta la sua brava picca da combattimento.

Dunque Hébert aveva di nuovo istigato al saccheggio, sospirò il commissario. Ma forse stavolta il peggio si poteva prevenire: il panificio si trovava proprio al confine tra le sezioni Le Peletier e Montagne, non restava che sceglierne una a caso e confidare nella buona sorte, decise, correndo verso la seconda, che era più vicina, dopo essersi levato il bicorno per apparire più credibile.

«Vengo da parte del viceprocuratore della Comune» gridò piombando dentro. «Contrordine, cittadini, un distaccamento di guardie sta marciando sul quartiere, armato fino ai denti!»

«Maledizione, i nostri sanculotti sono già partiti in forze e ci sono donne e bambini con loro!» esclamò il segretario della sezione, battendo il pugno sul tavolo.

«Siamo ancora in tempo a fermarli» esclamò Etienne prendendo la porta.

Quando arrivarono, la saracinesca di legno era stata abbattuta e il fornaio Magalou gemeva con le maniche della camicia inchiodate al muro da due spiedi appuntiti. La virago con la picca, in piedi sui sacchi, stava strappandoli a brani e, sotto di lei, alcuni uomini vigorosi lottavano per guadagnarsi un posto in prima fila, senza nessun riguardo per i più deboli.

La neve bianca zampillò e fu tutto un protendersi di ceste e canestri, mentre alcuni grossi pani neri volavano in alto. A pugni e calci, Verneuil s’interpose tra un paio di energumeni nerboruti e una bambinetta che rischiava di essere calpestata.

«È una trappola, sparite, presto! Via, via, prima che vi arrestino tutti!» ordinò il segretario della sezione e lentamente la folla cominciò un riluttante ritiro.

Quando anche gli ultimi ritardatari ebbero preso il largo, accanto al commissario rimase soltanto la bimba, che singhiozzava toccandosi una larga escoriazione sulla guancia.

«Su, assaggiala!» la esortò Verneuil per consolarla, porgendole una pagnotta.

Lei smise di piangere, allungò timidamente la mano per staccare un minuscolo boccone e se lo mise in bocca, cominciando a masticare piano, a occhi socchiusi come se pregasse.

Il commissario, intanto, si avvicinava alla rastrelliera cui era appeso il fornaio terrorizzato. «C’è la ghigliottina per gli accaparratori: è la gente come voi che spinge i disgraziati alla rivolta! Dove nascondi il pane buono, quello che vendi alla pasticceria Crépy, eh?» chiese, titillandolo con lo spiedo. Magalou indicò un ripostiglio dove, dietro un finto muro, erano accatastate decine di forme fragranti, con cui Verneuil riempì un grosso sacco. «Per stavolta chiuderò un occhio, ma se ti becco di nuovo, il capestro non te lo leva nessuno. E intanto, a questa bambina darai il pane a credito, chiaro?»

Subito dopo prendeva per mano la piccola e tornava verso la sezione Montagne. I volontari di guardia dovevano essersi già accorti dell'imbroglio, forse sarebbe stato meglio filarsela in sordina, pensò davanti all’uscio socchiuso, ma poi, raccolto tutto il suo coraggio, si risolse a entrare.

«Questo è per voi» disse sbattendo il sacco sulla tavola. «Distribuitelo prima di tutto alle donne incinte e alle nutrici, poi ai bambini. E smettetela di dar retta a chi vi manda allo sbaraglio: siete patrioti, non banditi!»

Il segretario della sezione chinò la testa: «Quel fornaio lo conoscevamo bene, sapevamo che il pane ce l’aveva, ma non gli garbava di venderlo al prezzo giusto. . .» .

«D’ora in poi lo farà: abbiamo stretto un patto, io e lui: o il pane, o la testa!» esclamò Verneuil, mentre i volontari scoppiavano a ridere di gusto.

Era il popolo della Bastiglia, il popolo delle Tuileries, il popolo del Champ de Mars, non lo avrebbero piegato né con la fame né con i cannoni, pensò il commissario, sicuro. Quasi sicuro, a dire il vero: in ogni caso, per questa volta era andata bene.

23 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (14 OTTOBRE 1793)

Marche des Halles, sezione Halles Etienne procedeva di buon passo verso rue Pierre, diretto all'alloggio ufficiale del deputato Lussard. Quando arrivò nei pressi delle Halles, un capannello di popolane assediava lo strillone, che gridava a più non posso: «Maria Antonietta davanti al Tribunale Rivoluzionario! Tutti i crimini dell’Austriaca sul primo numero di “L’Echo de Paris”! L’accusatore Fouquier-Tinville interrogherà la ci-devant regina di Francia!» .

«Una copia, ragazzo!» esclamò il bottaio Bastien.

«ça ira, ça ira, c’est fini, messieurs les rois!» ridevano alcuni sanculotti, motteggiando le riverenze di corte.

«Abbasso l’Austriaca, morte ai tiranni!» gridavano le negozianti disputandosi il foglio.

«Ascoltate, gente!» le zittì la moglie del bottaio e, appoggiandosi al busto di Marat che giganteggiava in mezzo al mercato, cominciò a leggere con voce tonante:

«Vogliamo la vita dell’Austriaca in cambio delle migliaia che si è presa con le armi del gelo, della carestia e della guerra. Vogliamo la testa con cui complottava contro la Nazione, mettendo il suo imperial nipote a parte dei movimenti delle nostre truppe!»

«Promette bene, questo nuovo giornale. L’ultima pagina è tutta sul “Boia di Parigi”:

“Un mostro si aggira libero per Parigi, deciso ad affossare la Rivoluzione. Saremo noi a rivelare la sua identità, visto che il funzionario di scarsa esperienza che dovrebbe risolvere il caso brancola ancora nel buio. . . ”»

«Da’ qua!» tuonò il commissario, strappandole di mano il foglio, in calce al quale, ricca di eleganti svolazzi, compariva la firma di Caroline Mathieu.

 

Rue Pierre, alloggio del deputato Lussard, sezione Contrat Social Funzionario di scarsa esperienza! Etienne ribolliva talmente di rabbia da coprire al volo gli isolati che lo separavano da rue Saint-Pierre. Gliel’avrebbe fatta vedere lui, a quella insopportabile presuntuosa!

Sì, perché adesso sapeva dove cercare la serratura di Lussard. Lo scaffale nascosto dell'anagrafe prima, e la dispensa segreta del fornaio dopo, gli avevano chiarito le idee: il doppio fondo nell’armadio non si trovava nell’appartamento di rue des Fontaines, bensì in quello di rue Saint-Pierre.

«E quei lenzuoli, cittadino commissario?» lo investì la ménagère non appena entrato.

«Servono alla Nazione!» la deluse il commissario, certo che la Sentinella della Patria del faubourg du Roule vi avrebbe ricavato ottime bende per i feriti.

Poco dopo, svuotato il ripiano, passava le dita sulla parte posteriore del mobile, individuando alcuni impercettibili forellini. La piastrina chiodata aderì perfettamente al legno, rimuovendo il fondo con uno schiocco sordo.

Dietro, erano impilati parecchi documenti. “Ci siamo” si disse Verneuil afferrandoli con mani febbrili.

 

24 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (15 OTTOBRE 1793)

Rue Saint-Honoré, sezione Tuileries Uscito dal pavillon de la Flore, Nicolas Caron si diresse verso casa, declinando i volontari della scorta. Non appena fuori dalla vista, tuttavia, svoltò di soppiatto verso le aiuole coltivate a fave e piselli, affrettandosi al luogo dell’appuntamento.

Il deputato non era del tutto soddisfatto della piega che stavano prendendo le cose.

La spaccatura della Sicurezza aveva reso indispensabile al Comitato l'appoggio della fazione degli Indulgenti, cui apparteneva assieme a Hérault de Séchelles e allo stesso Danton; di conseguenza, l’indagine sulle sue proficue attività economiche era stata rimandata sine die, e la dilazione gli dava il tempo di liberarsi una volta per tutte del molesto commissario Verneuil, attaccato ai suoi polpacci come un mastino.

Tutto quel bailamme però rischiava di mandare all'aria il piano più remunerativo, la vendita a peso d’oro di Maria Antonietta ai suoi parenti asburgici o agli inglesi che gridavano allo scandalo, dimentichi di aver tagliato per primi la testa al loro re soltanto il secolo prima. Se il processo all’Austriaca fosse andato avanti a quei ritmi sostenuti, i contatti intercorsi tra emigrati e Indulgenti sarebbero diventati lettera morta, deplorò Caron, certo che i membri più intransigenti del governo stessero affrettando l’inquisitoria proprio per batterli sul tempo.

Lui però aveva intravisto il modo di salvare il salvabile: di Incorruttibile, per fortuna, ce n'era uno solo e, negoziando in piena autonomia, si poteva addivenire a un compromesso accettabile: la torta da dividere era grossa, non c’erano limiti al prezzo della vita di una regina. . .

25 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (16 OTTOBRE 1793)

Palais National, sezione Tuileries La mattina del 25 vendemmiaio dell'anno II l’aula della Convenzione si presentava meno gremita del solito, perché il grosso dei parigini era confluito in place de la Révolution per assistere al grande evento: l’Austriaca, la straniera, la nemica, la tiranna, stava per scontare il fio delle sue colpe. Alla Conciergerie Maria Antonietta era già a colloquio con il confessore; subito dopo, il boia Samson le avrebbe reciso i capelli, preparando per la lama il collo dove avevano brillato i leggendari monili pagati con il sangue e il sudore dei francesi.

La tensione che regnava già da qualche ora nell'aula assembleare delle Tuileries, tuttavia, era dovuta solo in minima parte alla notizia della condanna a morte di Maria Antonietta, pronunciata dal Tribunale Rivoluzionario alle quattro di quella stessa mattina: si attendevano ansiosamente notizie dal fronte, perché, davanti a un’ennesima sconfitta, a poco sarebbe valso far cadere nel canestro la testa di quella regina che era entrata quindicenne in città tra la folla acclamante e che ora ripercorreva lo stesso cammino sulla carretta dei condannati.

«Ci sono novità?» stava chiedendo Pierre Blas all’Arcangelo.

«Qualcosa non va nel telegrafo: non abbiamo ancora notizie né dal fronte orientale, né da Bordeaux» rispose Saint-Just che, come la maggior parte dei convenzionali, aveva disertato il palco del patibolo, giacché non al passato si doveva guardare, ma al luminoso avvenire della Repubblica.

Verneuil gli si mise alle costole, impaziente di inserire nel mosaico della sua indagine l’ultimo tassello. I documenti rinvenuti nel doppio fondo parlavano chiaro: Caron era connivente con i monarchici, da cui riceveva regolari emolumenti e Lussard, al corrente di tutto, aveva avanzato sempre nuove pretese, ben al di là del fondo agricolo dedotto dai Beni Nazionali.

Se a ciò si aggiungevano le varie prove indiziarie raccolte nel ripostiglio, ce n'era abbastanza da reggere la requisitoria del primo delitto, per il quale il deputato, stante la lettera dell’attrice Poupeau, non aveva alibi alcuno.

Tuttavia Caron aveva trascorso assieme a Pierre Blas e Saint-Just la notte in cui era stata uccisa la baronessa e questo dettaglio irrisolto avrebbe costituito una spina al fianco per l’accusa.

Dunque il commissario era risoluto a chiedere conferma all'Arcangelo di quell’alibi piuttosto dubbio e ne avrebbe approfittato per togliersi anche il tarlo noioso che lo rodeva dalla sera prima, quando, levandosi la giacca, aveva notato una riga bianca nel risvolto della manica destra. Se la polvere del Louvre che Lamarck non era riuscito a identificare fosse stata semplice farina alimentare, pensava Etienne, allora la lista dei sospetti avrebbe dovuto includere anche il suo amico Blas, recatosi nel museo l’antivigilia del raccapricciante ritrovamento: oltre a indossare stivali, pennacchio e fascia tricolore, infatti, Pierre aveva sedato l’assalto a un forno proprio il giorno prima dell’omicidio.

Ma Saint-Just era in partenza per Strasburgo, dunque quella era l'ultima occasione per parlargli, fremette il commissario, sentendo suonare il campanello d’inizio della seduta.

«Cittadini!» aveva appena esordito il presidente, quando le porte dell'aula si spalancarono davanti a un soldato con la divisa annerita dalla polvere e dalle bruciature. L’intero consesso tacque, trattenendo il fiato davanti a quell’arcaico ambasciatore che pareva venire dritto dritto dalla piana di Maratona: se la guerra fosse stata perduta, a che sarebbe servito proclamare i diritti dell’uomo, tagliare la testa al re, sovvertire il corso della storia?

«A Wattignies gli austriaci sono in fuga. La battaglia è vinta!» gridò il soldato.

Nello stesso istante dall'ufficio del telegrafo giunse un’esclamazione concitata: «Bordeaux è caduta: il generale Brune sta entrando in città!» .

Fu come se nel padiglione fossero esplosi mille cannoni. Il grido nacque dalle tribune popolari, dove le donne gettarono in aria le cuffie e gli uomini i berretti frigi, strappando le bandiere per avvolgersele addosso. Dall’alto volarono fiori, coccarde, fazzoletti tricolori.

«Allons enfants de la patrie. . .» Come un sol uomo i convenzionali si alzarono, indulgenti e arrabbiati, giacobini e sanculotti, montagnardi e cordiglieri, estremisti e moderati, amici e nemici, il duro Hébert e il prudente Lakanal, il taciturno Lebas e il facondo Fabre, il pittore David e il matematico Romme, Hérauld, Philippeau, Amar, Chà-teauneuf, Osselin, Saint-Andre, Tallien e, più in alto, negli spalti, i giornalisti Rivarol e Desmoulins, il procuratore Chaumette, il botanico Lamarck, l’alienista Pinel, il vecchio Duplay, il giovane Babeuf, la dolce olandese Etta Palm e il sanguigno italiano Buonarroti.

«Contre nous de la tirannie. . .» Con uno scatto felino, Saint-Just era balzato in piedi sul tavolo e ora sventolava il cappello piumato, il volto da arcangelo, i capelli sciolti sugli omeri come un antico eroe: «l’étendard sanglant est levé!» .

Sì, la Rivoluzione avrebbe fatto a pezzi lo stendardo sanguinante della tirannia, credette finalmente Verneuil e le lacrime gli inumidirono gli occhi per la prima volta da quando, bambino a Chateau Bois, sotto la frusta dei lacchè aveva giurato di non piangere mai più.

Infine, nei banchi della Montagna, si vide un movimento lento e solenne. L'Incorruttibile, il Parrucchetto, il Noioso, la “candelina di Arras”, il Perfettino, l’Awocaticchio che, dopo essersi a lungo opposto alla guerra, aveva infine guidato il paese alla vittoria, si affacciò verso la folla senza più schermirsi, perché il trionfo non era suo, ma dell’intera Nazione.

«Aux armes, citoyens!» lo salutò un lungo boato. Non un muscolo si mosse sul viso di Robespierre, ma sulle labbra esangui comparve l’abbozzo di un sorriso.

«Valeva la pena di vivere mille anni per vedere questo giorno, Etienne!»

Verneuil, che stava inutilmente cercando Caron tra la folla, si sentì avvolgere dall'abbraccio fraterno di Pierre, con l’inevitabile contorno di finti pugni e pacche vigorose. Attanagliato dal dubbio, il commissario si sottrasse alla stretta, dirigendosi dritto verso il palco della presidenza.

«Devo parlarti, cittadino Saint-Just!» disse senza esitare, rivolto all’uomo che tutta la Francia temeva.

Un istante dopo era solo davanti all’Arcangelo.

«Sono in partenza per il fronte. Dobbiamo vincere a ogni costo: strapperò i gradi agli ufficiali indegni, fonderò ogni campana per fornire bronzo alle bocche di fuoco, requisirò tutte le armi, fucili da caccia, pistole da duello, spade, sciabole, picche, baionette, spiedi, asce, accette, mannaie. L'armata non si limiterà più solo a resistere, andrà all’attacco facendo dilagare la Rivoluzione oltre i nostri confini!» esclamò Saint-Just con tutta la febbrile esaltazione della sua giovinezza: «Sii breve, dunque, ho pochi istanti da dedicarti!» .

«È vero che Caron ha trascorso con te la notte dal quattro al cinque settembre?»

«Solo in parte: ci siamo lasciati al tocco» precisò l’Arcangelo.

Il conto tornava: Nicolas Caron avrebbe avuto quattro ore di tempo per uccidere la baronessa e sistemarne la testa nella vicina place de l'Indivisibilité, calcolò Etienne. Ma c’era l’altro dubbio, quasi inconfessato, che doveva assolutamente risolvere: «E Pierre Blas?» chiese con il fiato sospeso.

«Sospetti forse di uno dei miei più diretti collaboratori?» chiese Saint-Just in tono tanto severo che Verneuil temette di aver fatto il passo più lungo della gamba. L'espressione decisa, gli occhi freddi, la cravatta sciolta, la marsina aderente, le gambe nervose, l’Arcangelo pareva l’immagine stessa dell’inflessibilità: troppo Plutarco, troppi classici fagocitati con l’appetito insaziabile di un giovane intransigente, che pretendeva molto dagli altri e moltissimo da se stesso, pensò Verneuil, chiedendosi se quella domanda inopportuna non gli sarebbe costata l’incarico, o addirittura la testa.

«Molto bene, cittadino Verneuil!» rispose invece l'Arcangelo. «Non esistono insospettabili: quando la Nazione è in pericolo bisogna dubitare di tutti, anche dei nostri stessi compagni. Sappi comunque che ho fatto dormire Pierre Blas a casa mia, in rue Caumartins, per evitargli un lungo tragitto a un’ora così tarda!»

Il commissario si sentì come se gli avessero tolto un peso dal cuore. perfino la dichiarazione di intenti che poco prima gli suonava folle gli pareva ora del tutto sostenibile: i sogni più arditi si stavano realizzando, perché non credere allora che un esercito di miserabili fosse in grado di sgominare le armate dell’intera Europa? La Rivoluzione non si nutriva di temperanza e buon senso, ma della collera degli esaltati, dei sogni degli idealisti e della passione degli eroi.

«Vivre libres ou mourir» disse accomiatandosi: «Vai a Strasburgo, cittadino Saint-Just, salva la Nazione, io prenderò il “Boia di Parigi”!» .

Uscendo dalle Tuileries, Etienne fu sorpreso dalla calma pesante delle strade vuote, che strideva incongruamente con la frenesia del padiglione dove il Comitato, dopo l'annuncio dell’insperata e striminzita vittoria, si era subito rimesso al lavoro.

Guardò l'ora: era mezzogiorno in punto. All’improvviso, dall’angolo che da place de la Révolution si apriva sugli Champs-Elysées, echeggiò un immenso grido: la testa di Marie Antoinette Josèphe-Jeanne di Asburgo Lorena, arciduchessa d’Austria, principessa reale d’Ungheria e di Boemia, ci-devant regina di Francia, era rotolata nel paniere.