PARTE PRIMA

Parigi sarà ancora il bastione della libertà, il flagello dei tiranni, la disperazione degli intriganti, la gloria della Repubblica e l’ornamento del globo. . .

ROBESPIERRE

PARIGI, 1° SETTEMBRE 1793

Place de la Révolution, ci-devant1 place Louis XV, sezione Tuileries Al centro della piazza, dove un tempo si ergeva il monumento a Luigi XV, svettava ora la statua della Libertà, avvolta nel tricolore. Anche il palco era bardato di un panneggio bianco rosso e blu, come le piume dei cappelli, le sciarpe, i berretti, le coccarde, gli stendardi, i festoni, le bandiere.

L’asse di legno si mosse con uno scricchiolio sinistro, facendo avanzare il corpo sotto la macchina. Un rullo di tamburo, lo stridere della lama, un tonfo, poi il lungo urlo di giubilo.

Il deputato Lussard si fece largo tra le spettatrici delle prime file.

«È la prima volta che vedo decapitare un ribelle chouan, di solito li giustiziano in provincia» disse una popolana, raccattando ferri e gomitoli nella cesta di paglia.

«Tutti dobbiamo sterminarli, i briganti vandeani!» commentò la vicina e mentre ripiegava lo sgabello portatile, sputò più volte per terra, in spregio alla Vandea fratricida, che, con il sostegno degli inglesi e dei nobili emigrati, aveva scatenato la più spietata delle guerre civili contro i bleus della Repubblica.

«Ah, ragazze mie, siete troppo giovani per sapere qualcosa delle esecuzioni vere!» esclamò una donna già avanti con gli anni, sistemandosi la coccarda ben alta sulla cuffia. «Quelle di oggi sono acqua fresca, i condannati nemmeno se ne accorgono. Sotto il re li si faceva penare a lungo con la ruota, la corda, le tenaglie. . .»

«La Nazione non cerca vendetta» precisò in tono saccente una giovane che l’abbigliamento ordinatamente scialbo qualificava per istitutrice.

«Ben detto!» approvò la vecchia. «I cittadini nascono e vivono uguali, quindi hanno diritto di morire tutti nello stesso modo: un colpo e via, è finita. Ai miei tempi i supplizi erano atroci, con torture e tutto il resto: ero bambina quando giustiziarono Damiens, un giorno intero durò il suo calvario, prima gli venne tagliata la mano, poi gli aprirono le carni con le pinze roventi versandoci dentro piombo fuso, infine lo squartarono. E soltanto per aver ferito Luigi il Beneamato con un temperino senza punta!» disse la donna, guardando Lussard per sollecitarne il parere.

Per nulla desideroso di farsi coinvolgere, il membro della Convenzione fece un cenno di saluto con il tricorno di feltro e si allontanò mentre nella piazza un gruppo di dame eleganti si attardava a esibire l’allusivo nastro rosso alla gola, diventato ormai di gran moda.

Bella invenzione la ghigliottina, pensava, una fine rapida e indolore, niente più confessioni estorte a prezzo di immani sofferenze, né riguardi per i pezzi grossi, mentre i poveracci penzolavano dalla forca, con la lingua di fuori. Adesso sulla carretta dei condannati salivano i nemici della Nazione, gli speculatori che accaparravano i beni di prima necessità, i falsari rei di inflazionare gli assegnati della Repubblica, e soprattutto le spie monarchiche, sulla cui opera nefasta ogni patriota era tenuto a vegliare.

E i patrioti infatti vigilavano, anche troppo per i gusti del deputato Lussard, cui non garbava sentirsi sempre sotto osservazione.

Prima di proseguire, infatti, sbirciò attorno, controllando che non vi fosse in giro qualche Sentinella della patria dalla denuncia facile. Erano tempi duri, sospirò, ma anche prodighi di grandi opportunità. Un uomo in gamba poteva farcela a superare indenne i marosi della tempesta per approdare sano e salvo all'altra riva: bastava soltanto un po’ di astuzia e molta, molta prudenza, si disse notando alcuni giacobini che stazionavano all’angolo di rue Saint-Honoré, vicino al loro vecchio club; tra loro c’era Gustave Guy, amico di Danton, la cui stella non brillava più tanto luminosa, da quando l’Incorruttibile era stato eletto presidente del Comitato di Salute Pubblica. Ostentando più fretta di quanta ne avesse, Lussard gli riservò un cenno distratto e s’immerse nel dedalo di viuzze dietro la cappella di San Rocco, intenzionato ad evitare le affollatissime Halles.

Ma mentre scivolava in un vicolo, si trovò davanti il bottaio Bastien, che, afferratolo senza alcun riguardo per un braccio, lo apostrofò rudemente: «Siamo stufi, cittadino, a che ci serve la libertà senza il pane? Stamane sono rimasto in coda due ore per comprare una forma nera, tutta crusca e niente farina!» .

Il deputato s’impose calma e pazienza: il guaio di sbandierare a destra la volontà popolare era che tutti si credevano autorizzati a dire la loro. E Bastien, sanculotto tra i più convinti, da dirne ne aveva parecchie.

«I monarchici fanno sparire il grano per spingere Parigi alla sommossa» spiegò per l’ennesima volta. «Non cadete nel loro tranello, patrioti. Senza il Comitato di Salute Pubblica verrebbe data mano libera agli speculatori, il pane salirebbe a prezzi proibitivi, i beni della Nazione sarebbero resi agli emigrati, le terre tradotte di nuovo alla Chiesa o spartite tra i vecchi proprietari terrieri. Confidate nei vostri rappresentanti, cittadini: tra poco. . .»

«I nostri figli hanno fame oggi, non domani!» intervenne una popolana che tornava dal mercato con la cesta vuota. «Non si trova zucchero e nemmeno caffè. I pochi spiccioli che guadagno a impagliare le sedie mi bastano appena per l’affitto, mentre certe puttanelle del palcoscenico vestono di seta!»

«Il Théàtre François è stato chiuso per aver rappresentato opere indecenti» assicurò Lussard.

«Comunque, vorrei proprio sapere chi mantiene quelle sgualdrine tutte oro e piume, adesso che gli aristocratici sono in esilio!»

«La proprietà privata fa parte dei diritti inalienabili del cittadino» deglutì con imbarazzo il deputato.

«Anche quando la Nazione è in pericolo?» chiese Bastien in tono sferzante e Lussard represse un gesto di stizza. All'interno del Comitato erano in molti a pensarla come il bottaio, primo tra tutti l’implacabile Saint-Just, il giovanissimo braccio destro di Robespierre.

«Chi vi guida non vive più largamente di voi, a cominciare dal sottoscritto» glissò abilmente.

«È vero, conosco Lussard: è un uomo onesto e frugale!» intervenne a difenderlo una popolana.

Poco dopo il deputato riprendeva il cammino, lasciando la gente a lamentarsi che niente andava più nel verso giusto da quando era morto Marat, che di amici del popolo ormai non ce n'erano più, solo profittatori come Danton o bacchettoni come Robespierre, buono solo a predicare la frugalità, tanto, piacesse o meno, il tempo delle vacche grasse era finito e sotto tutti quegli inni trionfali e quelle bandiere tricolori, c’era solo una gran miseria.

Lussard aggrottò la fronte, perplesso. Erano passati poco più di quattro anni da quando il re, sull'orlo della bancarotta, per imporre nuove tasse si era visto costretto a convocare l’assemblea degli Stati Generali, un organismo puramente consultivo che rappresentava i tre ordini sociali, ovvero l’Aristocrazia, il Clero e il Terzo Stato, comprensivo quest’ultimo di tutti i borghesi e i popolani che per secoli avevano sopportato il peso dei lussi e gli sprechi dei due ceti parassiti.

I rappresentanti del Terzo Stato stavolta però si erano rifiutati di aprire i cordoni della borsa e, dichiarando di esprimere la volontà della stragrande maggioranza dei francesi, avevano decretato il diritto di ogni essere umano alla libertà, l'uguaglianza davanti alla legge, l’abolizione dei privilegi fiscali e la possibilità per tutti i cittadini di accedere alle carriere militari ed ecclesiastiche, fino a quel momento appannaggio della sola nobiltà. Accesa la miccia, la Rivoluzione era deflagrata in una serie di eventi epocali, che avevano finito per seppellire sotto le macerie del vecchio mondo anche la monarchia stessa: la presa della Bastiglia, l’istituzione della Guardia Nazionale, la nascita della Comune parigina, la marcia delle donne su Versailles, la tentata fuga della famiglia reale, la guerra contro le potenze straniere, la proclamazione della Repubblica, il processo del re e infine la sua esecuzione.

Il gioco stava facendosi sempre più pericoloso, pensò Lussard e lui doveva decidere da che parte stare, ma gli sarebbe stato impossibile riflettere nel suo appartamento, dove i supplici bussavano senza sosta a chiedere notizie dei parenti al fronte, a sollecitare pensioni o a pietire grazia per qualche prigioniero. Per fortuna, disponeva di un rifugio segreto in cui rintanarsi, si disse, e, guardandosi attorno circospetto, proseguì verso il quartiere del Marais.

Giunto in rue des Fontaines, si accertò di non avere nessuno alle spalle prima di tirare fuori la chiave con un sospiro di sollievo.

Dietro la porta lo aspettava il suo carnefice.

 

NOTA:

1. ci-devant: Questa espressione, traducibile in italiano con “precedentemente”, ha assunto nella lingua francese la peculiare funzione di indicare tutte le cose o persone il cui status fu radicalmente mutato dall’avvento della Rivoluzione.

2 SETTEMBRE 1793

Palais du Louvre, sezione Muséum Fino alla Rivoluzione, il custode Perronier non si era interessato di politica: era la politica a essersi interessata di lui, anche se all'epoca lui non la chiamava così. Dieci anni prima, con il raccolto decimato dalle intemperie, le frotte di profughi in fuga dalle campagne avevano fatto lievitare a dismisura gli affitti e Perronier, costretto a indebitarsi con un nobilotto che forniva soldi a strozzo attraverso un prestanome, era stato gettato in mezzo alla strada in pieno inverno, assieme alla moglie e a quattro bambini. Il più piccolo non ce l’aveva fatta.

Quel figlio perduto, a Perronier piaceva pensarlo come vittima della tirannide aristocratica, anche se il mercante plebeo cui pagava ora la locazione esigeva uguale puntualità nelle rate. Ma tant'è, almeno il padrone di casa lo chiamava cittadino anziché pover’uomo, perché adesso erano tutti uguali o quasi, e Perronier all’uguaglianza ci credeva, come pure alla libertà e alla fraternità, tanto da ignorare i commenti acidi della moglie sul salario miserrimo che percepiva come custode del Louvre.

Lui invece andava fiero del suo nuovo lavoro e anche quella mattina si avviò di buon passo nel lungo corridoio: era difficile trovare la chiave giusta tra le tante del mazzo all'alba di un settembre parigino non particolarmente sereno, ma ben sapendo quanto fosse importante tenere in ordine le cose piccole in un mondo che stava mandando all’aria quelle grosse, Perronier aveva imparato a riconoscere gli anelli a occhi chiusi.

La serratura, oliata di recente, si mosse con un breve rumore.

Lo sguardo del custode scivolò per un istante verso la grande galleria in restauro: capolavori immortali, ricchezze inaudite, decori raffinatissimi, tutto era suo. Suo e di tutti, perché ciò che aveva costituito il privilegio di pochi ora apparteneva a Parigi, alla Francia, al mondo intero: il Louvre, già covo di tiranni, stava per essere riconsegnato alla Nazione.

Mancavano soltanto due mesi all'apertura ufficiale del museo, quando la Repubblica avrebbe esibito pubblicamente, per la gioia e l’elevazione morale dei cittadini, le collezioni atte a suscitare sani sentimenti patriottici, eliminando nel contempo le sopravvivenze feudali - ritratti di re, principi e nobili - che andavano ammassandosi negli stanzini di servizio, tra calcinacci e secchi di intonaco. Le statue dei ci-devant aristocratici, alcune già mutile, erano state infatti relegate in un ripostiglio di fortuna, in attesa di essere vendute per recuperarne il marmo. Fu là che Perronier si diresse, disertando le ampiezze della grande galleria.

Ignorando i detriti che gli scricchiolavano sotto i piedi, affondò nello strato di polvere, mentre avanzava verso il busto acefalo di un Borbone-Condé, decapitato in effigie un secolo dopo la sua dipartita per febbre quartana.

Gli ci vollero alcuni istanti per accorgersi che qualcosa non andava: la testa del principe, tranciata durante una sommossa, ora si trovava di nuovo al suo posto sul collo.

Perplesso, strinse gli occhi nel buio e fece un passo avanti. Quando vide l’orrenda palla insanguinata rotolare sul pavimento, cominciò a urlare come un ossesso.

 

Ufficio di Pierre Blas, rue des Blancs-Manteaux, sezione L’Homme Armé Etienne Verneuil camminava di buon passo verso un ufficio di rue des Blancs-Manteaux dove non metteva piede da tre anni. Anni che valevano secoli.

Si aspettava di trovare una guardia al portone, magari un volontario con la sua brava picca e il berretto frigio, invece l’atrio era deserto, salvo che per un vecchio che si sarebbe detto un servo, quando i servi esistevano ancora. «Il cittadino Blas ti sta aspettando» disse.

Etienne salì le scale con una sorta di oscuro, ingiustificato timore. All’epoca del collegio, Pierre era stato il suo migliore amico, il suo fratello di elezione: il tempo e il successo non potevano averlo cambiato troppo.

Aprì la porta e lo vide dietro al tavolo, sprofondato sotto una montagna di carte, non più il discolo che faceva la disperazione degli istitutori, ma un uomo di spicco oberato di compiti, un membro della Convenzione che lavorava a stretto contatto con Saint-Just e gli altri membri del Comitato di Salute Pubblica.

Era in maniche di camicia e il nodo della voluminosa cravatta, allentato sul collo, gli pendeva su un farsetto sobrio, molto meno appariscente di quelli che, unica concessione alla frivolezza, indossava l'Incorruttibile; una grossa ruga gli attraversava la fronte, sotto l’attaccatura dei capelli nerissimi che in anni meno rivoluzionari avevano fatto sospirare le servette. Fu quando Pierre levò lo sguardo azzurro che finalmente Etienne ne riconobbe gli occhi acuti e ridenti, un po’ affaticati, ma vivi della stessa espressione risoluta con cui in collegio sfidava il frustino di padre Lebreton.

«Amico mio!» esclamò il deputato Blas, andandogli incontro. «Sembra ieri che ci azzuffavamo sui banchi, eppure ne abbiamo fatta di strada!»

Stordito dalla pacche vigorose, Etienne finalmente si rilassò. Pierre era quello che ricordava, la stessa irruenza, la stessa voglia di agire, la stessa emotività sfrenata che spesso gli velava gli occhi di lacrime. L’aveva visto piangere di collera, di gioia, di entusiasmo. Di paura, mai.

«Io non ho fatto granché» si schermì, ma la voce gli traboccava di orgoglio. Di rivolte ce n'erano state tante nel passato: si accendevano, divampavano, poi venivano soffocate, ricadendo nell’oblio. Nessuno mai, invece, avrebbe potuto cancellare ciò che stava avvenendo in quei giorni.

«Suvvia, so come ti sei esposto per proteggere le donne, al Champ de Mars, quando la Guardia di La Fayette ha sparato sulla folla! Ho sentito che adesso hai lasciato i banchi della pubblica accusa per esercitare privatamente.»

«Cause familiari, riconoscimenti di paternità, soprattutto. Ora che la legge ne ha riconosciuto i diritti, molte ragazze cercano di rintracciare l’immemore padre delle loro creature.»

«Ci pensi a quanto è cambiato il mondo? Fino a qualche tempo fa era del tutto normale mettere nei guai una poveraccia e poi buttarla in mezzo alla strada. Rivoluzione significa questo, umili che alzano la testa, oppressi che chiedono giustizia, reietti che rivendicano dignità!» esclamò Blas con entusiasmo. «Ma bando alle chiacchiere, amico mio: non ti chiedo i motivi che ti hanno spinto a rinunciare alla carriera. . .» Etienne si rabbuiò, per nulla desideroso di rivangare l'argomento: era stato il processo di un aristocratico a fargli mollare tutto. Esibite le prove del tradimento, aveva chiesto la pena capitale, senza prevedere che la folla inferocita avrebbe massacrato il detenuto senza attendere l’esecuzione. «Tuttavia adesso ho bisogno di te: hai rintracciato persone scomparse, inchiodato usurai, smascherato perfino una banda di falsarii»

«Sei molto informato sulle mie modeste attività» disse Etienne, per nulla stupito: il Comitato aveva occhi e orecchie dappertutto.

«Ci serve un uomo della cui devozione non si possa dubitare.»

Etienne aspettava di sentire il seguito, ma Pierre Blas la prese molto alla lontana.

«Sono molti coloro che vorrebbero fermare il processo rivoluzionario. Le potenze di tutta Europa ci stringono d’assedio, siamo schiacciati tra i prussiani e la Vandea ribelle, mentre il blocco navale ci sta strangolando: Parigi è alla fame e gli assalti ai forni si moltiplicano. Io stesso, ieri, ho impedito a fatica che venisse saccheggiata una panetteria.»

«La testa del re nel canestro del boia ha scosso dalle fondamenta un universo millenario. È ovvio che la reazione sia tremenda» commentò Etienne. «Ma vieni al punto: che cosa vuoi esattamente?»

«Il solito impaziente! Intendevo chiarirti il quadro in cui dovrai muoverti, perché ho intenzione di affidarti un’indagine delicatissima. Siamo nei guai, Etienne, guai grossi. Conosci il deputato Jéròme Lussard?»

«L’ho sentito parlare in tribuna. Se non sbaglio, lavora con Hérault de Séchelles.»

«Lavorava. Stamane un custode ha trovato la sua testa in un ripostiglio del Louvre, con questo in bocca!» disse, porgendogli un foglietto.

Vergate in rosso con la penna d'oca, c’erano tre parole: “Processato, condannato, giustiziato. Jeanne la Pucelle”.

«Non ti vedo molto turbato» si stupì Pierre Blas.

«Di teste ne cadono tante di questi tempi, che ci si fa l’abitudine.»

«Smettila di ostentare il tuo cinismo, Etienne, non inganni nessuno. Sai bene che l’omicidio di un deputato giacobino non è cosa da prendere sottogamba. Ucciso in quel modo, poi!»

«La messinscena fa pensare a una vendetta politica, tuttavia non si può escludere che l’assassino abbia voluto confondere le acque» si decise infine a dichiarare Etienne.

«In effetti Lussard agiva in maniera non del tutto limpida nel sottobosco del Comitato e si era fatto parecchi nemici. Il colpevole potrebbe essere una spia al soldo degli stranieri, ma non si può nemmeno escludere che venga dal nostro interno. Il governo della Montagna, infatti, è tutt’altro che unito.»

Etienne annuì, ben sapendo come i giacobini di Robespierre facessero da ago della bilancia tra gli Arrabbiati e gli hebertisti, determinati ad avere tutto e subito, e gli Indulgenti di Danton, inclini a vergognosi compromessi.

«Nel frattempo i girondini sconfitti soffiano sul fuoco della ribellione. Ne abbiamo arrestati un bel po’, ma ne sono rimasti liberi a sufficienza da sollevare Lione e la Normandia: approfitteranno certamente del processo a Maria Antonietta per seminare il malcontento tra i provinciali!»

«La condanna dell'Austriaca è inevitabile: avete le lettere in cui supplica suo nipote l’imperatore di invadere la Francia!»

«Molti sono pronti ugualmente a commuoversi davanti a una donna. E poi c’è il bambino. . . gli emigrati vagheggiano di liberarlo e portarlo in Inghilterra.»

«Luigi XVII, re di Francia! «esclamò Verneuil con sarcasmo: nel momento stesso in cui il Capeto era morto sul patibolo, i monarchici avevano riconosciuto come legittimo sovrano il delfino di soli otto anni, un re che faceva comodo a molti, capace com’era soltanto di giocare con il cerchio o i soldatini di piombo.

«Se il bambino morisse in qualche tentativo di fuga, a rivendicare il trono sarebbe il fratello esule del Capeto, capace di darci molte più rogne. Quindi lo vogliamo vivo e in buona salute: da quando sua madre è stata trasferita nella Conciergerie, vive nella torre del Temple con il calzolaio Simon, che ha preso molto sul serio il compito di educarlo alle virtù repubblicane. E sai chi era incaricato di controllarne la sorveglianza? Proprio quel Lussard cui hanno mozzato la testa!» Un re. Un prigioniero. Un orfano ansioso di farsi accettare dalla sua nuova famiglia, l’unica che gli era rimasta. Un innocente, si disse Verneuil, sforzandosi di pensare a tutti gli altri bambini, quelli per cui nessuno si era mobilitato in armi, perché non portavano altra corona se non quella di un penoso martirio: le centinaia di fanciulli morti per mancanza di pane, di coperte o di cure, la piccina spirata per il freddo sul ciglio della strada, il monello travolto da una carrozza lanciata al galoppo da un gentiluomo frettoloso, la servetta di taverna uccisa dopo lo stupro di sei clienti ubriachi, i poppanti che si attaccavano al seno vuoto delle madri, stremati dal gran piangere.

«Ci serve qualcuno dalla fedeltà a tutta prova, qualcuno che sappia valutare le priorità.»

«Pronto cioè a starsene zitto, se scoprisse qualcosa di spiacevole?» tradusse rapidamente Etienne.

«Dobbiamo essere i primi a conoscere il colpevole, per smascherarlo nel modo più consono alle esigenze della Nazione.»

«Ovvero del Comitato di Salute Pubblica.»

«Con il nemico alle porte, il Comitato e la Nazione sono una cosa sola!» s'inalberò l’altro.

«Perché ti arrabbi, Pierre? Dimentichi forse che stiamo dalla stessa parte?» gli ricordò Verneuil. La Rivoluzione è una cosa troppo seria per lasciare il tempo e il modo di ironizzare su se stessi, meditava intanto.

«Devi scoprire l'assassino, Etienne, e in fretta, prima che i nostalgici dell’ancien régime ne facciano un eroe, una bandiera attorno alla quale ricompattarsi. Il tuo è un incarico ufficiale, dipenderai dal Comitato di Sicurezza Generale, con tanto di fascia tricolore, al pari dei membri della Convenzione e dei delegati della Comune.»

«Che ne dirà l'Arcangelo?» chiese Etienne. Nulla accadeva a Parigi senza l’approvazione di Louis-Antoine de Saint-Just, il bellissimo e inquietante ventiseienne secondo per autorità al solo Robespierre. Gli occhi gelidi, il viso impenetrabile, la camicia negligentemente aperta sul petto, l’orecchino al lobo, la pistola alla cintura, l’Arcangelo incuteva timore, ma chi tremava davanti a lui alla Convenzione sapeva che si sarebbe mostrato altrettanto impassibile sul campo di battaglia, tra il fischiare dei proiettili e le palle di cannone. . .

«Sono poche le cose o le persone che Saint-Just ignora» chiarì Blas, mostrando all'amico la firma dell’Arcangelo in calce al documento di nomina. «Riferirai quello che scopri soltanto a lui, a David o al sottoscritto: gli altri membri della Sicurezza non sono abbastanza affidabili.»

Etienne assentì: Jacques-Louis David era il più grande pittore di Francia, l'artista della Rivoluzione, lo scenografo delle uniformi, delle bandiere, degli archi trionfali e delle feste patriottiche, l’autore degli enormi e apprezzatissimi quadri ispirati alla classicità che predicavano e illustravano le virtù repubblicane: Socrate nell’atto di bere la cicuta, gli Orazi pronti al fatale duello, il primo Bruto davanti ai corpi dei figli giustiziati dietro suo ordine. Virtù rare e antiche, quelle che trasparivano dalle sue opere, incarnate nella nuova Francia in un uomo dal destino ancor più drammatico, il tribuno Marat assassinato due mesi prima, cui il pittore intendeva dedicare il suo prossimo capolavoro.

«E Robespierre?» chiese Verneuil perplesso. Il nome del presidente del Comitato di Salute Pubblica non era mai stato fatto: chiuso nelle sue minuscole stanzette di rue Saint-Honoré, il padrone della Francia viveva nell'ombra, comparendo soltanto alla Convenzione o a passeggio nei giardini, sottobraccio all’eterna fidanzata Duplay.

«Ha altro cui pensare: il calmiere dei prezzi, il processo all'Austriaca, le intemperanze di Hébert, i colpi bassi di Danton, gli ultimi sussulti dei girondini, la vendita dei Beni Nazionali. Ma stai tranquillo, sarai affiancato nell’indagine da tre aiutanti d’eccezione, primo fra tutti François-Xavier du Plessis: come cadetto di una modesta famiglia baronale era destinato alla carriera ecclesiastica, ma ha gettato la tonaca alle ortiche il giorno dopo la presa della Bastiglia. È in gamba, maledettamente in gamba, possiede un’intelligenza sottile e analitica, una costanza invidiabile, una cultura mostruosa e la capacità innata di tessere trame nell’ombra.»

«E gli altri?»

«Thomas è un brav’uomo. Non lasciarti impressionare dalle sue cicatrici: da valletto del visconte di Fougère ebbe il torto di difendere una sorella dalle attenzioni sgradite di un ospite. I lacchè lo tennero fermo, mentre il giovinastro gli tagliuzzava il viso per dargli una lezione di umiltà» disse Blas, accompagnandolo alla porta. «Landry, invece, è un monello che ho raccolto per strada, dove era cresciuto rubacchiando; puoi contare su di lui, malgrado sia poco più di un bambino.»

«L'età immatura non è un ostacolo, in un paese i cui capi mettono insieme meno di cent’anni in tre!» esclamò Verneuil. «D’accordo, domani comincio!»

«Domani?» corrugò la fronte Pierre Blas. «La Rivoluzione è oggi: corri immediatamente al Louvre, ti stanno aspettando!»

 

Quai de la Tournelle, sezione Sans-culottes Mentre Verneuil si dirigeva verso l'ex palazzo reale del Louvre, il segretario del club dei giacobini Gustave Guy, ancora ignaro del funesto rinvenimento, imboccò il Pont de la Tournelle in direzione della Rive Gauche, interrogandosi sul motivo della convocazione appena ricevuta. Perché mai c’era bisogno di parlare in segreto, in un luogo così poco frequentato? si chiese, aggiungendo quel piccolo segnale preoccupante ai tanti che aveva percepito nell’ultimo, travagliatissimo mese: sguardi diffidenti, frasi a mezzo, colleghi che gli rivolgevano il saluto di malavoglia, smettevano di parlare non appena compariva o tiravano dritto nel vederlo per strada, come aveva fatto Lussard il giorno prima. . .

Il Comitato stava per ritirargli la fiducia, sospettò, chiedendosi se non fossero stati scoperti certi suoi affarucci discutibili. Di recente, per Danton e i suoi amici tirava aria brutta: chissà se il tribuno ce l'avrebbe fatta a tornare in sella, lasciandosi alle spalle le reprimende dell’avvocaticchio di Arras, o se non sarebbe stato proprio quest’ultimo - il Virtuosissimo, l’Incorruttibile, l’Onesto - ad averla vinta? Guy aveva pochi dubbi: morto Marat, chi altri se non il sanguigno Danton poteva trascinare il popolo con la sua vibrante oratoria? Non certo il Noioso, un saccentino privo di smalto che predicava insistentemente la sobrietà repubblicana, argomento di fascino dubbio presso un popolo come quello francese, che amava divertirsi anche nel fare la Rivoluzione.

Presto Parigi si sarebbe stancata di tanta tediosa mediocrità, auspicò.

Forse, o forse no: Robespierre stava dimostrandosi un osso duro, circondato com’era da un drappello di fedelissimi pronti a seguirlo fino in fondo, mentre Danton di amici veri ne aveva pochi, soltanto profittatori pronti ad abbandonarlo, se le cose si fossero messe male. Bisognava dunque tenere i piedi in due staffe, pensò il giacobino, lasciandosi alle spalle quai de la Tournelle per proseguire sul lungosenna verso i cantieri quasi deserti, dove alcuni operai sorvegliavano stancamente le gru ormai inattive. In lontananza, tre chiatte ancorate a riva tendevano gli ormeggi, i teli strappati a rivelare i miseri carichi di mattoni e pietrisco che avevano preso il posto delle ricche mercanzie scambiate in epoca meno libera e patriottica.

Gustave Guy percorse di buon passo un breve tratto di rue de la Seine e si diresse verso la chiesa sconsacrata scelta per l'abboccamento, aspirando a pieni polmoni l’aria umida del fiume. Qualunque cosa gli fosse stata chiesta, non avrebbe opposto un netto rifiuto: meglio temporeggiare, promettendo l’impossibile a destra e a manca, in attesa di vedere come sarebbe andata a finire. Si sentiva sottile e astuto mentre avanzava lungo la navata deserta, dritto nelle braccia della morte.

 

Palais du Louvre, sezione Muséum L’inchiesta del Louvre era iniziata male e procedeva peggio.

Al suo arrivo, Verneuil si aspettava di essere ricevuto dal sovrintendente o almeno dal suo sostituto, ma il primo era fuori città, l’altro giaceva a letto ammalato e anche il capufficio, certo Eglise-Neuve, risultava irreperibile. Al commissario, perciò, non rimaneva che torchiare il custode responsabile della macabra scoperta.

«Vado sempre a dare un'occhiata allo stanzino. Il busto decollato era lì già da un paio di giorni, me lo ricordavo accanto alla parete, così mi sono stupito di trovarlo presso il ponteggio» spiegò quest’ultimo, dando un’occhiata alla galleria che si allungava sontuosa, ma anche piuttosto malridotta: per solennizzare l’Unità e Indivisibilità della Repubblica il Comitato aveva ritenuto di inaugurarla il mese prima, a restauro non ancora ultimato; poi, finita la festa e riposti in tutta fretta i tricolori, i lavori più urgenti erano ripresi in attesa della seconda inaugurazione, fissata per novembre, mentre il ripristino vero e proprio veniva rimandato sine die.

«Sei sicuro che fosse la stessa statua?» chiese Verneuil: spostare un pezzo di marmo di quelle dimensioni implicava una notevole prestanza fisica.

«A dire il vero i colli senza testa si somigliano tutti» ammise Perronier confuso.

«Ti sei avvicinato, hai toccato la testa e quella è caduta. È così?»

«No, no, vivaddio, non mi sarebbe neanche venuto in mente di sfiorarla! È andata giù da sola, lo giuro, dritta sul pavimento come se. . .» La frase finì in un rantolo, ma era ovvio che prudenza e scaramanzia impedivano al custode di terminare la frase con uno schietto: “come se fosse rotolata nel paniere del boia”.

La versione era abbastanza convincente, riflette Verneuil. Un equilibrio precario - predisposto ad arte dall'assassino il sangue raggrumato come unico collante, poi lo sferragliare delle chiavi, i passi grevi, lo spostamento d’aria.

«Hai raccontato in giro la tua brutta avventura?» chiese, allarmato dalle eventuali conseguenze di una scoperta capace di accendere la rabbia dei sanculotti delusi, e al tempo stesso di infiammare gli irriducibili controrivoluzionari.

«So tenere la bocca chiusa, io, non l’ho detto a nessuno. Quasi nessuno, a dire il vero. Ne ho fatto cenno a mio nipote, quando è venuto a portarmi la gavetta. . .»

Il ragazzo si presentò poco dopo con il berretto tra le mani e la fronte corrugata dallo sforzo di indovinare che cosa avrebbe voluto sentirsi dire il commissario: se la sua deposizione avesse giovato all'inchiesta, poteva ricavarci una menzione da patriota, e con quella in mano ottenere finalmente il consenso al matrimonio dal padre di Marie, che storceva il naso davanti al suo modesto lavoro di cestaio. D’altra parte, il solo pensiero dei pasticci in cui si sarebbe ficcato se la testimonianza non fosse piaciuta all’inquirente faceva venire a Jean la pelle d’oca. Così, diviso tra troppe opzioni complicate, il giovane finì per balbettare qualcosa di indistinto, che suonava come una conferma delle parole dello zio.

Quando anche i colleghi ebbero deposto in favore del custode, entrato al Louvre senza pacchi di sorta, Verneuil lo fece condurre fuori dai suoi aiutanti, sbirciandoli con una certa curiosità.

Ad accomunare Thomas e Landry era solo l'aspetto poco raccomandabile: il possente sfregiato aveva la testa glabra come un galeotto e una lunga barba incolta sopra le spaventose cicatrici; al contrario, il giovanissimo Landry, basso ed emaciato, esibiva una zazzera fittissima che spioveva fin quasi alla mascella liscia, impegnata in un continuo lavoro di masticazione. Il ragazzo aveva qualche difficoltà con le parole, che nel mondo dov’era cresciuto non servivano granché, perché bisognava piuttosto adoperare le mani. E proprio le sue mani mobili, leste al taccheggio, preoccupavano Etienne, inducendolo a controllarsi di continuo le tasche: una volta in più le dita gli corsero alla giacca e una volta di più fu lieto di sentire sotto le dita il gonfiore rassicurante del borsellino.

«Scovatemi quel disgraziato che dovrebbe sorvegliare i dipendenti!» ordinò poco dopo: sembrava di essere al fronte, sbuffava, mai che si trovasse l’ufficiale responsabile, sempre attendenti, caporali o fantaccini. . .

«Eccomi, eccomi!» esclamò una voce e nella galleria fece la comparsa un ometto agitatissimo che si tergeva il cranio sudaticcio con un grande fazzoletto di lino. «Sono Eglise-Neuve, capo del personale. Mi trovavo presso un ex canonico per trattare una compravendita.»

«Chi ti ha autorizzato ad allontanarti?» inveì il commissario, che ben conosceva la burocrazia della Rivoluzione, fatta di carte e timbri prima ancora che di slanci patriottici.

«Beh, è normale che un impiegato di livello vada e venga a suo giudizio.»

«Quale importante mansione ti impediva di essere al tuo posto?»

Eglise-Neuve prese fiato, misurando le parole a una a una. «Concordavo l’acquisto di un presepe. Si tratta di una composizione di terracotta, usata in Italia per celebrare la Natività. . .»

«So che cos’è un presepe» tagliò corto Verneuil spazientito.

«Anni or sono, durante un viaggio a Napoli, il canonico lo aveva ordinato per conto di una ricca devota che intendeva farne dono alla parrocchia. Le statuette, però, sono arrivate in ritardo, quindi il sacerdote, che ha aderito alla costituzione civile del clero, intende ora cederle al museo.» Tutto chiaro, storse la bocca Verneuil: il presepe, già pagato ma non ancora giunto a destinazione, era sfuggito al sequestro dei beni ecclesiastici, quindi il parroco si adoperava per cederlo al migliore offerente, ovvero il museo, i cui funzionari potevano permettersi di largheggiare con i fondi pubblici, magari in cambio di una piccola percentuale. . . «Dove si svolgeva la transazione?»

«Tra rue de Clichy e rue de la Croix-Blanche» spiegò infine l’impiegato, con una voce ansiosa e una sudorazione abbondante che insospettirono non poco il commissario.

«E mentre tu intrallazzavi con un prete maneggione, l’assassino entrava nella galleria per deporvi la testa mozzata di un convenzionale!»

«Che sciagura, commissario! Mi sono precipitato subito qui, benché in assenza del curatore il responsabile non sia io, ci tengo a dirlo, ma il primo dei viceintendenti, il cavaliere di La Rivière. . . il cittadino La Rivière, cioè, ammalato da giorni e giorni!» mise le mani avanti Eglise-Neuve.

Maledetto La Rivière, pensava intanto. Viva la prima moglie, si era sempre trattenuto oltre l'orario, per esercitare sui subalterni l’autorità che gli mancava tra le mura domestiche: ordinava che si risparmiasse l’inchiostro diluendolo con l’acqua, proibiva l’uso della moderna mina rivestita di legno, spiava gli impiegati dal fondo dell’ufficio per coglierne ogni istante di pigrizia. Dieci anni di rimbrotti, meschinità e pignolerie, identici nell’ancien régime come nella Repubblica, che Eglise-Neuve aveva sopportato con stoica rassegnazione, finché, durante l’ultimo inverno, un’affezione ai polmoni, alla quale non doveva essere estranea la parca accensione del camino, aveva privato il cavaliere della bisbetica consorte. Dopo una vedovanza scandalosamente breve, il viceintendente si era riaccasato con un fiore di ragazza e improvvisamente la sua salute aveva cominciato a peggiorare, costringendolo a lunghi riposi in compagnia della sposina. A farne le spese naturalmente era sempre lui, oberato di lavoro come uno schiavo delle isole e costretto a correre su e giù per mantenere i contatti con i vari uffici. Per fortuna la casa del prete, vicina al cortile di rue de Clichy, gli forniva una valida scusa per far visita a Mélisende e seguirne con cura la gravidanza: era lì che il messo lo aveva raggiunto, forzandolo a lasciare la poverina nelle mani di un rude guardiano. . .

«Controlleremo, spera di aver detto la verità!» grugnì il commissario. «Ieri pomeriggio eri qui, prima dell’ora di chiusura?»

«Certo, cittadino: ho ricevuto due illustri ospiti desiderosi di vedere i restauri. Ne riferirò volentieri, ma ti chiedo di concedermi un paio d'ore per risolvere un problema personale piuttosto pressante» azzardò il funzionario, guardando con apprensione l’orologio: Mélisende era sul punto di sgravarsi e di quel passo lui non sarebbe arrivato in tempo. . .

«Nulla è più urgente che servire la Nazione!» dichiarò il commissario, negandogli drasticamente il congedo. Accidenti ai funzionari zelanti e accidenti anche alla Rivoluzione che li aveva scatenati per tutta Parigi a intralciare la gente che badava ai fatti propri senza dar fastidio a nessuno, pensò Eglise-Neuve piccato, accomiatandosi con un devoto sorriso di circostanza.

Uscito l'impiegato, Etienne si avvicinò al frammento marmoreo e cominciò a saggiare a uno a uno tra il pollice e l’indice i grumi della crosta appiccicosa sul bordo, finché l’ennesimo coagulo rifiutò di disfarsi, rivelando al suo interno una specie di foglia secca che prese subito la strada del suo taschino. Poco dopo prelevava dal piedistallo anche alcuni granelli di una polvere fine, annusandola a lungo.

Sebbene le monumentali parrucche incipriate dell'ancien régime fossero state spazzate via dal vento repubblicano, a Parigi c’era ancora chi indossava il posticcio o s’imbiancava i capelli, non ultimo l’Incorruttibile, che in fatto di moda appariva alquanto tradizionalista; ma quella sostanza non emanava più nessun odore, mentre le polveri di riso usate come belletti venivano di solito impregnate di aromi tanto forti e persistenti da far venire la nausea. . .

Verneuil guardò di nuovo il busto decollato, come per rivolgergli una muta domanda. Chissà se il ritratto del Borbone-Condé era stato scelto dall'assassino per il suo potere evocativo, oppure semplicemente perché la mulilazione lo rendeva idoneo a installarvi sopra il suo macabro trofeo? si chiedeva. Idoneo sì, ma solo fino a un certo punto, si corresse subito: il marmo era troncato obliquamente, mentre il taglio del moncone umano si presentava piatto, oltre che terribilmente scivoloso, quindi per mantenersi in equilibrio doveva esservi stato assicurato con qualche supporto. Nello sgabuzzino tuttavia non c’era nulla di adatto allo scopo, né un canapo, né un legaccio, né un nastro e nemmeno un pezzettino di stoffa.

Il pavimento non rivelava molto di più. Lo strato di polvere accumulatosi in mesi di lavori edilizi era percorso da un reticolo di pedate, sfregi e solchi paralleli, tra cui si riconoscevano le impronte dei rozzi scarponi dei facchini e il segno netto di uno zoccolo cui mancava una grossa scheggia di forma triangolare.

Ad attirare l'attenzione del commissario fu però una serie di orme parallele, lasciate probabilmente da un paio di stivali: a giudicare dalla profondità delle tracce, qualcuno aveva camminato verso il busto reggendo un carico considerevole e se ne era allontanato dopo essersi alleggerito. Ma quelle strane impronte avevano un’altra caratteristica singolare: il segno corrispondente al piede destro pareva più netto e profondo di quello lasciato dal piede sinistro, che poggiava prevalentemente sulla punta.

Per un breve istante, nella mente di Etienne passò il lampo di un ricordo. Aveva già visto impronte simili su un prato imbiancato di neve, accanto ad alcuni grandi alberi. Ma dove? A Chateau Bois, forse, quando da bambino vagava in solitudine tra i boschi? Così come era comparso, il ricordo svanì all'improvviso e il commissario tornò alla problematica realtà dell’indagine.

Aveva alcune tracce di scarpe, della cipria e una foglia secca: non molto da cui cominciare, si disse rimboccandosi le maniche. Ma forse avrebbe trovato qualche indizio in più nell’appartamento della vittima, in rue Saint-Pierre. . .

 

Rue Saint-Honoré, sezione Halles Dopo aver appurato che nessuno tra i giardinieri del Louvre - riconvertiti a coltivare cavoli e cipolle dall'inizio del blocco economico - usava zoccoli cui mancasse una scheggia, come a quelli dell’impronta nel ripostiglio, il commissario uscì in strada per dirigersi verso il mercato delle Halles. Nemmeno l’interrogatorio degli altri guardiani aveva aggiunto qualcosa di nuovo, salvo ribadire che le preziose opere del Louvre erano sottoposte a una custodia incredibilmente disinvolta. Muratori, decoratori, imbianchini, fabbri e carpentieri avevano infatti accesso quotidiano al museo, dove erano ammessi senza problemi anche impiegati e classificatori, per non parlare dei molti artisti che venivano a copiarvi i capolavori del passato. E poiché le collezioni reali ora appartenevano al popolo, era ovvio che i suoi rappresentanti si recassero di tanto in tanto ad ammirarli: soltanto nell’ultima settimana ben cinque convenzionali, tra cui Lussard e lo stesso Pierre Blas, avevano messo piede nel palazzo, senza contare il pittore David, cui era stato riservato addirittura un apposito atelier. Potevano entrare liberamente anche i membri del Comitato di Salute Pubblica e i loro segretari, nonché tutti gli esponenti della Comune, dal procuratore Chau-mette fino al più infimo dei passacarte. Un tale via vai di gente lasciava peraltro un certo spazio all’iniziativa dei manovali più giovani, che usavano introdurre nella galleria le loro amichette per goderne i favori tra le quinte sontuose; infine, non era nemmeno da escludere che qualche vagabondo riuscisse di quando in quando a intrufolarsi di soppiatto per dormire al coperto. In breve, dal Louvre passava mezza Parigi e poco sarebbe servita la lunga lista di visitatori emersa dall’inchiesta. Due di essi, tuttavia, erano degni di nota, sia per la loro rinomanza, sia perché avevano raggiunto il museo proprio il pomeriggio precedente: il deputato Nicolas Caron, giacobino della prima ora e uomo di fiducia di Hérault de Séchelles e Gabriel Sauthier, un ricco notaio ammanicato con molti membri della Convenzione.

Verneuil stava chiedendosi come riuscire a interrogarli, quando si sentì sollecitare da una voce femminile piuttosto acuta: «Cittadino commissario!» .

«Attenta!» gridò vedendo la donna che lo aveva chiamato lanciarsi di corsa attraverso rue Saint-Honoré, incurante della carrozza pubblica che sbucava all’angolo della strada.

Il cocchiere sbraitò un'imprecazione fiorita - diretta ai re e ai tiranni, prima di tutto, ma anche ai disgraziati che camminavano con la testa per aria - poi tirò bruscamente le redini, riuscendo a fermare il veicolo prima di travolgere l’imprudente.

Quest’ultima, che giaceva sul selciato sostanzialmente illesa, balzò in piedi senza attendere aiuto, affrettandosi a raccogliere da un pozzetto fangoso ciò che rimaneva di un elegante copricapo arricchito dalle tre patriottiche penne bianche rosse e blu.

«È da buttare!» constatò, prima di staccarne le piume per aggiustarsele con garbo nella gran massa di capelli rossi.

A Verneuil, che si era precipitato a prestarle soccorso, non restò che redarguirla: «Non sapete quanto sono pericolose le strade di Parigi, cittadina?» .

«Avete ragione, sono una sventata, ma stavo tentando di attirare la vostra attenzione» lo lusingò lei mentre spazzolava con un gesto distratto la giacchetta nera di foggia maschile, penosamente schizzata di mota.

«Siete riuscita nell’intento» ribattè asciutto Verneuil, domandandosi come facesse la ragazza a conoscere così bene una funzione attribuitagli soltanto poche ore prima.

«State andando verso le Halles, vero? Permettete che vi accompagni!»

«Posso sapere con chi sto parlando?» obiettò Etienne, seccato di una disinvoltura che, se in un uomo poteva considerarsi schiettezza rivoluzionaria, in una donna suonava come indebita sfacciataggine.

«Caroline Mathieu, giornalista» si presentò subito la giovane.

«Da quando le dame scrivono sui gazzettini?» domandò lui in tono indisponente.

«Da quando esistono la libertà e l'uguaglianza, cittadino. O pensate che la dichiarazione dei diritti valga soltanto per la metà maschile della popolazione? “La donna è nata con le stesse capacità dell’uomo” sostiene Couthon, che, se non sbaglio, è dei vostri. Ma forse, da invalido qual è, lui è in grado di capire meglio quanto siamo discriminate!»

Etienne, cui poco garbava di farsi impartire lezioni di senso civico, capì di trovarsi davanti a una di quelle intellettuali saccenti che tempestavano il Comitato di proteste, petizioni, denunce e proposte legislative. Erano le stesse che sotto la monarchia avevano tenuto salotto con letterati, filosofi e riformatori, pontificando a largo raggio dall’illegittimità della tortura al colore più elegante per un caracot damascato, mentre le contadine si sfinivano nei campi, le cucitrici si consumavano gli occhi sulle stoffe, le operaie soffocavano nella polvere di cotone in cambio di salari da fame.

«Non fatemi perdere tempo, cittadina giornalista, ho una faccenda urgente da sbrigare!» cercò di liquidarla in fretta.

«Lo so. State andando nell’appartamento del deputato Lussard in rue Saint-Pierre. È qualcosa che ha a che vedere con la testa rinvenuta nella Grande Galleria, vero?»

«Chi vi ha fornito questi particolari?» chiese Etienne, sconcertato: nessuno aveva idea di dove fosse diretto, nemmeno i suoi aiutanti. . .

«Il custode Perronier vi ha sentito nominare una strada e l’ha riferito al nipote, il quale a sua volta si è confidato con la sua promessa, certa Marie. Quando siete uscito, stavo cercando di consolare la povera ragazza, timorosa che il padre, al quale ha nascosto di essere gravida, si ostini a rimandare di nuovo il suo matrimonio.»

«Che c’entra Lussard con tutto questo?» la interruppe Etienne infastidito.

«Beh, so dove viveva il deputato e visto che la testa mozza appartiene a un pezzo grosso - altrimenti perché voi inalberereste quell’aria da cospiratore? - ci vuol poco a fare due più due!» esclamò la gazzettiera, orgogliosa del suo fiuto.

Molto meno soddisfatto si mostrò invece Etienne. «Adesso sparite, è chiaro?» tuonò, verde di bile all’idea che gli affari di Stato passassero di bocca in bocca come chiacchiere di comari pettegole.

«Veramente speravo di venire con voi. . .»

«Non andrete da nessuna parte! A proposito, per che giornale scrivete?» chiese il commissario, in tono di larvata minaccia.

«Il bollettino del Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie, diretto da Pauline Leon e Claire Lacombe!» rispose fiera la ragazza.

Verneuil fremette nel sentire citare le peggiori tra tutte le femmine moleste di Parigi. Negli ultimi mesi, le loro critiche avevano ostacolato pervicacemente lo sforzo moralizzatore del Comitato di Salute Pubblica contro il meretricio: era necessario recuperare le donne perdute, da vittime quali erano, a una vita retta al servizio della Nazione mediante cibo garantito e lavori sicuri, sosteneva il nefasto bollettino, senza specificare in che modo sfamare le peccatrici redente in una città dove la disoccupazione cronica costringeva perfino molte giovani oneste a prendere la strada del marciapiede.

«Lavorate dunque per le paladine delle puttane!» non resistette a schernirla Etienne, che, quando voleva, sapeva diventare anche molto antipatico.

«Tra le donne che parteciparono alla presa della Bastiglia c’erano alcune prostitute. Non mi risulta che il piombo monarchico le abbia risparmiate» ribattè acida la giornalista.

«E la ghigliottina non risparmia il gentil sesso. Sentite, mia cara, non mi interessa se siete una scribacchina ficcanaso oppure la pensionante di un bordello, l’unica cosa che desidero è che vi leviate dai piedi!» disse Verneuil, volutamente offensivo.

Caroline arrossì violentemente, prima di biascicare qualcosa tra i denti.

Il commissario pensò di aver capito male: se quell’esclamazione non fosse stata pronunciata da una ragazza bennata e per di più patriottica, avrebbe giurato che si trattasse di un modo alquanto volgare di alludere alle deiezioni corporali.

«Merde!» ripetè la ragazza più forte e stavolta le sillabe risuonarono al punto da far sussultare un’anziana servente che tornava dal mercato con la cesta vuota. «Se volete sapere che cosa sta combinando Eglise-Neuve, furbone di un commissario, fareste meglio a chiedergli di Mélisende!» gridò andandosene, spalle dritte e penne al vento.

 

Place de l'Indivisibilité, ci-devant place Royale, hotel d’Oroal, sezione Indivisibilité Nello stesso momento, a nemmeno mezzo miglio di distanza, un giovane alto e biondo che rispondeva al nome esotico e altisonante di Stanislas Kornaszewski, si fermava davanti all’entrata di palazzo d’Orval, in place de l’Indivisibilité.

Con un sospiro, contemplò per l'ennesima volta la perfezione del grande quadrilatero incastonato tra i palazzi di pietra rosa, sforzandosi di ignorare l’armeria a cielo aperto che ne deturpava la linea. Place Royale era la prima cosa che aveva visto a Parigi venendo dalla natìa Polonia e se ne era invaghito all’istante, quindi mai e poi mai si sarebbe adattato a chiamarla con i nomi ridicoli di place des Fédérés o place de l’Indivisibilité imposti dai repubblicani assassini: il leggiadro quadrato costituiva ai suoi occhi l’essenza della vera Francia, patria della galanteria, del buon gusto e dei modi cortesi, un tessuto prezioso, lacerato solo temporaneamente dallo squarcio della Rivoluzione, che i prodi come lui avrebbero presto ricucito.

Erano migliaia ad ardere dal desiderio di battersi per il trono, la croce e la civiltà centenaria di cui la Repubblica stava facendo scempio, si disse il polacco, distogliendo lo sguardo dall'arrogante berretto frigio che svettava in cima all’albero della libertà per rivolgersi sottovoce all’amico che lo stava raggiungendo.

«Ci siamo, Eugène: è per stanotte!»

«Concedimi un istante!» rispose l'altro e, poco dopo, entrato nell’hotel, s’inchinava davanti alla dama dalla bellezza opulenta in attesa ai piedi dello scalone.

«Devo andare, baronessa d’Orval» sussurrò, sfiorando la chioma bionda che cingeva il volto della donna come la più splendida delle cornici. «È troppo chiedervi una ciocca di capelli da portare con me durante la santa impresa?»

I giovani avevano fame di simboli nell’andare a morire, pensò lei commossa e, afferrato il pugnale che il ragazzo portava alla cintura, si recise un ricciolo per metterglielo in mano.

«Sophie, se non dovessi tornare. . .»

«Che dite, Eugène?» mormorò lei posandogli il dito sulle labbra. «Il nostro piano è audace, ma non può fallire. Stanotte, mentre un altro drappello di monarchici tenterà di far evadere Maria Antonietta dalla Conciergerie, noi agiremo nella prigione del Temple; i giacobini non si aspettano un doppio colpo di mano, quindi nei pochi istanti in cui la torre resterà priva di sentinelle riuscirete certamente a sopraffare i volontari di stanza davanti all’alloggio del carceriere di Sua Maestà, il ciabattino Simon.

Una volta fuori dal Temple, il piccolo sovrano seguirà travestito il credenziere Euchariste fino al villaggio dove provvedere a raggiungerlo, per poi accompagnarlo in Normandia, fingendomi sua madre. Tutta la Francia si solleverà con noi e presto saremo entrambi fianco a fianco nella cattedrale di Reims, dove Luigi XVII verrà consacrato re per diritto divino, come suo padre prima di lui!»

«La mia vita vi appartiene, signora!» esclamò esaltato il giovane.

«Appartiene alla nostra causa!» lo corresse lei abbassando le palpebre azzurrine. «Coraggio, la salvezza del regno è in mano vostra e in quelle dei valorosi che vi seguiranno!» Parole vacue, pensava intanto, e tuttavia pesanti come macigni, immemore chi le pronunciava dello strazio della carne, delle membra lacerate, dei ventri aperti, del fetore del sangue. «Il Cielo sia con voi!»

 

Rue Pierre, alloggio del deputato Lussard, sezione Contrat Social Verneuil sorpassò senza fermarsi il sagrato di Saint-Eustache, certo che Lussard non fosse tipo da andare in chiesa in tempi in cui gli stessi devoti se ne stavano alla larga: da quando ai sacerdoti era richiesto il serment - ovvero il giuramento di fedeltà alla Nazione inviso al papa, alle cui orecchie gli stessi diritti dell’uomo suonavano blasfemi -molti parigini, incerti sulla validità dei riti celebrati, avevano finito per disertarli del tutto.

Il commissario si lasciò dunque alle spalle le torri campanarie, alte sul mare di comignoli e abbaini, per imboccare la lunga arteria verso il colle di Montmartre, che presto sarebbe stato intitolato al tribuno Marat, il cui barbaro assassinio aveva sconvolto il popolo nelle sue fibre più profonde. Il vicolo Saint-Pierre - o meglio Pierre e basta, in quanto i solerti scalpellini avevano già cancellato il saint clericale dalla lapide - era ormai a pochi passi, perso nel dedalo di viuzze che esalavano effluvi di verdure marce, misti all’afrore degli animali vivi, il cui commercio la Comune intendeva presto vietare.

L'appartamento di Lussard, troppo grande per essere definito un bugigattolo, troppo piccolo per qualificarsi come un alloggio decente, era sito al primo piano di uno stabile piuttosto malconcio, che prendeva luce da un pozzo in cui si aprivano parecchie finestre: la vittima aveva dunque dei dirimpettai, si rallegrò Verneuil, certo di poterne sfruttare la curiosità ai fini dell’indagine.

«Cittadino commissario. . .» Il piantone inalberava un bicorno marzialmente calcato in avanti, alla foggia dei granatieri repubblicani, che avevano sacrificato la finezza della divisa all’agilità dei movimenti.

Verneuil gli rivolse un breve cenno ed entrò in silenzio. Niente cucina, niente gabinetto di decenza, soltanto un paio di locali angusti precariamente arredati, il primo a ufficio, l'altro a camera da letto. Una sistemazione modesta, ma Robespierre stesso non godeva di molto più conforto, nelle due stanze d’affitto presso i Duplay dove viveva tuttora, da presidente del Comitato di Salute Pubblica e padrone della Francia: la Rivoluzione era cosa da uomini parchi e frugali. Virtuosi, avrebbe detto l’Incorruttibile.

«Dicono che il tizio che abitava qui sia stato accorciato anche senza ghigliottina» attaccò il piantone, dimostrandosi fin troppo edotto degli ultimi eventi. «Io non l’ho mai vista da vicino, una testa tagliata, solamente sul palco, quando il carnefice la alza per presentarla al pubblico: al supplizio del Capeto, la piazza era così piena che nessuno capiva niente, ma tutti erano contenti lo stesso, non capita tutti i giorni di far fuori un re!»

Un silenzio di tomba lacerato all'improvviso dal colpo della lama, ricordò Etienne, poi il clamore immenso della folla. «Quest’uomo deve regnare o morire» aveva detto Saint-Just e, a uno a uno, i convenzionali si erano decisi a votare l’esecuzione, da Philippe Egalité - il ci-devant duca di Orléans, che non vedeva l’ora di disfarsi del reale cugino - a Maximilien Robespierre, autore soltanto l’anno prima di un’istanza contro la pena di morte. Quando il capo insanguinato di Luigi, ci-devant re di Francia, era caduto nel canestro, Verneuil aveva avuto un solo pensiero: “Di qui non si torna indietro”.

E ora, un'altra esecuzione. Perché proprio di un’esecuzione si trattava: qualcuno aveva rivestito successivamente i panni dell’inquisitore, del magistrato e del carnefice per giustiziare il giacobino cui spettava la custodia del piccolo re, speranza estrema dei nemici della Rivoluzione.

«Che gioia vedere quei parassiti sulla carretta, cittadino! Facevano sfoggio di rasi e brillanti pagati con il nostro sudore, mentre noi crepavamo di freddo, senza legna, senza carbone, in dieci sotto un’unica coperta!»

Un abito di seta damascata, rammentò Verneuil, trine ai polsi, calze di seta, parrucca bianca e fastosa. Il bosco di Chateau Blois, lo stallone lanciato al galoppo sulle tracce del cervo. Un nitrito e il cavaliere che tira le redini per fermarsi a guardarlo. Anni dopo, lo stesso uomo inchiodato davanti al tribunale: «Sarai dannato per l'eternità!» urla, mentre lui ascolta impassibile, perché non crede all’inferno, solo a un lungo sonno senza sogni. . .

La voce del piantone riportò bruscamente il commissario alla realtà.

«Sperano di tornare sulle lance dei prussiani, i maledetti, ma noi li inchioderemo al confine!» esclamava, agitando marzialmente un moschetto che aveva l’aria di risalire ai tempi del cardinale Mazzarino: alle reclute davano sempre i fucili peggiori, tanto non sarebbero stati capaci di usarli.

Ma anche al fronte i fucili erano vecchi, pensò il commissario. E pochi. Canne arrugginite. Picche. Spiedi. Baionette. Soldati senza divisa e senza scarpe, che resistevano agli eserciti dell’Europa intera con qualche cannone, le note della Marsigliese e uno straccio tricolore.

«Li spazzeremo via tutti, crucchi, zaristi, inglesi, spagnoli e chi più ne ha, più ne metta!» dichiarò sicuro il piantone. Verneuil avrebbe voluto condividere il suo entusiasmo, ma sapeva che le cose stavano altrimenti: un paio di sconfitte ancora e la Francia sarebbe stata fatta a pezzi, la Rivoluzione cancellata, i tiranni di nuovo sul trono, stavolta per sempre.

Doveva scoprire chi aveva ucciso Lussard, prima che i cospiratori potessero fare dell'assassino il loro campione, si ripromise. Perché il popolo della Bastiglia non venisse di nuovo umiliato. Perché l’uguaglianza avesse ragione del privilegio. Perché le terre sottratte agli emigrati venissero restituite alla Nazione, tutte, anche Chateau Bois con le sue querce secolari, il suo castello incantato, la casa del fattore, lo stagno in cui aveva preso il primo pesce e l’albero su cui amava arrampicarsi da bambino. Perché cadessero le teste delle spie e dei profittatori che accoltellavano alle spalle la Patria ferita.

Un giorno, forse, anche la sua testa sarebbe caduta: come gli antichi Titani, la Rivoluzione divorava i suoi figli. Ma lui le apparteneva totalmente e comunque, quindi sarebbe andato avanti. E, per il momento, andare avanti significava perquisire con cura l'appartamento di Lussard, alla ricerca del più piccolo indizio capace di condurre all’assassino.

 

Jardin des Plantes, ci-devant Jardins du Roi, sezione Sans-culottes Nello stesso istante in cui Verneuil varcava la soglia della camera del deputato Lussard, al faubourg Saint-Victor due ragazze sostavano nei pressi di quelli che erano conosciuti, fino all'anno prima, come i “giardini del re”. L’orto botanico, voluto da Luigi XIII sui terreni dell’abbazia di Saint-Victor, era diventato parco pubblico già sotto la monarchia, prima che la Rivoluzione, fiduciosa nei lumi della scienza, vi trasferisse gli animali esotici allevati a Versailles per il diletto dei cortigiani, trasformando l’attiguo palazzo in museo di storia naturale.

«Ecco, Francine, il cancello del Jardin des Plantes si trova laggiù!»

«Domani la fabbrica ci riprenderà a lavorare, Léonie?» chiese l’amica, tanto minuta da scomparire quasi nella rozza veste di fustagno.

«Stai tranquilla, c'è un gran bisogno di bottoni per le uniformi, ora che tutti si arruolano. Spicciamoci, però, vicino alla Bièvre non si respira!» esclamò l’altra, indicando il corso d’acqua che ammorbava l’aria con gli scarichi maleodoranti delle vicine manifatture.

«Aspetta, mi devo sistemare la cuffia!» disse Francine, aprendo la sporta di paglia per estrarne una coccarda pulita.

Erano solo pochi mesi che Trancine abitava nella capitale. Per sedici anni non si era mai mossa da un villaggio a poche miglia da Parigi, convinta che la sua vita sarebbe consistita sempre nel mungere le mucche, pulire la paglia, andare in chiesa alla domenica e danzare una volta all'anno alla festa del paese. Ma in casa erano in otto, perché il padre voleva un maschio e ogni volta ci riprovava. Così, quando l’erede era nato morto portandosi via la puerpera esausta, nella camera nuziale si era installata una nuova moglie, con le anche larghe e il seno abbondante della buona fattrice. In più, però, c’erano le zitelle da sistemare: la primogenita andava al vicino, con il campo basso; la seconda a un vedovo troppo povero per assumere una serva; la terza al monastero della valle, che domandava alle novizie solo un obolo modesto. La quarta era lei, Francine, destinata a invecchiare sulla branda di cucina, crescendo bambini altrui e sgranando interminabili rosari. Aveva preferito avvolgere in un fagotto le lenzuola lasciatele dalla madre e salire sulla diligenza senza un addio.

A Parigi c'era vita, lavoro, fermento. A Parigi c’erano fabbriche, opifici e negozi, c’erano dame eleganti, bei giovanotti, guardie in armi. A Parigi c’era il futuro.

«Sarebbe stato magnifico venire stamane per la consegna dei certificati di civismo, ma adesso è sempre meglio di niente!» esclamò Léonie.

«A quest’ora il giardino potrebbe essere chiuso.»

«La Teillard dice di no e se non lo sa lei. . .»

Al nome della temutissima sorvegliante del bottonificio Parisot, Francine parve decidersi. La Teillard aveva mille occhi che ti vedevano anche dentro, conosceva il numero esatto di bottoni che eri riuscita a finire e quanto doveva scalarti dal salario per il tempo perso alla latrina. Sapeva se avevi nascosto una fibbia di scarto nel corsetto, se speravi di portarti a casa un pezzetto di passamaneria e perfino se il pensiero, anziché concentrarsi sull’asola, ti scivolava altrove, verso un bel volto bruno e una promessa alla quale volevi assolutamente credere. Doveva fidarsi di Rèmi, si convinse Francine scacciando i pensieri cupi, ma intanto lo sguardo le correva alle grandi moli della Pitie e della Salpétrière, rifugio delle folli, delle donne abbandonate e dei bambini senza nome: a lei non sarebbe successo, si disse stringendo le labbra.

«Dai, Francine, quanto ci metti? Hai insistito per vedere il parco, muoviti allora!» gridò Léonie, facendo segno all'amica rimasta dall’altra parte della strada, mentre si lisciava con qualche gesto acconcio la capigliatura ribelle. Era di gran moda esibire qualche ricciolo sbarazzino, Léonie lo sapeva, perché teneva d’occhio le dame al passeggio, spiandone le mosse aggraziate, lo sbattere delle ciglia e le smorfie sapienti, per replicarle poi davanti allo specchietto della sua soffitta. «Il cancello è appena accostato. Se incontriamo un custode, sorridi, è un sistema che funziona sempre!»

Facendosi animo, Francine si accinse ad attraversare.

«Pardon!» balbettò andando a sbattere contro un passante, proprio nel momento in cui l'amica varcava baldanzosamente l’ingresso del giardino. Con qualche parola di scusa, l’uomo la aiutò a rimettersi in piedi e, un istante dopo, il cuore in tumulto, la ragazza raggiungeva l’ingresso.

Per una volta, l’infallibile Teillard si era sbagliata, si resero subito conto le due ragazze inoltrandosi nei viali solitamente gremiti, dove quel giorno si aggiravano soltanto pochi, sparuti visitatori; ormai però erano quasi alla collinetta del labirinto e a quel punto sarebbe stato un peccato tornare indietro senza vederlo.

«Vado avanti io!» disse Léonie e, incitando l'amica con allegri richiami, seguì le siepi di bosso tenendo sempre la destra, un trucco insegnatole dal giovanotto che l’aveva accompagnata per primo nel dedalo, con la dichiaratissima intenzione di strapparle qualche bacio ardito. Pochi minuti dopo giungeva al belvedere dove la gloriette dedicata al naturalista Buffon - il più grande monumento del mondo costruito interamente in metallo - straripava di drappi bianchi rossi e blu che, ricadendo dalla cima, ruscellavano in patriottico tripudio sui cespugli sottostanti.

Léonie sorpassò il padiglione per correre a nascondersi nel varco d'uscita, intenzionata a sorprendere l’amica con uno scherzo giocoso. Ma il tempo passava e dalla radura non si udivano richiami di sorta: quella sciocca di Francine doveva essersi persa, forse era meglio tornare indietro. . .

«Ah, eccoti finalmente!» esclamò Léonie, scorgendola davanti alla gloriette e nel muoversi per raggiungerla urtò inavvertitamente il peso che teneva ancorato al suolo un festone tricolore.

Il bozzolo rotondo, avvolto in alcuni giornali sporchi, rotolò sfogliandosi sulla ghiaia, dritto sui piedi di Francine.

La ragazza ci mise qualche istante a capire di che cosa si trattava: troppa era la sorpresa, troppo l’orrore. Poi emise un gemito e, bianca come un panno lavato, scivolò a terra, priva di conoscenza.

 

Rue Pierre, alloggio del deputato Lussard, sezione Contrat Social Nell'appartamento di Lussard, la donna delle pulizie ruminò con la bocca sdentata, una mano sul manico della scopa e l’altra sul secchio degli stracci.

«Il deputato non aveva dormito qui, ieri notte. Ogni tanto restava fuori, lo so perché ho la finestra sulle scale!»

La ménagère poteva rivelarsi una manna per l’indagine, pensò il commissario, invitandola con un abbozzo di inchino. I suoi modi da gentiluomo piacquero alla vecchia, che sedette tirandosi il grembiule tra le gambe, con il gesto di una gran dama avvezza a sistemare lo strascico attorno al tabouret.

«Di soldi ne aveva più di quanto voleva far credere. All'ora di pranzo si chiudeva dentro, e dopo trovavo sempre degli ottimi avanzi: ieri ha buttato via un intero involtino di cervello. Lussard è un membro della Convenzione, mi dico io, sa certamente quello che fa e trattarsi bene non è peccato. Così non ne parlo con nessuno. Poi un giorno mi vedo costretta a guardare nell’armadio in cerca di biancheria pulita.»

«È stato difficile forzare la serratura?» ironizzò Verneuil.

«Dovevo pur rassettare il letto!» si giustificò lei. «Non immagini quanto ben di Dio c'era là dentro: asciugatoi, federe, camicie, tutto nuovo di zecca! Nascosto sul fondo, Lussard covava anche un deposito di vini: un moscato di Frontignan, un bordeaux che diceva “bevimi” e una botticella di tokaj mezzo piena. Ora, ragiono io, se scolarsi del buon vino è consentito dalla legge, perché farlo di soppiatto? Pensare che adesso quella roba squisita finirà in qualche magazzino. . .» deplorò la vecchia, accarezzandosi contegnosamente l’orlo della gonna.

«Sarebbe giusto che spettasse a un'onesta patriota capace di fornire elementi utili all’inchiesta. Purtroppo tu non mi hai detto molto. . .»

«C'è dell’altro. Un giorno entro all’improvviso e vedo il deputato chiudere in tutta fretta uno scomparto del secretaire. Affari riservati che non devono riguardarmi, penso, ma poi il grembiule mi s’impiglia nel cassetto e per liberarmi sono costretta ad aprirlo con una forcina.»

«Che hai trovato? Documenti ufficiali, lettere di immigrati, prove di un tradimento?» tenne il fiato sospeso il commissario.

«Niente di simile, soltanto un orologio. Ma che orologio! Oro e smalto, con il ritratto di una dama bionda: nemmeno il Capeto doveva averne uno simile nella sua collezione!» Nulla di strano, riflette Verneuil: i più accorti tra gli aristocratici si erano trasferiti alle prime avvisaglie di tempesta, depositando il loro intero patrimonio su compiacenti banche inglesi; i pochi rimasti sul suolo natìo, donne soprattutto, erano spesso costretti a disfarsi dei ricordi di famiglia.

«Proprio quando stavo per diventare curiosa, io che di solito sono la discrezione in persona, lo sento rientrare e mi tocca tornare al mio secchio!» concluse la ménagère.

«Peccato, cittadina, peccato. . .» deplorò Verneuil scuotendo la testa, come a significare che le informazioni non valevano ancora il bordeaux.

«Soltanto la pasticceria Crépy di rue Saint-Antoine recapita a domicilio involtini di cervello come quelli che mangiava Lussard!» aggiunse la vegliarda, giocando la sua ultima carta.

«Ehi, sulle scale sta salendo un tizio che ha tutta l’aria di essere un pezzo grosso!» li interruppe il piantone e Verneuil fece cenno alla ménagère che poteva prendersi il vino, ma non le lenzuola, di cui sperava di accertare la provenienza.

Mentre la vecchia usciva con il suo tesoro, nella stanza fece irruzione un uomo corrucciato e nervosissimo: alto e robusto, con un’espressione risoluta sul largo viso dalla bocca mobile, Jacques-Louis David non era soltanto il più grande artista di Francia, ma anche il responsabile della Sicurezza Nazionale.

«Hanno trovato un'altra testa!» disse con voce rotta dall’emozione «Al Jardin des Plantes, avvolta nel tricolore!»

«Andiamo!» esclamò Verneuil balzando in piedi.

«Dovrai cavartela da solo. Mi aspettano alla Conciergerie, dove è giunta la segnalazione dell'ennesimo complotto ordito per liberare l’Austriaca!» affermò il pittore, un po’ a disagio nei panni scomodi di funzionario governativo.

Per una celebrità come David, portare alle estreme conseguenze gli ideali giacobini era stata una scelta dolorosa ma consapevole: la Rivoluzione chiedeva a tutti, anche agli artisti, di sporcarsi le mani. Così, le dita mobili e sensibilissime, fatte per reggere il pennello, avevano già firmato più di una richiesta di carcerazione, e poiché alcuni arresti si erano conclusi con la condanna capitale, il pittore rischiava di pagarla cara, una volta che l’aria fosse cambiata. . .

«Ormai è indubbio che ci troviamo di fronte a una catena di omicidi politici: trova il colpevole, per carità, prima che i monarchici ce lo sventolino in faccia come una bandiera!» gli ingiunse brusco nell’andarsene.

Recuperato seduta stante l’orologio, Verneuil scese in strada e fermò una delle poche carrozze pubbliche ancora in circolazione, gridando: «Faubourg Saint-Victor, presto!» .

 

Jardin des Plantes, ci-devant Jardins du Roi, sezione Sans-culottes Non appena il cocchiere ebbe tirato le redini davanti all'ingresso dell’orto botanico, il commissario si fiondò dentro.

Nel viale erano ancora evidenti le tracce delle celebrazioni svoltesi al mattino: stendardi, palchi soprelevati, nastri bianchi rossi e blu, nonché l’inevitabile albero della libertà sormontato dal berretto frigio. Di fianco al museo, un complesso intrico di fronde si snodava su due alture artificiali a comporre uno di quei dedali vegetali tanto di moda nei grandi giardini patrizi.

Sotto la gloriette al centro del labirinto, una ragazza piangeva. Al suo fianco, un’altra giovane fissava il vuoto con occhi impietriti, senza reazioni di sorta.

«Francine, Francine, rispondimi! Sono io, Léonie. . .» gridava la prima, scuotendola.

In un angolo, tra i fogli svolazzanti di un giornale, giaceva un involto di forma vagamente sferica, guardato a vista da un giardiniere.

Etienne fissò il raccapricciante fagotto e avvertì un lungo brivido nel riconoscere i capelli ricci e la pelle butterata di Gustave Guy, il segretario del club dei giacobini che tante volte aveva sentito declamare dalla tribuna con un’oratoria sferzante, accompagnata dal largo gesto della mano destra, mentre la sinistra, afflitta da paresi, gli pendeva inerte sul fianco.

«L'hanno trovato quelle là» mise in chiaro il giardiniere. «Ero dietro al museo quando ho sentito un urlo, mi sono precipitato qui e ho visto una ragazza che indicava il cartoccio. L’altra era svenuta, ci abbiamo messo un po’ per rianimarla, ma sembra ancora più di là che di qua. . .» Frantine infatti era abbandonata, muta e stranita, tra le braccia della compagna, che la cullava piano.

«Rastrella il terreno tutto attorno, alla ricerca di un biglietto scritto a mano» ordinò Verneuil, raccogliendo le pagine del giornale insanguinato. «Ma prima dimmi se eri già stato qui, oggi, e a che ora.»

Il giardiniere sorrise: era il suo momento. Non era mai stato dalla parte dei repubblicani, sebbene come sovrano Luigi gli piacesse poco, troppo dimesso, niente scandali, niente favorite, soltanto orologi e cene in famiglia, roba buona per un borghese qualunque: un re senza grandeur, così discreto che se ne poteva fare benissimo a meno. Ma se sul regicidio era disposto a chiudere un occhio, tutt'altro discorso era la chiusura dei conventi. La sua povera mamma lo aveva allevato nel rispetto dei religiosi, che rappresentavano Dio in terra anche quando correvano la cavallina e comunque su Saint-Victor di chiacchiere non ce n’erano mai state, i frati erano tutti brava gente, compreso il priore, che a Natale regalava ai dipendenti un sacchetto di noci, con la raccomandazione di non picchiare troppo le mogli. Suo padre e prima ancora il padre di suo padre avevano lavorato per l’abbazia e senza quei miscredenti dei rivoluzionari, lui avrebbe fatto lo stesso; dei nuovi padroni, invece, c’era poco da fidarsi, un giorno aprivano un museo, il giorno dopo lo chiudevano e in ogni caso pagavano ancor meno del priore, che pure non era un campione di generosità. Ma tant’è, i frati non c’erano più, bisognava adattarsi e chissà che quel giacobino spiegazzato - il giardiniere non si aspettava nulla di buono da gente che, pur potendo rubare a man bassa, si presentava in modo tanto sciatto - non mettesse una buona parola per lui con il curatore. . .

«Ho percorso il labirinto quando l'ombra del sole segnava le quattro» disse indicando la meridiana. «Quella schifezza non c’era, posso giurarci!»

L'assassino dunque aveva avuto a disposizione un’ora sola per disfarsi della testa, riflette Verneuil avvicinandosi a Léonie, che si sforzava invano di riportare l’amica alla ragione.

«È stato un brutto colpo, poverina. . .» spiegò, e l'emergenza del momento non le impedì di valutare Etienne con l’occhio di riguardo che riservava ai maschi in età di riproduzione. Il commissario aveva un viso interessante, sebbene troppo serio, e sotto l’abito scuro gli s’intravedevano le spalle robuste di chi è cresciuto in campagna; i capelli in disordine e la camicia sgualcita denunciavano una certa trasandatezza, senza smentire però un’eleganza innata nel portamento e una fluidità di gesti che mal si adattavano al severo rigore del volto.

«Aprite quelle borse!» ingiunse lui, indicando senza troppa speranza i canestri che le ragazze avevano lasciato cadere a terra.

«Quella di Frantine l'ho vista io poco fa: ci teneva soltanto il pettine e la coccarda. Nella mia c’è l’uniforme da lavoro, l’avevo portata a casa per lavarla» disse mostrando al commissario un grembiule a righe bianche e grigie. «Stamane il bottonificio Parisot, dove lavoriamo a giornata, non ha voluto assumerci, perché le operaie erano già abbastanza. Allora Francine mi ha proposto di accompagnarla al parco: non sapevamo che fosse chiuso» mentì spudoratamente Léonie.

«I viali, quindi, erano deserti.»

«Non del tutto, abbiamo incrociato due persone. Ricordi, Francine, quel tipo con i capelli stopposi che indossava una giacca verde molto lisa e teneva dei quaderni sottobraccio, come uno studente?» chiese Léonie all’amica ma questa, ancora sconvolta, non accennò a rispondere.

Una descrizione minuziosa, fin troppo per un incontro durato pochi istanti, pensò Verneuil, che sapeva quanto i testimoni oculari lavorassero di fantasia. Con un gesto improvviso si tolse il cappello e, nascondendolo dietro alla schiena, chiese per metterla alla prova: «Sai dirmi che cosa portavo?» .

«Un piccolo bicorno di feltro scuro, con un pennacchio tricolore, non troppo alto. Il bordo è lucido, forse di satin, più probabilmente di seta vera. Doveva essere un gran bel cappello, un tempo, ma adesso è piuttosto malridotto. Una donna volenterosa, però, saprebbe farlo tornare come nuovo!» occhieggiò allusiva la brunetta. «Convinto, adesso, cittadino? In quanto al secondo visitatore, era un uomo attempato, con la fronte alta, che camminava curvo tenendo in mano un sacchetto. Ma perché tutte queste domande? Non penserete che uno di loro. . .»

«. . . abbia depositato la testa al centro del labirinto. È proprio quello che penso, ragazza mia!»

«Nessuno aveva con sé una borsa capace di nasconderla» scosse il capo Léonie, che ci teneva a mostrarsi pronta. «Soltanto il giovanotto che ha urtato Francine davanti all’ingresso portava una grossa bisaccia.»

«Una valigetta da dottore» la corresse l’amica, rianimandosi improvvisamente. «Aveva una voglia violacea sulla fronte, ma non era affatto giovane, di mezza età piuttosto. Sì, giurerei che fosse un medico. . .»

Poco lontano dall’orto botanico sorgeva il grande complesso della Pitié-Salpétrière, che fungeva da ospizio, nosocomio e carcere, riflettè Verneuil: probabilmente lo sconosciuto stava dirigendosi là.

«Non che io ne abbia visti molti, ci si curava da soli, al paese. Mi piacevano il villaggio, la casa sul fiume, la chiesa con la festa del patrono, che dopo è diventata la festa della Repubblica, ma si cantava e si ballava lo stesso. . .» mormorò la ragazza scoppiando finalmente in un singhiozzo liberatorio.

«Piangi, piangi, che ti fa bene!» la esortò Léonie, protettiva.

Una delle tante contadinelle dal colorito sano che venivano a Parigi senza un soldo, fuggendo la miseria, le nozze sgradite o il ritiro forzato in convento, pensò il commissario. Molte finivano in strada, qualcuna trovava un buon protettore e le altre invecchiavano in fretta, impallidendo tra i vapori mefitici delle fabbriche o le polveri dei cotonifici. Nessuna faceva davvero fortuna, in una capitale traboccante di donne raffinate, avvezze all’intrigo e prive di qualunque scrupolo.

«Vorrei essere rimasta a casa!» esclamò disperata la ragazza. La branda in cucina, il camino nero, la stalla puzzolente, il pollaio le apparvero d’improvviso splendidi e desiderabilissimi. Ma era troppo tardi per ritornare indietro. . .

«Che faresti in quel borgo di capre, Francine? Tutto è più bello a Parigi, la Rivoluzione, le parate, le feste patriottiche. . . perfino i commissari della Sicurezza!» scherzò l'amica, mentre Etienne s’irrigidiva imbarazzato.

Léonie era graziosa, anche se un po' troppo impudente, o forse proprio per quello, ma non era tempo di giochi galanti e comunque chi gli garantiva che la testa di Guy non l’avesse portata proprio lei dentro l’orto botanico?

«Mi rifarò vivo!» disse congedandosi bruscamente.

«La considero una promessa!» gli gridò Léonie, cui l'innato istinto femminile assicurava di potersi prendere impunemente qualche libertà con quel funzionario dall’apparenza tanto scontrosa.

Etienne stava per replicare, quando il giardiniere gli si parò innanzi brandendo un minuscolo foglio di carta. «Cercavi questo? L’ho trovato tra i cespugli!» «Processato, condannato, giustiziato» lesse Verneuil con un brivido. «Jeanne la Pucelle.»

Nello stesso istante, un movimento dietro alla vetrata dell'edificio che ospitava il museo attirò l’attenzione del commissario.

«I docenti sono in ufficio?»

«A quest'ora? Non credo proprio» rispose il giardiniere, un po’ sprezzante. «È tutta gente molto occupata e piuttosto altezzosa, a cominciare dal curatore.» Bernardin de Saint-Pierre, in effetti, nutriva un’altissima opinione di se stesso, dovuta, più che all’attività di ricerca, al successo del suo celebre romanzo Paul et Virginie, su cui l’intera Francia aveva versato calde lacrime, ricordò Verneuil. «Però al secondo piano c’è ancora il professore di Insetti e Vermi; sono ore che non si muove dal suo laboratorio: i colleghi non lo hanno in simpatia, invece a me piace molto, perché ascolta volentieri l’opinione di quelli che le piante le conoscono anche senza aver studiato sui libri! Andate, andate, è un gran chiacchierone, avrà certamente qualcosa da dirvi!»

 

Musée d'Histoire Naturelle, Jardin des Plantes, sezione Sans-culottes Etienne dovette aggirarsi a lungo per i corridoi prima di trovare il suo uomo, che al museo evidentemente contava poco, perché a dispetto di quanto stabilito dallo statuto dall’Assemblea Nazionale - “tutti i professori sono uguali in diritti e dignità” - la sua cattedra era di gran lunga la meno ambita: i naturalisti di vaglia si occupavano di anatomia umana e di grandi mammiferi, disdegnando gli animali inferiori.

Lo scienziato, tuttavia, sembrava molto preso dal suo lavoro, tanto che, assorto com'era nell’esame di un minuscolo reperto, non lo sentì nemmeno entrare.

«Il docente di Insetti e Vermi?» domandò Verneuil, bussando alla porta aperta.

«Meglio chiamarli invertebrati: mancava un termine per definire l’intera categoria, così me lo sono inventato» precisò il naturalista, alzando appena gli occhi.

«Sono costretto a interromperti perché nel parco è stata trovata una testa. . .»

«Sì, sì, lo so, ho visto tutto dalla finestra. Ne succedono tante, oggigiorno!» rispose per nulla turbato il professore, un uomo magro sui cinquantanni, dal cui sguardo acuto sprizzava un'incredibile vitalità. «Guarda questa formica, piuttosto, la perfezione dei suoi arti, la magnifica efficienza con cui rispondono alla loro funzione! Studiare questi animaletti ci mostra come la natura si trasforma: è tempo ormai di relegare tra le favole l’ipotesi biblica della creazione contemporanea di tutti gli esseri viventi!»

«Cittadino, non so se hai capito bene, ma c’è stato un morto ammazzato!» insistette il commissario.

«Pensare che credevano di farmi un torto, affidandomi una materia minore!» continuò imperterrito il naturalista. «Invece mi hanno offerto l’opportunità di allargare i miei orizzonti: il mese scorso, quando ho avuto la cattedra, ero solo un botanico, ma adesso lo studio della mia nuova disciplina mi appassiona. Io la chiamo biologia, dal greco bios, vita, e logos, discorso: bisogna pur distinguere lo studio degli esseri viventi da quello dei materiali inerti!» esclamò con entusiasmo il facondo coniatore di vocaboli.

«Tutto ciò è indubbiamente molto affascinante, però. . .» cercò di interloquire Verneuil. «A proposito, con chi ho il piacere di parlare?»

«Jean-Baptiste Lamarck» sorrise l'altro, invitandolo ad accomodarsi su uno sgabello di altezza spropositata, che chiaramente non era fatto per sedersi, ma per accedere agli scaffali zeppi di vasi di vetro dove inquietanti reperti organici galleggiavano in immonde brodaglie. Il piano d’appoggio era occupato da un mucchietto di grumi bianchi, che Verneuil tentò di spazzar via con un gesto distratto.

«Attento alle mie larve!» lo redarguì Lamarck, precipitandosi a salvare il suo tesoro. «È chiaro che tutte le specie si sono evolute da forme di vita inferiori, attraverso cambiamenti progressivi. . . una volta c'erano le Scritture a giustificare l’infinita varietà della vita, e adesso stiamo per fornire una vera spiegazione scientifica!»

«Vorrei parlare del delitto» si spazientì Etienne.

«Ah sì, il delitto. . . la natura fa tesoro della violenza; molti animali uccidono per nutrirsi o combattono per fecondare le femmine!»

«A me preme indagare sulla violenza commessa in questo giardino!» ribattè il commissario, tamburellando le dita sul tavolo.

«Il metodo con cui investigare su un crimine non dovrebbe discostarsi troppo da quello usato per sondare i misteri della natura. Se vuoi, ti spiegherò come procederebbe uno scienziato!» gli rispose serafico Lamarck.

C’era sempre qualcosa da imparare, si disse Verneuil e, dopo aver spostato con cura un paio di insetti rinsecchiti dal ripiano, vi poggiò i gomiti, apprestandosi a seguire la lezione.

 

Quai de la Maison Commune, ci-devant quai de la Grève, appartamento di Etienne Verneuil, sezione Maison Commune L'appartamento del commissario su quai de la Grève - intitolato ora alla Maison Commune dal nome dell’attigua piazza dove sorgeva il municipio, la “casa comune” di tutti i parigini - occupava i piani alti di uno stabile piuttosto vecchiotto, affacciato sulla Senna. Dalla banchina sottostante salivano odori e rumori: un’ubicazione inconsueta per uno studio legale, scelta apposta da Etienne per mescolarsi a quell’umanità chiassosa ed esuberante di cui tanti solitari amano fingere di far parte.

Quella sera tuttavia, nella stanza sul fiume c’erano parecchi ospiti, impegnati in una vera e propria riunione operativa.

Il pasto - una marmitta di manzo con le acciughe cucinata a puntino dalla governante Pàquerette - era stato buono e abbondante, innaffiato dal rispettabile vino fornito all'avvocato da un vecchio cliente di Dreux, che grazie a lui aveva ritrovato il primogenito fuggito di casa. Il giovane Landry, soprattutto, aveva fatto mostra di gradire: cresciuto in strada mangiando rifiuti, il ragazzo divorava ora quantità pantagrueliche di cibo, senza peraltro ingrassare di un etto; quella sera aveva spazzato via tre pagnotte grandi, mentre l’abate du Plessis si era servito soltanto un panino al burro, di quelli che ormai a Parigi erano quasi introvabili.

«Facciamo il punto della situazione» disse Verneuil sedendo dietro la scrivania ingombra: in un giorno, si era visto sbalzato da un’esistenza tranquilla di modesto procuratore al vertice di cospirazioni e complotti di rilevanza nazionale e, tutto sommato, non se ne dispiaceva affatto. «Abbiamo due teste, ma nessun corpo.»

«Prima o poi li troveremo alla Morgue: li gettano ancora nella Senna come ai tempi di Buridano» disse Thomas, ricordando le leggende fiorite attorno alle disinvolte nuore di Filippo il bello, use a buttare nel fiume le spoglie degli amanti uccisi. Lo scandalo reale della Tour de Nesle, delizia dei cantastorie, era sopravvissuto all'edificio stesso, denunciando un’amara realtà: anche in epoca repubblicana, non passava notte senza che la Senna restituisse i suoi macabri frutti.

«Sempre che l’assassino voglia davvero farceli scoprire» obiettò Verneuil.

«Che ragione avrebbe di nasconderli? Quando la testa di un tizio è da una parte e le spalle dall’altra, non ci vuol molto a capire di che cosa è morto!» considerò Thomas.

«Non è detto che le vittime siano state uccise mediante decapitazione: in entrambi i casi sul luogo del ritrovamento c’era pochissimo sangue» precisò il commissario.

«Perché mai allora il colpevole si darebbe la pena di inscenare una simile commedia, a rischio di farsi cogliere sul fatto?» obiettò lo sfregiato.

«A causa del significato che attribuisce ai suoi delitti. La seconda vittima ha sciolto ogni dubbio, il nostro assassino non uccide, giustizia: per lui gli omicidi sono pure e semplici esecuzioni, alla pari di quelle eseguite dalla ghigliottina.»

«La firma è loquace: “Jeanne la Pucelle”, ovvero Giovanna d'Arco» intervenne l’abate du Plessis «Un riferimento abbastanza esplicito alla Francia del trono e dell’altare: i monarchici tentano spesso di appropriarsi della pastorella lorenese in chiave controrivoluzionaria, dimenticando che era un’umile analfabeta, condannata al rogo dalla Chiesa, con il tacito consenso del re cui aveva garantito la corona.»

«Quindi dobbiamo cercare un attivista monarchico» dedusse Thomas.

L'abatino scosse la testa. «Non è detto: a volte, basta poco per scatenare il malanimo. Da adolescente, Robespierre, che era allora uno dei migliori allievi del collegio Louis-le-Grand, venne incaricato di redigere una prolusione di benvenuto per la visita del re, ma il Capeto, che andava di fretta, non lo ascoltò neppure. Ora, senza voler presumere che un simile episodio sia all’origine del fervore rivoluzionario dell’Incorruttibile, di sicuro gli fece toccare con mano la scarsa considerazione in cui il sovrano teneva i suoi sudditi.»

Sì, bastava poco per umiliare un ragazzino, ricordò Verneuil: Chateau Bois sotto una coltre di neve, un grido, una caduta, un bimbetto disarcionato incapace di risalire sul cavallo, lui che si avvicina per offrirgli aiuto e viene respinto in malo modo. «Non toccarmi con le tue manacce di servo!» grida il bambino vestito di velluto, stroncando sul nascere una possibile amicizia. Era stato allora che aveva perduto il rispetto per i padroni, per i grandi, per il re stesso? si chiese Etienne. Era stato allora che aveva visto nella neve alcune strane orme di spessore diverso, come quelle nel ripostiglio del Louvre?

«Potrebbe dunque trattarsi di qualcuno che, pur senza militare tra i monarchici, ha sofferto un torto attribuibile anche alla lontana alla Rivoluzione: un possidente cui sono stati requisiti i beni, per esempio, un funzionario che si è visto stroncare la carriera o, meglio ancora, il parente di qualche giustiziato. Padri, figli e fratelli di chi è morto sulla ghigliottina sono tutti nel novero degli indiziati.»

Du Plessis parlava con calma olimpica, quasi recitasse una preghiera. I suoi modi erano quelli appresi fin da bambino in convento, controllati, misuratissimi e anche un po' subdoli nella loro untuosa cortesia: soffocata la naturale esuberanza infantile, l’abate aveva fatto sua per sempre una gestualità ieratica e composta, interiorizzandola al punto che si sarebbe detta innata, pensò Verneuil: pur avendo gettato la tonaca alle ortiche dandosi anima e corpo alla Repubblica, era rimasto prete nei modi, nei metodi, negli accenti. O forse invece le cose erano andate diversamente e François-Xavier era stato partorito già adulto, con il pieno controllo delle sue emozioni, senza mai aver provato l’impulso di correre sfrenatamente, galoppare a rotta di collo o amoreggiare con le ragazze, ma soltanto quello di lambire con le dita ceree le pagine dei libri, fossero essi messali, salteri o raccolte di proclami rivoluzionari. . .

«La maggior parte delle esecuzioni avviene lontano da Parigi, nella Vandea ribelle: occorrerà parecchio tempo per vagliare le condanne dei tribunali di provincia, ma è un lavoro indispensabile» disse François-Xavier, senza nascondere la sua perplessità. «Per identificare il nostro assassino sarebbe anche utile sapere se colpisce fin dal primo momento con la mannaia, il che significherebbe che è dotato di una forza erculea, o se invece fa a pezzi le vittime dopo averle uccise. Purtroppo, è impossibile scoprirlo in assenza dei cadaveri. . .»

«Alcuni dettagli interessanti a questo riguardo potrebbero emergere dalla bollitura cui il cittadino Lamarck, del Musée d’Histoire Naturelle, sta sottoponendo le teste» lo smentì Verneuil.

Du Plessis storse la bocca: «Bollitura? Mi sembra così poco rispettoso, così poco. . .» lamentò, ma s’interruppe prima di dire “cristiano”, ricordando di essere un giacobino che aveva chiuso i conventi e incamerato i beni della Chiesa.

«Se le teste si possono tagliare, perché dovrebbe essere proibito cuocerle?» sbottò acido Thomas. Si fidava poco dei giovani sensibili come l’abatino, spiriti delicati che per nulla al mondo avrebbero macellato un maiale, ma facevano onore alla tavola quando se lo trovavano nel piatto. Se però il deputato Blas diceva un gran bene di quella mezza calzetta di prete spretato e di quel leguleio dai capelli in disordine, bisognava certamente dargli retta. . .

«Uno dei reperti ci ha già rivelato qualcosa: dal lobo dell'orecchio destro di Lussard mancava l’anello d’argento che era solito portarvi, come se l’omicida se lo fosse tenuto per ricordo.»

«Manipolate voi questa roba da becchini!» interloquì lo sfregiato. «Per quanto mi riguarda, preferisco i vecchi metodi: ho spremuto ben bene il personale del Louvre e vi assicuro che, Eglise-Neuve a parte, possiamo togliere tutti dal novero dei sospetti.»

«La storia del capo del personale mi convince poco: fai un sopralluogo nel quartiere dove Eglise-Neuve sostiene di essersi recato, Thomas» stabilì il commissario e buttò lì il nome di Mélisende, guardandosi bene dallo spiegare come lo aveva ottenuto. «In quanto a te, Landry, metterai a frutto le tue conoscenze tra i ricettatori per risalire all'origine dell’orologio, sperando che ci porti al luogo in cui Lussard passava la notte» disse traendo dal panciotto il gioiello con la miniatura.

Landry si limitò ad annuire. Se fosse stato avvezzo a esprimersi, avrebbe probabilmente aggiunto che quando Pierre Blas gli aveva imposto di trasferirsi dal commissario era stato pronto a obbedire, così come avrebbe acconsentito a qualunque sua richiesta, al modo di un randagio che segue fedelmente il capobranco. Ora, però, era felice di trovarsi lì: un giorno solo gli era bastato per prendere in simpatia quello sbirro improvvisato che non si accaniva contro i ladruncoli, gli accattoni o le poveracce che battevano il marciapiede, ma solo contro i nemici della Nazione. Questo avrebbe detto un Landry facondo, ma il ragazzo invece preferiva tacere, usando la bocca solo per triturare con grande energia pane, mele, ossicini, rametti, bastoncelli, stecchetti vari e quant’altro gli capitava a tiro, forse in ricordo di una fame antica.

«Se il personale del museo non c'entra, l’omicida deve essere venuto da fuori» intervenne du Plessis, che aveva aspettato il suo turno con la pazienza di chi è avvezzo ai lunghi silenzi conventuali. «I portoni al piano terreno del palazzo sono sbarrati dall’interno con pesanti chiavistelli, quindi si suppone che l’intruso si sia arrampicato di sopra, dopo aver provveduto in precedenza a lasciare una finestra aperta. Ora, come già sapete, due personaggi di rilievo hanno avuto accesso alla galleria proprio nella giornata di ieri. Il primo è il deputato Nicolas Caron, un bellimbusto legato a doppio filo al carro di Hérault de Sé-chelles, quindi, a conti fatti, agli Indulgenti di Danton.»

Thomas storse la bocca. Era stato un fedelissimo del famoso tribuno, prima di voltargli le spalle davanti ai dubbi sempre più pressanti sulla sua integrità: da tempo si sospettava Danton di aver intascato cifre consistenti sottraendole al fondo segreto per la difesa nazionale e perfino di colludere con gli emigrati; prove di colpevolezza non ce n’erano, ma la sua nuova prosperità era sotto gli occhi di tutti.

«Caron non si è presentato da solo al Louvre» specificò l'abate. «Lo accompagnava la sua ultima amante, una certa Adrienne Poupeau, attrice al Théàtre de la Liberté, ovvero il ci-devant Théàtre de la Foire-Saint-Germain, una dama chiassosa, con una spiccata predilezione per gli abbigliamenti eccentrici. L’accoglienza delle maestranze non è stata delle migliori: quando la cittadina Poupeau ha fatto la sua comparsa nella galleria in una tunica di seta trasparente, gli operai hanno cominciato a fischiare e ancora più vivaci sono state le rimostranze delle popolane venute a portar loro il pasto. Tale Berthe Dandel si è messa a gridare allo scandalo, protestando che a una tessitrice come lei sarebbero occorsi quattro mesi di lavoro per pagare lo scialle della sgualdrina, perché sempre di puttane si trattava, fossero nobili o repubblicane. Così dicendo, ha strappato lo scialle alla Poupeau, scappando verso il ripostiglio; l’attrice l’ha inseguita e ne è nata una colluttazione. In breve, le due hanno fatto a botte proprio nello sgabuzzino dove stamane è stata ritrovata la testa.»

«E brava Berthe!» approvò incondizionatamente Landry.

«Caron porta ancora la parrucca incipriata a doppio boccolo e questo dettaglio ben si concilia con il talco raccolto sotto il busto del Condé. Arrivare a lui, però, potrebbe essere improbo, quindi torchieremo la sua amichetta!» disse Verneuil.

«Sarebbe interessante, visto che secondo la servitù ha passato la notte con lui. Purtroppo, però, si è resa irreperibile: Caron non era la sua unica fonte di reddito, coltivava intimi rapporti con molti altri politici dal portafoglio gonfio, che di certo ne hanno favorito la fuga» lo deluse l’abate.

«L’esempio di Danton ha fatto scuola: chi può arraffa a più non posso!» brontolò il rigido Thomas.

«E tra i più zelanti in questa corsa all'oro c’è l’altro personaggio di spicco che ieri ha fatto visita al Louvre. Si tratta di Gabriel Sauthier, un notaio in ottimi rapporti con alcuni membri del Comitato, a dispetto del fratellastro affiliato alla Gironda, morto suicida nel carcere dove era stato rinchiuso a giugno assieme ad altri esponenti del passato governo» precisò du Plessis, ricordando i giorni in cui la collera popolare aveva rovesciato il potere della fazione girondina, arrestandone i capi o spingendoli alla fuga.

«Si faceva seguire anche lui da qualche dama?» chiese Verneuil.

«Oh, no! Questo Sauthier - spero che non vi dispiaccia se mi sono preso la briga di informarmi - ha fama di pesce freddo: solo tre cose lo interessano davvero e sono, nell'ordine, il denaro, il denaro e ancora il denaro. Sarebbe un errore confonderlo con uno dei tanti scritturali che tirano avanti nei loro ufficietti striminziti registrando le compravendite dei bottegai sotto casa. Sauthier lavora in grande, e già suo nonno, sposando la figlia di un oscuro barone di campagna, era riuscito ad aggiungere al proprio nome borghese l’appendice “de Noigny” che lo qualificava come nobile di toga, un’appendice cui Gabriel, visti i tempi, ha prontamente rinunciato.»

«Da dove nasce allora questa improvvisa passione per l’arte?»

«L'arte ha un prezzo, cittadino commissario, a volte molto alto» abbassò gli occhi l’abate. «Sono in parecchi a tentare di accaparrarsi opere antiche che, non suscettibili di esposizione in Francia perché contrarie ai valori repubblicani, all’estero vengono ricercate come autentici cimeli: i ritratti dei Borboni vanno a ruba da Napoli alla Spagna e quelli dei nobilucci di toga si piazzano facilmente tra i ricchi borghesi di tutta Europa, che li espongono in bella vista nei salotti, accampando lontane parentele ormai impossibili da smentire. Probabilmente il notaio Sauthier ha inteso verificare di persona se tra gli scarti del Louvre ci fosse qualcosa di appetibile.»

«Non ditemi che anche lui si è avvicinato al ripostiglio!»

«Sì, almeno a sentire il capomastro, un brav'uomo di idee piuttosto antiquate» intervenne Thomas. «Ho avuto il mio daffare a farlo parlare, continuava a lamentare lo scioglimento delle corporazioni: i suoi antenati erano maestri muratori da centocinquant’anni e ora, con la liberalizzazione dei mestieri, lui rischia di decadere al livello di semplice manovale. . .»

«Il medioevo doveva pur finire!» esclamò Verneuil, infastidito.

«Sono in molti a rimpiangere il vecchio mondo, che pur con tutte le sue sperequazioni, garantiva una certa stabilità» mormorò du Plessis, guardando ostentatamente in basso. Chissà se anche l'abatino, tanto pronto a saltare con entusiasmo sul carro della Repubblica, non vagheggiasse qualche volta le sicurezze di una carriera ecclesiastica modesta, ma soddisfacente, all’interno di un ordine consolidato da secoli? si chiese Verneuil. La Rivoluzione era faticosa, sfibrante, assorbiva immani energie, risucchiava giorni, mesi e anni senza concedere un momento di tregua, senza dare il tempo di fermarsi a riflettere: si sarebbe pensato dopo, per il momento occorreva fronteggiare una per una le continue emergenze.

E, siccome in quel momento l’emergenza consisteva in due teatrali omicidi dal movente politico, era meglio riportare il discorso in carreggiata, decise, domandando a Thomas di riferire punto per punto la testimonianza del capomastro.

Sì, dal cantiere passava tanta gente, aveva dichiarato l'uomo, ma nessuno indossava zoccoli, per via della delicatezza del pavimento. E ancora: sì, il notaio Sauthier aveva manifestato molta curiosità per alcuni busti sopravvissuti al saccheggio delle Tuileries, ma non si era trattenuto molto, soltanto mezz’oretta, andando sempre in giro da solo.

«Concentriamoci dunque sui sospetti: per l’omicidio Lussard abbiamo Nicolas Caron, Gabriel Sauthier e Eglise-Neuve. Non che sia di capitale importanza, ma mi piacerebbe sapere se qualcuno di loro ha avuto problemi alla gamba sinistra, qualcosa come una debolezza congenita per esempio, oppure un osso rotto» disse Verneuil, rammentando lo spessore irregolare delle orme. «Per quanto riguarda il secondo delitto, invece, dato che il giardiniere garantisce per il professor Lamarck e viceversa, ci restano soltanto le due ragazze e i visitatori del Jardin des Plantes. Tutti da controllare, e sono soltanto i primi. Al lavoro!»

Poco dopo, congedati i suoi aiutanti, Etienne si ritirava, esausto dopo una giornata campale: l'appuntamento con Pierre, l’incarico inatteso, la scoperta delle teste, l’inizio di un’indagine che si prospettava ostica e laboriosa. E in più, una sensazione mai provata prima, dalla quale credeva di essere immune: l’ebbrezza del comando, la consapevolezza dell’autorità e del nuovo rispetto che lo circondava. Non era mai stato un uomo importante, né aveva ambito diventarlo; ora invece, la sua nuova veste di commissario della Sicurezza lo esponeva al fascino sottile del potere. Se un giorno, uno solo, era bastato a fargli intravedere quanto fosse gratificante tenerne in mano le redini, che cosa doveva provare chi era avvezzo a decidere dei destini altrui, si chiamasse egli re o presidente del Comitato di Salute Pubblica?

Ma il potere implica responsabilità: il Capeto, sovrano di diritto divino, non aveva saputo farvi fronte. Ne sarebbe stato capace il piccolo avvocato di Arras, quel Maximilien Robespierre che guidava la Francia da due stanzette in affitto in rue Saint-Honoré? E la Nazione, usa a giudicare i potenti dal loro sfarzo esteriore, avrebbe accettato alla sua testa un uomo il cui unico lusso erano alcuni panciotti damascati e la compagnia di due canarini?

Basta con i pensieri foschi, s’impose Etienne, era troppo stanco, doveva dormirci su, dopo un buon sonno sarebbe stato pronto a ricominciare. . .

3 SETTEMBRE 1793

Place de l'Indivisibilité, ci-devant place Royal, hotel d’Orval, sezione Indivisibilité La ci-devant place Royale dormiva ancora, quando l’ombra uscì dagli alberi per essere immediatamente inghiottita dall’oscurità del portico.

In un portone si aprì uno spiraglio. «Eugène, siete pazzo a presentarvi all'ingresso principale?» protestò la donna spalancando il battente, mentre il giovane scivolava dentro alla luce dell’unica candela, l’abito strappato che strideva incongruo tra gli ori e gli stucchi dell’atrio.

«Tutto è perduto, signora!» disse concitato. «I giacobini ci stavano aspettando! Avremmo dovuto capire che si trattava di un tranello dalla facilità con cui i volontari di stanza presso il carceriere Simon si sono lasciati sopraffare: proprio quando stavamo per giungere nell’alloggio di Sua Maestà, dal buio è emerso quel demonio di David e le guardie ci hanno circondato. Eppure eravamo in pochi a conoscere il piano: noi due, il principe Kornaszewski, suo figlio Stanislas, il credenziere Euchariste, il prussiano Alex Feld, il visconte di Seguière e il giovane marchese di Chateau Bois!»

«Chi di loro ci ha tradito?» chiese la baronessa in un soffio.

«Seguière è stato ucciso, Feld è fuggito, i Kornaszewski sono stati catturati!»

«E Fabien di Chateau Bois? Ha insistito per entrare a far parte del drappello, per vendicare la morte del padre. . .» dubitò la baronessa.

«Era alle mie spalle, poi non l'ho più visto. Ma adesso non c’è tempo per discutere, Sophie, dovete fuggire!»

«Lasciare Parigi in questo momento equivarebbe ad ammettere la mia complicità: sarei ripresa e tradotta in carcere in men che non si dica. Andate voi!»

«Non posso abbandonarvi nel pericolo!» protestò il giovane.

«Le nostre vite contano poco, Eugène, in gioco c'è il futuro del regno. Tra un’ora, a Porte de la Chapelle vi aspetterà un cavallo con il necessario per il viaggio fino in Normandia. Mi precederete soltanto di qualche giorno: ditemi come contattare gli amici pronti a farci passare la Manica e vi raggiungerò al più presto!»

«La rete dei nostri agenti a Caen fa capo al conte di Somme, alleato dei girondini separatisti. Si riuniscono nella cappella di Maria Maddalena, al cimitero: bussate tre volte e sapranno che siete dei nostri!» le rivelò il giovane, prima di andarsene.

La baronessa chiuse la porta e si appoggiò allo stipite con un lungo sospiro. Sapeva tutto il necessario: se avesse agito accortamente, ce l'avrebbe fatta di nuovo a preservare la vita e anche il resto, pensò soffiando sulla candela. Un attimo dopo palazzo d’Orval piombava nel buio.

 

Rue du Rotile, sezione République All’ultimo piano di un fabbricato alto e stretto di un misero quartiere di periferia, Léonie si stiracchiò, decidendo finalmente di alzarsi.

«Un'altra giornata senza lavoro! Ehi, che faccia scura, non dirmi che pensi ancora alla brutta avventura di ieri! D’accordo, è stata un’esperienza tremenda, ma noi non c’entriamo, se la vedrà il commissario. . . non trovi che sia un uomo attraente?»

Senza aprir bocca, Francine attese che l'amica si mettesse allo specchio e spalancò l’anta dell’abbaino - unico privilegio di una stanzetta che a malapena conteneva un pagliericcio e una cassapanca tarmata - per guardare giù con ansioso sgomento.

Quattro piani più sotto, nel vicolo fangoso su cui si ergevano le colonne classicheggianti della soppressa parrocchiale di Saint-Philippe du Roule, due o tre bambini stracciati ruzzavano tirandosi il cerchio rotto di una ruota, mentre il venditore ambulante di nastri esponeva la sua mercanzia con tutta calma, tanto avrebbero comprato in pochi e comunque ci sarebbe stato da discutere per non dare la roba a credito. Poco lontano, alcune vecchie male in arnese accatastavano le pentole per lavarle nella Senna, senza sapone, visto che ormai non se ne trovava più nemmeno un pezzetto. Attorno al garzone del fornaio, invece, si assiepava una piccola folla, sebbene la sua gerla contenesse soltanto alcuni filoni di segale.

Francine fissò l’angolo vuoto accanto alla saracinesca del carbonaio e gemette.

Il sospiro non sfuggì all'indiscreta Léonie, che tempo prima l’aveva spiata proprio da quel davanzale, senza tuttavia soddisfare la sua curiosità, perché l’amica non era andata incontro a un uomo, bensì a due, tra i quali non le era stato possibile identificare il famoso amante.

«Oh, oh, ci mettiamo in ghingheri!» tentò quindi di celiare davanti al nastro nuovo e alla gonna di flanella a balze indossata da Francine. Quest’ultima però la respinse bruscamente, accostandosi di nuovo alla finestra.

«Complotto monarchico alla Conciergerie!» urlava uno strillone, brandendo delle pagine sgualcite che parlavano di tutt'altro, dato che i tempi stretti non avevano ancora consentito di stampare la cronaca della congiura notturna. Le donne del quartiere si affrettarono comunque a impadronirsi di una copia della gazzetta, per consegnarla all’unica di loro in grado di leggere: le altre si sarebbero sedute attorno, i ferri sottobraccio e le orecchie attente ai decreti del Comitato di Salute Pubblica, ai proclami del sindaco Chaumette e ai discorsi dei rappresentanti alla Convenzione, perché, fame o non fame, erano pur sempre cittadine e, con gli uomini al fronte, toccava a loro vigilare sui destini della Patria.

«Hai sentito? Hanno tentato di nuovo di liberare la regina!» esclamò Léonie. «Ehi, ma che cosa ti prende? Non essere tanto impaurita, Francine, il disgraziato che ha commesso l'infamia di ieri non verrà certo a cercare noi! O c’è qualcosa in più nei tuoi sospiri, pene d’amore, forse? Confidati, io ho più esperienza!»

«Occupati dei fatti tuoi!» la respinse l’altra, livida.

«Su, dimmelo!» insistette Léonie, ma quando Francine si chiuse in un silenzio testardo, sentì svanire tutte le sue buone intenzioni. «Ho fatto quello che potevo per aiutarti. Parigi è una città pericolosa per una stupidella di campagna come te. Torna al tuo paese, cara mia, prima che sia troppo tardi!» le gridò mentre usciva sbattendo la porta.

 

Jardin des Plantes, ci-devant Jardins du Roi, sezione Sans-culottes Verneuil sorpassò il cancello del Jardin des Plantes, ancora frastornato dalle notizie apprese poco prima.

La notte precedente erano stati tramati contemporaneamente ben due complotti monarchici: nello stesso istante in cui alcuni agenti controrivoluzionari, pagata una guardia, tentavano di far evadere Maria Antonietta dalla Conciergerie, un altro manipolo di armati penetrava nella Tour du Temple per impadronirsi del bambino Capeto.

La Repubblica, però, non si era fatta cogliere impreparata. Il piano volto a liberare l’Austriaca era fallito per merito di un secondino che, vuoi per amor di patria, vuoi perché il Tribunale Rivoluzionario non ci pensava due volte a comminare la pena di morte, si era affrettato a denunciare i corruttori; alla Tour du Temple, invece, i ribelli che speravano di aprirsi la strada verso gli alloggi del delfino avevano trovato ad aspettarli David, alla testa di un congruo numero di soldati.

Subito si era scoperto come tutti i personaggi implicati nel colpo di mano per liberare il bambino Capeto facessero capo alla nobile stirpe polacca dei Kornaszewski, che, legata alla famiglia reale da un antico sodalizio, era rimasta in Francia per favorire con opportuni maneggi un improbabile ritorno della monarchia. Catturato il giovane Stanislas nell'incursione, le autorità avevano quindi provveduto a tradurre in carcere il principe padre Casimire, assieme al vecchio credenziere Euchariste, partecipe a pieno titolo dell’intrigo: dell’intero entourage dei Kornaszewski, soltanto la cognata del principe, baronessa d’Orval, era stata riconosciuta innocente, ottenendo il permesso di far ritorno al suo elegante palazzo in place de l’Indivisibilité, libera da qualsivoglia capo d’accusa.

Uno dei congiurati - il visconte di Seguière - era caduto nello scontro, e un altro, Eugène d'Evreux, amico fraterno del principino Stanislas, era stato raggiunto all’alba da una pallottola a Porte de la Chapelle mentre tentava di lasciare la città a cavallo; soltanto due monarchici erano scampati alla cattura: Axel Feld, agente prussiano già noto alla Sicurezza e un giovane di cui non si sapeva nulla.

Era quest'ultimo a preoccupare Etienne. Ricordava bene Eugène d’Evreux e Stanislas Kornaszewski, la loro spocchia odiosa, l’esecrabile arroganza con cui s’imponevano alle ragazze del villaggio, la crudeltà con cui trattavano i servi. Ma ne mancava uno, il loro inseparabile compagno, l’ultimo componente del terzetto. . .

Il commissario stava chiedendosi se fosse proprio lui il cospiratore sconosciuto, quando gli comparve davanti la mole del Musée d’Histoire Naturelle.

 

Musée d'Histoire Naturelle, Jardin des Plantes, sezione Sans-culottes «Le ossa sono pronte. Ho lavorato tutta la notte, staccandone i residui organici, come si fa con gli scheletri dei mastodonti» disse Lamarck visibilmente soddisfatto, indicando i due crani nudi che giacevano su una lastra di metallo. «Ci sono parecchie fratture, qui sulle vertebre: è evidente che questi poveretti non sono stati decollati dalla lama pietosa di una ghigliottina. Chi ha commesso il delitto era tutt’altro che un provetto carnefice e inoltre ha fatto uso di una mannaia di dimensioni ridotte rispetto a quella che manovrava il boia Samson durante l’ancien régime, quando le esecuzioni erano eseguite manualmente. Ora, poiché è molto difficile che qualcuno se ne stia fermo e zitto a farsi tagliare il collo, possiamo dedurne che le vittime fossero prive di conoscenza, o addirittura già morte, al momento della mutilazione» spiegò lo scienziato confermando in pieno i dubbi del commissario.

«Siete straordinario, Lamarck: avrei dovuto chiedervi di cercare maggiori indizi!» deplorò il commissario.

«Già fatto» rispose l'altro con un sorriso. «Indagare è il compito degli scienziati, cosicché mi sono premurato di raccogliere ogni traccia di materiale estraneo dai reperti, prima di sottoporli a un’operazione irreversibile. C’erano alcuni fili di paglia tra i capelli della seconda testa.»

Paglia significava canestri, borse, ceste, panieri simili a quelli portati sottobraccio dalle due ragazze nell’entrare nel labirinto, riflette Etienne con brivido eccitato, mentre il pensiero gli correva alla lesta Léonie, fin troppo pronta a collaborare: non sarebbe stata la prima volta che un colpevole fingeva di essere capitato per caso sul luogo del delitto, offrendo poi il suo aiuto nelle indagini per meglio depistarle.

«Anche la seconda vittima dev'essere stata dissanguata altrove, perché la lacerazione non è arrivata nemmeno a sporcare del tutto il foglio esterno del giornale in cui era avvolto il capo mozzo. Dai fogli quasi illeggibili, sono riuscito a ricostruire solo un titolo: L’albero della libertà.»

«Forse potete farmi un altro favore» disse ammirato il commissario. «Avete detto di essere un botanico?»

«La mia Flore è adottata come libro di testo in molti istituti di cultura» rispose orgogliosamente Lamarck.

«Dunque sapreste riconoscere una foglia da un piccolo residuo» sperò Verneuil, porgendogli il frammento raccolto sul busto. «Non ho capito granché, osservandola con la lente. . .»

«Una lente nel secolo dei lumi? Non sapete che negli ultimi cent'anni la scienza ha fatto passi da gigante nel rivelare i misteri dell’infinitamente piccolo? Esamineremo la vostra foglia al microscopio!» ribattè Lamarck, traendo da un astuccio di cuoio una serie di tubicini, che avvitò rapidamente l’uno sull’altro per formare una specie di cannocchiale. «Molto, molto interessante. . .» mormorò accostando l’occhio.

«Allora, da che albero viene?»

«Nessun botanico sarebbe in grado di rispondervi» disse in tono grave, prima di aggiungere, sornione: «infatti, non si tratta di una foglia, bensì di una piuma!»

«Intendete dire la penna di un volatile?»

«Il campione è troppo piccolo per stabilire a che specie appartenga, però vi si notano tracce di pigmento rosso.»

«Quanti uccelli hanno un simile piumaggio?»

«Un’infinità, a cominciare dai pappagalli delle Americhe per cui vanno pazze le signore: la mia prima moglie, riposi in pace, avrebbe voluto che gliene acquistassi uno e io mi sono sempre rifiutato, tanto che ora provo un certo rimorso. Ma non è il nostro caso: qui siamo davanti a una tinta artificiale.»

«Bisogna quindi cercare un ornamento, probabilmente un copricapo.»

«O un'acconciatura, o un accessorio o una passamaneria: sull’onda della passione di Maria Antonietta, negli ultimi anni del regno le piume erano diventate di gran moda.»

«Ho ancora un reperto da sottoporvi» disse Etienne, deciso ad approfittare fino in fondo di tanta disponibilità.

Ma dopo una rapida occhiata alla polvere mista a intonaco che il commissario gli porgeva, il naturalista si schermì: «Potrebbe essere qualsiasi cosa e io non sono un esperto di materiali inerti. . .» .

Forse avrebbe dovuto indagare tra i parrucchieri, pensò Verneuil, ma con soli tre uomini a disposizione sarebbe stata un'impresa improba. Prima della Rivoluzione, infatti, a Parigi ce n’erano oltre un migliaio, che impiegavano nelle loro botteghe più di seimila garzoni: qualcuno aveva calcolato che con la quantità di farina sprecata per impolverare le capigliature degli elegantoni, si sarebbero potute nutrire ogni anno diecimila persone. In tempi di sobrietà repubblicana, il numero era indubbiamente calato, ma ne restavano comunque moltissimi, senza contare che nessuno di loro disponeva come Lamarck di moderni strumenti di precisione atti a individuare la provenienza della cipria solo sulla base di qualche granello.

«Non importa, mi siete già stato molto utile» sorrise quindi Etienne, rinunciando all’idea.

«Lo faccio volentieri: sarebbe bello se, una volta tanto, il Tribunale Rivoluzionario pronunciasse una condanna basata su prove autentiche, anziché su vili delazioni!»

Verneuil non osò riprenderlo: tutti conoscevano la disinvoltura con cui il pubblico accusatore Fouquier-Tinville e il giudice Coffinhal spedivano gli imputati al capestro. «E difficile fare la frittata senza rompere le uova» mormorò a mo’ di scusa.

Stavolta l'indagine sarebbe stata accurata, precisa e incontrovertibile, si ripromise: non si trattava di dare il nome a un colpevole qualunque, ma di fermare l’uomo che ergeva a giustiziere dei giustizieri stessi, processando e condannando la Rivoluzione nella persona dei suoi più fedeli servitori. Stavolta, non dovevano esserci dubbi. «Viviamo in tempi difficili, cittadino!»

«Tempi interessanti, commissario» lo corresse Lamarck. «Tempi interessanti!»

 

Hópital de la Salpètrière, sezione Sans-culottes Uscito dal Jardin des Plantes, Etienne attraversò l'ampio spazio adibito al mercato dei cavalli per dirigersi al vicino ospizio della Salpétrière, sulle tracce del medico con cui si era scontrata Francine. Presto si trovò sotto il portico di ingresso del complesso ospedaliero, adibito in parte a carcere, in parte a nosocomio, dato che l’ancien regime non faceva troppa differenza tra le autentiche criminali e le derelitte che la malattia o la miseria spingevano ai margini della società.

L'asilo femminile dove un tempo si ricoveravano - spesso a forza - accattone, prostitute, madri nubili e orfane promesse in spose ai coloni d’oltreoceano, era meno affollato da quando la Convenzione aveva sancito il rispetto per l’infermità e l’infanzia. Molto tuttavia rimaneva da fare, constatò Verneuil mettendo piede nel reparto sanitario, simile in tutto e per tutto all’ala carceraria dell’edificio, dove l’anno precedente era stata trucidata la principessa di Lamballe, nel corso della tragica notte in cui la folla inferocita aveva preso d’assalto le prigioni di Parigi.

Di fatto, tra l'ospedale e la casa di detenzione non si notavano differenze di rilievo. La stessa sorte accomunava da una parte dementi, epilettiche, cieche e paralitiche, dall’altra ladre o adescatrici, ma non più mogli adultere, in quanto la nuova legge repubblicana proibiva di incarcerarle. Il trattamento era identico per tutte: sbarre, catene, sedativi. Di cure, nemmeno a parlarne.

«Portami dal responsabile dell'ospizio» intimò Verneuil al portiere, un tizio lurido dall’aria supponente.

«I signori medici ricevono soltanto previo appuntamento e sono sempre molto impegnati» lo liquidò l’altro, senza nemmeno alzare lo sguardo.

«Da quando non arriva un'ispezione in questo immondezzaio?» sibilò il commissario vellicando il naso dell’impiegato con il pennacchio del suo bicorno. «Il cortile è un deposito di rifiuti, sulle scale passeggiano i topi e i giacigli delle ricoverate sono certamente nidi di pulci!»

Il portiere sternutì parecchie volte sulle piume, prima di rispondere, il che gli diede il tempo di soppesare la sciarpa tricolore e il tono autoritario del nuovo venuto.

Possibile che, dopo anni di oblio, le autorità si fossero decise a mandare un controllo, proprio quando lui si era finalmente deciso a impadronirsi di qualche scampolo di stoffa per venderlo a un fabbricante di uniformi da lavoro? si chiedeva perplesso. Eppure era parecchio che l’economo serviva in mensa pane stantìo al posto di quello fresco e il capoinfermiere portava nella sua stanza le ricoverate più giovani e graziose per godersele appieno. . . al diavolo gli ordini, lui non aveva nessuna intenzione di finire nei guai, decise indicando a Verneuil un ampio scalone: con quel ficcanaso se la sarebbe vista il direttore, che sulle forniture ci mangiava grasso.

Al piano superiore, il miasma di feci e urine mozzava il fiato e i lamenti delle ricoverate risuonavano più forti. Sui pagliericci gettati in terra negli immensi dormitori giacevano delle poverette gonfie di oppiacei e infagottate in sacchi a righe bianche e grigie il cui disegno il commissario conosceva bene, per averlo visto il giorno prima sotto forma di grembiule nel paniere della graziosa Léonie.

Non c’è quindi da stupirsi che fosse verde di bile, mentre spalancava senza bussare la porta del direttore.

«Hai preso un abbaglio, cittadino: nessuno dei nostri medici corrisponde alla tua descrizione» dichiarava poco dopo quest’ultimo, sistemandosi pomposamente gli occhialini sul naso. «Niente voglie sulla fronte e, in quanto alla valigetta, chi si porterebbe appresso i ferri del mestiere, lavorando in un istituto di queste dimensioni? E ora, se vuoi scusarmi, torno alle mie faccende: devo accudire centinaia di pazienti.»

«Ubriacarle di sedativi non dev’essere un impegno troppo gravoso!» ribattè Etienne.

Il direttore si sentì avvampare: «Non c'è che l’oppio per tener quiete le dementi» dichiarò gelido.

«Anche la sporcizia rientra tra le prescrizioni mediche?» incalzò il commissario.

«Qui abbiamo vecchie decrepite che si fanno tutto addosso, mendicanti avvezze a sguazzare nelle fogne e folli senza alcuna possibilità di cura, salvo bagni gelati nei momenti di crisi violenta» spiegò il medico con sussiego. «Occorre tenerle rinchiuse, incatenate o in stato di incoscienza, è meglio anche per loro. Oh sì, lo so che alcuni alienisti d'assalto sproloquiano sulla necessità di addolcire le condizioni dei pazzi, ma, credi a me, tutto ciò che ne ricaveranno sarà qualche sorvegliante barbaramente aggredito. Ora che abbiamo la ghigliottina, dovremmo prendere in seria considerazione l’idea di liberarci dei pesi inutili che gravano sulla società!»

«Dimentichi che la Rivoluzione è stata fatta per difendere i deboli?» s’indignò Verneuil.

«Certo, certo, ora comandano i virtuosi, i frugali, gli incorruttibili. Lasciati dire che non arriveranno molto lontano con la loro intransigenza: i preti, che la sapevano lunga, si accontentavano dell’obbedienza formale, assolvendo le meschine debolezze umane. . . se tu facessi altrettanto, cittadino, potremmo ovviare al nostro piccolo problema con reciproca soddisfazione» mormorò allusivo il direttore, domandandosi quanto gli avrebbe chiesto il commissario per lasciar correre.

«Manderò l’ispettore tra due giorni esatti. Vedi di far trovare questa baracca linda come uno specchio e le pazienti ben pasciute!» gli ingiunse freddamente Etienne.

«Compatibilmente con la mancanza di farina, cittadino, ma non dubito che i nostri efficientissimi governanti saranno capaci di rimetterla al più presto sul mercato. In ogni caso, finché le ammalate resteranno sotto la mia responsabilità, non mi sognerò di abolire né i lacci né le catene, come ha fatto quello sconsiderato di Pinel, scambiando la Bicétre per un albergo di lusso!» replicò il medico mentre il commissario si avviava alla porta.

Sentendo nominare la Bicétre, Verneuil pensò subito al carcere e si sentì gelare. Soltanto dopo qualche istante si rese conto che il direttore stava parlando dell’attiguo ospizio per alienati, lo stesso in cui il convenzionale Guil-lotin e il dottor Louis avevano sperimentato sui cadaveri la loro macchina per le esecuzioni pietose.

Etienne vi si era recato una volta sola, alla ricerca del figlio esposto di una giovanissima prostituta, desiderosa di riparare tardivamente all'antico abbandono; tra i vari relitti umani, gli era stato additato un giovane di corporatura robusta, aggiogato a mo’ di cavallo al cabestano del pozzo. Chiuso nel suo mondo silenzioso, il demente spingeva senza sosta la trave con i piedi affondati nel fango, sordo a tutto quanto gli accadeva intorno. Rinunciando al cospicuo compenso, Verneuil aveva detto alla madre di non essere riuscito a trovarlo.

Forse sotto la guida di quel Pinel inviso ai colleghi che il Comitato di Salute Pubblica aveva incaricato della nuova gestione, la Bicétre sarebbe parsa un po' meno l’anticamera dell’inferno, auspicò Verneuil, proponendosi per l’ennesima volta una visita sempre progettata e sempre rimandata.

In quel momento, però, aveva altro cui pensare: la promettente testimonianza di Francine stava rivelandosi una bolla di sapone, mentre gli altri due visitatori del Jardin des Plantes, lo studente e l’uomo con il sacchetto, restavano ancora ombre indistinte.

Del primo, però, poteva tentare almeno di definire i contorni indagando presso la principale tipografia del quartiere, dove forse erano in grado di riconoscere anche il giornale in cui era stata avvolta la testa di Guy, pensò Etienne e si diresse verso i quartieri meridionali.

 

Rue Mouffetard, Tipografia Zéphirin, sezione Observatoire Dopo aver percorso per intero rue des Francs-Bourgeois, Etienne si fermò infine in rue Mouffetard, davanti a una vetrinetta nebbiosa di polvere, su cui spiccava in belle lettere la scritta: “Ditta Zéphirin. Annunci, manifesti, giornali”. Sebbene di piccole dimensioni e sita in una zona periferica non lontano da pascoli e frutteti, la tipografia era nota per la sua ottima reputazione; dentro, aleggiava un buon odore di inchiostro fresco.

Una donna dagli occhi sottili come fessure, su cui dominava un naso che sarebbe stato eufemistico definire importante, gli si rivolse garbatamente, evitando tuttavia di chiedere in che cosa poteva servirlo: perfino nel commercio, il verbo servire era ormai caduto in disuso.

«Cerco il responsabile.»

«A tua disposizione. Sono Violaine Zéphirin, ultima di quattro generazioni di onorati stampatori e docente alla prima scuola popolare femminile di tipografia. Per fortuna, oggi non s’insegna più soltanto il cucito alle giovani costrette a mantenersi da sole!» disse la donna, prima di deludere Verneuil affermando che nessuno studente frequentava il suo negozio.

«Mi serve sapere chi pubblica questa gazzetta, come viene distribuita e in quante copie» chiese allora il commissario, porgendole la pagina di giornale già esaminata da Lamarck. «Il foglio è in pessime condizioni, ma una frase è ancora leggibile.»

«Potrebbe trattarsi di qualunque periodico. A Parigi se ne pubblicano centinaia, la maggior parte dei quali nasce e tramonta nello spazio di pochi mesi. L'inchiostro è quasi completamente dilavato, ma i caratteri li conosco, sono quelli usati da un vecchio ebdomadario a sostegno della monarchia, “L’Ami du Roi”. Ha cessato le pubblicazioni un anno fa, in concomitanza con il processo del Capeto.»

Un giornale monarchico, riflette perplesso Verneuil. Come mai allora l'articolo parlava di alberi della libertà? E perché l’assassino si sarebbe premurato di conservarlo per molti mesi, a rischio di compromettersi?

«Ho il permesso di andarmene, cittadina Zéphirin?» domandò un giovanotto nerboruto con la fronte piuttosto bassa, affacciandosi alla porta del laboratorio. «La composizione è pronta, resta soltanto da metterla in pressa.»

«Vai pure, Lucas!» concesse la padrona e l’apprendista prese la porta senza farselo dire due volte.

Verneuil se lo trovò davanti non appena uscito dalla bottega.

«Sento il dovere di avvertirti, cittadino commissario, che quei caratteri li usa anche la Zéphirin» spiegò, guardandosi attorno circospetto. «Ha clienti strani, la padrona: stampa proclami e roba simile, nonché il bollettino di un sedicente Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie, per conto di una sgualdrinella mezzo vestita da uomo. . .»

«Piccola, agile, con i capelli di fiamma?» chiese Verneuil, memore della giornalista con cui si era scontrato in rue Saint-Honoré.

«Proprio così. Dico io, dove andremo a finire se le donne cominciano a copiare i nostri abiti e a pretendere di comandarci? Hai sentito come mi si rivolge quella racchia: Lucas, fai questo, Lucas fai quello, neanche fossi il suo servo!» esclamò astioso l’apprendista, che forse aveva cullato il progetto di un equo scambio tra un giovane prestante e nullatenente e una tardona bruttina, ma proprietaria di un negozio redditizio.

Verneuil lo accomiatò con un gesto, infastidito di veder rispuntare sulla sua strada l’invadente Caroline Mathieu.

Tutti sapevano che dietro i circoli femminili più spinti c'era la lunga mano di Hébert e degli Arrabbiati, sempre pronti a chiedere l’impossibile, quando già il possibile era arduo da ottenere. La fazione più estremista della Montagna, appoggiata dai sanculotti - ovvero i lavoratori manuali usi a indossare i pantaloni lunghi, anziché le culottes al ginocchio proprie dell’abbigliamento aristocratico e borghese - dava parecchio filo da torcere a Robespierre, che non vedeva di buon occhio nemmeno le Cittadine Rivoluzionarie. Dal canto loro, le donne del club ricambiavano il presidente del Comitato di Salute Pubblica con pari insofferenza, tacciandolo di immobilismo e scarsa apertura mentale.

Doveva procurarsi subito un numero del bollettino, si ripromise Verneuil, e leggervi quali critiche Caroline Mathieu muoveva al governo, perché certamente di critiche si trattava, visto il carattere spinoso della giornalista e l'acidità della sua gazzetta, pronta a proporre il suffragio femminile, uguali diritti, pari opportunità e altre fole simili. Inoltre, occorreva confrontare i caratteri di stampa con quelli del foglio ritrovato nel parco, anche se dei delatori come Lucas c’era sempre poco da fidarsi.

Un fatto, tuttavia restava: la graziosa Caroline e la goffa Violaine Zéphirin si conoscevano e a questo punto c'era da dubitare che l’incontro, o meglio lo scontro, di rue Saint-Honoré fosse stato del tutto casuale.

 

Pantheon, ci-devant chiesa di Sainte-Geneviève, sezione Pantheon Francis Verneuil tornò rapidamente verso l’Ile de la Cité, soddisfatto della sua andatura sostenuta di buon camminatore. Nemmeno un cavallo sarebbe andato più veloce nelle stradine anguste della Rive Gauche, si disse, e comunque di cavalli se ne trovavano pochi, ormai erano tutti al fronte o adibiti al trasporto dei materiali bellici.

Stava passando accanto alla collina di Sainte-Geneviève, quando il volontario di guardia al Pantheon, riconosciutolo come un funzionario della Sicurezza, gli si parò innanzi a chiedere aiuto in una questione alquanto spinosa.

«Un gruppo di controrivoluzionari sta ostacolando la requisizione dei Beni Nazionali» spiegò additando la basilica, nuovissima e mai consacrata, che fungeva ora da tempio delle glorie di Francia. Lì, sotto l’enorme cupola, riposavano le ceneri di Voltaire e di Le Peletier, primo martire della Rivoluzione, cui presto si sarebbero aggiunte le spoglie di Rousseau e del tribuno Marat, pugnalato due mesi prima e oggetto ormai di un vero e proprio culto da parte del popolo di Parigi.

Ma c’era ancora in città chi venerava santi obsoleti, considerò Verneuil vedendo una donnetta scarmigliata contendere una cassetta luccicante al sanculotto Lazare Baladier, carpentiere di professione e coordinatore delle sezioni politiche della capitale.

«Non ve ne andrete di qui con la nostra Geneviève!» urlava la popolana, gratificando il sanculotto di una gragnuola di pugni ben poco consona alla mitezza evangelica. D'altra parte, anche Lazare peccava di scarsa fraternità repubblicana, almeno a giudicare dall’energia con cui respingeva la pia donna nel tentativo di strapparle definitivamente la teca.

«La legge parla chiaro, i metalli di valore devono essere rimessi allo Stato!»

«Restituiteci la reliquia, per pietà di Gesù. . .»

«Che c’entra Gesù? Lui lavorava con le mani, era un falegname, un sanculotto come noi!» replicò Lazare, che contava qualche antenato tra gli ugonotti.

«Blasfemo, bestemmiatore!» inveirono scandalizzati i devoti.

«Si può sapere che cosa sta succedendo?» intervenne Verneuil.

«Vogliono rubarci la santa!» gemette il vecchio, additando la cassa d’oro.

«Macché santa e santa!» sbraitò Lazare. «Questi ignoranti si sono fatti sfruttare per centinaia di anni dai chierici e adesso se la prendono con la Rivoluzione che arriva a liberarli!»

Il commissario si astenne dal fare commenti: certo, la Nazione doveva cancellare gli scandalosi privilegi del clero, ribadendo con forza quell'uguaglianza davanti alla legge che tanto dispiaceva a Roma. Tuttavia sarebbe stato folle sradicare in un sol colpo credenze antiche di secoli: le devote della santa amavano la Francia come quelle dell’“Ami du Peuple”, avevano anche loro un figlio in guerra e soffrivano ugualmente la fame. «Geneviève è la patrona della città» disse quindi pacatamente. «Conosce uno per uno gli uomini che si battono al fronte, i bambini che raccolgono il salnitro con le unghie, le donne che mescolano la polvere da sparo, i vecchi che forgiano fucili e baionette. Se ora fosse in mezzo a noi si affretterebbe senza dubbio a mettere a disposizione la sua teca per la salvezza della patria!»

La donna che aveva iniziato la protesta abbassò prima gli occhi poi la mano, sfiorando la cassa d'oro con una lieve carezza, mentre il coordinatore delle sezioni se ne impadroniva con un gesto rapace che non sfuggì all’occhiuto commissario: Lazare era un buon patriota, ma forse era meglio non indurlo in tentazione. . .

«Cittadini del quartiere, scortate voi stessi al luogo di raccolta l’urna della vostra protettrice!» esortò, facendo finta di non vedere la smorfia di disappunto che si dipingeva sul viso del sanculotto.

 

Petit Pont, sezione Pantheon Francis Verneuil accompagnò il corteo fino ai bordi della Senna, fingendo di non sentire che, in mezzo agli inni rivoluzionari, le popolane intonavano giaculatorie papaline.

Non appena la folla ebbe rallentato la sua marcia per imboccare lo stretto passaggio che immetteva sul Petit Pont, si defilò in mezzo al traffico di carretti, birocci e trabiccoli tirati a mano, aspettando che le ultime frange della processione scomparissero dalla vista prima di proseguire verso l’Ile de la Cité.

Aveva varcato metà del ponte quando, piegandosi per lasciar passare la carriola di un arrotino che gli sferragliava dietro, lo vide: i capelli chiari e ricci, gli occhi verdi un po’ bovini, il labbro pendulo, il mento sfuggente e la cicatrice sottile appena visibile sulla guancia sinistra, muta testimone della sua prima e personalissima Rivoluzione.

«Fabien!» mormorò allibito e, indietreggiando, si trovò improvvisamente di fronte a una minuscola faccia pelosa, con gli occhietti rotondi e i denti digrignanti.

«Ehi, mi spaventi la scimmia!» lo redarguì un suonatore d'organino, rassicurando con una carezza l’animale accoccolato sulla sua spalla.

Inutile dire che quando il commissario riuscì finalmente a raggiungere la Rive Droite, non trovò più nessuno.

 

Ile de la Cité, sezione Cité Prima il nome, poi il volto, si disse Verneuil sconcertato, mentre riprendeva il cammino con un lungo brivido nella schiena.

Dalla banchina giungevano i suoni e gli odori delle bancarelle e, al di là del portale pinnacolato di una cappella, spuntavano vicinissime le torri di Notre-Dame. Lo scenario consueto, tranquillizzante nella sua quotidiana banalità, gli instillò il dubbio di aver avuto le traveggole: identificati Evreux e Kornaszewski, gli era tornato alla mente il terzo della combriccola e ora, eccitato dall’emozione e dalla fatica, aveva creduto di riconoscerlo. Era certamente caduto in errore. Ma se invece non si fosse sbagliato, se avesse davvero intravisto tra la folla quel profilo che conosceva tanto bene?

Per quanto improbabile, Fabien poteva trovarsi di nuovo sul suolo francese, riflette. La soppressa congregazione femminile di Sainte-Geneviève, dove ancora vivevano quelle che il pubblico accusatore Fouquier-Tinville chiamava le “vergini folli” rimaste fedeli ai loro voti, era sospettata di dare asilo ai preti refrattari, agli aristocratici in fuga e agli agenti monarchici: rientrato in patria sotto false spoglie, Fabien avrebbe potuto nascondersi presso il convento, in attesa di prendersi una rivincita che aveva tutto il sapore della vendetta. E per Fabien di Chateau Bois, la vendetta aveva un solo nome: il suo.

 

Rue Saint-Denis, sezione Lombards Pochi istanti bastarono a Etienne per ricacciare nel profondo della memoria lo spettro di un passato che credeva sepolto per sempre. Non era il caso di mettere Blas o David a parte di un sospetto così labile: soltanto in presenza di indizi consistenti, o di prove vere e proprie, avrebbe consentito alle sue vicende personali di influire sull'inchiesta, decise dirigendosi all’Atelier du Nord per parlare con la tessitrice che aveva inscenato la protesta del Louvre.

Avanzando a lunghe falcate verso l'opificio, Verneuil non mancò di domandarsi se il suo modo di procedere dimesso e artigianale, che si era dimostrato valido per cercare fanciulli scomparsi, fosse davvero efficace per risolvere un caso tanto complesso. Certo, avrebbe potuto farsi accompagnare da una scorta di volontari delle sezioni, ma in tal caso chi si sarebbe fidato di lui? Bastava l’apparizione di una divisa, o anche soltanto una sciarpa tricolore, perché tutti diventassero seduta stante ciechi e sordi, pensò, coprendosi prudentemente la fascia, mentre celava l’obbligatoria coccarda dietro al bavero, al modo degli scontenti.

Proprio in quel momento l'occhio gli cadde sull’insegna che rappresentava una procace dea dell’Abbondanza dai lineamenti inequivocabilmente indigeni. “Crépy”, lesse stupito, rammentandosi del negozio di gastronomia alla moda di cui aveva parlato la domestica di Lussard. Che ci faceva quella targa pretenziosa in rue Saint-Denis?

«Sei tu il proprietario, cittadino?» chiese all’ometto smilzo che si agitava sopra alcune fiamminghe colme di raffinate prelibatezze.

«Magari!» esclamò questi, rabbuiato. «Mi ritrovo dipendente di una pasticceria borghese, io, che ero officier de bouche di un principe del sangue!»

Verneuil annuì comprensivo: cuochi e pasticceri - ma anche doratori, stuccatori, ebanisti, intagliatori, piumai, merlettai, tessutai, pellicciai, borsari, sarti, cappellai, parrucchieri, acconciatori e profumieri - non facevano mistero di rimpiangere la fiera del fatuo e del voluttuario in cui avevano prosperato durante gli ultimi anni del regno. Dimenticate le lunghe attese nelle anticamere dei nobili insolventi, la supponenza dei maggiordomi, le porte sbattute in faccia e le smorfie sprezzanti dei lacchè in livrea, restava loro il ricordo dei grandi nomi che riempivano la bocca prima ancora della pancia, dei sontuosi arredi intravisti da qualche spiraglio, dell'aura di rispetto e sacralità che circondava le fastose dimore degli aristocratici: servire un principe o un duca era ben altro che sfamare un’accolita di squallidi funzionari in marsina nera. . .

«Questo esercizio appartiene comunque alla famosa pasticceria Crépy: il servizio è più alla buona, ma i prodotti sono gli stessi. Ti va questo Canard au grenadin farcito di lardo, vitello e tartufi? L'aveva ordinato l’attrice Pou-peau, ma nessuno è venuto a ritirarlo. Quell’imbroglione è partita lasciandoci sul gobbo anche quattro vassoi di “bocconi della regina! ” disse indicando i minuscoli cartocci di pasta sfoglia riempiti di salse gustose.

«Intendi dire “bocconi della dea Flora”, vero, cittadino?»

Il bravo pasticcere avvampò. In tempi di cambiamenti radicali, pensava, l'imperativo di ingraziarsi i clienti, che era alla base di ogni mercatura, diventava ostico e pericoloso: con una parola di troppo si perdeva un potenziale acquirente, con due si rischiava di chiudere, con tre di finire allo Chàtelet e con quattro. . . il cuoco non voleva nemmeno prendere in considerazione quest’ultima eventualità, ma si toccò il collo soprappensiero, con un gesto inconsapevolmente scaramantico.

«Ho avuto occasione di assaggiare i vostri fagottini di cervello in casa del povero Lussard» esordì Etienne, ma vedendo il cuoco impallidire, pensò bene di aggiustare il tiro. «A dire il vero, il defunto deputato era un uomo abbastanza spiacevole, con quella maledetta abitudine di abbuffarsi di soppiatto. . .»

«Lussard temeva contestazioni da parte dei sanculotti, per via della carenza di farina» balbettò l’altro.

«A proposito, che cosa usi per mascherare la crusca nelle tue pastelle?»

«Macché crusca: la mia è tutta roba genuina» lo smentì il cuoco.

«Di questi tempi? Mi stai raccontando fandonie!» scosse il capo Verneuil, facendo mostra di incredulità.

Il pasticcere, che non brillava per soverchia astuzia, gli strizzò l'occhio, ammiccando con aria cospiratoria: «Il forno Magalou, in rue des Petits-Champs, si è messo in combutta con un mugnaio e provvede a rivenderci la farina migliore. Il prezzo è alto, ma c’è chi può pagare!» .

Con un movimento fluido e all’apparenza casuale, il commissario aprì allora le falde della redingote, abbastanza per lasciar intravedere la sciarpa tricolore.

Il pasticcere scolorò e quando riprese a parlare il suo tono era concitato: «So qualcosa che può interessarti sul deputato Lussard. Non sempre si faceva portare i pasti in rue Saint-Pierre: quando ordinava la cena per due dava un altro recapito!» rivelò.

Padron Crépy sbagliava a non prendere posizione, sospirava intanto. Quando fosse riuscito a mettersi in proprio, lui si sarebbe schierato come il pasticcere Girardeau, il cui spaccio, intitolato alla Fratellanza Rivoluzionaria, non era mai stato saccheggiato. Aveva già due nomi pronti: “I gigli di Francia” oppure ”La tavola di Gracco”, a seconda di dove avrebbe tirato il vento, pensò mentre spifferava a denti stretti il secondo indirizzo di Lussard, in rue des Fontaines, a due passi dalla Tour du Temple.

Con un inchino beffardo, Verneuil prese la porta.

 

Atelier du Nord, sezione faubourg du Nord Quando il commissario fece il suo ingresso all’Atelier du Nord, nella fabbrica era in corso una contestazione in piena regola.

«Esigo che si ritorni all'ordine!» andava sbraitando il gestore Ravel all’indirizzo di un’operaia dall’aria alquanto combattiva. Poteva avere trent’anni come cinquanta, pensò Verneuil osservandone i lineamenti tirati e gli occhi gonfi di chi è avvezzo a dormire poco e male su un sudicio pagliericcio; soltanto la mascella serrata denunciava, in quello che un tempo doveva esser stato un bel volto, la ferrea determinazione a non arrendersi.

Etienne aveva visto la stessa piega sulle labbra dei giovani che partivano per il fronte, i piedi fasciati nella stoppa, le giubbe troppo leggere, in spalla un vecchio moschetto con una baionetta arrugginita. Di fronte, sul campo di battaglia, c'erano i lucidi cannoni asburgici, l’agile cavalleria inglese, i generali impennacchiati del re di Prussia, i piumatissimi ufficialetti monarchici in culottes e alamari che, appena usciti dalle accademie, non vedevano l’ora di offrire il petto alla causa della corona.

Ma gli uomini qualunque delle fila repubblicane - operai, contadini, artigiani, impiegati, raccolti da ogni angolo del paese dalla leva di massa che aveva chiamato tutto il popolo alle armi - erano decisi a non perdere un palmo di terreno senza aver fatto assaggiare al nemico il piombo francese, fuso con le campane che non suonavano più. Il silenzio delle campane, più che il rumore dell'esecuzione del re, era la voce della Francia, un silenzio rotto solo dal ritmare degli stivali che marciavano ostinati nel fango, perché i tiranni d’Europa sapessero che l’armata degli straccioni non avrebbe ceduto il passo.

«Vogliamo del cibo» ribadì la donna. «Non si può lavorare per dodici ore al giorno senza mettere nulla sotto i denti!»

«Il pasto gratuito di metà giornata è stato soppresso perché incideva troppo sui costi dell'opificio» spiegò il direttore, facendo significativamente roteare il suo bastone da passeggio. «Nulla vieta alle tessitrici di portarsi da casa pane o minestra da mangiare durante l’intervallo!»

«Quale pane? Quale minestra? Non abbiamo di che sfamarci!» gridò la donna, indignata.

«Basta, Berthe: chi ha voglia di lavorare si accomodi, chi preferisce far gazzarra verrà sbattuto in mezzo alla strada.»

«Berthe a chi? Chiamami cittadina!» lo corresse l’operaia.

«In ogni caso smettila, o farò venire la Sicurezza!» intimò Ravel e alzò il bastone mentre lei lo fronteggiava impavida, brandendo uno zoccolo di legno alla cui suola mancava un pezzetto di forma vagamente triangolare.

Verneuil scelse quel momento per la sua plateale apparizione: «La Sicurezza è già sul posto. Immagino che tu sia Berthe Dandel, mi avevano parlato del tuo caratterino.»

«Finalmente avrai quello che ti meriti, disgraziata!» esclamò Ravel. «Cittadino commissario, questa testa calda ha spinto le compagne a interrompere il lavoro al telaio. Ho cercato di farle capire che il pasto è stato abolito a causa delle ristrettezze economiche imposte dalla guerra, ma non c’è verso di farle capire che tutti devono sottoporsi ai sacrifici necessari alla grave situazione nazionale!» spiegò il direttore.

«Giusto, cittadino direttore, molto giusto. Oh, a proposito. . . sento un buon profumo nelle cucine: non dovrebbero essere chiuse?»

«Si tratta del mio desinare, cittadino commissario. Fino a qualche giorno fa lo consumavo a domicilio, ma l’urgenza del momento mi ha costretto a farlo cuocere in loco dal mio domestico» si schermì il direttore, seguendo Verneuil verso il locale adibito a refettorio.

«Che c’è di buono, oggi?»

«Una piccola porzione di arrosto.»

«Di proprietà della Nazione, immagino!» disse Etienne mentre scoperchiava una marmitta rivelando un cosciotto di maiale affogato nella salsa di porri.

«I pasti dei dirigenti sono tuttora forniti dalla fabbrica» ammise Ravel, osservando preoccupato il commissario che curiosava nelle casseruole.

«Il sugo è troppo scarso» giudicò quest'ultimo, saggiando con il forchettone la lingua di manzo che galleggiava in un’altra pentola. «Con questo bollito se ne potrebbe ottenere molto di più: cittadine, vi dispiace porgermi quel paiolo laggiù?»

Con fare sospettoso, una lavorante staccò dal chiodo l'enorme pentola che fino a qualche tempo prima era servita per la zuppa comune e la porse al commissario tenendola per il manico, come se scottasse. Verneuil vi riversò il brodo, aggiunse due brocche d’acqua e rimestò a dovere «C’è qualcuno che sa tagliare la carne a tocchetti minuscoli?» chiese e subito si fecero avanti due volontarie.

«Adesso il pane. Per fortuna nella madia ce n’è una buona scorta.»

«Me lo consegnano settimanalmente» spiegò Ravel un po’ impacciato.

«Le ragazze non si formalizzeranno, se è un po’ duro» sorrise Etienne. «A quanto vedo, ne consumi soltanto una minima parte. Che fine fa il resto?»

«Lo devolvo in beneficenza alla Salpétrière» mormorò tra i denti il direttore: ci mancava soltanto che quell'importuno ficcasse il naso nel suo piccolo affare con l’economo, che gli comprava le pagnotte avanzate mettendole in conto come se fossero fresche. . .

«Non occorre che tu ti disturbi più a beneficare tanto lontano: la Repubblica apprezza la tua offerta spontanea di condividere d'ora in poi il pasto con le maestranze. Serviti pure per primo e voi, cittadine, mettetevi in fila: non c’è granché, ma abbastanza da scaldarvi un po’!»

Tra esclamazioni di gioia, le tessitrici si apprestarono a riempire le scodelle di metallo, mentre Ravel si ritirava in disparte, chiedendosi quale percentuale sulla vendita degli avanzi avrebbe preteso il ficcanaso per metter fine alla sua indecorosa commedia.

«Tu vieni con me, ho qualche domanda da farti!» ordinò il commissario a Berthe, prendendola per il gomito.

«Ne ho anch'io, cittadino commissario!» replicò l’altra guardandolo in cagnesco. «Credi davvero di aver risolto qualcosa con il tuo brodino? Qui siamo un migliaio, dai dieci ai novant’anni, dormiamo in topaie immonde, tre o quattro per letto, e nessuna di noi riesce a nutrirsi decentemente!»

«Condividi il giaciglio con altre compagne?» chiese attento Etienne, sperando di poter finalmente escludere un nome dalla lista dei sospetti.

«Macché, alloggio al palazzo di Versailles!» ribattè sarcastica la tessitrice.

«E che ci facevi al museo, quando ti sei accapigliata con la Poupeau?»

«Ero stata sospesa per punizione, così mi arrangiavo a portare la gavetta ai muratori, in cambio di una pagnotta secca.»

«Calzando questi stessi zoccoli?» chiese Verneuil, sperando di giustificare almeno un indizio.

«Pensi forse che ne possieda un altro paio?» rispose lei aggressiva. «Mi prendi per una di quelle sgualdrine che, in mancanza di ci-devant, si sono affrettate ad aprire il loro letto ai rappresentanti del popolo?»

«La senti, cittadino, la senti?» esclamò Ravel indignato. «Quando vi deciderete a liberarmi di questa gentaglia?»

«È questa “gentaglia” a pagare alla patria il tributo del sangue!» sibilò Verneuil senza degnarlo di uno sguardo, mentre si chiedeva dove trovare cibo sufficiente a riempire un migliaio di ventri vuoti.

Il gestore, piccato, si premurò subito di informare il commissario circa la sbarbina dai capelli rossi con cui Berthe era stata vista parlare con aria cospiratoria nei dintorni della tessitoria.

Doveva trattarsi di Caroline, si disse Verneuil: il suo zampino era evidente negli altisonanti proclami che difficilmente una popolana pressoché analfabeta avrebbe potuto redigere da sola. La sedicente giornalista pareva comparire ovunque ci fossero guai in vista, forse era il caso di prendere maggiori informazioni su di lei. Prima però s'imponeva una visita al rifugio segreto del deputato Lussard, decise, lasciando l’opificio con una profusione di promesse che difficilmente sarebbe riuscito a mantenere.

 

Quai de la Maison Commune, ci-devant quai de la Grève, appartamento di Etienne Verneuil, sezione Maison Commune I lampioni repubblicani a colza puzzavano poco meno di quelli dell'ancien regime a grasso animale, pensò Verneuil attraversando place de la Maison Commune in direzione del suo appartamento; per fortuna entro pochi istanti sarebbe stato accolto dall’aroma stuzzicante dell’arrosto di Pàquerette. . .

Appena entrato, però, non sentì odori di sorta, solo la voce stentorea di Thomas: «Ci siamo, mi dico, con un nome così, quella Mélisende dev'essere per forza una spia monarchica! La donna segreta di Eglise-Neuve!» esultò, precipitandosi in ufficio, mentre l’altro continuava: «Mi ha aiutato uno di quei bastardini cresciuti per strada che. . .»

«Non esistono bastardi nella Repubblica, solo figli di Francia!» lo riprese Etienne.

«Insomma, questo piccolo bas. . . questo figlio di Francia mi guida fino a una palazzina in rue de la Croix-Blanche. In fondo al cortile vedo una capanna di frasche, mi avvicino e. . . non indovinerete mai! Mélisende era nella sua cuccia, con sette cuccioli appena nati!»

«Una cagna!» esclamò Verneuil sconcertato.

«Eh, già! Mentre tutti lo credono a qualche importante riunione, Eglise-Neuve accudisce il suo allevamento: ha passato l’intera notte del delitto al capezzale della puerpera!» precisò Thomas.

«L’ennesima falsa pista, dato che anche la Dandel è pulita e nessuno sa dove sia andata a cacciarsi Adrienne Poupeau, dopo la chiusura del Théàtre National!» scosse la testa Etienne.

Quel “nessuno” però non teneva conto dell'onniscienza dell’abate, che intervenne sollecito: «Caron le ha dato il benservito la sera stessa della visita al Louvre, accusandola di farsela con mezza Convenzione. Lei ha preparato i bagagli, compresi alcuni gioielli avuti in prestito, e si è diretta alla frontiera del Belgio» .

«Poveri noi, quei babbei della guarnigione per poco non si lasciavano scappare il re, figuriamoci una bella donna!» gemette Thomas.

«Comunque, essendo entrata al Louvre con la sola borsetta di pizzo alla cintura, l’attrice non avrebbe avuto modo di nascondere la testa di Lussard nello sgabuzzino» fece Verneuil rassegnato.

«Perché pensare che il mostro agisca da solo? Faremmo bene a mettere in conto almeno un complice» osservò du Plessis e il commissario non lo smentì.

«Nel caso Lussard rimangono dunque i pesci più grossi, Caron e Sauthier, nonché i tre uomini del Jardin des Plantes per quanto riguarda Gusta ve Guy. . . a proposito, che sappiamo di lui?»

«Trentanove anni, vedovo. La moglie, cui era molto legato, è morta sei mesi fa, dopo una lunga e dispendiosissima malattia: le cure assidue e il consulto dei migliori medici non sono valsi a salvarla. Come segretario del club dei giacobini, frequentava d’appresso tutti i grandi protagonisti del nuovo corso, compreso Robespierre, Danton e i Cordiglieri della Rive Gauche, senza contare i ministri del governo girondino. Lo stato delle sue finanze era prospero, soprattutto grazie ad alcuni buoni investimenti, curati da un abile finanziere, tal Christophe Yannik.»

«È un nome che mi dice qualcosa. . .» commentò Verneuil, senza riuscire a dargli un volto: un pelo rossiccio, una tuba nera, il mozzo di una ruota, un coro di rane, rammentò vagamente, ma le immagini gli sfuggirono dalla memoria come le scene di un sogno dopo un risveglio repentino. «E l’orologio?»

«Un orefice spaccia la roba dei ci-devant» iniziò Landry nel suo linguaggio essenziale. Nulla di strano, considerò il commissario: privati delle loro rendite immobiliari, molti aristocratici si disfacevano a prezzo stracciato dei loro averi. «Una signora - pelle bianca e rosa, velo fitto, guanti sulle mani chiazzate di bianco - gli fa vedere una patacca d'argento con il coperchio, non vale niente; allora lei tira fuori l’orologio e quello invece gli interessa, perché conosce la dama della miniatura e sa di qualcuno che potrebbe comprarla. Lussard infatti acquista il gingillo, la donna gli piace e si allontanano assieme.»

«Ti ha detto il nome della dama ritratta?»

«Marie-Adélaide de Guidebon, contessa di Saint-Cyr» riferì puntuale il ragazzo, che aveva una memoria di ferro.

«Rintracciatela immediatamente!» comandò Verneuil.

Un discreto colpo di tosse intervenne a frenarne l’entusiasmo: François-Xavier du Plessis lo fissava con uno sguardo divertito e costernato: «La nobildonna in questione è morta e sepolta, cittadino commissario!» .

«Maledizione!» imprecò Verneuil e fece cenno ai suoi collaboratori di seguirlo, per proseguire il rapporto davanti alla cena fumante.

Ma di caldo non c'era niente: Pàquerette non aveva trovato carne nemmeno al mercato nero - i beccai rifiutavano di macellare per paura di rimetterci con il futuro calmiere -così la tavola offriva solo pane duro, assieme ad alcune cipolle e un po’ di pesce freddo avanzato dal giorno prima.

«Siamo in guerra, cittadini!» sospirò Verneuil, chiedendosi se anche alla mensa di Danton, Hérault de Séchelles e Nicolas Caron mancassero gli arrosti.

La signora di Saint-Cyr, spiegò l'abate a tavola «proveniva da una famiglia di nobilucci di provincia e da giovane era stata bellissima. Bramosa com’era di vita mondana, appena quindicenne aveva accettato con entusiasmo di sposare il conte, che aveva il triplo dei suoi anni e una pessima reputazione, ma era ricco e ben introdotto a corte.

Versailles viveva allora il suo periodo d'oro, preludio alla successiva catastrofe: la cappa di tetra austerità instaurata dalla severa Madame de Maintenon, moglie morganatica di Luigi XIV, era stata spazzata via dal disinvolto libertinaggio del reggente Philippe d’Orléans, bisnonno di quel Philippe Egalité ben noto ai rivoluzionari per essere stato in prima fila a votare la morte del cugino Capeto. Nell’entourage fatuo e brillante della corte, Adéla’ide aveva suscitato l’interesse del reggente stesso, la cui morte precoce aveva posto fine anzitempo a una promettente carriera di favorita in titolo. La contessa era rimasta qualche anno ancora a Versailles e tra un ballo, un abboccamento galante e una partita a faraone, aveva trovato il tempo di partorire all’attempato marito un unico erede. Questi, forse per reazione alla condotta sfrenata della madre, si era subito distinto per una ostentata religiosità che le malelingue non esitavano a definire bigotteria e, prima di emigrare a Coblenza, aveva concepito con la scialba consorte ben sette figli, morti tutti in tenera età salvo una femmina, Louise-Amélie, che si supponeva ancora in Francia.

«Potrebbe trattarsi della donna velata?» domandò Verneuil.

«Louise-Amélie sopravvisse fortunosamente a un incendio: probabilmente le macchie sulle mani che ha notato l'orefice sono i segni delle ustioni» confermò l’informatissimo du Plessis.

Verneuil ascoltava attento, non senza il dubbio però di aver impostato l'inchiesta in modo completamente sbagliato. Stava infatti concentrando i suoi sforzi sulle vicende personali delle vittime, mentre, con grande probabilità, l’assassino voleva soltanto colpire in effigie la Rivoluzione, attraverso i suoi protagonisti più rappresentativi: Lussard, responsabile della prigionia del delfino, e Guy, segretario di quei deputati che avevano ottenuto la condanna del re.

Al processo del sovrano, infatti, non era stata tanto la persona del tiranno a subire il giudizio, quanto il suo ruolo istituzionale. «Un re deve regnare o morire» aveva detto Saint-Just chiedendone l'esecuzione. Se il colpevole dei due delitti ragionava nello stesso modo, scegliendo le sue vittime esclusivamente in base alla loro visibilità politica, allora a che sarebbe valso frugare come topi di fogna negli affarucci più o meno onesti, controllare l’attendibilità dei testimoni, verificare gli alibi, interrogare a destra e a manca, cercare i corpi scomparsi, bollire le teste, prendere il calco delle impronte?

E mentre lui annaspava in mezzo a un bailamme di indizi irrilevanti, l'omicida si apprestava a colpire ancora. A chi sarebbe toccato, stavolta? Quale nuova testa era destinata a cadere, perché l’assassino riuscisse a prospettarsi come un eroe imprendibile agli occhi di quanti, a Parigi e in tutta la Francia, speravano ancora di affossare la Rivoluzione?

«Che sai di Giovanna d’Arco?» chiese il commissario a du Plessis non appena rimasero soli.

«Era convinta di udire la voce del Cielo» disse l'abate, ricalcando più o meno le stesse parole di Pierre Blas. «I prelati del tempo, oltre a escludere che i santi del Paradiso si rivolgessero a una pastorella senza la loro mediazione, gridarono all’oltraggio vedendola a capo di un’armata di gentiluomini di alto lignaggio, tra i quali c’erano parecchi onesti cavalieri, ma anche Gilles de Rais, ovvero quel famoso Barbablù giustiziato in seguito per aver seviziato, violentato e ucciso oltre centocinquanta bambini innocenti.»

«Ogni epoca ha i suoi mostri. Ma perché un vendicatore controrivoluzionario si farebbe scudo del nome della Pulzella?»

«La sua figura è controversa: alcuni la considerano una santa, altri un’eretica, altri ancora una folle visionaria.»

«Però quella firma potrebbe dirci qualcosa in più sull’assassino, del quale conosciamo ben poco. Sappiamo che aveva a disposizione il vecchio bollettino monarchico in cui ha avvolto la testa di Guy, che era in grado di entrare senza problemi al Louvre. . .» Du Plessis tossicchiò, a significare che qualunque ragazzetto munito di una comune forcina per capelli avrebbe avuto facilmente ragione della risparmiosa sorveglianza repubblicana, «e anche che conosceva abbastanza le mosse di un deputato e di un segretario politico da prenderli di sorpresa. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che Lussard era detentore di un incarico alla Tour du Temple: tra il suo delitto e il colpo di mano di stanotte per liberare il delfino, potrebbe esserci una connessione.»

«In effetti, due cospiratori sono ancora a piede libero» osservò François-Xavier. «Uno è il prussiano Feld, dell'altro non abbiamo ancora scoperto l’identità.»

Il commissario si chiese di nuovo se l'uomo intravisto per un istante sul Petit Pont fosse veramente Fabien de Chateau Bois. Un codardo come lui sarebbe stato capace di trasformarsi all’improvviso nel paladino di una causa perduta, rinunciando alla sicurezza del suolo inglese per tornare in patria a rivendicare il prezzo del sangue? E in questo caso, perché prendersela con Lussard e Guy, anziché colpire direttamente il suo vero nemico, colui che lo aveva reso orfano ed esule? Probabilmente l’opera dell’assassino non era ancora terminata e nulla assicurava che la prossima testa a cadere non sarebbe stata proprio la sua. . .

«Seguendo il vostro suggerimento, ho preso in considerazione i parenti dei giustiziati capaci di covare risentimento nei confronti della Rivoluzione» intervenne du Plessis, quasi gli leggesse dentro come in un libro aperto: «A dire il vero, da aprile a oggi le condanne capitali eseguite a Parigi sono state molto poche, un centinaio a stento, compresi i briganti vandeani. Bisognerebbe dunque risalire fino al settembre scorso, quando Danton, che allora rivestiva la carica di ministro del governo girondino, permise l’eccidio dei prigionieri rinchiusi nelle carceri.»

Verneuil avvertì un brivido gelato. Correva ormai un anno dai giorni in cui il popolo, esasperato dalla notizia dell'ennesima sconfitta militare, aveva preso d’assalto le celle, massacrando i detenuti sospetti di collusione con il nemico. Ventitré preti refrattari sgozzati nel carcere dell’Abbey, cinquanta ai Carmes, la principessa di Lamballe fatta a pezzi nella prigione della Porce, trucidati i prigionieri della Conciergerie, dello Chàtelet, della Salpètrière e della Bicétre, dove le teste di alcuni aristocratici, rei di istigare i prussiani a marciare su Parigi, erano state issate sulle picche e portate in trionfo dai rivoltosi: tra le vittime dell’eccidio c’era anche il marchese di Chateau Bois, padre di Fabien, condannato a morte sulla base di alcune lettere autografe che ne documentavano il tradimento.

Tutto desiderava Etienne tranne che rivangare il ricordo di quei giorni. Dovette fare violenza su se stesso per ordinare, con voce spenta: «Vagliate pure i nomi dei superstiti, François-Xavier, e riferitemi al più presto!» .

L'abate si produsse in uno di quei suoi inchini deferenti che facevano tanto ancien regime e soltanto quando ebbe lasciato la stanza il commissario ricordò di non aver impartito alcun ordine circa Caroline Mathieu, giornalista d’assalto e membro del Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie.

Con un gesto esasperato, strappò la cravatta dal collo, srotolandola in fretta per gettarla sul divano: era sporca e un po' lisa, come i polsini della camicia. Non appena finita l’emergenza, avrebbe dovuto abituarsi ad avere di nuovo cura di se stesso, si ripromise, ma per il momento non gli restava che annegare i cattivi ricordi nel calore della tinozza.

«La legna è finita, sono riuscita a bollire soltanto una pentola d’acqua» annunciò invece Pàquerette entrando nello stanzino da bagno con un unico secchio fumante, il cui calore si disperse subito nel gelo della vasca.

Non si può pretendere di fare la Rivoluzione al caldo, si disse stoicamente Verneuil. L’algido morso gli ricordò il torrente di Chateau Blois, il giorno in cui lui e Fabien si erano accapigliati fino a finirvi dentro entrambi: tutto era cominciato così, con una lite da bambini degenerata poi in un odio aperto e mortale. . .

4 SETTEMBRE 1793

Rue des Fontaines, sezione Gravilliers Il mattino dopo Verneuil si affrettava verso il quartiere del Temple, o meglio, avrebbe voluto affrettarsi, perché invece procedeva a fatica, facendosi strada controcorrente tra la folla che avanzava in direzione opposta.

Da qualche ora, infatti, i lavoratori dei quartieri periferici stavano confluendo in massa verso place de la Maison Commune: ai muratori, carpentieri e stampatori radunatisi prima dell'alba nei boulevards della sezione Mont-Blanc si erano aggiunti gli operai di faubourg Montmartre e molti altri salariati provenienti dagli opifici di tutta la città. Più di dieci cortei, ognuno forte di migliaia di manifestanti, si snodavano ormai per le vie della capitale, con un’unica richiesta, accorata e rabbiosa a un tempo: pane.

ça ira, ça ira, ça ira Les aristocrates a la lanterne ils son trois cents ans qu'ils nous promettent qu’on va nous accorder du pain. . .

«Sono trecento anni che promettono di darci il pane» cantavano esasperati i poveri di Parigi: è per il pane, prima ancora che per la libertà, che si fanno le rivoluzioni.

Tutti lo promettevano, ma i patti venivano sempre disattesi: ora, la Convenzione aveva votato il calmiere dei prezzi del grano, ma sarebbero passate due settimane prima che il provvedimento fosse messo a punto, un tempo più che sufficiente agli speculatori per far sparire la farina dal mercato. Così i popolani erano scesi in piazza, a ricordare che, morto il tiranno, la sovranità risiedeva ormai nella Nazione e dunque non li si poteva prendere in giro per l’ennesima volta.

«Maledetti, mangiano più di noi!» urlò un vecchio rinsecchito davanti all'ex convento delle Madelonnettes. Il corteo si arrestò spontaneamente, mentre molti pugni si alzavano minacciosi verso le sbarre delle finestre: nelle celle dove in altri tempi si usava rinchiudere le donne scomode, alcuni carcerati eccellenti vivevano la loro prigionia in condizioni molto migliori della maggior parte dei patrioti, costretti a mettersi in coda dalle quattro del mattino per acquistare la nera pagnotta dell’Uguaglianza.

Verneuil si unì alla protesta, conscio che nessun’altra libertà aveva senso senza quella dal bisogno, e che nessun principio poteva essere difeso con il morso della fame che attorciglia il ventre.

Poco dopo imboccava rue des Fontaines, deciso a impartire una svolta decisiva all’inchiesta: seguendo le indicazioni del pasticcere, infatti, Landry aveva individuato il covo di Lussard in uno dei vecchi palazzi nobiliari che già alla fine del regno erano stati divisi in piccoli appartamenti e venduti ai borghesi arricchiti.

«Là!» disse il ragazzo indicandogli un portone.

Era sul luogo del delitto, o almeno della mutilazione, comprese il commissario non appena entrato: schizzi di sangue secco insozzavano il pavimento, la mobilia di pregio e perfino la nuovissima carta da parati orientaleggiante che ricopriva una nicchia all’angolo meridionale della stanza.

Un'apertura quadrata immetteva nell’alcova, dove giganteggiava un letto a baldacchino ultimo modello, di quelli che chiamavano “all’etrusca”, sulle cui coperte, in eloquente disordine, giaceva una camicia di batista sottile, rifinita di delicatissimi merletti. La signora che usava indossarla non doveva essere afflitta da troppi pudori, pensò Verneuil osservando il pizzo traforato che scendeva fin quasi alla vita.

«Una donna tentava di entrare» lo avvertì il ragazzo, in risposta ai suoi pensieri. «L'ho seguita, ti mostro dov’è andata.»

«Si tratta della dama dalla pelle bianca e rosa?» chiese Verneuil incredulo: possibile che la fortuna si fosse finalmente messa dalla sua?

«Nera come il carbone» scosse la testa il ragazzo, facendogli strada verso l'edificio al quale si era diretta la sconosciuta. Poteva trattarsi di una schiava africana, come ne possedeva chi - al pari della baronessa d’Orval e la sua defunta sorella, principessa Kornaszewski - era cresciuto nelle isole, rifletteva il commissario seguendolo nell’attigua rue des Vertus, fino a un edificio dove, a detta dei vicini, risiedeva l’agiata vedova Thérèse Gallimard con la nipote e alcune domestiche.

«Bene, è il momento di far visita alle signore!» affermò Verneuil con rinnovata energia.

 

Rue des Vertus, caseggiato della vedova Gallimard, sezione Gravilliers Spedito Landry a chiedere rinforzi, il commissario salì la scala che portava al piano nobile del decoroso edificio da cui sporgevano alcuni balconcini bombati, tutti rigorosamente chiusi. Alla porta venne una giovinetta timidissima, che non sollevò neppure lo sguardo, accontentandosi di annunciare sottovoce la visita alla padrona di casa.

Era questa una donna già avanti con gli anni, ma ancora sufficientemente energica da incutere soggezione. Vedova anzitempo di un agiato commerciante, alla morte del marito ne aveva preso in mano gli affari, passando, grazie a un indomito spirito di iniziativa, dalla compravendita del feltro alla produzione in serie di cappelli, acconciature e ventagli: ora la manifattura dava lavoro a una ventina di operaie nel piccolo laboratorio sulla Senna e almeno al doppio di lavoranti a domicilio. Con lo stesso piglio sicuro, l'oculata signora aveva affrontato gli imprevisti della Rivoluzione e quando la moda repubblicana aveva fatto scendere a picco la richiesta di beni voluttuari, si era riciclata come fabbricante di copricapi patriottici, sui quali trionfavano le tre canoniche piume del tricolore nazionale. E l’unico indizio trovato nel ripostiglio del Louvre era appunto un frammento di penna dipinta, meditò il commissario entrando nel salotto dall’arredo severo, in cui spiccavano per eleganza due poltroncine laccate di nero, che di certo erano state trattenute in pegno a una nobildonna insolvente.

Cuffia rigida d'amido, naso grosso, sopracciglia pesanti, lunga collana di ametiste, bastone con il pomo d’avorio, la matrona che lo ricevette parlò in tono molto spicciativo: «Immagino che siate qui per conto dell’ufficiale agli approvvigionamenti della Guardia Nazionale. Rassicuratelo: entro domani gli sarà rimessa la percentuale convenuta per l’acquisto dei quattrocento tricorni» dichiarò la donna, scambiandolo per l’emissario di un furiere corrotto.

«Sono il commissario Etienne Verneuil, delegato dalla Sicurezza Generale e sto indagando su un omicidio aggravato dall’imputazione di complotto controrivoluzionario» precisò Etienne.

Eccone un altro che batteva cassa, sbuffò la mercantessa, sperando che quel nuovo succhiasoldi non le prosciugasse l'intero fondo segreto accantonato per foraggiare i funzionari compiacenti. Di tutt’altro tenore fu invece la reazione della servetta che entrava in quel momento con due tazze di cioccolato fumante: le mani le tremarono a tal punto da far traballare il vassoio e spargere sul centrino immacolato qualche goccia di liquido viscoso.

«Agnès, sei la solita sventata!» la redarguì la vedova, per rivolgersi di nuovo al commissario con aria distratta.

«Omicidio?» ripetè, come se le fosse arduo afferrare appieno il concetto.

«Ammazzamento, uccisione, delitto, chiamatelo come vi pare. Ho ragione di credere che nel crimine sia coinvolto un membro della vostra servitù. Parleremo più tardi dei vostri dubbi traffici con la Guardia, ora interrogherò le cameriere, servente delle isole in testa» ordinò Verneuil in un tono che non ammetteva replica, mentre la giovinetta, messo in salvo il vassoio, correva a rifugiarsi accanto a una domestica più matura, dall’aria protettiva.

«Va' a cercare la sguattera, Bénédicte!» ingiunse la vedova a quest’ultima.

La cameriera fece ritorno poco dopo assieme a una donna nerissima dalla mole più che considerevole, con il capo avvolto in un turbante di satin rosso. Il petto abbondante e balioso denunciava una nutrice indigena, di quelle che nelle colonie si occupavano delle piccole creole, educandole al posto delle madri troppo indaffarate. Della casa del principe Kornaszewski faceva appunto parte una serva della Martinica. . .

«Da quanto tempo lavori qui?» chiese Etienne.

«Da quando la Repubblica le ha dato la libertà!» intervenne Bénédicte.

In attesa del decreto risolutivo, una parte degli schiavi delle isole era stata affrancata in agosto, ricordò Etienne, guardando in tralice il donnone, la cui smorfia sdegnosa, unitamente al corruccio dei grossi occhi sporgenti, la dicevano lunga su quello che pensava dei rivoluzionari e della loro libertà. Da lei avrebbe ottenuto ben poco, così come dall'accorta Bénédicte o dalla scaltra Gallimard, per cui era opportuno far leva sull’anello più debole della catena, si disse Etienne, e cominciò a girare in perfetto silenzio attorno alla camerierina, inalberando un’aria biecamente inquisitoria.

«Madre. . .» mormorò lei alla compagna più attempata.

«È tua figlia?» domandò Etienne, indicando l’anulare nudo della donna.

«Sì, ma non sono mai stata sposata» lo prevenne con fermezza Bénédicte. «Sbaglio o la Repubblica ha riconosciuto i diritti dei cittadini nati fuori dal matrimonio?»

«Una norma che ora impedisce ai signori di gettare in mezzo alla strada le serve gravide, come facevano un tempo. . . ma a quanto pare tua figlia se l’è cavata meglio!» commentò il commissario e con un gesto repentino rovesciò i palmi della giovinetta: «Niente calli, niente vesciche. Queste mani non hanno mai pulito un camino, rimosso il carbone o lavato un panno con la soda!»

Al contatto, Agnès si ritrasse Impaurita, appoggiandosi alla pretesa madre, che si curvò su di lei, come per difenderla dall'orco delle favole. Nel movimento, la testa si volse appena, abbastanza però per rivelare sotto la cuffia l’attaccatura dei capelli, corti come li portavano solo le carcerate e le monache.

«Mi avete raccontato un mucchio di fandonie, quindi vi arresto tutte quante: due suore che si nascondono per non prestare giuramento alla Nazione, una mercantessa dedita ad affari illeciti e la nutrice indigena del principe Kornaszewski, il cospiratore appena giustiziato!» disse il commissario affacciandosi alla finestra, per far segno a Landry di mandargli i soldati.

«La responsabilità è solo mia: ho ingannato Thérèse Gallimard sulla mia identità e costretto Agnès a seguirmi grazie all'autorità di cui godevo come badessa» lo fermò Bénédicte. «In quanto a Joséphine, non ha violato alcuna legge cercandosi un nuovo impiego, dopo l’esecuzione del suo precedente padrone!»

Ben diverso fu l’intervento della vecchia: «Non sapevo assolutamente chi fossero queste sciagurate, le ho assunte perché si accontentavano di poco e di questi tempi una povera vedova come me è costretta a fare economia!» .

«Come recita quel passo del Vangelo dove Pietro rinnega tre volte Gesù prima del canto del gallo, madre Bénédicte?» chiese Etienne con un sorriso sarcastico.

«Badate di non commettere un’imprudenza che potrebbe costarvi cara, cittadino commissario: il mio arresto sarebbe poco gradito ai tanti vostri superiori che hanno avuto modo di apprezzare i miei servigi!» minacciò la Gallimard vedendo entrare alcune guardie che inalberavano cappelli piumati di sua stessa fabbricazione.

«Falle condurre alla Salpétrière, Landry, la megera nella gabbia comune e le altre due in una cella isolata. Poi porta a casa nostra la ragazzina, che interrogherò in separata sede!» ordinò spicciativo.

Rimasto solo, Etienne sedette sulla poltrona di velluto e, sollevate comodamente le gambe sul tavolino intarsiato, si apprestò ad attendere la quinta donna della casa, l’unica che, per età e aspetto, poteva corrispondere alla misteriosa amichetta del deputato Lussard.

Passò meno di mezz’ora prima che si sentisse girare la chiave nella toppa.

Dalla sua postazione in salotto, Verneuil ebbe modo di osservare la nuova venuta mentre si toglieva il piccolo copricapo di velluto verde, colore inviso alle patriote per essere stato indossato dalla girondina Carlotta Corday mentre colpiva a morte l'amatissimo tribuno Marat. Suo malgrado, il commissario fu costretto ad ammettere che alla ragazza donava molto, intonandosi perfettamente con l’oro brunito dei capelli folti, trattenuti sulla nuca da un esercito di pettini, spilloni e forcine.

«Chi siete voi e dov'è mia zia?» chiese lei appena lo vide, senza manifestare alcuna sorpresa per la presenza di un intruso. Davanti a quel tono arrogante, Verneuil, che si era imposto di moderare le parole, sentì svanire all’istante tutti i suoi buoni propositi.

«Levati i guanti!» le ingiunse e quando il reticolo di cicatrici comparve alla vista, estrasse dalla tasca l'orologio e glielo dondolò davanti: «Questo è tuo, o almeno lo era, prima che lo cedessi al deputato Lussard, in aggiunta alla virtù che gli sacrificavi nell’alcova di rue des Fontaines!»

Non fu il rossore della vergogna a imporporare le gote della ragazza, ma quello della collera. «Come vi permettete di darmi del tu, illustre ignoto, senza nemmeno qualificarvi?» chiese gelida.

«Di solito è la Sicurezza a fare le domande» ribattè lui. «Iniziamo dal nome.»

«Amelie Gallimard, dama di compagnia» rispose lei gelida.

«Si usano termini meno eufemistici per definire certe signore!»

«C’è un equivoco, cittadino non-so-chi: io sono la nipote di Madame!»

«Peccato per te, mia cara: è poco igienico risultare parente di una sospetta appena tradotta alla Salpétrière. . .»

«L’avete arrestata?» impallidì lei, sinceramente stupita: evidentemente la casa di rue des Vertus non era così sicura come le ottime relazioni della vedova facevano supporre.

«Assieme alle monache aristocratiche che alloggiavano in questo covo di serpi» aggiunse Etienne, togliendole ogni dubbio. Lei fu svelta a trarre le sue conclusioni: Lussard non era più lì a proteggerla, ma il modo con cui quel rozzo plebeo la stava guardando lasciava sperare per il meglio.

«Nessuno sceglie in che famiglia nascere» disse morbidamente.

«Vuoi dire che, se in altri tempi era vantaggioso chiamarsi Louise-Amelie de Saint-Cyr, oggi sarebbe di qualche imbarazzo?» azzardò Etienne.