«Per l'appunto, cittadino.» Inutile negare, si diceva Amelie, era chiaro che quell’uomo sapeva anche troppo. Meglio dunque ammettere l’ammissibile e portarlo dalla sua parte: sotto sotto, tutti quegli accesi repubblicani avevano un debole per le donne bennate, le stesse su cui, prima della Rivoluzione, non avrebbero potuto mai alzare gli occhi. «Il mio nome, come puoi ben immaginare, era tutt’altro che di aiuto e preferii nasconderlo. La vedova Gallimard accettò di ospitarmi dietro un congruo compenso, ma presto le sue pretese divennero esose. Trovai conforto in Jeròme Lussard, che avevo conosciuto come compratore dell’orologio di mia nonna» mormorò, rivolgendo un pensiero maligno alla vecchia pazza che era stata costretta a sopportare per tanti anni. «Non so come potrò cavarmela ora che il poveretto è morto: proprio stamane avevo spedito la sguattera nel suo appartamento a riprendere alcuni effetti personali. . .»

«Se intendi la camicia, non credo che serva a ripararti dal freddo» disse caustico Verneuil, lottando per non figurarsi il seno di Amelie velato dalle trine.

«Il deputato era un uomo potente e rifiutare le sue proposte sarebbe stato rischioso. Mi trovate tanto riprovevole, cittadino?»

Amelie sapeva di lavanda, di lenzuola ricamate, di ornamenti lievi e superflui. Odore di seta, se la seta ne avesse avuto uno, lo stesso che gli pareva di sentire addosso alle fanciulle che giungevano al castello di Chateau Bois in carrozza e sciamavano tra i parterres, roteando i loro ombrellini vezzosi. Nascosto dietro i cespugli, le aveva spiate mentre cavalcavano all'amazzone nei loro splendidi abiti da caccia e si lasciavano rovesciare nell’erba sotto giovanotti pizzuti, il seno che scoppiava dal corpetto rigido, le gambe inguainate di lucido, le cosce bianche tra le trine e i merletti.

«Che cosa sai degli affari del tuo amante?» domandò brusco, sforzandosi di non lasciar trapelare il turbamento. «Conoscere qualche particolare inedito potrebbe salvarti da un’accusa pesante: la Repubblica apprezza chi collabora con la giustizia!»

Amelie fremette nel sentir chiamare giustizia quella che reputava mera persecuzione, ma assentì remissiva: le conveniva assecondare quel villanzone, nei cui occhi leggeva bramosie antiche che poco avevano a che vedere con la Rivoluzione.

«So una cosa sola, cittadino: all’occasione Lussard non esitava a riempirsi le tasche. E in un frangente in cui entrare in carcere per una bazzecola può significare uscirne in due pezzi separati, di occasioni buone possono capitarne spesso.»

Soldi in cambio di denunce lasciate cadere, suppose Etienne con disgusto, o forse anche di peggio: le informazioni sulla prigionia del bambino Capeto valevano oro presso i cospiratori monarchici. . .

«Lussard era in contatto con i Kornaszewski?»

«La balia Joséphine gli portava di tanto in tanto dei messaggi.» Che lei certamente non era in grado di leggere, immaginò il commissario. «Quando il principe fu arrestato, quella poverina si precipitò qui e la Gallimard le concesse una branda in soffitta, spillandole tutti i risparmi.» Pochi spiccioli non sarebbero bastati, corresse mentalmente Etienne: Joséphine doveva aver pagato con qualcosa di più cospicuo, forse un gioiello sottratto ai padroni caduti in disgrazia. . .

«E le suore?»

«Bénédicte arrivò a maggio, Agnès la raggiunse due mesi dopo, proveniente anche lei da casa Kornaszewski. Erano solo due profughe alla ricerca di un rifugio dove attendere tempi migliori.»

«Intendi dire quando la Rivoluzione sarà sconfitta?» chiese il commissario aggrottando le sopracciglia.

Con consumata abilità, lei accennò l’ombra di un sorriso: «Mi scambiate forse per una di quelle dissennate che contano i giorni aspettando la vittoria straniera, convinte di riavere presto potere e prestigio? Non sono né sciocca né illusa, cittadino. La Rivoluzione durerà un bel pezzo e in ogni caso inglesi, austriaci, prussiani, spagnoli e piemontesi non si accollano di sicuro i disagi di una lunga guerra per affetto verso i nobili emigrati: la Francia è un bottino che fa gola, quindi comunque vadano le cose, la nostra aristocrazia ne uscirà sconfitta. Allora, tanto vale augurarsi che la Repubblica trionfi, per lo meno quel bigotto di mio padre non potrà chiudermi in convento o accasarmi con qualche vecchio bavoso!»

«Credi davvero che la Francia possa ancora vincere?» si stupì Etienne.

«Adesso che la carriera militare non è più feudo dell'aristocrazia, c’è un immenso bacino di talenti cui attingere: la Repubblica ha già mostrato di saper trarre dal suo seno uomini di forte tempra» dichiarò, insinuante, fissando di sottecchi il commissario, come a lasciar intendere a chi, secondo lei, avrebbero dovuto somigliare quegli audaci. Verneuil esitava tra il divertimento e il fastidio, riconoscendo in Amelie la grazia spregiudicata con cui le gran dame stuzzicavano i bellimbusti incipriati, pronte a rifarsi tra le braccia di un mozzo da stalla, se non ne fossero rimaste soddisfatte. «Molti degli ufficiali al servizio del re erano smidollati privi di nerbo. La Rivoluzione ha avuto almeno il pregio di portare alla ribalta personaggi più maschi e sanguigni.»

«Tipo il deputato Lussard?» sorrise sarcastico Etienne.

«Oh, quello non era una scelta, ma una necessità, che da parte vostra sarebbe meschino rimproverarmi!» ammiccò graziosamente Amelie.

«Dunque sostieni di non aver nulla a che fare né con il complotto del Temple né con la morte del tuo amante?»

«Cittadino, ho il mio daffare a sopravvivere, anche senza preoccuparmi di dare personalmente uno scossone alla storia: non so nulla di congiure e ho messo piede dai Kornaszewski soltanto due volte.»

«Ma conoscevi gli amici del principino: Eugène d’Evreux. . .»

«Una testa calda, che sognava di dare la vita per il re. Se non sbaglio, l’avete accontentato!»

«. . . e Chateau Bois» terminò Verneuil, ma lei scosse la testa, come se fosse la prima volta che udiva quel nome. Verneuil si rivide davanti il ragazzetto lagnoso che puntava verso di lui un dito accusatore, con l'occhio pesto e l’abito di velluto azzurro strappato sul davanti. Poco dopo, la sferza mordeva la sua schiena di servo ribelle, mentre fanciulle vestite di seta gridavano eccitate.

«Se non hai altro da dirmi, cittadina, possiamo andare!» disse, facendo mostra di aver terminato il colloquio.

«Andare dove?» scolorò Amelie, mentre si chiedeva come smuovere quell’osso duro.

«Alla Salpétrière, naturalmente!»

«A condannarmi basta il “de” che precede il mio nome, vero? Non vedete l'ora che mi trattino da donna di malaffare, mi mettano le mani addosso, mi rasino i capelli. . . Perché non lo fate voi stesso, non morite dalla voglia di umiliare un’odiata ci-devant?» disse sciogliendo il nodo che le tratteneva la chioma dorata.

Un torrente impetuoso di riccioli ricadde sulle spalle morbide. Alludere, vezzeggiare, ritirarsi e provocare di nuovo era una tecnica consumata in certi ambienti, si disse Verneuil ricordando il prato di Chateau Bois fiorito di padiglioni, le risa, gli scherzi, i sollazzi, il candore della pelle nuda tra le trine, l’ansare concitato, il sospiroso appagamento, la lievità della commedia galante che aveva visto giocare da dame e cicisbei.

«Via i pizzi, via i velluti, via tutto: la Rivoluzione ha vinto!» gridò Amelie inviperita, strappandosi il farsetto con gesti concitati.

«Copriti, cittadina, non sono Lussard!» le ingiunse il commissario, distogliendo lo sguardo: un uomo in nero -così gli aristocratici chiamavano i sobri borghesi della Rivoluzione - era pur sempre un uomo.

«Proprio voi dovevate capitarmi!» ribattè lei, alzando le spalle piccata. «Somigliate al vostro Robespierre, il cui massimo azzardo è passeggiare mano nella mano con la sua Duplay ai giardini pubblici, conversando sulle virtù repubblicane!»

Il primo impulso di Verneuil, a quelle parole sfacciate, fu di difendere i princìpi giacobini sulle unioni liberamente scelte, con o senza matrimonio: l'uomo e la donna che si amano sono sposi, sosteneva Saint-Just e l’Incorruttibile progettava di istituire una festa in onore del legame di coppia; tutto il resto, licenza e libertinaggio in testa, faceva parte dei costumi corrotti dell’ancien regime, avallati dall’indulgenza di una Chiesa che preferiva i peccatori sottomessi agli uomini liberi e probi.

Tutt'a un tratto, però, il fascino della rettitudine patriottica gli parve privo di ogni smalto e si vide con gli occhi di lei, goffo, legnoso, anchilosato, ugonotto, un tronco secco, un palo intabarrato nella marsina scura, un manichino rigido sotto il pennacchio sventolante. La Rivoluzione imponeva non solo di rischiare la vita - questo era il meno -, ma anche di prendere tutto terribilmente sul serio, pensò; per la gente come Amelie, invece, lo scopo dell’esistenza era affascinare e sedurre, non mettere qualcosa nel piatto, vincere una guerra o cambiare il mondo.

«Risparmiatemi, cittadino, non ho più chi mi protegga!» lo implorò lei carezzevole, cambiando improvvisamente tono, mentre il lungo esercizio le consentiva di velare le pupille di lacrime.

Di che cosa era fatta la vita? si chiese Etienne: di patria e ideali, oppure di un arrosto fumante, di un cavallo lanciato al galoppo, della pelle fragrante di una donna?

Quando fece un passo verso di lei, Amelie capì di aver vinto.

La camera aveva le imposte sprangate, ma dalle fessure filtrava abbastanza luce perché Etienne la vedesse mentre scivolava verso il gabinetto di decenza con la camicia aperta che lasciava scorgere un antico medaglione d'argento. Tra un istante avrebbe dovuto decidere, si disse, mentre nella mente i ricordi sfumati della sua rustica fanciullezza si confondevano con quelli, vividi, del presente: nessuna delle dame di Chateau Bois aveva avuto spalle così bianche, né labbra tanto morbide, né una voce squisitamente roca come quella che fino a un istante prima gli aveva mormorato all’orecchio frasi deliziosamente impudiche. Che fare ora? Arrestarla, interrogarla ancora, lasciarla andare? esitò, scrutando verso l’uscio dietro al quale la ragazza era scomparsa.

Un attimo dopo, balzava dal letto. La porta dello stanzino era aperta e dentro non c’era anima viva.

 

Quai de la Maison Commune, ci-devant quai de la Grève, appartamento di Etienne Verneuil, sezione Maison Commune Sciocco. Gonzo. Babbeo. Citrullo. Coglione. Un povero provincialotto ingenuo, sedicente investigatore, sedicente giacobino, sedicente rivoluzionario, menato per il naso da una scaltra intrigante con il più classico e banale dei trucchi. Nessun altro sarebbe stato tanto imbecille da farsi gabbare in quel modo, rimuginava il commissario rientrando a casa: Amelie si era involata passando semplicemente dalla porta sul retro, senza farsi vedere da Landry, di guardia al portone principale.

E comprensibile che in uno stato d’animo tanto abbacchiato il commissario non fosse troppo ben disposto verso le ci-devant di nessun tipo. Il suo tono non fu quindi dei più amichevoli, quando, convocata nello studio la giovane transfuga dal monastero, cominciò a interrogarla.

Immediatamente Pàquerette inalberò l’aria bellicosa di un mastino da difesa, mettendosi alle spalle della giovinetta che tremava come una foglia.

Du Plessis l'aveva identificata per la figlia minore di Edmond Delagrange, un funzionario di toga che, dopo lunghe e accorate suppliche, aveva ottenuto un titolo nobiliare da Luigi XV, in tempo per pagar cara l’appartenenza all’aristocrazia senza ancora averne goduto i vantaggi. Sempre grazie al puntiglioso abatino, Verneuil aveva anche appreso che il convento di cui Bénédicte era badessa era stato chiuso l’anno precedente, con conseguente dispersione delle monache, molte delle quali avevano abbracciato la vita secolare. Agnès, invece, aveva preferito raggiungere la madre superiora dalla vedova Gallimard - almeno su questo punto, l’infida Amelie aveva detto la verità -dopo due mesi vissuti presso i principi polacchi.

«Perché hai lasciato tanto di fretta casa Kornaszewski? Bada che non mi accontenterò di qualche fandonia!» domandò burbero il commissario mentre la osservava torcersi nervosamente le mani.

«Smetti di tormentare questa poverina, non vedi che muore di paura?» intervenne Pàquerette. «È proprio vero che gli uomini non capiscono niente: come vuoi che una fanciulla tanto tìmida riesca ad affrontare a voce alta certi argomenti delicati?» Etienne la guardò sbalordito: nemmeno per un attimo aveva supposto che dietro al ritegno dell’ex novizia ci fossero motivi estranei alla politica.

«Dimmi, figliola, in casa del principe c'era forse qualcuno che ti infastidiva?» chiese la governante e davanti allo stupitissimo commissario, l’altra annuì, arrossendo fino alla punta dei capelli.

«Non ho avuto il coraggio di raccontarlo alla buona madre» rivelò, scoppiando in lacrime. «Lui diceva che senza l’abito religioso non ero nessuno e mi conveniva dargli retta o sarebbe stato peggio per me!»

«Chi era quel disgraziato? Uno dei padroni?» continuò la governante, mentre Etienne si chiedeva perché il Comitato non delegasse Pàquerette alla Sicurezza al posto suo.

«Un valletto, di nome Rèmi» scosse la testa Agnès. «Non era il primo che tentava di prendersi delle libertà; fuori dal monastero le cose andavano così. Di solito li tenevo a bada, ma con lui era diverso, tutte le serventi lo adoravano, perché era bello, ardito e ci sapeva fare, ma a me faceva paura, quando mi parlava cominciavo a balbettare. Una sera mi trovò sola in una stanza e mi venne addosso, rovesciandomi sul divano. Fu terribile, non trovavo la forza di reagire!» Il ragazzo le piaceva, tradusse Verneuil tra sé e sé, ma l’educazione rigidissima e la scarsa esperienza le impedivano di riconoscere le sue stesse emozioni.

«Povera, povera cara!» si commosse invece Pàquerette.

«Non so come sarebbe andata a finire, se un ospite non ci avesse interrotto. “Stavo scherzando, Gabriel” ha detto Rèmi con un sorriso storto, lasciandomi subito andare.

Il giorno dopo sono corsa da madre Bénédicte a chiederle di prendermi con sé.»

Gabriel, rifletteva intanto il commissario. Poteva trattarsi del notaio Sauthier? Che ci faceva nella casa dei principi polacchi?

«Quell’ospite era forse un borghese? Un ometto rubicondo, con pochi capelli in testa e un sorriso melenso?»

«Sì, mi sembra di sì» annuì la novizia, cominciando a piangere. «Ma è stato tutto inutile; adesso che mi avete scoperta mi manderete al capestro!»

«La Rivoluzione non sa che farsene della tua testolina, bella mia. Dimmi piuttosto, hai sentito qualcosa dai Kornaszewski riguardo a un complotto per liberare il bambino Capeto?»

«Intendete dire Sua Maestà il re?» chiese lei con un filo di voce.

«Non ci sono più re, in Francia!» tuonò Verneuil. «E tu non sei una suora, perché quando il monastero è stato soppresso non avevi ancora preso i voti. A proposito, hai scelto il convento di tua spontanea volontà?»

«Era costume delle famiglie in vista offrire una figlia alla Chiesa» tergiversò la giovinetta.

«Allora rispondimi sinceramente: ti sei resa colpevole di connivenza con i nemici della Repubblica per rimettere i tiranni sul trono?» chiese Etienne, cercando una scappatoia per salvare la monachella.

«Non ho fatto niente di male, almeno credo» esitò lei. Un'infanzia trascorsa in uno spazio circoscritto, giardini fioriti, ricche bambole, balie accondiscendenti, cameriere servizievoli, il salotto di maman, la cena con il signor padre, la messa domenicale in cappella, monsignori benedicenti, rosari collettivi, inchini, segni della croce. Il chiostro a dodici anni, come si addiceva a una buona figlia cadetta, così che la famiglia non avesse a scucire la dote e in più si assicurasse benemerenze in cielo. Nel monastero, altre madri benevole e pazienti, altre devozioni, il ricamo al tombolo, i dolcetti della festa, l’orto con le erbe odorose. Poi una deflagrazione improvvisa e devastante, lo scoppio violento della rivolta che apre i cancelli e libera le recluse, anche quelle che non avevano mai chiesto di essere liberate. . .

«Cittadina Delagrange, sei una patriota fedele alla Nazione?» chiese di nuovo il commissario e, per ribadire il concetto, pensò bene di evocare immagini antiche, le uniche che, dal nido protetto del suo palazzo prima e del convento poi, la ragazza avrebbe potuto comprendere: «Desideri vedere il tuo paese occupato dagli eserciti invasori, gli stranieri sulla nostra terra, i bambini sgozzati, le donne vilipese, le case distrutte, i raccolti dati alle fiamme? E vivaddio, dimmi di no, benedetta ragazza!» .

«Io, io. . . certo che no!» balbettò Agnès.

«Basta con queste torture!» intervenne burbera la governante. «Vieni, bambina, ti metto a letto!»

«Per questa notte sistemala pure, ma domani dovrà andarsene!»

«E come se la caverà, povera creatura?»

«Lavorando!» esclamò il commissario, ma subito si rese conto di quanto la sua proposta fosse aleatoria: come immaginare quella fragile figuretta schiacciata tra la folla nei vicoli sordidi o dentro una fabbrica, alle prese con un lubrico sorvegliante?

«Cittadino. . .» fece Agnès con un filo di voce. Forse il Signore non voleva che andasse alla ghigliottina, pensava, forse non desiderava neppure che si facesse suora, magari l'aveva destinata a una vita diversa, quella cui non aveva mai osato aspirare, perché suo padre non l’avrebbe mai concessa in sposa a un qualunque plebeo disposto a prendersela senza dote. Ma dov’era suo padre, adesso? Dov’era il mondo che aveva creduto eterno? «Posso ricamare o servire a tavola. So anche far di conto e conosco un po’ di latino, preghiere soprattutto» disse di getto.

«In questo caso, chissà che non riesca a sistemarti» considerò il commissario, auspicando che la tipografia Zéphirin avesse bisogno di un secondo apprendista.

5 SETTEMBRE 1793

Palais National, sezione Tuileries Il palais National - ci-devant palais des Tuileries - era pieno da scoppiare. Spintonato da tutte le parti, il commissario si unì al fiume di folla che si faceva strada verso le balconate, superando la moltitudine di soldati giunti da tutti i reparti dell'esercito per sorreggere la Convenzione e all’occorrenza raddrizzarla, se fosse uscita dal giusto cammino, che era quello dei diritti dell’uomo e della volontà popolare. Ma anche i rappresentanti della Comune, Hébert e Chaumette in testa, volevano difendere la Convenzione e, poiché farlo a mani nude sarebbe stato poco agevole, si erano armati fino ai denti, così come i militanti delle sezioni, che inalberavano alte le loro picche.

Ben difesi da tutti, compresi da se stessi, i rappresentanti del popolo salirono l'ampio scalone prospicente la sala assembleare, che occupava per intero l’intervallo tra il pavillon de l’Unité - ci-devant pavillon de l’Horloge - e quello intitolato alla neonata libertà.

L'arredamento si era adeguato alla storica svolta, rinunciando a ogni orpello: dopo l’orgia del barocco e del rococò dei vari Luigi, pareva che gli architetti repubblicani non concepissero ormai che linee dritte ed essenziali come l’animo di un buon rivoluzionario: unica eccezione, l’anfiteatro semicircolare che, aprendosi sul lato corto del rettangolo, accoglieva i banchi dei convenzionali, nudi di qualsiasi piano di appoggio, in faccia ai quali i tre striscioni tricolori sgorgavano direttamente dalla loggia popolare a rammentare come la sovranità risiedesse soltanto nella Nazione.

«Dicono che la seduta di oggi sarà memorabile. Ci sono Saint-Just, Hérault de Séchelles, Fabre d’Eglantine,

Lakanal, persino Danton!» indicava una popolana a una vicina: le donne erano la maggioranza tra il pubblico, perché la disoccupazione le colpiva per prime, lasciando loro molto tempo libero per vegliare sui destini della patria.

I rappresentanti dei vari dipartimenti presero posto sugli scranni. Tra loro vi erano artisti, oratori, soldati, avvocati, filosofi, educatori, scienziati, mercanti, medici, artigiani, imprenditori, bottegai, intellettuali, preti e persino nobili, tutti uniti dalla comune fede nel progresso, quel progresso che il secolo dei lumi aveva predicato e ora la Rivoluzione metteva in atto, decreto dopo decreto, in piena libertà, o quasi.

«La seduta sarà lunga, ti sei portata il lavoro a maglia? Io ho con me la sciarpa iniziata il giorno della liberazione degli schiavi.»

«Ma faranno bene a dare la cittadinanza a tutti, ebrei e negri compresi?» dubitò la comare.

«Sono patrioti come noi, sciocca! Spicciati, adesso, o troveremo posto soltanto in fondo!» la esortò l'altra e guadagnò un palmo di terreno assestando qualche gomitata ben diretta alle spettatrici che la precedevano. Risentita, una delle vittime si voltò, pronta alla baruffa, ma, prima che potesse reagire, l’altra esclamò stupita: «Léonie, della fabbrica Parisot! Quanto tempo che non ci si vede!» .

Dopo alcuni convenevoli e un aggiustamento di cuffie, le tre donne partirono assieme all'attacco dell’ambita postazione. Poco più tardi, sfrattato dal suo posto un vecchietto che non aveva né la voglia né il fisico per opporsi, si affacciavano alla balaustra della loggia, pronte ad assistere al dibattito.

In piedi dietro un gigante dalle spalle possenti, il commissario non vedeva né l'oratore, né la tribuna, ma riconobbe all’istante la voce dell’amico Pierre Blas.

«Cittadini, quanti di voi hanno marciato lungo le strade di Parigi per chiedere pane e libertà sanno che l’indulgenza è un lusso che non ci possiamo permettere. Per ogni fucile sfuggito ai controlli, al fronte cade un soldato. Per ogni funzionario che tollera una fornitura di scarpe fallate, in Vandea a cento uomini gelano i piedi. Per ogni accaparratore che nasconde una partita di grano, decine di bambini muoiono di fame. Per ogni corrotto cui condoniamo la pena, mille cittadini onesti sono indotti a seguirne lo sciagurato esempio.»

Mormorii di indignazione e l'applauso convinto dell’assemblea sottolinearono il passaggio. «I nostri nemici ci dicono ribelli, perché rifiutiamo di farci soggiogare. Ci dicono sacrileghi, perché abbiamo tolto ai religiosi non i loro diritti, ma i loro privilegi. Ci dicono eversori, perché abbiamo imposto a tutti, non solo ai poveri, di pagare le tasse. Ci dicono ladri, perché abbiamo restituito alla Nazione le terre che secoli or sono le avevano sottratto. Ci dicono atei, perché crediamo nei lumi della ragione e della scienza. Ci dicono barbari, perché abbiamo mandato a morte un tiranno. Ci dicono sanguinari, perché abbiamo ghigliottinato in un anno meno detenuti di quanti l’Inghilterra ne spedisca alla forca ogni mese solo per aver rubato un tozzo di pane. Io sostengo, cittadini, che le esecuzioni sono troppo poche, rispetto al numero di serpi che ci coviamo in seno!»

«Bene, bravo, morte ai traditori!» urlava la folla dalle tribune.

«Che cosa aspettiamo a giustiziarli, che il “Boia di Parigi” ci ammazzi tutti?» gridò uno spettatore inferocito. Dunque, malgrado le cautele, la notizia dell'ultimo delitto era già di dominio pubblico, notò con disappunto Verneuil, tanto che all’assassino era stato addirittura attribuito un soprannome.

«Abbasso le spie, lunga vita alla Nazione!» alzò il pugno una popolana, mentre Blas, calmissimo, chiedeva silenzio.

«Nelle campagne vandeane e in parecchie città della Francia è ormai in corso una ribellione istigata, sorretta e armata dalle potenze nemiche e dai nostri stessi emigrati, ansiosi di annientare la Repubblica e i diritti dell'uomo. Diamo ai traditori ciò che si meritano: il Terrore!» esclamò Blas mentre l’aula esplodeva in un lungo applauso.

Dal loggione, Verneuil aveva modo di osservare a suo piacimento i membri del Comitato di Salute Pubblica, primo tra tutti l'ex aristocratico, ex girondino, ex fogliante e ora montagnardo Hérault de Séchelles, responsabile degli Affari Esteri. Balzando allegramente di partito in partito e di fazione in fazione, Hérault, già molto ricco di famiglia, aveva accresciuto a dovere il suo patrimonio, rimpinguando contemporaneamente quello dei suoi fedelissimi, tra cui brillava per zelo Nicolas Caron, uno dei due visitatori che avevano messo piede al Louvre il giorno precedente il ritrovamento della prima testa, lo stesso che si era portato appresso la mantenuta fasciata di seta. Si trattava di un bellimbusto alto e snello, la cui azzimata eleganza -parrucca incipriata a doppio boccolo, jabot di finissima trina, culottes su misura, scarpini di raso nero - strideva con l’abbigliamento sobrio e misurato della maggior parte dei colleghi. Il commissario lo guardò raccogliere una risma di fogli e porgerli al suo mentore con una supina deferenza che assomigliava molto a un inchino. Un passacarte, ma un passacarte potente, che aveva accesso ai reconditi segreti di Stato e ai conseguenti maneggi: si mormorava che i dantonisti stessero trattando in segreto con Londra la grazia per la ci-devant regina Maria Antonietta, a fronte di un’enorme somma di denaro. . .

Il popolo non meritava rappresentanti simili, si disse Verneuil tendendo l'orecchio ad ascoltare il boato dell’umanità variopinta che lo circondava, la voce della Repubblica, il timbro stesso della Rivoluzione in marcia: borghesi e popolani, moderati e sanculotti, e donne, soprattutto donne, le energiche popolane di Parigi che avevano combattuto alla Bastiglia, erano state falciate al Champ de Mars, avevano marciato su Versailles e irriso l’Austriaca, gettandosi alle spalle in un sol giorno un timore reverenziale durato mille anni. Donne che avevano amato Marat e pianto commosse quando il suo gran cuore era stato trafitto dal pugnale della Corday. Donne che mantenevano la famiglia mentre gli uomini erano lontani, che non tenevano la testa china, né la lingua a posto. Donne che non volevano sentir più parlare di tiranni, di despoti, di signori. Ognuna di loro somigliava per qualche verso alla statua della libertà che troneggiava dietro la poltrona del presidente, pensò Verneuil, o forse a modellarsi sui loro profili era stato proprio il monumento, con la sua espressione dura e caparbia, perché solida come la roccia doveva essere la determinazione a difendere a ogni costo il cammino intrapreso.

Tra quei volti risoluti, spesso scavati dalla miseria, se ne intravedevano alcuni più freschi, qualche sartina, due bambinaie, una maestra - giacché ora si erano aperte le prime scuole femminili di quartiere - e anche un paio di brave borghesi abbienti, che curavano l’educazione degli orfani, soccorrevano i malati e ricamavano stendardi tricolori. Fu uno di quei visini graziosi che Verneuil si trovò improvvisamente davanti.

«Cittadino commissario!» disse Léonie concitata. «Ho visto adesso lo studente dell'orto botanico. È quello laggiù!» esclamò indicando un giovane allampanato che, poco più avanti di loro, avanzava tra la folla diretta all’uscita.

Verneuil si gettò in mezzo alla calca, cercando di non perdere di vista i capelli stopposi e il colletto rialzato della sua preda. Con una serie di spinte ben assestate, riuscì infine a giungergli alle spalle: il giovane si trovava adesso a pochi passi da lui e gli si offriva di profilo, il lungo naso a becco sulle labbra sottili.

«Fermo, in nome del Comitato di Sicurezza Generale!» gridò il commissario vedendolo imboccare lo scalone.

«Ehi, sono un bravo patriota, con tanto di certificato civico!» equivocò un cuoiaio che procedeva in direzione opposta.

«Mio fratello è membro della sezione Brutus e volontario della guardia del procuratore Chaumette!» s'interpose una popolana bene in carne, occultando a Verneuil la visuale dell’ingresso. Un istante dopo, messe a tacere le rimostranze del donnone, il commissario scendeva i gradini a quattro a quattro, per raggiungere l’uscita del padiglione, verso la quale si era diretto l’inseguito.

Fuori, centinaia di parigini sciamavano in strada in un’orgia di coccarde, berretti frigi e nastri tricolori. Del giovane nessuna traccia.