PARTE SECONDA

Senza l'orrore per la tirannia, la passione della libertà, l’amor di patria e la compassione per gli oppressi, la Rivoluzione sarebbe soltanto un crimine che distrugge un altro crimine.

ROBESPIERRE

13 SETTEMBRE 1793

Place de l'Indivisibilité, ci-devant place Royale, sezione Indivisibilité Erano passati nove giorni dall’infuocata seduta della Convenzione che, sotto l’assedio delle sezioni armate, aveva sancito il regime del Terrore, quando Cécile, seconda cameriera di cucina del procuratore Dillon, nascose sotto la salvietta il pane fresco dei padroni - che pagavano in luigi d’argento anziché in assegnati - e si affacciò su place de l’Indivisibilité, dove il primo sole lambiva appena i tetti di ardesia delle mansarde. Stavano arrivando i fonditori dell’armeria, presto la piazza sarebbe stata tutta scintille, schegge e stridori metallici; allora Michel, coscritto alla pari dei soldati che si battevano al fronte, avrebbe levato il viso verso di lei strizzandole l’occhio. Cécile se lo figurò in tempo di pace, mentre sollevava tra le braccia il loro ultimo nato: un sogno ardito per una domestica, ma non più impossibile nella Repubblica dei liberi e degli uguali.

La ragazza pensò che la Rivoluzione era magnifica e Michel pure. Dimentica del pane, si spinse tra i cumuli di lamine contorte per raggiungere il centro del quadrilatero, dove al posto della vecchia statua del re si ergeva ora l’albero della libertà con i consueti addobbi tricolori.

Solo quando avvertì qualcosa di umido e appiccicoso pioverle addosso, levò lo sguardo verso il berretto frigio che troneggiava sulla cima e vide con raccapriccio una forma biancastra, circondata da ciocche color della paglia secca. Si sentì mancare.

 

Place des Piques, ci-devant place Louis-le-Grand, studio di Sauthier, sezione Piques Alle sette del mattino, ignaro di tutto, Verneuil attraversò place des Piques diretto da Sauthier, che, dopo essersi sottratto a lungo, aveva infine accettato di riceverlo nel suo palazzetto, ubicato dietro le eleganti facciate del grande ottagono intitolato un tempo a Luigi il Grande.

Poco lontano, la ghigliottina lavorava con lena: Samson, ci-devant carnefice del re, nello stesso giorno aveva giustiziato i Kornaszewski padre e figlio, assieme al loro credenziere Euchariste. Era stato quest'ultimo, leale ma non parimenti astuto, a cadere in trappola durante l’interrogatorio, assentendo al nome di Chateau Bois, arbitrariamente inserito dal commissario tra quello dei congiurati.

Dunque Fabien era veramente a Parigi e aveva partecipato al complotto del Temple per liberare il delfino, rifletteva ora Verneuil, incerto se condividere o meno l'informazione: il nome dei marchesi di Chateau Bois non era mai stato fatto nel corso dell’indagine e forse non sarebbe emerso mai più, si disse per giustificare il suo ritegno. Ma gettarsi alle spalle il passato non era cosa da poco, come ebbe occasione di scoprire dopo pochi istanti.

«Caro, carissimo collega, se posso chiamarti così. . . avvocati, notai, ufficiali della Sicurezza, siamo sempre uomini di legge!» esclamò calorosamente il notaio, accarezzandosi il panciotto di damasco viola, teso sullo stomaco di una visibile rotondità. Né il tono bonario, né il viso roseo che ad altri sarebbe apparso rassicurante fecero sentire a suo agio Verneuil, che, all'erta come una volpe che fiuta la tagliola, fece scorrere lo sguardo sul salotto di gusto ineccepibile: nulla di pesante, nulla di datato, solo agili mobiletti di legni preziosi, opera di ebanisti moderni di raro talento; alla parete, un paesaggio in vivaci sfumature di verde e azzurro, in cui un appassionato d’arte avrebbe certamente saputo riconoscere i tratti di qualche artista famoso.

«Magnifico, vero? Non sono riuscito a recuperare la Madonna in primo piano, sfregiata da un bruto durante i saccheggi, ma quasi quasi è stato meglio così: lo sfondo, da solo, è ancora più affascinante. . .» spiegò l'ospite, lasciando Verneuil nella sua beata ignoranza circa il nome dell’autore. «Mi scuso per averti fatto tanto aspettare. Prego, prendiamo il caffè, ho appena finito di fare colazione!»

Autentico caffè delle colonie, assaporò il commissario, come a Parigi non se ne trovava più dall’inizio del blocco navale. Le sorprese però non erano finite, perché quando aprì la zuccheriera, al posto delle consuete zollette scure gli apparve una polvere candida come la cipria bianca, ma meno fine. Si trattava del prodotto di raffinazione della comune barbabietola che un chimico tedesco si proponeva di produrre su larga scala, spiegò il notaio mentre Verneuil ne assaggiava un pizzico.

«Sì, ero al Louvre, quel pomeriggio» ammise poi senza alcuna riluttanza: ci andava spesso, approfittando del libero accesso garantitogli da Nicolas Caron, un amico di vecchia data, senza dubbio il commissario lo conosceva, non di persona magari, ma sicuramente di fama. Certo, aveva fatto qualche acquisto artistico negli ultimi mesi - lui stesso si dilettava con gessi e carboncini, nel tempo libero - contribuendo così a salvare dall'oblio opere apprezzabili, delle quali la Nazione non aveva modo di occuparsi; proprio nel corso di una di queste compravendite - si trattava di un paesaggio nordico, nulla che potesse offendere i valori repubblicani - era stato a casa dei Kornaszewski, e poteva sicuramente essergli capitato di entrare in una stanza dove un valletto si divertiva con una domestica, ma non riusciva a ricordarsi nemmeno dell’episodio, figuriamoci poi del nome del lacchè.

«Spero di essere stato esauriente, cittadino. Ancora caffè? Prendi un paio di tiri, allora, anche se a dire il vero non sarebbe l'ora giusta!» disse poi estraendo dal panciotto una tabacchiera e un grosso sigaro, che Verneuil commise l’errore di accettare.

Prontamente, Sauthier fece comparire quasi dal nulla un mozzapunte a forma di ghigliottina e con un sogghigno divertito lasciò cadere la piccola lama sulle foglie arrotolate: «Vendono questi piccoli marchingegni in place de la Révolution, in occasione dei supplizi capitali. Gli ambulanti ci hanno fatto su un bel po’ di soldi» .

Sebbene il sigaro fosse squisito, il commissario dovette reprimere un colpo di tosse, prima di passare alla domanda successiva, quella più importante.

Sauthier strinse gli occhi in una mimica maligna. Con il fratellastro girondino morto di propria mano nel carcere della Porce aveva sempre avuto poco a che fare, disse: gli amici si sceglievano, i parenti no, in particolare i fratellastri, come nessuno poteva sapere meglio del commissario.

«A proposito, si mormora che il giovane Chateau Bois sia di nuovo a Parigi in incognito. Ma se spera di recuperare i suoi beni, ha sbagliato i calcoli: il vecchio marchese era un traditore, tu stesso dimostrasti inoppugnabilmente la sua colpevolezza dai banchi dell’accusa. Dunque il suo patrimonio appartiene alla Nazione, sempre che non lo rivendichi un altro erede» buttò lì con un ghigno insinuante sulle labbra.

Verneuil fece uno sforzo enorme per mantenere un’espressione imperturbabile, mentre sentiva lo sdegno ribollirgli dentro.

«Il marchese di Chateau Bois aveva un unico figlio, quello proscritto» ribattè asciutto. «Non divaghiamo, cittadino, devo chiederti conto del tuo tempo.»

No, non poteva produrre alcun alibi per la notte del delitto del Louvre, dichiarò serafico il notaio, dormiva della grossa, come qualunque cittadino con la coscenza a posto. E tornasse pure a fargli visita quando voleva il commissario, parlare con lui era stato un piacere, la sua casa era sempre aperta alle forze dell’ordine.

Un buco nell'acqua pagato con un’allusione talmente perfida da sfiorare il ridicolo, ammise Etienne furente, mentre raggiungeva di nuovo place des Piques, chiedendosi se qualcun altro, in quella città di malelingue, attribuisse a scopi reconditi la sua requisitoria contro il marchese di Chateau Bois.

Era ancora turbato quando rientrò in casa, dove lo aspettavano Thomas e du Plessis. Bastò un'occhiata alle loro facce scure per capire che era accaduto qualcosa di grave. Quella mattina la testa mozza della baronessa d’Orval era stata rinvenuta, berretto frigio in capo, in cima all’albero repubblicano di place de l’Indivisibilité, gli riferì l’abate con voce funerea. Tutti l’avevano vista, i residenti, i lavoratori dell’armeria e infine i soldati, che erano saliti con una scala a tirarla giù: l’intera Parigi gridava ormai al mostro.

«La cognata del principe Kornaszewski!» esclamò Verneuil sconcertato: una vittima monarchica mandava all'aria tutto il suo castello di ipotesi sul giustiziere controrivoluzionario, annullando l’intero lavoro svolto fino a quel momento.

«Stavolta il “Boia” ci ha lasciato il corpo. Purtroppo la baronessa, colta di sorpresa e pugnalata alle spalle, non è minimamente riuscita a difendersi, quindi non ci sono frammenti di pelle o di fibre sotto le unghie: chissà che cosa avrebbe dato il tuo amico bollitore, per qualche minuscolo pezzetto di stoffa con cui baloccarsi al microscopio!» esclamò Thomas.

«Hai detto che il cadavere era nella sua camera?»

«Sì, all'interno dell’appartamento privato in cui la servitù aveva il divieto di entrare, per non interferire con gli eventuali ospiti della padrona. Si potrebbe dunque pensare a un amante. . .»

Come zia del giovane Stanislas Kornaszewski, la baronessa conosceva certamente gli amici del principino, Eugène d’Evreux e Fabien di Chateau Bois, rifletté il commissario. Era plausibile che Fabien fosse stato in intimità con lei? Anche senza pensare a una tresca galante, era costume delle gran dame ricevere i visitatori nel boudoir o addirittura nella stanza da letto. . .

«Avete passato al setaccio la piazza?»

«Per quello che era possibile» fece Thomas, consegnandogli i magri indizi raccolti: il solito biglietto della Pulzella e una nuova piuma che il commissario mise da parte, sperando che il bravo Lamarck riuscisse a ricavarne qualcosa. Sarebbe stato inutile infatti rivolgersi ai pochi plumassiers ancora in attività, i quali, già interrogati da Landry sul reperto del Louvre, avevano acidamente commentato che doveva certamente provenire da un pennacchio tricolore, perché in quei tempi di magra non si vendeva altro.

«Dunque si tratta davvero di un folle!» sospirò Thomas abbacchiato.

«Non ci credo!» protestò Etienne. «L’assassino vuole depistarci, oppure la baronessa è stata eliminata perché sapeva qualcosa!»

«Oppure semplicemente abbiamo sbagliato tutto» strinse le spalle l’abate, ma il commissario non lo ascoltava più.

Fabien in Francia, Fabien al Temple, Fabien sul Petit-Pont. Se era veramente lui il mostro di Parigi, avrebbe spinto al limite estremo la sfida, uno contro l'altro armati, come quel giorno d’inverno in riva al gelido torrente di Chateau Bois, come nella primavera di alcuni anni dopo, quando si erano battuti spada alla mano. Fabien, al quale lui aveva risparmiato la vita, recandogli la massima offesa. Fabien, che ora veniva a pareggiare il conto.

 

Place de la Maison Commune, ci-devant place de Grève, sezione Maison Commune Quella sera Etienne tornava scornato dalle Tuileries, dove non gli era stato possibile parlare né con Blas, né con David circa il nuovo, terrificante ritrovamento.

Mentre procedeva sciaguattando sotto la pioggia, con il mantello fradicio e le piume del bicorno che si afflosciavano gocciolandogli sulla nuca, davanti agli occhi gli passavano le immagini di un’altra sera piovosa, quella in cui aveva appreso che sua madre era morta nel darlo alla luce, nel tugurio dove era stata rispedita non appena avevano scoperto che aspettava un figlio.

Stringendo i denti, Etienne s'impose di scacciare i cattivi ricordi: era quasi a casa, al sicuro, si disse nell’attraversare di corsa place de Grève, che, sebbene ora si chiamasse place de la Maison Commune, di sera era fosca come al tempo in cui ospitava il patibolo del re.

Mentre doppiava l'ultimo lampione, il piede gli scivolò in una pozza, costringendolo a chinarsi in avanti per ritrovare l’equilibrio. Fu quello scarto improvviso a salvargli la vita: la pallottola fischiò a breve distanza dall’orecchio, schizzando sul lastricato a pochi passi da lui.

Rotolando sul selciato per offrire alla canna solo un bersaglio mobile, Etienne si spostò rapidamente fuori dal riverbero del lampione, il cuore in tumulto, la certezza desolante di essere sul punto di morire, il rimpianto per tutto ciò che non aveva fatto o detto. Quando capì che non ci sarebbe stato un secondo sparo, uscì allo scoperto, correndo all'impazzata verso il punto da cui era partito il colpo, proprio dietro l’albero artificiale dell’Hòtel-de-Ville, niente più che un palo al quale appendere i tricolori e il berretto frigio.

L’attentatore doveva essersi nascosto lì, per fuggire poi subito davanti alla sua immediata reazione, suppose Verneuil cominciando a palpare il terreno tutto attorno.

Le dita, infine, gli si chiusero sul metallo sbalzato del calcio di una pistola. Non ebbe bisogno di raggiungere la luce per riconoscere al tatto la quercia sormontata da un falco con le ali spiegate. Era lo stesso superbo disegno che aveva visto tante volte sulle livree dei valletti, sugli sportelli delle carrozze, sui camini, sulle porte, sulle architravi, sui muri del castello: lo stemma degli Chateau Bois.

16 SETTEMBRE 1793

Rue Feydeau, Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie, sezione Le Peletier Da due giorni le imprese del “Boia di Parigi”, come ormai lo chiamavano tutti, erano sulle prime pagine dei giornali. A dare inizio all'importuno concerto era stato, guarda caso, l’oscuro bollettino del Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie, con una serie di articoli firmati da Caroline Mathieu: in uno dei suoi rari scatti d’ira, Robespierre aveva scagliato a terra la gazzetta e poiché molti erano coloro che cercavano di prevenire i suoi desideri, c’era da aspettarsi che la pubblicazione sarebbe stata presto soppressa.

Ormai però il danno era fatto: stendardi con i gigli di Francia erano comparsi sul Pont Neuf, al Champ de Mars, al cimitero della Madeleine dove era sepolto il Capeto; per qualche istante, si era visto sventolare il bianco vessillo borbonico perfino sulla fabbrica di armi a cielo aperto del ci-devant giardino del Luxembourg. Immediatamente rimosse, le bandiere erano state consegnate al commissario: nessuna di loro recava tracce della firma “Pucelle”, il dettaglio segreto che caratterizzava il vero ”Boia”. Dunque, ciò che Pierre Blas aveva tanto temuto, stava accadendo: i monarchici sconfitti rialzavano la testa.

Era quindi comprensibile che, facendo irruzione nella sede del Circolo delle Repubblicane Rivoluzionarie in rue Feydeau, Verneuil fosse abbastanza alterato da non badare affatto al sanculotto di guardia.

Dal canto suo, invece, Lazare Baladier, che non aveva ancora digerito la processione di Sainte-Geneviève, lo riconobbe subito: «Ah, il cittadino protettore di reliquie. . .» sibilò inviperito, fischiando poi con due dita in bocca, per avvertire le socie della presenza di un intruso.

Davanti alle leonesse del circolo, Verneuil si sentì come un gladiatore nell’arena.

«Siete venuti ad arrestarci?» chiese la donna che sedeva accanto a Caroline Mathieu al tavolo della presidenza. Claire Lacombe, il commissario la riconobbe: attrice e rivoluzionaria, insignita della corona civica per l'assalto alle Tuileries, protagonista dell’insurrezione di giugno e autrice di un progetto per l’istituzione di un battaglione di sole soldatesse: «Non mi meraviglierei se Robespierre chiedesse anche la nostra testa, oltre a quella di Olympe de Gouges, che langue in carcere da molti mesi!» .

«La Gouges è una pericolosa girondina!»

«Si tratta pur sempre dell’autrice della Dichiarazione dei diritti della donna. Come femmina non gode del diritto di voto, ma quello di salire al patibolo non glielo nega nessuno!» ribattè acida la Lacombe.

«Basta con le polemiche, tirate fuori tutti i numeri del vostro giornale!» ordinò Etienne, accorgendosi subito che i caratteri non combaciavano affatto con quelli dell'articolo incriminato. A questo punto sarebbe stato necessario esaminare minuziosamente tutte le copie di “L’Ami du Roi” scoperte durante la perquisizione di palazzo d’Or-val, constatò, intravedendo un valido pretesto per impedire alla più molesta delle Femmine Rivoluzionarie di fare ulteriori danni.

Poco dopo sbatteva la porta del circolo, trascinandosi dietro la riluttante Caroline.

«Evviva la Repubblica che garantisce la libertà di stampa!» lo salutò sarcastico Lazare Baladier, urlando per farsi sentire sopra il coro di fischi che accompagnava l’uscita del commissario.

«Mi dispiace di avere involontariamente causato dei guai» ammise contrita la ragazza, mentre cercava affannosamente di tener dietro al passo frettoloso del commissario. «Ero indignata per il modo in cui il “Boia” scherniva i simboli della Repubblica. . . quando ha ucciso una ci-devant sono rimasta di sasso!»

«Come sapevi della cagna di Eglise-Neuve?» la interruppe Etienne, senza rallentare l’andatura.

«Basta tenere le orecchie aperte» minimizzò la gazzettiera. «Chi non parlerebbe volentieri delle mancanze altrui, soprattutto quando riguardano un superiore piuttosto pignolo?»

«E le petizioni della cittadina Dandel all’Atelier du Nord?»

«Berthe sa quel che vuole, io mi sono limitata a dar forma ai suoi pensieri. Il popolo è più avanti di noi, cittadino: talvolta mi chiedo che cosa abbia ottenuto la povera gente dalla Rivoluzione, al di là delle dichiarazioni solenni!»

«Primo: gli aristocratici hanno perso i loro privilegi. . .» cominciò a elencare Verneuil, verde di bile.

«Ma i ricchi borghesi stanno cercando di prenderne il posto!» ribattè lei.

«Secondo: tutti i cittadini, quale che sia il loro reddito, sono chiamati a scegliere i loro rappresentanti.»

«Non le donne, però!» obiettò Caroline.

«Terzo: sono stati aboliti i tribunali ecclesiastici e sciolti i voti dei religiosi monacati a forza. . .»

«Metà dei quali ora congiura a favore di Roma per affossare la Repubblica!»

«Quarto: ognuno può intraprendere la carriera o il mestiere che preferisce, al di là della famiglia in cui è nato. . .»

«Chirurghi compresi!» ironizzò la ragazza.

«Quinto: si stanno aprendo dappertutto le scuole popolari, laiche e gratuite. . .»

«Prima dovreste insegnare a far di conto ai maestri: ne viene uno, alla tipografia Zéphirin, che davanti al nuovo sistema metrico decimale comincia subito a grattarsi i capelli stopposi come se avesse i pidocchi!»

Verneuil si arrestò tanto in fretta che Caroline quasi gli cadde addosso: «Alto, magro e con una giacca verde?» chiese concitato.

Lo sconosciuto notato nel parco da Léonie poteva essere un maestro, oltre che uno studente, rifletté, vedendo Caroline annuire in silenzio. Avrebbe domandato lumi alla tipografa, ma prima c’era un altro dettaglio da controllare, visto che non erano lontani dalla Tour du Temple. . .

 

Tour du Temple, sezione Temple Sulla cittadella fortificata, cinta da alte mura, svettavano i pinnacoli dominati dal mastio dei Cavalieri. Là Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dei Templari, era stato tradotto in catene per essere arso vivo sul rogo, lanciando contro i re di Francia il terribile anatema che, a tre secoli di distanza, era infine giunto a colpire il trono del giglio. Là un drappello di sanculotti scatenati aveva mostrato a Maria Antonietta il capo mozzo della sua migliore amica, la principessa di Lamballe, infilato su una picca. Là, dopo l'esecuzione del re, l’Austriaca si era inginocchiata ai piedi del figlio, riconoscendolo suo sovrano.

Verneuil si avviò alla posteria con Caroline sempre alle costole.

«Tu aspetti qui!» le ingiunse il commissario. «Non intendo portarmi dietro un’impicciona di gazzettiere nella prigione più impenetrabile di Francia!»

«Impenetrabile?» sorrise la ragazza e additò al commissario la folla che passeggiava tranquillamente all’ombra del lugubre torrione.

Nello slargo dove un tempo si era tenuto un florido mercato esente da imposte - giacché i Cavalieri Templari godevano di speciali privilegi di extraterritorialità - spiccavano ora alcune bancarelle di frutta, il carro di un ceraiuolo stranamente provvisto di una scorta di introvabili candele, il baracchino di un barbiere alle prese con l’estrazione di un molare e parecchi bric-à-brac, ingombri di corone, globi cruciferi, scettri dorati, fiori di giglio e altre anticaglie della monarchia. Ai venditori si aggiungevano residenti, passanti, curiosi, fornitori, pitocchi, qualche prostituta male in arnese e parecchi senzatetto alla ricerca di un buon posto dove trascorrere la notte, prese atto Verneuil mentre chiedeva informazioni al piantone.

Il calzolaio Simon, tutore dell'erede Capeto, abitava dietro alla torretta, spiegò la sentinella, indicandogli un passaggio sotto le volte. Pochi istanti più tardi un uomo tarchiato, con il naso rosso e l’ampio grembiule di cuoio sui calzoni a righe, lo accoglieva sulla soglia di casa.

«Benvenuti, cittadini! Siete della sezione Amis de la patrie o della Droits de l’homme? Oggi veramente sarebbe il turno della Fraternité. . .»

«Commissario Verneuil della Sicurezza Pubblica.»

«Ah, già, il complotto monarchico, per fortuna abbiamo fermato i congiurati! Come ho già detto a David, non riesco a spiegarmi come mai fossero al corrente dei turni di guardia: qui è tutto segretissimo!» allargò le braccia il ciabattino, indicando il caotico andirivieni del Temple. «Ma prego, entrate a bere un goccetto!»

La camera nella torre era bassa e puzzava di cavolo. L'unica luce proveniva da una finestra difesa da una pesante inferriata, al di là della quale si apriva una seconda corte circondata da un muro. Lungo il perimetro, un bambino dall’aria malaticcia correva senza sosta strillando la Carmagnole e cercando di scalare una catasta di legna.

«Gioca alla presa della Bastiglia, diventerà un bravo patriota» spiegò il ciabattino. «Cerco di tirarlo su con il vino, che fa buon sangue. A corte non gliene davano, si vede da com’è pallido. . .»

Il bimbo, che si muoveva a scatti come se fosse alticcio, spiò con occhi vuoti oltre l'inferriata e irruppe in un’esclamazione oscena.

«Non gliel’ho insegnato io a imprecare così, ma che volete, Chaumette, Hébert e il suo tirapiedi Baladier non brillano certo per la parlata fine: solo loro possono interrogarlo, gli altri devono accontentarsi di guardare da lontano!»

«Quali altri?» domandò il commissario aguzzando le orecchie.

«Lussard, innanzitutto. Come intermediario con il Comitato veniva spesso, assieme a una cittadina molto elegante, in guanti e cappello» disse Simon fornendo una descrizione abbastanza azzeccata di Amelie de Saint-Cyr. «Che brutta fine ha fatto quel poveretto! E il segretario Guy è andato a farsi ammazzare nello stesso modo. . .»

«Anche lui ti aveva fatto visita?»

«Eh, sì, come pure il deputato Nicolas Caron, i volontari della Comune, i rappresentanti delle sezioni République, Finistère e Bonnet-Rouge, senza contare gli avvocati, i notai e gli altri uomini di legge: tutti vogliono vedere il bambino reale, neanche fosse fenomeno da baraccone!»

La Tour du Temple era più frequentata delle Halles nella mattina del mercato, gemette il commissario: per accedervi, a un cospiratore sarebbe bastato aggregarsi a una delle numerose delegazioni che il ciabattino riceveva con tanto imprudente ospitalità. . .

In quella, sentì la ragazza toccarlo lievemente sulla spalla.

«Quell’infelice è Luigi XVII, re di Francia?» domandò, fissando sconcertata il piccolo recluso.

«Non ci sono re in Francia!» ribadì secco il commissario mentre prendeva la porta.

 

Place dell'Indivisibilité, ci-devant place Kayak, hotel d’Orval, sezione Indivisibilité Verneuil sistemò Caroline davanti ai bollettini monarchici di palazzo d’Orval, evitando di mostrarle la stanza dove era stato rinvenuto il corpo decollato della baronessa, di cui l’assassino non si era disfatto come al solito, forse per incuria, forse perché pressato da una fretta eccessiva.

Mentre Thomas continuava la perquisizione, du Plessis lo prese silenziosamente da parte e gli mise sotto il naso un elenco di ospiti, relativo ai tempi in cui i Kornaszewski ricevevano il fior fiore dell’aristocrazia: tra gli altri nomi spiccavano, fianco a fianco, quelli di Fabien de Chateau Bois e di Mademoiselle de Saint-Cyr.

Stesso ambiente, stesse abitudini, stessi privilegi: avrebbe dovuto mettere in conto che i ci-devant si conoscevano tutti, rifletté Verneuil, mentre lo smacco subito in rue des Fontaines cominciava a bruciargli a tal punto che, alzando gli occhi verso il ritratto della baronessa defunta - in abito di voile, orecchini di perle e monumentale acconciatura di fiori secchi e uccelli impagliati - i lineamenti alteri della nobildonna defunta parvero per un attimo confondersi con quelli della scaltra Amelie.

Non poteva, non voleva andare avanti così, decise.

«Maria Antonietta, amante com'era del lusso, ha imposto per lungo tempo fogge esageratamente sontuose» commentava intanto l’abate, rimirando a sua volta il quadro. «Le laboriose modiste di oggi s’industriano di sfruttare gli avanzi delle acconciature in voga negli ultimi anni del regno e ricavarne discreti fermacapelli, più consoni al nuovo gusto.»

«Proseguirete da solo, du Plessis, perché io. . .» mormorò Etienne, deciso a rimettere l’inchiesta in mani più degne.

«Dunque aveva ragione il vostro bollitore di teste!» lo interruppe l’altro con singolare tempismo. «Il “Boia” non uccide le vittime decapitandole, ma opera sui cadaveri il suo barbaro rituale per sfruttarne gli effetti evocativi. Vuole farci sentire impotenti, inchiodarci alla nostra modestia di banali funzionari borghesi davanti a un eroe titanico, nobile e solitario. Noi, però, non ci faremo impressionare dalla sua messinscena, vero?»

Una rivalità antica, una sfida mai ammessa apertamente, da una parte il peso di un retaggio che non consentiva cedimenti, dall’altra il divorante desiderio di rivalsa, pensò Etienne, chiedendosi se quella non fosse davvero una partita a due tra lui e Fabien, con Parigi come tavolo da gioco, e le vittime del “Boia” mere pedine da sacrificare in attesa dello scacco finale.

«Volevate dirmi qualcosa? Ci vuole pazienza, cittadino commissario, nessuno fa miracoli, soprattutto da quando la Rivoluzione ha abolito il culto dei santi!» disse compunto l’abate e Verneuil fu certo che gli avesse letto nel pensiero.

Dopo aver recuperato Landry dalle principesche cucine in cui stava frugando, alla ricerca come al solito di qualcosa di commestibile, il commissario uscì nella piazza intitolata all’indivisibilità, dove erano in corso le manovre militari.

«Che diavolo portano in testa, quelli?» chiese il ragazzo, additando i coscritti ebrei intenti a esercitarsi nel grande quadrilatero, tutti giovanissimi, tutti a capo coperto, le mani ceree use fin dall’infanzia a sfogliare piamente i libri sacri che imparavano ora a impugnare il fucile, per difendere la patria da cittadini a pieno titolo.

Sull’altro lato della piazza, la fucina delle armi operava senza sosta, in un fragore di metallo sfrigolante. Le nuove lamine, scaldate, piegate, battute, modellate e martellate, si accumulavano accanto alle canne già pronte e andavano ad aggiungersi a quelle prodotte sulla spianata degli Invalides, nei giardini del Luxembourg e nelle fabbriche galleggianti sui vascelli Sans-Culotte e Républicain, ancorati al vecchio Pont de la Tournelle, che presto si sarebbe illuministicamente chiamato Pont de la Raison.

Al centro della piazza s'innalzava l’albero, la cui debole cima, per aver retto il carico del capo mozzo della baronessa, si era piegata di lato. A dire il vero, albero era una parola troppo grossa, si trattava soltanto di un arbusto, giovane come la libertà appena conquistata e fragile come la speranza della Repubblica di sopravvivere a una guerra devastante.

«Saresti capace di arrivare lassù?» chiese il commissario a Landry, ma il ragazzo, solitamente felice di esibirsi nelle più ardite prodezze, stavolta si schermì.

Soltanto un bambino, o una donna molto leggera potevano salire in vetta all'alberello senza spezzarne le fronde, eppure l’omicida doveva essere molto robusto per brandire la mannaia, ragionò Verneuil. Dunque non poteva avere agito da solo: il “Boia” aveva un complice, o forse più di uno. Un’altra congettura, una nuova domanda alla quale dare risposta, concluse il commissario, pensando che stavano diventando decisamente troppe.

17 SETTEMBRE 1793

Rue de la Clef, scuola di quartiere, sezione Sans-culottes Il giorno dopo, Etienne scarpinava alla ricerca del maestro dai capelli stopposi cui aveva accennato Caroline Mathieu, verso l'aula di quartiere indicatagli dalla Zéphirin, che, soddisfatta dell’apprendistato di Agnès, quella mattina si era mostrata molto più collaborativa.

La scuola era ubicata in rue de la Clef, in una vecchia stalla del soppresso convento di Sainte-Pélagie, uno dei vari istituti dove un tempo le femmine troppo trasgressive venivano spedite perché meditassero sulle loro intemperanze. Il vecchio “purgatorio” delle peccatrici carnali aveva poi ospitato i debitori insolventi, fino a quando, l’anno prima, la nuova legislazione aveva abolito la prigionia per debiti. Da allora, il tetro edificio fungeva da carcere politico per gli aristocratici sospetti o i girondini cospiratori che, come Madame Roland, istigavano le province alla rivolta.

Da principio il commissario non vide l'aula, ma solo l’attigua tripperia, dove alcuni manovali erano in coda per acquistare un cartoccio di frattaglie: interiora, minuzie, budella, midollo e ossa erano diventate vere leccornie in quei tempi di ristrettezze.

Infatti gli scolari, accoccolati sulla paglia, parevano bearsi dell'odore stuzzicante delle interiora fritte molto più che delle parole infiammate del maestro. Quest’ultimo, tutto compreso nel suo ruolo, intingeva la penna nel calamaio posato in terra e scriveva con il quadernetto sulle ginocchia tenendosi in precario equilibrio su uno sgabello, non senza provocare qualche strappo nelle maniche già consunte da troppi lavaggi. Dalla sommità del capo, le famose ciocche crespe gli scendevano disordinate sul collo, lungo come quello di un trampoliere.

«Lunga vita alla Nazione!» esclamò scattando in piedi e con un largo gesto imperioso esortò i discepoli a intonare l’inno del cittadino repubblicano.

Il coro salì a poco a poco in un crescendo volonteroso, ma non altrettanto intonato. È difficile cantare bene a stomaco vuoto, si disse Verneuil osservando la gracilità degli scolari, almeno una quarantina, di età variabile dai sette ai tredici anni.

«Maestro Ambroise Loriot, cittadino! Sono lieto di informarti che la scuola popolare funziona regolarmente. Gli allievi sanno a memoria la Marsigliese, il ça ira e la Carmagnole. Hanno altresì approntato una sessantina di coccarde per la sezione di quartiere, raccolto otto spiedi, dodici picche e un fucile da caccia per il battaglione di volontari della Comune, nonché presenziato in massa con vivo ardore alla consegna dei certificati civici presso il Musée d'Histoire Naturelle!» esclamò con tale fierezza che Verneuil omise di chiedergli lumi circa i rudimenti dell’alfabeto.

«Tutti i ragazzi dedicano due ore al giorno a recuperare il salnitro dagli intonaci dei muri e i più grandi stanno imparando a ottenerne polvere da sparo. Ogni giovedì prepariamo gli esercizi ginnici per la parata del Champ de Mars e, in quanto all’arte. . . forza, bambini, mostrate al cittadino commissario il ritratto di Viala!» comandò, strappando un cencio sporco dal busto grossolanamente scolpito nella creta, che a Verneuil ricordò per un attimo il capo mozzato del segretario Guy.

«Joseph Viala, 13 anni, caduto l'8 luglio sotto i colpi dei federalisti marsigliesi» recitò uno scolaro che doveva avere più o meno l’età del giovane martire.

«Come ti chiami?»

«Marcel Motier, commissario. Ho due fratelli nell’armata del Reno e intendo raggiungerli al più presto» affermò appassionatamente il ragazzino, ma proprio in quel momento dalla cesta ai suoi piedi provenne un vagito e mentre i compagni ridevano di gusto, il futuro volontario arrossì come un gambero e, chinandosi a raccogliere una neonata in fasce, spiegò imbarazzato: «Mia madre fa la lavandaia. Tocca a me badare alla marmocchia, quando scende al fiume con il canestro dei panni. . .» .

«Una menzione d’onore per questo cittadino, che si fa carico della custodia di una figlia della patria!» sancì Verneuil, mentre i risolini di scherno si mutavano in sguardi ammirati.

Subito dopo, gli occhi attenti di tutti gli scolari si fissarono su di lui, in fremente attesa di ordini: erano solo dei bambini, ma la Repubblica sapeva della loro esistenza e contava su di loro.

«Se amate il vostro paese, studiate con lena: voi siete la Rivoluzione di domani!» disse in tono solenne il commissario, dopo essersi schiarito la voce. «E lavatevi spesso, senza dar retta a chi vi dice che fa male. Non soltanto le mani e la faccia, mi raccomando!» aggiunse poi osservando i visetti incrostati di fuliggine dei giovani patrioti.

«Ma non abbiamo sapone!» protestò costernato un ragazzino in seconda fila.

«La Repubblica provvederà a fornirvelo» promise il commissario. «Ora potete andare a comprarvi un cartoccio di frattaglie» disse poi, porgendo a Marcel Motier un soldino di rame. Immediatamente nella vecchia stalla scoppiò una fragorosa ovazione e gli studenti sciamarono fuori in felice disordine.

«La festa dei diplomi si è svolta di mattina, se non sbaglio» venne al dunque Etienne, non appena rimasto solo con il maestro.

«Nel pomeriggio le lezioni erano sospese, così ho potuto percorrere in lungo e in largo l’orto botanico alla ricerca di spunti utili alle mie lezioni di scienze» rivelò il maestro, ammettendo spontaneamente la sua presenza sul luogo del ritrovamento.

«Rammenti di aver incrociato due ragazze nel viale?»

Non soltanto il maestro Loriot ricordava le operaie con i panieri sottobraccio, ma aveva riconosciuto anche un altro visitatore clandestino, il droghiere dell'angolo di rue Copeau, che si aggirava lungo le aiuole con aria furtiva, raccogliendo in un sacchetto le spezie aromatiche da rivendere a peso d’oro nel suo esercizio. Sì, era un uomo di mezza età con i capelli brizzolati, il commissario lo redarguisse pure per l’appropriazione indebita, senza arrestarlo, però, perché era l’unico sostegno di cinque figli in tenera età.

«Molto bene, cittadino. E come va con il sillabario?»

«Purtroppo la Repubblica non ha libri da fornirci, così sto insegnando a leggere su alcuni testi stampati a mie spese in una tipografia qui vicino» disse esibendo con orgoglio un foglio in cui il commissario riconobbe gli stessi caratteri dell'“Ami du Roi”. Via la tipografa Zéphirin, dunque, via il maestro e via anche il droghiere: tra i sospetti della prima ora non restava che il medico della Salpétrière. «Finiti gli inchiostri e gli stili di piombaggine, speriamo adesso di scambiare alcuni grembiuli di nostra fabbricazione con un paio di quelle nuove cannucce dall’anima di grafite, che servirebbero a esercitare la mano alla scrittura. Vorrei avviare gli scolari anche a qualcosa di più complesso, come le uniformi. . . anzi, ti prego di sollecitare al Comitato l’invio di una provvista di aghi!»

«È da molto che applichi metodi di insegnamento tanto innovativi?» chiese Verneuil perplesso.

«A dire il vero, fino a tre mesi or sono facevo il sarto, ma non appena ho saputo che c'era carenza di personale nell’istruzione pubblica, ho deciso di diventare educatore!» confessò Loriot tirandosi nervosamente le ciocche crespe, prima di mormorare, in preda al dubbio: «Se ti sembro inadeguato, cittadino, darò subito le dimissioni!» .

Etienne rammentò il collegio, la verga del precettore che gli calava sulle dita gonfie, lo stanzino buio dove tante volte era stato rinchiuso per punizione, il gelo severo del refettorio e lo studio in cui padre Lebreton lo convocava con pretesti speciosi, cercando di mettergli le mani addosso. Al diavolo il sistema metrico decimale, servivano uomini come il maestro Loriot per costruire il nuovo mondo!

«Vivre libres ou mourir!» lo salutò, dopo averlo rassicurato.

«Vivre libres ou mourir!» scattò sull’attenti il maestro.

 

19 SETTEMBRE 1793

Palais National, sezione Tuileries Il pomeriggio seguente Verneuil approdò finalmente alle Tuileries, preoccupato di dover riferire ai suoi superiori un nulla di fatto.

Davanti agli uffici della Sicurezza Generale incontrò subito un David terribilmente abbattuto: da quanto tempo non riposava? si chiese il commissario notando i capelli sporchi e le falde della cravatta che pendevano sul vestito stazzonato.

«Tre omicidi, due cospirazioni, Telone che proclama re l’erede Capeto e i vandeani che ce le suonano. Mi chiedo se finirò mai il mio Marat!» lamentò.

«Torna al tuo studio, Jacques-Louis, fa' il bagno, dormi un po’, poi mettiti a dipingere: abbiamo più che mai bisogno del tuo quadro per tenere alto il morale della Nazione!» lo esortò imperioso Pierre Blas, uscendo in quel momento dal pavillon de la Flore, dove era ancora in corso una riunione del Comitato.

«Va male, vero?» mormorò Verneuil non appena rimasero soli.

«Peggio di quanto pensi: a Coron, in Vandea, le truppe repubblicane del generale Santerre si stanno ritirando davanti agli chouans.»

Troppe le città in rivolta, troppi i capi di stato maggiore passati al nemico, troppi i comandanti di estrazione aristocratica che lavoravano alacremente per la sconfitta della Francia e della Rivoluzione, pensò Verneuil avvilito.

«Non disperare, Etienne, è tutt'altro che finita! Stiamo per spedire all’esercito alcuni commissari politici investiti di pieni poteri, che ci libereranno degli ufficiali traditori: Saint-Just si recherà sul fronte del Reno, Couthon nella ribelle Lione e Augustin Robespierre, fratello dell’Incorruttibile, sarà a cingere d’assedio Tolone.»

«Mai una vittoria, mai un passo avanti, mai una buona notizia!» lamentò Etienne, scorato.

«Ti sbagli, eccotene una fresca fresca. Abbiamo preso l’agente prussiano Feld, che ci era sfuggito al Temple, durante il colpo di mano con cui i monarchici speravano di liberare il delfino. Rifiuta di aprir bocca, ma ci sono certi sistemi. . .»

«C'erano: la Rivoluzione li ha aboliti» ribattè Verneuil, irrigidendosi davanti alla disinvoltura dell’amico. «Se usassimo la tortura non saremmo diversi dai tiranni che abbiamo esautorato!»

«I princìpi prima di tutto, vero, Etienne?» esclamò Pierre sarcastico. «E che mi dici dell’inchiesta?»

«Siamo ancora in alto mare: ero partito dall'assunto di un vendicatore risoluto a giustiziare i giacobini riecheggiando la ghigliottina, ma dopo l’omicidio della baronessa la mia ipotesi non è più sostenibile.»

«Ho qualcosa da dirti, ma si tratta di un'informazione assolutamente confidenziale. . .» esitò Pierre titubante. «La baronessa lavorava per noi!» rivelò infine, lasciando l’amico di sasso.

Fin dalla primavera, spiegò il deputato, Sophie d'Orval spiava a favore dei giacobini il cognato Kornaszewski, nella cui casa si radunavano i monarchici più irriducibili. Era stata lei a denunciare la congiura del Temple e sempre lei a spedire il giovane Eugène d’Evreux verso il colpo di moschetto che lo aveva abbattuto a Porte de la Chapelle. Grazie alla sua collaborazione, il Comitato era stato in grado di smantellare una delle reti che permettevano agli emigrati di attraversare la Manica senza problemi; in cambio, le era stata concessa l’impunità e ci si era “scordati” di requisire il suo patrimonio immobiliare tra i beni della Nazione.

«Suvvia, Etienne, non fare quella faccia: ideali o meno, nessuna guerra può fare a meno delle spie, soprattutto quando viene combattuta anche sul fronte interno!»

Gli agenti segreti, tuttavia, servivano solo se erano segreti davvero, proseguì Pierre: nessuno, salvo lui stesso e David, sapeva del doppio gioco della baronessa, perfino Robespierre e Saint-Just ne erano all'oscuro e, poiché di David non si poteva dubitare, doveva essere stata la nobildonna stessa a rivelare il suo ruolo all’assassino.

«Gli amici dell’Austriaca che attendono di vedere i cavalli prussiani abbeverarsi nella Senna sono molti, Etienne. Noi però stiamo provvedendo drasticamente a liberarcene!»

«Le pene esemplari non bastano» obiettò Verneuil. «Parigi ha fame e il calmiere potrebbe peggiorare la situazione: sai bene che quando le merci vengono cedute a prezzo politico, presto spariscono dal mercato.»

«Il calmiere è una misura provvisoria, come il Terrore. Stiamo lavorando a soluzioni più durevoli: il passato governo della Gironda cedeva in grandi lotti gli immobili requisiti dai Beni Nazionali, noi invece metteremo in vendita degli appezzamenti di terreno molto più piccoli, alla portata di chi lavora la terra!»

«Intendete preparare una vera riforma agraria? Ci vorranno anni!»

«Dimentichi che stiamo imponendo una brusca accelerazione al corso della storia?» lo smentì Blas. «Se fermiamo austriaci e prussiani, storniamo la rivolta normanna e teniamo a bada la Vandea, a novembre inizieremo con i primi poderi, un arpento a famiglia. Capisci che significa, Etienne? Niente più carestie, niente più fame: per secoli i contadini sono morti di stenti, lavorando come bestie per la gloria del re, ingrassando aristocratici parassiti e chierici corrotti. . . milioni di morti, un delitto di proporzioni immani, altro che le poche teste che ci rimproverano di tagliare!»

Etienne rivide l’atroce inverno di cinque anni prima, destinato a deflagrare nella radiosa estate della Bastiglia: i fornai che panificavano a ghiande e castagne, le lunghe fila di mendicanti alle porte della città, i bambini con i ventri gonfi, il popolo stremato dalle tasse reali, i senzatetto morti di freddo sotto i ponti della Senna gelata.

«Ma se perdessimo la guerra. . .»

«Allora, l'intera Rivoluzione sarebbe carta straccia. Tu, io, la Bastiglia, la Costituzione, gli stessi diritti dell’uomo sarebbero carta straccia!» sibilò Pierre.

«Tutta l’Europa contro la Francia, tutta la Francia contro Parigi» mormorò sottovoce il commissario. «Può una città, una sola, cambiare il mondo?»

«Roma l’ha fatto, lo faremo anche noi!» sancì Blas con spavaldo ottimismo.

Pierre era sempre stato così, magnificamente retorico, come l’Arcangelo, come tanti giovani giacobini: per fare una Rivoluzione non bastava sperare, bisognava anche illudersi, si disse Etienne. O forse né Blas, né David, né Saint-Just, né Robespierre si facevano soverchie illusioni, ma andavano avanti ugualmente, senza sosta e senza cedimenti, risucchiati in quella sublime palude di sangue e di gloria da cui stava nascendo il nuovo mondo. E naturalmente sarebbe andato avanti anche lui.

 

20 SETTEMBRE 1793

Strada per Fontainebleau La carrozza caracollava sulla strada per Fontainebleau, gratificando i passeggeri di continui sobbalzi. Verneuil si rimpicciolì sul sedile, usurpato quasi per intero da una borghese in lutto, particolarmente grassa e particolarmente invadente.

Tra una gomitata e l'altra, il commissario cercava di seguire il corso dei suoi pensieri. Prima di partire, aveva spedito i suoi aiutanti sulle tracce del secondo omicidio, Thomas a identificare il luogo in cui era stato ucciso Gustave Guy nei pressi del Pont de la Tournelle e du Plessis a vagliare il possibile movente: dagli atti processuali era emerso infatti che si doveva proprio al segretario Guy la denuncia per attività controrivoluzionarie presentata a carico di Gerard Sauthier de Noigny, il fratellastro del notaio Cabrici, impiccatosi in carcere poco dopo l’arresto. Davvero la sorte del fratello lasciava il notaio del tutto indifferente, o aveva mentito soltanto per metterlo in difficoltà? Dopo le maligne insinuazioni di Sauthier, la visita cui si accingeva, per quanto sgradevole, era diventata assolutamente necessaria, pensò accigliato, mentre scrutava fuori dal finestrino, tentando invano di sottrarsi al braccio erculeo della vedova, che si sporgeva minacciosamente verso le sue costole.

Finalmente, le alte mura dell'ospizio comparvero all’orizzonte, il commissario le scrutò con la riluttanza di chi teme i morsi di una ferita che si è atteso troppo a medicare. Era venuta l’ora di fare i conti con un passato che lo inseguiva ancora, dalle querce di Chateau Bois fino ai lampioni di place de la Maison Commune dove aveva fischiato la pallottola diretta alla sua testa.

«Bicétre!» annunciò il postiglione e il commissario gli fece segno di fermarsi.

 

Strada per Fontainebleau, Hópital de la Bicétre «Volete visitare un paziente?» chiese stupito il portiere: chi entrava nell’inferno del nosocomio veniva presto dimenticato da tutti, sepolto vivo dentro le pareti che segnavano il confine tra salute e infermità, tra raziocinio e follia.

«No, devo vedere il direttore!» comandò bruscamente Verneuil, preparandosi a un’esperienza analoga a quella vissuta alla Salpétrière.

«Vi accompagno» rispose invece l'altro sollecito e poco dopo i due attraversavano il cortile con il grande pozzo dove, al posto degli uomini incatenati al cabestano, c’erano ora dodici muli macilenti, residuati del fronte. Negli ampi spazi aperti tra i vari padiglioni, alcuni ricoverati, il torso stretto in un abito di contenimento, camminavano nel tiepido sole autunnale, con il passo incerto di chi non è avvezzo all’uso delle gambe.

«Puoi avvicinarti, cittadino. Anche senza ferri ai piedi, i miei pazienti non sono pericolosi» lo invitò l'uomo in marsina nera cui i malati rivolgevano caldi sorrisi ebeti. «Nessuno che non abbia trascorso gran parte della vita appeso a un muro è in grado di capire quale immenso piacere si provi a passeggiare: questi poveretti stanno godendosi un’aria fresca che nel buio delle loro celle non respiravano da anni!»

«Sei quel Pinel che toglie le catene ai pazzi?» chiese il commissario, rammentando il commento acido del direttore della Salpétrière.

«Con il consenso del Comitato di Salute Pubblica. Ci ho messo un bel po' per convincere Couthon a lasciarmi effettuare l’esperimento» precisò il medico, che non a caso aveva scelto come referente un paralitico, più sensibile dei colleghi alla sofferenza provocata dall’immobilità. «Seviziare i malati di mente è inefficace, oltre che sommamente ingiusto. La camicia di forza non sarà il massimo, ma è sempre meglio degli strumenti di tortura che si usavano prima!»

«Pare che le tue riforme non siano viste di buon occhio dagli altri alienisti» osservò il commissario.

«Ci sono ineguaglianze che nessun governo, per quanto avanzato, potrà mai sanare» rispose Pinel. «Ma anche coloro che la sorte ha sfavorito con la malattia o la deformità sono cittadini della Repubblica: ho proposto al Comitato di decretare un giorno di festa dove infelici, storpi e decrepiti possano sedere in prima fila, senza vergognarsi delle loro incolpevoli disgrazie.»

«È un'iniziativa lodevole» approvò Etienne, auspicando che la Repubblica riuscisse davvero a fornire conforto ai folli, pane ai denutriti, coperte ai vecchi, ricoveri ai senzatetto, libri agli studenti e pallottole ai soldati: la strada per garantire i sacrosanti diritti dell’uomo nella tragica realtà di un paese sotto assedio era ancora lunga e irta di ostacoli. «Sto investigando sui delitti delle teste mozzate, di cui certo avrai avuto sentore. Un anno fa accaddero qui certi eccessi che potrebbero avere un nesso con i crimini attuali» la prese alla larga Verneuil.

«Non ero alla Bicétre durante i massacri di settembre» chiarì subito l’alienista. «Ti manderò dal guardiano che vide la folla aprire le celle e giustiziare sommariamente i detenuti.»

«Te ne sarei grato» disse il commissario, esitando un attimo prima di proseguire: «c'è anche un’altra cosa che vorrei domandarti, ha a che fare con la tua professione. . .»

«Dimmi pure!» lo esortò Pinel.

«Da esperto in squilibri mentali, tu riterresti pazzo un uomo capace di commettere omicidi come quelli del “Boia di Parigi”?»

«Dipende da che significato si attribuisce alla parola follia» rispose l'altro con un mezzo sorriso. «Erano pazzi i popolani che a mani nude presero d’assalto la Bastiglia? Era pazza Carlotta Corday, mentre affondava il pugnale nel petto di Marat? Era pazzo lo stesso Marat, quando chiedeva a viva voce le teste dei traditori? Sono pazzi i parigini che resistono alla guerra e alla fame, anziché aprire le porte ai prussiani? Sono pazzi i convenzionali che hanno decretato pochi giorni or sono il regime del Terrore? Sono pazzi i briganti della Vandea che vivono sottoterra come bestie per colpirci di sorpresa? Sono pazzi i fantaccini che si fanno sparare addosso al fronte? Se l’uomo che ha commesso questi crimini è pazzo, allora si tratta di una follia analoga.»

«In che senso?»

«È innegabile che l’assassino scelga molto lucidamente i mezzi adatti a ottenere il suo scopo.»

«Uno scopo aberrante!»

«Ai tuoi occhi, forse, ma non ai suoi. Il “Boia” potrebbe essere davvero un idealista, magari qualcuno che all'urgenza dell’imperativo morale aggiunge rancori antichi e molto profondi.»

Due adolescenti che si affacciano appena alla vita, ricordò Etienne, la spada che vola dalla mano, il colpo, la ferita, la vergogna; poi due adulti, la rovina, il processo, il massacro e l'esilio. Sì, il “Boia” poteva avere molti motivi per odiare la Rivoluzione e l’uomo che ai suoi occhi la incarnava. . .

«Un’ultima domanda. Sai se a Parigi eserciti un alienista con una voglia di vino sulla fronte?» chiese il commissario, riassumendo il racconto di Francine.

«Sei certo che si tratti di un mio collega? Credo di conoscerli tutti e non ne ho mai visto uno con una simile voglia» assicurò Pinel. «Se aggiungi che gli strumenti medici si trasportano in teche simili a qualunque altra cassetta, c'è da sospettare che la tua testimone abbia lavorato un po’ di fantasia. . .»

Oppure peggio, molto peggio, si sentì gelare Verneuil: la deposizione era troppo precisa e circostanziata per essere frutto di un errore o di un comune fraintendimento. Esclusi ormai dal novero dei sospetti maestro e droghiere, tutte le oscure vicende del Jardin des Plantes, la visita di Léonie e Francine, lo scontro per strada, la scoperta nel labirinto, la presenza dei panieri e i fili di paglia rinvenuti tra i capelli del segretario Guy assumevano all’improvviso una connotazione molto inquietante: di fatto, pareva proprio che ad aver modo di portare dentro la testa, fosse stata soltanto una delle due ragazze.

Quale delle due? La disinvolta Léonie o la fragile Francine? si domandò Verneuil facendo il suo ingresso nel carcere.

Era la prima volta che il commissario entrava nell'istituto di pena. Durante il processo dell’anno prima, aveva provato più volte l’impulso di recarsi a guardare dallo spioncino il detenuto sul cui capo pendeva l’accusa di tradimento, suffragata dalle prove inoppugnabili che lui stesso aveva prodotto. Ma che senso avrebbe avuto contemplare il vecchio marchese finalmente sconfitto, dopo trentadue anni dalla notte in cui, nella capanna ai margini del bosco, sua madre si era spenta nel sangue e nell’abbandono?

«Chateau Bois? Lo ricordo bene, era un arrogante, trattava compagni e secondini alla stregua di servi di cui potesse ordinare la bastonatura» disse il guardiano. Altezzoso e protervo come quando aveva posto fine al loro unico colloquio, nel casino di caccia, ricordandogli che i grandi aristocratici di bastardi ne seminavano molti, senza minimamente preoccuparsene; ringraziasse quindi la buona sorte pter essere diventato qualcosa di più di un contadino e girasse alla larga dal castello.

Era ancora sconvolto da quel confronto mortificante, quando, incrociando Fabien sul sentiero, si era rifiutato di cedergli il passo: del loro scontro vivace, il marchesino conservava tuttora il segno sulla guancia.

«Fu ammazzato tra i primi, il giorno della rivolta. La folla inferocita, però, non fece che anticipare i tempi, perché in ogni caso il patibolo non gliel’avrebbe tolto nessuno.»

«Ricevette visite durante la detenzione? Su, non dirmi che è vietato, con una buona mancia si ottiene tutto.» Il guardiano tacque intimorito: se ne ricordava benissimo, non si era trattato di pochi spiccioli quella volta, ma di monete d’argento, scarpe nuove per tutta la famiglia. «Immagino che tu conosca la legge sui sospetti votata dalla Convenzione pochi giorni fa: chi rifiuta di collaborare ha la testa poco salda sul collo. Forse la memoria ti tornerebbe, se vedessi la prigione da dietro alle sbarre, anziché dal davanti, come di consueto?» ventilò il commissario.

«Vennero due uomini. Il primo non aveva un capello in testa, era bianco come un fantasma e portava una gran barba rossa.»

Il rumore di una carrozza risuona sull’acciottolato in faccia al castello; ne esce un uomo calvo vestito interamente di nero che porge il copricapo al lacchè e scende la scaletta retrattile, rammentò vagamente Etienne.

Tutt’a un tratto la scena gli apparve davanti, come se la stesse vedendo in quel momento.

Grandebarbe! si disse, provando lo stesso brivido di allora. Così avevano soprannominato l'intendente di Chateau Bois i bambini del contado, che ne avevano una gran paura. Anche ai loro padri faceva spavento, non per l’aspetto lugubre, ma perché a ogni sua visita si aggiungeva una nuova proibizione, vietato far legna nel bosco, pascolare nel prato comune, cacciare le lepri, raccogliere funghi e castagne, macinare al mulino. Vietato avere lo stomaco pieno, essere uomini, avere una dignità. Il marchese era un gentiluomo di nobile schiatta, non poteva abbassarsi a trattare con i contadini, esigere imposte e preoccuparsi di piccinerie quali il denaro e i mezzi per estorcerlo: pretendeva e basta, era l’intendente a disporre, il gelido, spietato intendente. . .

Per quel che ne sapeva, però, da un pezzo Grandebarbe non calcava il suolo francese; aveva guadagnato Coblenza subito dopo i massacri di settembre, raggiungendo la comunità dei nobili emigrati cui tante volte aveva fatto da comodo prestanome. Dunque, anche se si fosse trattato veramente di lui, non esisteva alcuna possibilità di metterlo in rapporto con i recenti delitti.

«Che mi dici del suo accompagnatore?» domandò perplesso.

«Un uomo non molto alto, con il viso butterato e una mano morta» concluse il secondino.

La descrizione calzava a puntino al segretario del club dei giacobini, quel Gustave Guy il cui capo mozzo era stato trovato sotto la gloriette del Jardin des Plantes. Con tutta evidenza, prima di emigrare, l'intendente di Chateau Bois aveva provveduto a metterlo in contatto con il marchese, allora sotto processo per alto tradimento. Come non collegare quell’informazione ai maneggi di certi esponenti della Montagna - primo tra tutti Danton - che non si erano fatti scrupolo di intascare forti somme per escludere alcuni personaggi di spicco dai loro feroci attacchi politici?

Verneuil scolorò, in preda a una nuova, tristissima consapevolezza. All'improvviso, gli incredibili ostacoli cui si era trovato di fronte nei panni di pubblico accusatore al processo di Chateau Bois avevano trovato una meschina e sconcertante spiegazione: troppi erano stati i testimoni a discarico pronti a spergiurare sulla lealtà del marchese alla Nazione, tutti bravi patrioti, tutti leali giacobini. . . soltanto davanti alla prova inoppugnabile delle missive autografe scritte dall’imputato allo stato maggiore prussiano, i giudici si erano decisi a pronunciare la condanna.

Gustave Guy, dunque, non aveva esitato a manovrare i suoi uomini, a manipolarli perché, fidandosi ciecamente della sua parola, deponessero il falso a loro insaputa.

Lo aveva creduto integerrimo, mentre era anche lui un corrotto, come Hérault, come Fabre, come Danton, come tanti altri, fu costretto ad ammettere con amarezza il commissario, prima di rammentare la lunga malattia della moglie del segretario del club dei giacobini, e le cure costosissime cui veniva sottoposta. Spinti dalla disperazione, anche i migliori arrivano a vendersi e così aveva fatto Guy, accettando di usare tutto il suo peso politico per chiedere l’assoluzione di un traditore della patria. Qualcosa, però, era andato storto nei suoi piani, grazie alle lettere che dimostravano senza ombra di dubbio la colpevolezza del marchese. . .

«Il giorno della sentenza si presentarono tre giovani» continuava intanto il secondino. La solita combriccola, Fabien, Evreux e Kornaszewski, si disse il commissario.

«Soltanto uno entrò in cella, ma il prigioniero cominciò ad inveirgli contro, saltandogli al collo come se volesse strangolarlo.»

Perché mai Fabien era stato respinto dal padre, al quale intendeva porgere l’estremo saluto? si chiese Verneuil.

L'erede e l’intendente del castello, fantasmi tornati da un tempo che credeva finito per sempre. Ambedue alla Bicétre, ambedue dall’uomo che lui stesso aveva fatto condannare, riflette turbato.

Ma chi era veramente Etienne Verneuil per l'assassino? L’inquirente, l’investigatore, il commissario della Sicurezza Generale che stava dandogli una caccia spietata oppure l’uomo nato trentadue anni prima in una capanna tra le querce di Chateau Bois?

E quanto tempo sarebbe trascorso prima che il “Boia”, che si arrogava il diritto di giudicare i giudici, riuscisse a costringerlo alla sbarra come principale imputato del suo personalissimo processo?

21 SETTEMBRE 1793

Rue du Roule, sezione République Se la verità era così dolorosa, non c'era da stupirsi che in tanti si cullassero in facili menzogne, pensava il commissario il giorno dopo, dirigendosi all’alloggio delle due operaie del bottonificio Parisot cui si doveva la scoperta della testa di Guy.

Gli intrighi del segretario gli avevano lasciato l'amaro in bocca e ancora di più lo aveva afflitto comprendere che una delle due ragazze era certamente implicata nell’omicidio. Fu quindi con il cuore pesante che scese dalla carrozza pubblica poco dopo il crocicchio dell’Étoile, per raggiungere a piedi il sobborgo.

Prima che le grandi famiglie cominciassero a edificarvi i loro lussuosi palazzi, il quartiere del Roule era ancora un villaggio a prati e coltivi, punteggiato da casolari con il tetto di paglia. Poi, in meno di cinquantanni, l'altura dell’Étoile era stata rasa al suolo e la terra di riporto usata per trasformare la via delle Tuileries nel corso che ora tutti chiamavano Champs-Elysées, in ricordo degli antichi paradisi pagani.

Più a nord, però, la luminosa Parigi mostrava un altro volto, quello della miseria: attorno alle fabbriche si abbarbicavano tuguri e catapecchie, divisi da cortili striminziti in cui ruspavano bande di bambini smunti e cenciosi.

L'edificio di Francine e Léonie era tra i più malmessi: giunto in rue de Courcelles, il commissario salì i gradini della ci-devant parrocchiale di Saint-Philippe per osservarlo di lontano, certo ormai che una delle due ragazze fosse complice dell’assassino.

Quando bussò al portone fradicio, due occhi guardinghi lo fissarono da un piccolo pertugio.

«Altolà, cittadino! Sono la Sentinella della Patria della sezione République, incaricata di prevenire eventuali complotti controrivoluzionari in questo fabbricato» esclamò la zelante guardiana e, non appena Verneuil si fu qualificato, prese a snocciolargli una per una le denunce depositate negli ultimi giorni.

«La cittadina Casnarol, moglie del ciabattino, ha notato mosse sospette in un deposito di Beni Nazionali; il cittadino Noireaux, arrotino, denuncia le opinioni antigovernative del suo pigionante; la cittadina Marzellot, merlettaia, è stata udita lamentarsi del nuovo corso, che le avrebbe fatto perdere i migliori clienti. . .» Verneuil s'impose di non interromperla, deplorando l’entusiasmo delatorio dei suoi compatrioti, che obbligava il Tribunale a indagare su ogni singola denuncia firmata; «I coniugi Bachelier, abitanti di questo stabile, hanno visto uno sconosciuto con i capelli legati sulla nuca e una giubba scarlatta salire con aria furtiva all’ultimo piano. . .»

«Quando?» la interruppe Verneuil.

«La settimana scorsa.»

«Bene, benissimo cittadina!» si sentì in obbligo di lodarla Verneuil; poi, temendo che la donna avesse ancora un lungo elenco di mosse misteriose da riferirgli, provvide a occuparne altrimenti le straripanti energie. «In considerazione del tuo zelo, ti incarico seduta stante della raccolta di generi di prima necessità per l'esercito. Le donne della sezione Montreuil hanno cucito cinquantasette camicie per i soldati, assumendo anche l’iniziativa di una colletta patriottica che ha dato ottimi frutti. Vedi di uguagliarla!» inventò lì per lì il commissario e, non appena libero, salì i gradini a quattro a quattro.

«Come sarebbe a dire scomparsa?» scolorò poco dopo, guardandosi attorno nella soffitta come se Francine avesse potuto nascondersi nelle crepe dei muri.

Léonie alzò le spalle: il giorno dopo la macabra scoperta, lei e l'amica avevano avuto un diverbio; da allora non si era più vista, né a casa né al lavoro, e tutti avevano dato per certo che se ne fosse andata con l’amante, perché mancavano anche i suoi vestiti.

«Che ingrata, senza di me non avrebbe nemmeno trovato un buco in cui dormire!» fece Léonie risentita.

«Sei certa che non ci sia più niente di suo?» domandò di rimando Verneuil. Non si svanisce nel nulla senza lasciare tracce, a meno di non esservi costretti, pensava. Quindi, dopo avere ispezionato la trave del tetto, il pagliericcio, lo sgabello traballante e lo specchio rotto, si fermò davanti a una cassa di legno.

«Che cosa tieni lì dentro?»

«La mia gonna di ricambio, il corsetto, lo scialle, le cuffie e un paio di fazzoletti.»

«Apri!» ingiunse alla ragazza, che obbedì sbuffando.

«Gli abiti di Francine erano proprio qui, accanto ai miei!» disse lei, affondando le dita nelle stoffe, per ritrarle subito, stupita: nell'indice le si era impigliata una catenina d’argento cui mancavano alcune maglie.

«Era l'unico ricordo di sua madre; Francine non sarebbe mai partita senza portarla con sé!» esclamò tremando come una foglia. «Oddio, l’hanno rapita! Aveva paura e io non le ho dato retta, non l’ho ascoltata, credevo che vaneggiasse!»

«Che cosa sai del giovanotto che frequentava?» chiese brusco Verneuil.

«Non ha mai voluto farmelo conoscere, mi chiedevo il perché di tanto mistero, tra ragazze su certe cose ci si confida. Io morivo di curiosità e, lo confesso, cercavo spesso di spiarla dall'abbaino, ma lei stava attenta, non voleva scoprirsi. Soltanto una volta sono riuscita a coglierla sul fatto mentre si presentava all’appuntamento, ma ad attenderla c’erano due uomini, non uno solo. Li ho visti di spalle, erano entrambi giovani, entrambi piuttosto alti, tuttavia, non so spiegarti perché, ho avuto l’impressione che l’amante fosse quello vestito di rosso.»

«Descrivimeli!»

«Erano troppo lontani» scosse la testa la ragazza e per quanto il commissario insistesse, non gli riuscì di estorcerle altro.

Superata la diffidenza iniziale, tuttavia, divenne meno circospetto nei confronti della franca Léonie, le cui deposizioni si erano rivelate sempre puntuali e attendibili. Ben più incerte erano invece quelle rilasciate dalla sua compagna: del medico con la voglia in fronte tanto accuratamente descritto non si era trovata alcuna traccia e, da quando Pinel aveva escluso che si trattasse di un alienista, Verneuil aveva cominciato seriamente a dubitare della sua esistenza.

Era stata senza dubbio Francine, indotta dall'amante misterioso, a nascondere la testa di Guy nel paniere, si convinse infine. Il turbamento mostrato dalla ragazza al momento della macabra scoperta, però, gli era parso autentico e così la sua paura: Francine era rimasta esterrefatta, come se avesse capito soltanto in quel momento in che cosa consisteva esattamente l’oggetto che aveva trasferito nel parco. L’assassino, dunque, non l’aveva avvertita, così come non aveva messo in conto che, a causa del provvido incespicare di Léonie, la testa sarebbe stata rinvenuta troppo presto, prima ancora che la sua complice più o meno volontaria avesse lasciato il parco. . .

Francine la campagnola, Francine l'ingenua, Francine l’innamorata, incapace di negare un favore all’uomo che la lusingava con speranze e promesse. Francine sparita nel nulla. Ma il perfido amante che l’aveva compromessa in un delitto gravissimo era veramente il “Boia di Parigi”? dubitò il commissario, pensando al secondo uomo scorto da Léonie dall’alto della soffitta.

«Non puoi restare qui, verrai a casa mia!» decise: se la ragazza era l'unica a conoscere l’assassino, aveva bisogno di protezione; se invece era in qualche modo implicata nel crimine, occorreva tenerla sotto costante controllo.

«Neanche per sogno, devo presentarmi tutti i giorni al bottonificio, per non perdere il mio salario!» protestò lei.

«Ti pagherò per rammendarmi gli abiti: la mia governante non ha più gli occhi buoni e comunque non le è mai piaciuto cucire» disse Verneuil e, senza più sentir ragione, la spinse riluttante giù per le scale.

All’uscita, lo aspettava uno spettacolo inatteso. In pochi minuti, davanti alla porta si era formata una lunga coda: vecchi, bambini, qualche damigella parcamente elegante e un paio di borghesi bene in carne lo aspettavano in mezzo a pezzenti, popolane stracciate, storpi, mutilati, vecchie decrepite che si trascinavano dietro uno sciame di ragazzini macilenti. Davanti a tutti stazionava con aria soddisfatta la Sentinella della Patria.

Quando il mendicante in prima fila indicò un soldino di rame, il commissario si tastò automaticamente in tasca, alla ricerca di uno spicciolo da dargli in elemosina.

Grande fu quindi la sua sorpresa quando l’accattone gli mise invece in mano la propria moneta.

«Per l’armata repubblicana, che mostri di che pasta sono fatti i francesi!»

«Per i nostri uomini al fronte!» aggiunse una commerciante di stoffa, consegnandogli un bel po’ di assegnati.

«Sono vedova e ho poco da dare» si scusò una vecchia male in arnese, traendo la sua piccola offerta da una borsa di felpa rattoppata.

«Le mie scarpe» fece un manovale togliendosi le calzature consunte. «Io posso farne a meno, i soldati no!»

«Tiratore scelto Larousse» si presentò un giovanotto che arrancava sulle stampelle, la fronte fasciata da una larga benda. «Ho perso gli occhi e una gamba a Valmy, ma prendete pure tutto ciò che possiedo, sono certo che qualche patriota sarà disposto a dividere con me la sua zuppa!»

«Vieni da me!» lo invitò subito una elegante tessutala e in breve la piccola folla prese a disputarsi il reduce cieco.

Verneuil non si vergognava facilmente, ma quella volta, con la mano ancora in tasca alla ricerca dell’elemosina, sentì il rossore salirgli al viso.

Un popolo di eroi, pensò, ricacciando indietro le lacrime di commozione che gli velavano gli occhi. No: un popolo di cittadini, si corresse immediatamente.

«La conoscevo, è ovvio. Ho il compito di tener d'occhio tutti gli inquilini!» riferiva poco dopo la Sentinella della Patria, alla quale il commissario aveva fornito una descrizione dettagliata della scomparsa Francine. «L’ultima volta che l’ho vista stava acquistando un nastro dal merciaio ambulante e, siccome si trattava di una passamaneria piuttosto costosa, le ho chiesto dove aveva trovato i soldi per comprarla. Intendiamoci, non che a me piaccia impicciarmi degli affari altrui controllare questi particolari fa parte dei miei doveri, la sezione République si aspetta che io vigili costantemente. Lei si è messa a ridere, e mi ha spiegato con molto orgoglio che era un regalo del suo promesso, certo Rèmi!»

Ben sapendo quanto è facile perdere il controllo, non appena si allentano le difese, Verneuil non si stupì che Francine si fosse lasciata scappare con un’estranea ciò che non aveva osato confidare alla sua migliore amica.

Rèmi, si ripetè pensoso: lo stesso nome del valletto di casa Kornaszewski, quello che aveva infastidito Agnès. Bello, ardito, abile con le donne, aveva raccontato la piccola novizia: esattamente il tipo che avrebbe potuto far perdere la testa a una contadinella timida e ingenua.

Malgrado tutto, la visita al sobborgo di Roule non era stata improduttiva, si compiacque il commissario: adesso aveva un nome e una possibile testimone oculare. E dopo la colletta, si sentiva anche il cuore più leggero.

1° VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (22 SETTEMBRE 1793)

Rue Saint-Antoine, sezione Arsemi Quel giorno era speciale, pensò il sanculotto Lazare Baladier buttandosi giù dal letto. Secondo l'osservatorio di Parigi, infatti, alle ore 3, 7 minuti e 19 secondi del pomeriggio, il sole era entrato nell’equinozio di autunno: poiché esattamente dodici mesi prima era stata proclamata la Repubblica, quella data avrebbe segnato d’ora in avanti l’inizio dell’anno. Anche se l’approvazione del nuovo calendario era prevista soltanto di lì a poco, Baladier aveva già imparato a memoria i nuovi nomi dei mesi inventati da Fabre, che inneggiavano alla natura: vendemmiaio, brumaio, frimaio; nevoso, piovoso, ventoso; germinale, floreale, prariale; messidoro, termidoro, fruttidoro.

L'alba che rischiarava appena Parigi era quindi quella del 1° vendemmiaio dell’anno II, pensò con soddisfazione il sanculotto, indossando il farsetto di lana e le braghe lunghe con i colori della Comune, prima di avviarsi per strada con l’inesauribile energia di cui dava prova da quando aveva assunto il coordinamento delle sezioni politiche di quartiere. Baladier, infatti, non era avvezzo a sprecare tempo: per il sonno, gli bastavano sei ore al giorno e le dormiva di sasso, come chi non ha nulla da rimproverarsi. Altre cinque le dedicava alla sua botteguccia di carpentiere, non di più, perché ormai campava di piccole riparazioni; le rimanenti tredici erano votate interamente al servizio della Nazione.

Stava appunto lavorando a beneficio della Repubblica quando, lasciata la Rive Gauche, attraversò l’Ile de la Cité per poi procedere di buona lena in direzione di rue Antoine - Lazare non dimenticava mai di omettere il “Saint” -, in pieno Marais. Là, secondo una denuncia anonima cui le autorità non potevano dar corso, quella mattina i papisti intendevano recuperare alcuni preziosi ex voto murati in una parete della ci-devant cappella della Visitazione, che, dopo essere stata esposta a vari saccheggi, fungeva ora da sede di un paio di circoli repubblicani.

Lazare gongolava: se la soffiata si fosse rivelata attendibile, i sequestri agli enti ecclesiastici da lui effettuati negli ultimi mesi sarebbero saliti a diciassette, un primato di cui lui andava molto fiero.

Tra il cittadino Baladier e la Chiesa, infatti, era guerra aperta fin dalla nascita: sua madre, sedotta da un confessore dopo la monacazione coatta, l'aveva messo al mondo maledicendo i preti e lui era cresciuto nella convinzione che ipocrisia, malafede e inganno prosperassero sotto ogni saio e ogni tonaca. Ai suoi occhi, Roma era il nemico più subdolo della Rivoluzione, da combattere senza tregua, colpendolo innanzitutto in ciò cui teneva di più, ovvero il portafoglio: a questo serviva appunto la sua indefessa ricerca di teche, pissidi e croci da confiscare a beneficio del popolo per recuperarne l’oro di cui in Francia c’era tanta carenza.

Perciò quel mattino, anziché oziare nel suo letto, si appostò davanti alla basilica preparandosi a una lunga attesa: avrebbe preso i bigotti con le mani nel sacco, pregustava, tenendo d’occhio contemporaneamente i due ingressi davanti ai quali presto sarebbero passate le guardie di ronda.

Era tanto assorto nella sorveglianza che non pensò neppure di guardarsi alle spalle. Colto di sorpresa, cadde riverso a terra senza alcun lamento.

 

Obitorio del Grand-Chàtelet, sezione Lombard Etienne stava per raggiungere Thomas all'obitorio, quando apprese la ferale notizia dagli strilloni che la urlavano all’angolo di ogni strada: l’avanguardia di Kléber e Marceau, inviata a contrattaccare in Vandea, aveva subito un’altra bruciante sconfitta.

«Hai sentito? Le prendiamo ancora da quei selvaggi!» brontolò Thomas andandogli incontro in rue Pied-de-Bosuf. «Si nascondono sottoterra come belve selvatiche, e ne escono soltanto per fare a pezzi i nostri granatieri: li sventrano, li squartano, li sbudellano, tagliano loro mani, piedi e anche il resto!»

La Vandea era terra di atrocità da ambo le parti, meditò mesto Verneuil. Il Maine, la Loire e il Poitou erano ormai immersi in un bagno di sangue repubblicano, al quale il Comitato reagiva con altrettanta ferocia a colpi di baionetta e di ghigliottina.

Pochi orrori al mondo uguagliano la guerra civile, un massacro senza esclusione di colpi in cui gli stessi che un tempo avevano lavorato fianco a fianco, condividendo vino e cibarie, si uccidono l'un l’altro con una barbarie disumana: chi faceva ritorno dal fronte interno raccontava impallidendo di cataste di cadaveri, di tremende mutilazioni, di civili gettati nei fiumi, di innocenti bruciati vivi.

Presto, molto presto, le province ribelli si sarebbero arrese e Parigi avrebbe di nuovo visto sfilare l'armata trionfante, come l’anno prima dopo la vittoria di Valmy, cercò di convincersi il commissario. Intanto, però, a Torfou gli insorti avevano vinto. . .

«Che c’è di interessante nel corpo che vuoi farmi vedere?» chiese a Thomas.

«L'hanno trovato in una chiesa sconsacrata oltre il Pont de la Tournelle, nel quartiere dove è stato visto vivo per l’ultima volta il segretario Guy. Ma non si tratta certamente di lui, perché ha la testa bene attaccata al busto!» disse l’altro facendogli strada nel sotterraneo del Grand-Chàtelet.

Superata la camera della tortura - che la Repubblica conservava integra in tutto il suo orrore, a imperituro ricordo della “giustizia” del re - i due scesero nella cripta dove una piccola folla premeva davanti allo spioncino per identificare i corpi che le strade e le acque di Parigi avevano restituito durante la notte. Di tanto in tanto si levava un grido, un pianto, un’esclamazione di sollievo.

La Senna rivoluzionaria vomitava cadaveri con la stessa generosità di quella aristocratica, pensò il commissario mentre toccava con mano quanto fossero distanti dalle segrete della Morgue i grandi eventi della guerra, lontana la lotta politica dai drammi individuali, marginale la tragedia collettiva di fronte agli strazianti dolori dei singoli.

Una popolana si accasciò sotto la finestrella, coprendosi il viso mentre prorompeva in un lungo gemito: «Era giovane, bella, non le mancava niente. Perché l’ha fatto?» .

«Non può trattarsi di mia sorella» negava pervicacemente il borghese benvestito alle sue spalle, dopo aver gettato appena una rapida occhiata al piccolo pertugio. «Sì, le somiglia in maniera impressionante e anche i vestiti sono uguali ai suoi, ma non può essere lei. . .»

«Il cielo sia ringraziato, non c’è!» si rallegrò una coppia di anziani, piangendo di gioia. «Troveremo il nostro Hector sotto qualche ponte, ubriaco fradicio come al solito!»

Verneuil si fece strada con un garbo insolito per il suo carattere spinoso tra i tanti che attendevano ancora con ansia di scrutare dallo spioncino: «Entriamo, di qui non si vede niente» .

Qualche istante più tardi, forti delle loro prerogative, i due investigatori s'immettevano in una spelonca dall’aspetto sinistro, dove su un tavolaccio erano disposte le salme di cui nessuno aveva ancora rivendicato la restituzione. Quella che cercavano era l’ultima.

«È tutto vostro!» indicò la guardia nel tono allegro di chi, vivendo in quotidiano contatto con i cadaveri, ci ha ormai fatto l’abitudine. «A ucciderlo è stato un colpo di pistola, dritto al cuore!»

Il morto, un uomo piacente sui trent'anni, vestiva una lunga giacca rossa simile a una livrea servile da cui fossero stati scuciti gli stemmi; i risvolti del colletto presentavano un fitto ricamo color oro, così come le asole e le tasche, dal cui fondo proveniva l’aroma inconfondibile di un buon tabacco da fiuto. I capelli, neri e lisci, erano annodati sulla nuca e sul rovescio della camicia spiccavano le iniziali R D, imbrattate di sangue secco.

«Credo di sapere a chi siamo davanti» disse Verneuil.

«Non dirmi che abbiamo scoperto il “Boia”!» sperò Thomas.

«Soltanto un complice, presumibilmente l'uomo che si era assunto il compito di nascondere la testa di Guy nel labirinto. In questo caso, però, i cadaveri dovrebbero essere due. . .» rettificò il commissario, impallidendo all’improvviso. «Vieni con me, Thomas, ho un brutto presentimento!»

Pochi istanti più tardi il guardiano confermava le sue più fosche previsioni. Sì, avevano sepolto una giovane ripescata nella Senna, qualche giorno prima e sì, indossava una gonna di flanella a balze, o almeno così gli sembrava, perché di annegati ne vedeva troppi per ricordarseli tutti.

«Abbiamo trovato Francine» disse cupo Verneuil, avviandosi alla porta.

«Ma come, ve ne andate di già?» deplorò il facondo necroforo, cui non sarebbe dispiaciuto indulgere a quelle chiacchiere oziose che il mestiere gli permetteva di rado. «Credevo foste venuti per lo stoccafisso di rue Saint-Antoine. Ce l'hanno appena portato qui le guardie di ronda, dopo averlo raccolto all’ingresso della ci-devant cappella della Visitazione. L’abbiamo messo da parte, tanto nessuno sarebbe in grado di riconoscerlo, senza la testa. . .»

Gridando all’unisono, Etienne e Thomas si precipitarono dietro il garrulo becchino.

Un istante più tardi entravano in una piccola segreta dal soffitto basso, dove, su un catafalco di fortuna, l’orrido foro nero del collo bene in vista, giaceva un busto mutilato da poco, rivestito di un camicione grezzo, un farsetto rattoppato e i pantaloni lunghi striati con i colori rosso e blu della Comune.

«È certamente un sanculotto, uno dei tanti che vestono patriotticamente e calzano il berretto frigio» osservò il commissario.

«Non vedo nessun berretto» aggrottò le sopracciglia l’aiutante.

«Lo credo bene, Thomas: di solito si porta in testa! In compenso c’è qualcosa che sporge dalla tasca delle braghe» ribattè Verneuil, cominciando a perquisire sommariamente il cadavere, o almeno, quel che ne restava.

«Processato, condannato, giustiziato, Jeanne la Pucelle» previde Thomas mentre il commissario estraeva il fatidico biglietto.

«Un momento, c’è anche un secondo foglio. Si tratta di un indirizzo dietro place des Piques: sono pronto a scommettere che corrisponde allo studio del notaio Sauthier!» lesse Verneuil. «E sotto ci sono appuntate alcune sigle. . . Due, Gen, Vig, Mai, Buz, Bar, Car, F.»

«Chissà che cosa vogliono dire?»

«Sembrano lettere, iniziali forse. . .» osservò Etienne, perplesso.

«Lettere, puah! Avrei preferito cogliere in flagrante reato un girondino!» sputò in terra lo sfregiato.

«Che cosa hai detto, mio impagabile amico?» sobbalzò Etienne. «I girondini, certo! Buz potrebbe significare Bu-zot, e Barb Barbaroux: due dei capi della Gironda fuggiti a Caen per fomentare l'insurrezione normanna. Sono certo che il nostro informatissimo abate saprà identificare anche gli altri, ma intanto è urgente controllare chi tra i volontari della Comune manca all’appello!»

«Allora siamo daccapo!»

«Con qualche differenza: prima di tutto stavolta abbiamo il corpo decollato, anziché il capo mozzo. Poi è chiaro che l’assassino andava di fretta: guarda quanto sangue, la mutilazione è certamente avvenuta per strada!»

«Che audacia!» si stupì Thomas, ammirato suo malgrado.

«Potrebbe essere la sua rovina: deve ancora depositare la testa e forse stavolta riusciremo a precederlo!»

«Ma non abbiamo idea di dove intenda metterla. . .»

«Sforzati di ragionare come farebbe un monarchico: qual è il luogo più sacro della Rivoluzione, quello che la evoca maggiormente?»

Il viso dubbioso di Thomas parve illuminarsi all’improvviso. «Rue Saint-Antoine si trova a pochi passi dalla spianata della Bastiglia!» esclamò, in preda a una visibile eccitazione.

«La porterà laggiù, ne sono sicuro» assentì il commissario. «Andiamo, presto!»

 

Place de la Bastille, ci-devant place Saint-Antoine, sezione Arsenal Della fortezza che per secoli aveva rappresentato il simbolo dell’assolutismo monarchico restava ormai ben poco. Dopo il fatidico 14 luglio, infatti, era iniziata immediatamente la demolizione: le macerie, riciclate come materiale edile, sorreggevano ora il Pont National, o erano state vendute ai patrioti più ferventi, che usavano portarne al collo un minuscolo frammento.

Là dove quattro anni prima sorgeva il baluardo della tirannide, c'era ora una fontana, a ricordo degli uomini e delle donne che avevano dato inizio al più grande rivolgimento della storia. Lo spazio alberato tutto attorno era adibito a celebrazioni patriottiche o balli popolari: un pittore di insegne stava infatti abbozzando su un pannello di legno gli annunci delle feste del mese, contornate da figure danzanti e incoccardate, tutte piuttosto storte. Sotto i platani che stavano lentamente tingendosi del giallo autunnale, stazionava un frittellaio infreddolito, gomito a gomito con un venditore di cialde che batteva i piedi per scaldarsi, chiedendosi quando mai sarebbe arrivato qualche cliente. Poco lontano, un ambulante tentava di liberarsi della paccottiglia monarchica comprata a peso dopo i grandi saccheggi di qualche anno prima; gli affari, però, languivano, perché ormai non restavano che pochi avanzi, bràcci di candelieri, rottami di stucchi, frammenti di stemmi, brandelli di cornici, l’ancien regime liquidato per pochi spiccioli, come un qualunque altro vecchiume.

I passanti erano scarsi e le guardie appostate in punti strategici con la consegna di intervenire soltanto dietro un preciso ordine. Tutto era pronto, non restava che attendere, si disse il commissario scalando un residuo cumulo di pietre su cui sventolava il vessillo tricolore.

A un tratto il piede gli scivolò su un masso e, per recuperare l'equilibrio, fu costretto ad appoggiare il tallone all’asta della bandiera.

Sentì lo schiocco di un rametto che si spezzava e, chinandosi a liberare lo stivale incagliato a una massa morbida, avvertì un odore pungente.

Quando, sollevata la suola, scorse il ciuffo di capelli grigi, capì di essere arrivato tardi.

 

Quai de la Maison Commune, ci-devant quai de la Grève, appartamento di Etienne Verneuil, sezione Maison Commune Verneuil e i suoi uomini sedevano alla scrivania dello studio sulla Senna, davanti ai quattro bigliettini di carta fine firmati dalla Pulzella.

«Tre morti in un colpo solo: il sanculotto Baladier, la povera Francine e uno sconosciuto che risponde alle iniziali R D» esclamò il commissario.

«Rèmi Delorme: secondo il libro dei conti, i Kornaszewski anni fa avevano a servizio un valletto di questo nome» precisò du Plessis.

«Non può essere lui il “Boia”: anche senza contare che un cameriere non avrebbe avuto modo di avvicinare uomini ben protetti come Guy e Lussard; era già morto quando è stato commesso l’ultimo delitto!» protestò Thomas.

«È vero. Però sono convinto che si tratti del suo complice, l’assassino di Francine» affermò il commissario.

«La fine di quella infelice sarebbe quindi da mettere in relazione con il caso delle teste tagliate?» sollevò un sopracciglio l’abate, da sempre avvezzo ad analizzare ogni nuova ipotesi con una cautela tanto circospetta da confinare con la diffidenza.

«Ecco secondo me come sono andate le cose» cominciò a esporre Etienne. «Una giovane inesperta, sola nella capitale, s'invaghisce perdutamente di un aitante lacchè, che la seduce con false promesse. Poi il valletto entra al soldo del “Boia”, che in cambio di un lauto compenso gli chiede di recapitare la testa mozzata del segretario Guy nell’orto botanico. Invece di rischiare di persona, lui ricorre all’aiuto della sua innamorata e, fingendo d’incontrarla per caso, le infila un pacco nel paniere, con la consegna di lasciarlo sotto la glortette, avvolto nel tricolore. La ragazza esegue gli ordini, ma quando scopre per puro caso la tremenda verità, viene presa dal panico: ha paura dell’amante, ma teme anche di essere accusata del delitto, così s’inventa il medico con la voglia di vino.»

«Il subdolo valletto conta forse di avere il tempo di imbastire una scusa. . .» intervenne Thomas.

«Francine però non gli crede più, ha già toccato con mano di che stoffa è fatto l'uomo di cui si è incautamente fidata, quindi diventa un pericolo e Rèmi decide di eliminarla: per fingere una fuga d’amore, la costringe a seguirlo fuori dalla soffitta, dalla quale sottrae tutti gli effetti personali, salvo la catenina di cui ignora l’esistenza. Infine si libera di lei gettandola nella Senna. È persuaso di essere ormai al sicuro, ma ignora che il “Boia” ha deciso di riservargli lo stesso trattamento: quando si reca a riscuotere il prezzo dei suoi servigi, infatti, viene pagato con una pallottola nel cuore.»

«Ma l’assassino non gli taglia la testa, perché la decapitazione è un privilegio che riserva ai nemici politici, come Lazare Baladier, rivoluzionario dissipatore di reliquie!» concluse Thomas.

«Che intrigo, sembra di sentire il cantastorie!» approvò Landry, cui piacevano molto le tragiche vicende d’amore e morte.

Du Plessis si mostrò più prudente: «La mia fantasia ha dei limiti, preferisco attenermi ai fatti, ovvero all’elenco trovato in tasca al sanculotto Lazare Baladier: le sigle sembrano indicare alcuni membri del deposto governo della Gironda che, guarda caso, usufruivano tutti dei servizi del notaio Sauthier, il cui indirizzo è annotato sul foglio» .

«Buz e Barb corrispondono a Buzot e Barbaroux; Due, però, è un titolo nobiliare. . .» aggrottò la fronte Verneuil.

«Ma può anche significare Duchastel, il nemico giurato di Marat» lo corresse puntuale l’abate. «Gen sta per Armand Gensonné e Mai per Mainvieille, arrestato a luglio per relazioni illecite con i federalisti marsigliesi. Vig indica probabilmente Vigée, girondino anche lui, un capitano di mare distintosi in giovinezza nella tratta degli schiavi, che ora attende in ceppi il giudizio.»

«Ci troviamo di fronte a un'accolita di personaggi di rilievo, tutti membri della Convenzione o ex ministri, praticamente l’intero quartier generale della regina Coco!» esclamò Thomas, evocando la famosa Madame Roland, anima e ispiratrice del club dei girondini.

«La Roland non c’entra, da giugno si trova in carcere, impegnata a passare alla storia scrivendo le sue memorie» disse François-Xavier, che sotto sotto provava una certa ammirazione per la valorosa nemica che tanto filo da torcere aveva dato ai giacobini.

«Quella maledetta intrigante!» sbottò invece Thomas. «La campagna contro Robespierre è stata opera sua e sempre a lei si deve il furto dei documenti che dimostravano le collusioni del governo della Gironda con la corte. Senza contare l’ultima delle sue scelleratezze, la sollevazione della Normandia. . .»

«Molti dei nomi citati appartengono in effetti ai latitanti fuggiti laggiù» ammise l’abate.

«E probabile che Lazare Baladier, il quale, a detta dei funzionari della Comune, si dilettava di piccole indagini private, avesse scoperto qualcosa che li riguardava, forse un legame con il “Boia”. Probabilmente intendeva denunciarli, oppure ricattarli» azzardò Verneuil.

«Un momento! Non abbiamo ancora finito con le sigle: ci restano Car e F» ricordò du Plessis.

«Caron e Fabre d'Eglantine, ambedue schierati con gli Indulgenti di Danton» concluse senza esitazioni Thomas, che aveva voltato le spalle al celebre tribuno non appena era stato sospettato - ahimè non infondatamente - di aver sottratto duecentomila corone ai fondi dell’erario. «Caron ha avuto certamente il modo di aprire di soppiatto una finestra al primo piano del Louvre, durante lo scontro della sua amichetta con la tessitrice Dandel; anzi, potrebbe avere addirittura provocato ad arte la baruffa, per confondere le acque. Perché non l’abbiamo ancora interrogato?»

«Ci ho già provato due volte, ma in entrambe si è preteso assente, trincerandosi dietro l’appoggio del suo mentore Hérault de Séchelles, potente membro del Comitato di Salute Pubblica» si giustificò Verneuil.

«Sappiamo tutti come il bell'Hérault darebbe un braccio, o anche tutti e due, per levarsi di torno Robespierre e i suoi! Non dimentichiamo che è stato prima monarchico e poi girondino e ora si affanna a sbandierare ai quattro venti la sua fede montagnarda, mentre tutti sanno che fino a poco tempo fa era l’orecchio di Maria Antonietta alla Convenzione. . . Chi lavora per un simile voltagabbana, può macchiarsi di qualunque delitto!» commentò Thomas. «E che dire di Fabre? Oltre all’imbroglio della Compagnia delle Indie, corre voce che abbia lucrato sulle forniture di armi. Di certo Baladier, con il suo zelo sanculotto, aveva scoperto qualcosa di compromettente al riguardo.»

Verneuil taceva assorto: F era l’iniziale di Fabre, ma anche di Fabien. Il debole e irresoluto Fabien, che aveva visto in pochi anni crollare tutte le aspettative legate al suo illustre retaggio. Era pensabile che la sventura lo avesse temprato al punto da trasformarlo in imprendibile vendicatore?

«Mettiamo anche in conto che il “Boia” potrebbe aver scelto come esecutore il valletto Rèmi Delorme proprio perché non lo riteneva nuovo al tradimento» intervenne l'abate. «Rèmi, infatti, aveva già servito presso il marchese di Chateau Bois, che venne condannato in base ad alcuni messaggi compromettenti scritti di suo pugno all’alto comando prussiano, pervenuti non si sa come in mano all’accusa: lo ricorderete certamente, cittadino commissario, visto che siete stato voi a esibirli in tribunale come prove.»

Le lettere del marchese, impallidì Etienne, con un tuffo al cuore: non aveva mai saputo chi gliele avesse spedite. . .

«Il vecchio fu trucidato in carcere durante gli eccidi dello scorso settembre, mentre il figlio raggiungeva il suolo inglese sfuggendo miracolosamente alla cattura.» Non era stato un miracolo a salvarlo, ma il suo provvido avvertimento, rettificò Etienne tra sé e sé, deplorando quel gesto stupidamente generoso, di cui presto avrebbe avuto ragione di pentirsi. «Il ragazzo si chiamava Lucien, se ben ricordo. . .»

«Fabien» lo corresse automaticamente il commissario.

«Fabien de Chateau Bois» ripetè l’altro, compiaciuto del suo abile tranello. «Ho un conoscente nel corpo diplomatico di Londra cui rivolgermi per ottenere informazioni. Si tratta del ci-devant vescovo di Talleyrand: di recente è poco in auge, ma con le sue risorse non ci metterà molto a tornare in vetta!»

«Bene, contattatelo!» annuì Etienne con voce spenta.

Mentre gli ospiti si accomiatavano, Pàquerette entrò nello studio, determinata a capire se il soggiorno dell'intrusa Léonie si sarebbe protratto a lungo. Per prudenza, aveva sistemato la ragazza nella camera sotto i tetti, un tempo riservata alla servitù, in modo da non facilitare eventuali andirivieni: dieci anni di coabitazione avevano fatto nascere in lei un’istintiva diffidenza nei confronti delle donne che avvicinavano Etienne, tutte sventate, tutte femmine prive di decoro, che mai e poi mai sarebbero potute diventare buone mogli.

I suoi timori trovarono conferma poco dopo, quando uno scampanellio nervoso annunciò un’altra sciacquetta, ancora più eccentrica e sfrontata della prima.

«L'ho trovato!» Caroline Mathieu si precipitò nella stanza. «Era in un vecchio numero di “L’Ami du Roi”, sepolto in fondo a un baule. Alcune pagine sono state strappate, ma nell’indice si legge ancora il titolo dell’articolo: L’albero della libertà, ovvero I falsi miti della coreografia rivoluzionaria!»

«Dunque è in casa d'Orval che l’assassino si è procurato di che avvolgere il capo del segretario Guy! Complimenti, cittadina Mathieu, hai svolto un ottimo lavoro!» esclamò il commissario, ma, per quanto mettesse nel complimento tutta la riconoscenza di cui era capace, Caroline, che aveva passato la notte in bianco per portare a termine il suo compito, non si sentì debitamente apprezzata.

Alzando le spalle, si avviò quindi alla porta senza salutare, né Pàquerette si premurò di accompagnarla.

Quando stava già per varcare la soglia, Léonie comparve in cima alla scala.

«Oh, scusatemi tanto, cittadina! State tranquilla, non è affatto come pensate. . .» balbettò, scambiando la ragazza per un’amichetta di Etienne. «Il commissario mi ospita a casa sua per difendermi dal “Boia”: è convinto che io sia in grado di riconoscerlo!»

«Davvero, mia cara?» le sorrise Caroline, drizzando le orecchie: dunque, il furbastro nascondeva una testimone.

Ma una testimone significava una storia - e che storia, se riguardava il “Boia di Parigi”! - ovvero pane e companatico per i suoi denti affilati di giornalista. «Su, raccontami, ti farà bene!» esortò quindi e, attenta a non farsi vedere dalla governante, corse a raggiungere Léonie nella stanza sotto i tetti.

3 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (24 SETTEMBRE 1793)

Jardin des Plantes, ci-devant Jardins du Roi, sezione Sans-culottes Ai bordi del labirinto del Jardin des Plantes, il giardiniere rimirò compiaciuto l’olezzante opera appena compiuta di concerto con un commissario speciale della Sicurezza.

«Viviamo proprio in un altro mondo!» esclamò senza celare una velata soddisfazione. «Sapete che ieri hanno arrestato la Du Barry? Quando ero bambino, quell’arrogante sgualdrinella faceva il bello e cattivo tempo e adesso. . .»

Adesso l'ex favorita di Luigi XV avrebbe passato guai grossi, pensò Verneuil mentre posava la pala accanto al cumulo di letame ammassato poco prima: dopo essere stata, in gioventù, abbastanza potente da scegliere i ministri grazie alla compiacenza di un re dissoluto, Madame Du Barry aveva commesso l’errore di lasciare il suo sicuro esilio per fare ritorno in una città che trattava le teste coronate a suon di ghigliottina. Una mossa imprudente, ma che altro ci si poteva aspettare da una sciagurata che aveva suggerito di mangiare brioches ai miserabili stremati dalla mancanza di pane? L’infelice battuta era passata alla storia, e il popolo indignato aveva finito per attribuirla all’odiata Maria Antonietta, a riprova del suo sovrano disprezzo per il popolo su cui era stata chiamata a regnare. Ora, fosse o meno la vecchia favorita una vera agente monarchica - e Verneuil ne dubitava -, quella stupida frase, unita al suo sventato andirivieni dal suolo inglese, le avrebbe certamente fruttato un’accusa di cospirazione. . .

«Grazie per l'aiuto, siete stato in gamba!» disse grato il giardiniere, la cui disponibilità era sensibilmente lievitata da quando, vedendolo in difficoltà con la composta, il commissario gli si era messo al fianco con il piglio sicuro di chi ha già lavorato la terra. La Rivoluzione non doveva essere poi tanto male, se i pezzi grossi sapevano dar di braccia e non si turavano il naso davanti a un bel mucchio di letame maturo, pensava il brav’uomo, proponendosi di mettere piede, per la prima volta in vita sua, nella sezione politica del suo quartiere. «Rifarò subito il giro dell’intero parco, alla ricerca del professore. Se intanto voi volete provare di nuovo all’interno del palazzo. . .»

L'altro annuì, senza soverchie speranze: quel giorno, Lamarck sembrava davvero introvabile, eppure in molti l’avevano visto entrare al museo. . .

 

Musée d'Histoire Naturelle, Jardin des Plantes, sezione Sans-culottes Dopo aver percorso per l’ennesima volta in lungo e in largo i corridoi del primo piano, il commissario stava per arrendersi quando sentì una voce chiamarlo sommessamente dall’interno di un magazzino buio, in cui erano accatastati reperti di ogni genere, tutti dall’aria poco rassicurante. Entrando, si trovò di fronte un cumulo di ossa, tante come se ne erano potute trovare solo nel Cimitière des Saints-Innocents, prima che scoppiasse, vomitando i suoi orribili resti su mezza Parigi.

«Pss. . . sono qui, cittadino, ma fa’ silenzio, mi raccomando!»

Tra la tibia di un cavallo e il cranio zannuto di un enorme mastodonte, comparve un ciuffo di capelli; poco dopo gli occhi arguti dello scienziato facevano capolino dalle orbite vuote del teschio di un grosso felino predatore.

«Guarda che meraviglia, queste ossa: le più antiche sono ormai completamente pietrificate!»

«Splendide!» commentò il commissario con blando entusiasmo.

«I fossili sono impronte di mondi scomparsi, veri e propri indizi, come quelli che raccogli tu sul luogo del delitto. . . ma sta' zitto, per carità, sono qui di straforo! I miei colleghi, gelosi come sono delle loro prerogative, non apprezzano che un semplice docente di Insetti e Vermi vada a frugare tra i resti dei loro preziosi mammiferi. Io invece ho bisogno di comparare a largo raggio le anatomie delle varie specie per venire a capo delle loro origini. Tu non mi hai visto prendere niente, è inteso?» ordinò brandendo quella che aveva tutta l’aria di essere una grossa vertebra. «Ecco, andiamo nel mio studio, ma prima lasciami mettere al sicuro il mio pezzo di giraffa. . .» borbottò rimestando in un mucchio di ossa calcinate. «Ti sei mai chiesto perché abbiano il collo tanto lungo?»

«Veramente no» confessò Verneuil, ammettendo i gravi limiti della sua curiosità.

«Nel loro ambiente la competizione per il cibo è aspra. Quando l'erba della savana è secca, chi riesce ad arrivare alle foglie di acacia più in alto, ha una probabilità maggiore di sopravvivere» cominciò a spiegare Lamarck. «Sto lavorando a un’ipotesi affascinante: mi convinco ogni giorno di più che gli animali vadano trasformandosi nel tempo, per ovviare ai loro bisogni. È una teoria che intendo sviluppare in futuro, non troppo ben vista dagli altri naturalisti a dire il vero, soprattutto da Cuvier, un retrivo che, pur avendo avuto prova dell’estinzione di tanti antichi esseri viventi, insiste ancora nel predicare l’immutabilità delle specie!»

«Certo, una miopia del genere è scandalosa. . .» tergiversò Etienne, poi temendo che lo scienziato si lanciasse in una delle sue lunghe dissertazioni naturalistiche, aggiunse subito: «Hai scoperto qualcosa sulla mia seconda penna?» .

«Si tratta di una remigante, ovvero una di quelle penne lunghe e robuste che si aprono a ventaglio sul margine posteriore delle ali dei volatili. Apparteneva a un fringuello che da un bel pezzo ha smesso di cantare. Per saperne di più, faresti meglio a chiedere a un impagliatore.»

Che ci faceva la piuma di un uccello impagliato sotto l'albero della libertà di place de l’Indivisibilité? si chiese Verneuil perplesso. Era stato in voga, fino a poco tempo prima, imbalsamare le prede della caccia e i pennuti dal piumaggio più spettacolare, per esibirli come trofei. Ma tali cimeli - invero piuttosto ripugnanti - venivano di solito esposti all’interno delle case, non nelle pubbliche vie. A meno che. . .

In un lampo, Etienne si rivide davanti il ritratto della baronessa d'Orval, carica dei suoi pesanti orpelli: pizzi sul corsetto, gioie al collo, anelli alle dita e in testa la monumentale parrucca bianca, sormontata da fiori e uccelli. Non aveva detto du Plessis che alcune di quelle decorazioni di dubbio gusto venivano ora riciclate come fermacapelli? Che la baronessa avesse indossato una simile acconciatura al momento dell’omicidio? Ma in questo caso, perché dell’uccellino non si era trovata traccia, come se fosse volato via vivo e vegeto, lasciandosi dietro una sola penna?

«E l’esame della terza testa?» continuò il commissario.

«L’assassino evidentemente ama collezionare souvenirs, perché anche stavolta si è portato via qualcosa: i lobi delle orecchie erano lacerati.»

«Probabilmente per strapparne gli orecchini!» Come l’anello di Lussard, riflette Verneuil e certo avrebbe chiesto allo scienziato maggiori lumi se non lo avesse visto già immerso nel lavoro.

«Passami una clavicola, per favore» chiese al commissario, allungando la mano senza nemmeno sollevare lo sguardo, mentre il commissario si sforzava di obbedire con prontezza.

«Ma no, quella è una scapola! Cerca laggiù, dietro alla mia raccolta di carapaci. . .»

Etienne, che non era troppo ferrato in anatomia, accumulò sulla scrivania tutte le ossa che vedeva in giro, ci aggiunse la mandibola di uno squalo con tanto di denti, puntellò il tutto con un femore calcinato e impreziosì la decorazione con un paio di molari di dimensioni mostruose.

«Mi manca un’altra vertebra. Che cosa non darei per una vertebra occipitale!» vagheggiava ancora Lamarck quando il commissario uscì in silenzio chiudendosi la porta alle spalle.

 

Quai de la Maison Commune, ci-devant quai de la Grève, appartamento di Etienne Verneuil, sezione Maison Commune Un’ora dopo Etienne varcava la soglia di casa.

«Che c'è di buono oggi?» chiese a Pàquerette, che arrivava sbuffando con in mano un tegame in cui galleggiava un sugo dall’aria stravagante.

«Patate. Sono schifezze che una volta si davano ai maiali, ma da quando manca la farina, le spacciano per leccornie, facendole pagare di conseguenza!»

Verneuil assaggiò il nuovo piatto con una certa circospezione. Quei tuberi non erano poi così malvagi, considerato che avevano il pregio di crescere anche nei climi rigidi, giudicò spazzando via la nuova pietanza con l'appetito vorace di chi è cresciuto all’aria aperta.

Poco dopo sedeva al tavolo, davanti a una specie di schema. Avanzare alla cieca come aveva fatto fino a quel momento sarebbe servito a poco, doveva orizzontarsi tra le varie congetture, scegliere la più probabile e mirare a dimostrarla. . .

”Pista monarchica.

Indizi: il rituale della decapitazione, che riecheggia la ghigliottina; il messaggio sui biglietti, che pare evocare un possibile giustiziere; la firma 'Jeanne la Pucelle’, il foglio del giornale ’L’Ami du Roi’.

Possibili moventi: l’odio controrivoluzionario; la vendetta personale; una congiura per salvare la regina o il delfino.

Sospetti: Fabien.

Pista girondina.

Indizi: l’appunto cucito nella tasca di Baladier, che denuncia legami con i secessionisti normanni; la parentela del notaio Sauthier con un esponente girondino morto in carcere.

Possibili moventi: la restaurazione del governo della Gironda e i lucrosi affari che ne sarebbero conseguiti.

Sospetti: Fabrice Sauthier.

Pista giacobina.

Indizi: la piuma del pennacchio patriottico, gli affari sporchi di Lussard, la visita di Guy alla Bicétre e gli ultimi due nomi della lista di Baladier.

Personaggi coinvolti: Hérault de Séchelles, Fabre d’Eglantine.

Possibili-moventi: la lotta per il potere all'interno della Montagna; la salvezza della regina, che inglesi ed emigrati sono pronti a pagare a peso d’oro; un complotto con la deposta fazione della Gironda da parte di alcuni membri poco affidabili del Comitato di Salute Pubblica.

Sospetti: Nicolas Caron. ” Non appena finito di scrivere, il commissario ci ripensò e vicino al nome del passacarte di Hérault aggiunse un punto interrogativo.

Perché proprio Caron? Soltanto per la sua presenza al Louvre? In quel caso, si sarebbe dovuto sospettare anche di altri esponenti montagnardi, compresi David e Pierre Blas che entrambi si erano recati al museo nei giorni precedenti il macabro ritrovamento, quando il busto del Condé era già stato riposto nello sgabuzzino. E poi, dov'erano i corpi di Lussard e Guy e la mannaia con cui l’assassino decapitava le sue vittime? E a che scopo il “Boia” si era appropriato dell’anello del deputato e degli orecchini della baronessa? si chiese Etienne gettando da parte l’inutile appunto.

In quella, Pàquerette fece irruzione nello studio senza bussare, la bocca sempre più storta e l'umore sempre più nero: «Alla porta ce n’è un’altra: sciatta, sgarbata e brutta come il peccato! Mi domando dove tu vada a cercarle. . .» .

«Cittadino commissario, fai qualcosa, ti supplico!» la tipografa Zéphirin la seguì a ruota. «Hanno portato Agnès alla Salpètrière! Sono certa che a denunciarla è stato Lucas, il mio vecchio apprendista, che avevo licenziato per scarso rendimento. Deve aver capito che si trattava di una ci-devant o addirittura di una suora. . .»

«Calmati, cittadina: ogni giorno vengono vagliati centinaia di arresti, ma la stragrande maggioranza degli imputati esce assolta dal giudizio.»

«Non che dubiti del Tribunale Rivoluzionario, ma tu sai bene come vanno certe cose. . .» insistette affranta la tipografa.

Sì, Etienne lo sapeva. Troppi processi, troppa fretta, troppa paura: con i prussiani alle porte e Parigi che brulicava di spie monarchiche, l'accusa non andava troppo per il sottile, per cui se il maligno Lucas avesse deposto di aver visto Agnès stampare materiale proibito, la ragazza era perduta. C’era un unico modo per metterla al sicuro: fare sì che non arrivasse mai al giudizio.

«Non ti prometto niente, ma cercherò di tirarla fuori» si lasciò sfuggire il commissario, chiedendosi con quale pretesto contattare il magistrato.

Pochi minuti dopo du Plessis gliene forniva uno di prim’ordine.

«Un'urgenza, cittadino!» disse, entrando con il fiato grosso. «Ero in tribunale in cerca di notizie sui parenti dei giustiziati, quando ho sentito che l’esecuzione di Axel Feld, l’unico ancora vivo tra i cospiratori del Temple caduti in mano nostra, è fissata per domattina. All’ultimo momento, il prussiano si è offerto di rivelare tutto ciò che sa della congiura, in cambio della vita e di un salvacondotto utile a passare il confine!»

«Magnifico, François-Xavier, non ci resta che raccogliere la deposizione!»

«È ciò che intendevo fare, ma, in assenza del pubblico accusatore Fouquier-Tinville, il sostituto presidente del Tribunale Rivoluzionario Jean-Baptiste Coffinhal non mi ha consentito di avvicinarmi al prigioniero!»

«Com'è possibile? Dev’esserci certamente un equivoco: vado immediatamente in tribunale!»

«Il giudice è a casa per pranzo: abita qui vicino, al 6 di rue Michel Guillaume, sull'Ile de la Fraternité» disse l’abate che, unico in tutta Parigi, si ricordava di non chiamarla più Ile Saint-Louis. «Siate prudente, amico mio: Coffinhal aveva già la fama di osso duro ai tempi del regno, ma da quando ha aderito alla causa rivoluzionaria, la sua intransigenza rasenta il fanatismo!»

 

Bottonificio Parisot, rue de Clichy, sezione Mont-Blanc Nello stesso momento in cui il commissario usciva di casa, al bottonificio Parisot la sorvegliante Teillard cominciava a impartire autorevolmente i suoi ordini.

«Foglio in posizione: alzare, spingere, abbassare! Alzare, spingere, abbassare!» Caroline Mathieu obbedì, impegnatissima a non rimetterci un paio di dita.

La giornalista, invero, era andata a cacciarsi in un nuovo pasticcio. Il guaio stavolta consisteva nell'inarrestabile progresso della tecnica, personificato dalla pressa per sagomare i bottoni cui la fabbrica Parisot era debitrice della sua stessa esistenza. Fino a poco tempo prima, infatti, la confezione era stata commessa alle lavoratrici a domicilio, ora invece la lamina di stagno veniva stampata, tagliata e rifinita all’interno di un edificio comune, nel quale confluivano ogni mattina le manovalanze provenienti dai quartieri periferici della capitale.

A coordinarle pensava la temutissima sorvegliante Teillard, scandendo con la sua voce autoritaria il ritmo dei gesti, che le operaie eseguivano puntualmente. Tutte eccetto una, Caroline Mathieu, la cui indubbia abilità nel brandire la penna d’oca era di scarso giovamento nel manovrare il pericoloso macchinario.

«Ti insegno io!» si offrì il capofficina strizzandole l’occhio, mentre la schiacciava contro il banco con il suo corpaccione lurido.

Caroline s'impose di soffocare collera e disgusto, in vista della missione da compiere. L’accorato colloquio con Léonie l’aveva convinta che per arrivare al “Boia” era opportuno seguire le tracce del suo complice, quel misterioso amante di Francine del quale gli investigatori ufficiali si erano ben guardati di far cenno. Cercarlo era compito suo: le compagne di lavoro della disgraziatissima ragazza, che mai e poi mai si sarebbero aperte con un delegato della Sicurezza, indulgevano certamente al pettegolezzo e alla chiacchiera. . .

«Zitte!» tuonò la terribile Teillard, che andava su e giù per i banchi vigilando sulle lavoranti con cento occhi: non bisognava perdere di vista neppure per un attimo quelle sventate o si sarebbero messe a parlottare tra di loro, sottraendo tempo prezioso alla produzione. Una delle giornaliere, soprattutto, aveva l'aria da perdigiorno, quella sgualdrinella con i capelli rossi assunta in prova dal capofficina con la chiara intenzione di appartarsi assieme a lei durante l’intervallo.

Doveva dar tempo a quel porco di levarsi l’ubbia prima di licenziarla, si ripromise, vedendolo far strada alla rossa verso il retrobottega. La ragazza sarebbe riemersa dallo stanzino allo squillo della campana, con le gote imporporate e il grembiule in disordine, previde la Teillard, che conosceva i suoi polli e anche le sue galline.

Questa volta però i pronostici non furono rispettati: fu infatti l’uomo a ricomparire per primo, con una guancia scarlatta su cui spiccava chiarissimo il segno di cinque dita.

«Mandala via, i bottoni non li sa fare!» ordinò, mentre Caroline si toglieva il grembiule e usciva senza protestare, avendo già appreso dalle compagne di lavoro ciò che si era riproposta di scoprire: l’ultimo recapito del lacchè assassino.

 

Ile de la Fraternité, ci-devant Ile Saint-Louis, sezione Fraternité Quando il commissario, dopo aver attraversato di corsa il ponte sospeso che metteva in comunicazione quai de la Maison Commune con l’Ile de la Fraternité, giunse davanti al numero 6 di rue Guillaume, la porta si stava chiudendo in faccia a un giovanotto in redingote scura, che reggeva sottobraccio un mucchio di rotoli stropicciati.

«Mi chiedo dove andremo a finire con gente simile!» esclamò rivolgendosi a Verneuil come se lo conoscesse da una vita. «Abito qui accanto e incontro Coffinhal tutti i giorni in strada, così, conoscendone l’influenza, ho pensato di sottoporgli il mio progetto per una nuova illuminazione notturna di Parigi mediante lampioni a gas, che sarebbero più efficienti ed economici di quelli a colza, nonché molto meno puzzolenti. E sai qual è stata la reazione di quel bruto? “Caro ingegner Lebon” ha detto sogghignando, ”di scienziati la Repubblica ne ha già anche troppi, non sappiamo che farcene di un altro! ”»

«Increscioso!» finse di partecipare Verneuil, che aveva tutt’altro per la testa.

«Ma ti rendi conto, cittadino? Per la prima volta, da che mondo è mondo, fior di dotti hanno messo senza risparmio le loro competenze al servizio della Nazione, che finanzia le loro ricerche con il denaro pubblico: chimici, medici, ingegneri, ottici, naturalisti, esperti di balistica e tecnici di trasmissione lavorano notte e giorno a perfezionare obici e proiettili, a migliorare il telegrafo, a mettere a punto l'aerostato, a fornire ai battaglioni repubblicani nuove armi di difesa. E quell’ignorante mi viene a dire che la patria non ha bisogno di scienziati! Un babbeo simile sarebbe capace di mandare alla ghigliottina lo stesso Lavoisier!»

Il commissario sorrise davanti all'enormità che la delusione aveva strappato all’indignato progettista: nessuno, nemmeno Coffinhal, avrebbe mai osato toccare il maggior chimico vivente, ritenuto una delle menti più brillanti del secolo. «Prova a chiedere udienza al Comitato dei Saggi. Per il momento i fondi sono riservati alla ricerca militare, ma non sarà così per sempre: i diritti dell’uomo marciano insieme ai lumi della scienza e del progresso!» gli consigliò.

Per nulla placato, l’ingegner Lebon raccolse brontolando i suoi fogli e si avviò verso casa, augurando allo sconosciuto miglior fortuna di quanta ne avesse avuta lui.

Un attimo dopo Verneuil bussava alla porta.

Quando, due ore più tardi, dopo una lunga anticamera, il commissario uscì dalla casa di Coffinhal, era a dir poco furibondo.

Niente dilazione, niente patti, niente confidenze in extremis, aveva detto il vicepresidente del tribunale con una voce roca e cavernosa che ben si sposava con la sua complessione gigantesca: Feld avrebbe dovuto decidersi a confessare per tempo, la Repubblica non era tenuta a cedimenti davanti a un pentito dell'ultimo minuto. Tutti erano uguali davanti alla legge, lo spione dunque sarebbe andato al patibolo senza ulteriori indugi e non sperasse il commissario di smuovere le acque tirando in ballo il Comitato, perché il pubblico accusatore Fouquier-Tinville gli aveva ingiunto di respingere qualunque ingerenza, soprattutto se proveniva dagli amici di quel Robespierre che solo l’anno prima si era permesso di proporre una sciocchezza come l’abolizione della pena di morte.

Davanti a tanto assurdo rigore, Verneuil non aveva nemmeno avanzato la sua seconda richiesta. Avrebbe sistemato da solo, a modo suo, l’affare di Agnès, senza ricorrere a quel giudice imponente che gli ricordava in tutto e per tutto gli inquisitori di un tempo, usi a bruciare vivi gli eretici a maggior gloria di Dio.

C'era la guerra, d’accordo, c’erano i nemici, i congiurati e le spie, ma quando la Rivoluzione avrebbe finalmente mostrato il suo volto più autentico, quello della fraternità? Senza la compassione per gli oppressi, la Rivoluzione sarebbe stata soltanto un crimine che distruggeva un altro crimine, aveva detto l’Incorruttibile e Verneuil ci credeva fino in fondo. Per questo, all’alba sarebbe andato alla Salpétrière.

4 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (25 SETTEMBRE 1793)

Place des Piques, ci-devant place Louis-le-Grand, studio del notaio Sauthier, sezione Piques Ma il commissario non fu l’unico ad attivarsi, il mattino dopo.

Dietro place des Piques il capocameriere del palazzotto dove giorni prima Etienne era stato tanto ingloriosamente ricevuto, guardò dall'alto in basso l’aspirante cameriera che si presentava alla porta di servizio.

«Non assumiamo senza referenze.»

«Conoscevo un valletto che lavorava in questa casa, certo Rèmi» rispose la giovane, linda e discreta sotto l'ampio scamiciato e la cuffietta rigida che le nascondeva i capelli rossi; il suo tono era tanto dolce e remissivo che mai e poi mai il domestico avrebbe supposto che stesse paragonando il suo viso un po’ legnoso alle maschere funebri dipinte sui sarcofagi antichi.

«Qui non ha mai servito nessuno con questo nome!» fece l’altro sprezzante, prima di sbatterle la porta in faccia.

«Merde!» sibilò la cittadina Mathieu, liberando la chioma di fuoco dalla pudica cuffia con cui si era camuffata da servente. Eppure la casa era quella, una delle operaie del bottonificio se ne ricordava bene, perché le era accaduto di seguire in strada il bello di Francine - per puro caso, naturalmente, dato che lei non era certo tipo da impicciarsi degli affari altrui - e l’aveva visto entrare proprio in quel portone.

Dunque, la sua carriera di investigatrice finiva lì, si disse Caroline piccata: alla fabbrica Parisot non poteva certo tornare e il sarcofago ambulante si sarebbe rifiutato di aprirle ancora la porta di servizio. . . .

La porta di servizio! ripetè assorta: se Rèmi fosse stato un qualunque valletto sarebbe passato di là, invece la sua informatrice l'aveva visto infilarsi nell’ingresso principale!

Rapida, Caroline girò attorno all’edificio e si fermò davanti al portone, su cui spiccava una targa lucidissima: “Studio notarile Sauthier”. Uno dei girondini arrestati a giugno si chiamava Sauthier de Noigny, ricordò: forse valeva la pena di andare più a fondo.

 

Prison de la Salpétrière, sezione Sans-culottes Il carceriere era viscido, ottuso e prudente. Soprattutto prudente.

«Sia chiaro che declino qualunque responsabilità» dichiarò a Verneuil: per nulla al mondo si sarebbe opposto al volere della Sicurezza, non stava a lui decidere se c’era da metter dentro qualcuno o tirarlo fuori, chiedeva solo qualche riga scritta, in modo da avere le carte in regola con i superiori.

A tanta disponibilità non doveva essere estranea la sostituzione dell'altezzoso direttore dell’attiguo ospizio che aveva fatto seguito alla sua ultima visita, pensò Etienne mentre vergava rapidamente il foglio, chiedendosi se non stesse firmando la sua condanna a morte. Poi, visto che di teste ne aveva una sola e di più non potevano tagliargliene, decise di andare fino in fondo e quando gli portarono Agnès, sparuta e spaventata come un implume caduto dal nido, azzardò altri tre nomi.

«Sono in una sezione diversa» gli rispose il secondino. Poco dopo Etienne lo seguiva assieme all'ex novizia oltre l’inferriata della gabbia comune, dove si accalcavano insieme gentiluomini e mendicanti, preti e bestemmiatori, nobildonne contegnose e meretrici ubriache.

La celletta era in fondo a un cunicolo scuro. Prima di entrare, il commissario si fermò a osservare dallo spioncino le due donne, l'una seduta sulla paglia, l’altra inginocchiata in terra in preghiera.

Uno sferragliare di chiavi e il pesante legno cigolò sui cardini.

«Agnès, piccola mia!» esclamò la ci-devant badessa Bénédicte. «Che le avete fatto?»

«Mi ha salvato la vita, buona madre, portandomi a casa sua!» cominciò la fanciulla e subito un lampo di indignazione si accese negli occhi della superiora.

«Suvvia, vi sembro tipo da farmela con le bambine, per di più suore?» replicò Etienne, ma non ebbe modo di aggiungere altro, perché la balia Joséphine, ancorati i pugni ai larghi fianchi, lo fronteggiò con occhi tanto rabbiosi da uscirle quasi dalle orbite.

«Sanguinari, bestie, torturatori, aguzzini!» accusò con il suo accento nasale.

«Fatela tacere. O almeno pregatela di insultarci in qualche oscuro dialetto delle isole, così non sarò costretto a mandarla al capestro» ingiunse il commissario a Bénédicte. «Sto cercando l'assassino della baronessa: Joséphine sa di certo se l’individuo che sospetto frequentava casa Kornaszewski, ma è evidente che non gradisce parlare con me. Quindi la interrogherete voi, principessa de la Che-veillaire.»

Se Bénédicte fu stupita che il commissario la interpellasse con il suo nome secolare, non lo diede a vedere. «Perché dovrei farlo?»

«È un brav’uomo, madre. Sta rischiando di persona per fermare il “Boia di Parigi”!» intervenne la giovane Agnès e il commissario fu lesto ad approfittarne.

«Chiedetele di un aristocratico con i capelli castani, gli occhi sporgenti e una sottilissima cicatrice sulla guancia sinistra che, partendo dal sopracciglio, fende la narice e arriva al labbro superiore.»

«Lo conoscete bene.»

«Abbastanza da aver avuto l'opportunità di ucciderlo. Tuttavia non l’ho fatto.»

La donna assentì, pensosa, e cominciò a discutere sottovoce con la compagna, che doveva essere alquanto cocciuta, perché ci mise un bel po’ a farsi convincere.

«L’ha visto alcune volte, ma sostiene che sia innocuo.»

«Non mi meraviglio: Chateau Bois è un abile mistificatore!»

«Si tratta forse del figlio del marchese trucidato l’anno scorso alla Bicétre?» chiese Bénédicte facendosi il segno della croce. «Conoscevo sua moglie, una poveretta che ha molto sofferto prima di trovare la pace del Signore.»

«Il vecchio aveva anche una sorella, Mathilde de Bellel-tour, che non ha mai lasciato il paese. Ditemi dove trovarla, non le farò nulla, ho soltanto bisogno di scambiare qualche parola con lei.»

«Era la patronessa della Casa delle Figlie della Carità, un ordine che ha sede in rue du Bac, sempre che non sia già stato soppresso. Mi raccomando, non impressionate troppo quelle anziane signore con la vostra mise, potrebbero svenire sul colpo vedendosi davanti una fascia tricolore!» celiò inaspettatamente Bénédicte con un guizzo malizioso. «Ma che sarà di loro, adesso?» chiese subito dopo, indicando le altre prigioniere.

«Perdonatemi, madre, non desidero più prendere i voti. Mi piace lavorare in tipografia!» confessò Agnès a occhi bassi.

«Sii una brava tipografa, allora, piuttosto che una cattiva suora!» la assolse Bénédicte. «Joséphine però deve tornare nelle isole.»

«La ghigliottina funziona anche laggiù!» obiettò il commissario.

«Avrebbe attorno la sua gente, mentre qui è soltanto una straniera sperduta. Fatela imbarcare, commissario, è totalmente estranea alle trame dei suoi padroni!»

Verneuil protestò divertito: «Scherzate? Al di là del fatto che Joséphine è una sospetta, dovete credermi un corrotto per supporre che possieda abbastanza denaro da pagarle il viaggio!» .

«Ve lo fornirò io: arrestandomi, non mi hanno perquisita» disse la donna e si voltò per armeggiare brevemente sotto la veste. Poco dopo consegnava a Verneuil un prezioso crocefisso. «Fu il dono della mia famiglia per la cerimonia di monacazione.»

«Intendete separarvi da un simbolo della vostra fede?» si stupì lui.

«La fede la porto nel cuore» sorrise Bénédicte. «Questi sono soltanto diamanti: anche venduti sottocosto, il ricavato dovrebbe bastare per la traversata.»

«Vi fidate di darli a me?» si stupì Etienne. «Sono un giacobino senzadio. . .»

«Ciononostante state esponendovi per aiutare un'innocente. Prendete la croce, dunque, mettete Joséphine su una nave capace di superare il blocco degli inglesi e usate il resto per l’avvenire di Agnès.»

«E voi? Se vi lascio uscire dal carcere, vi metterete in salvo?»

«Non posso abbandonare le figlie che mi sono state affidate» scosse la testa la donna.

«Molte delle vostre monache erano state recluse a forza per favorire meschini affari di prestigio e ora hanno lasciato il velo, libere di amare un uomo, di diventare buone mogli e madri repubblicane!»

«Credete che me ne rammarichi, cittadino commissario?» chiese dolcemente Bénédicte. «Non penso che Cristo gradisca spose riluttanti: se per alcune fanciulle del mio convento la bufera rivoluzionaria ha significato una vita migliore, me ne compiaccio. Ma se anche una soltanto di loro si sentisse perduta, fuori nel grande mondo, io dovrei essere lì a darle conforto!»

«Come nobile e per di più badessa, sarete subito sospettata. Ma forse diventare una martire è proprio quello che volete. . .»

«Vi sbagliate. Dio non ci ha fatto dono della Rivoluzione per chiederci un sacrificio esaltato, ma perché capissimo ciò che prima, chiuse tra le mura del nostro chiostro, non potevamo comprendere.»

«Avete idee alquanto bizzarre, principessa!»

«Non chiamatemi così: ben prima che i titoli nobiliari fossero aboliti, io deposi i miei ai piedi della croce; è vero che venni immeritatamente rivestita della dignità di badessa a cagione del nome che portavo, ma ora l'Onnipotente mi ha finalmente concesso di spogliarmi dell’orgoglio terreno e, privandomi di tutti i privilegi, mi ha resa povera tra i poveri, reietta tra i reietti.»

«Consentendovi di complottare meglio in favore dei nemici della Repubblica!»

«Sono francese, cittadino!» esclamò lei, risentita.

«Perché allora non giurate fedeltà alla Nazione?»

«Ho già giurato fedeltà al mio Signore» ribattè ostinata Bénédicte.

«Come vi comportereste se foste costretta a scegliere tra il vostro Dio e il vostro paese?»

«Nostro Signore non ha contemplato tra i doveri di un buon cristiano quello di tradire la patria» ribattè lei.

Maledizione, non poteva cavarsela così, pensò Etienne: il conflitto esisteva eccome, e le bandiere vandeane con il Sacro Cuore stavano a dimostrarlo, così come gli anatemi dei vescovi emigrati, gli interdetti del papa e le trame di tanti ex religiosi che trasmettevano informazioni a Roma, la quale a sua volta si affrettava a comunicarle ai tiranni di tutta Europa. Un’aristocratica, una badessa, una spia dei nemici della Francia: libera, quella donna avrebbe senza dubbio costituito un grave pericolo. Eppure. . .

«Guardie, aprite la porta!» ordinò, prima di ingiungere alla prigioniera: «sparite! Fatevi inghiottire da questa città onnivora, dove c’è posto per tutti, dai monarchici a quelli che tagliano la testa ai re: né la principessa de la Cheveillaire, né la madre superiora del monastero devono più esistere!»

«Io sono solo Bénédicte, serva dei servi del Signore» rispose lei, pacata. Quando ebbe varcato la soglia, Etienne la udì aggiungere con voce sommessa: «Possa la vostra Rivoluzione portare agli uomini maggiore serenità e non maggiori pene!» .

Ma il commissario non aveva ancora finito: al diavolo l’intransigenza, tanto valeva giocarsela fino in fondo, si disse, convocando in parlatorio la vedova Gallimard.

Il soggiorno nella cella comune, capace di spossare anche le fibre più forti, non aveva affatto indebolito la robusta mercantessa, né era riuscito ad abbassarne l'arroganza. Era risaputo che alcune detenute con le conoscenze giuste ricevevano dietro le sbarre pane fresco, verdure di stagione e carne arrosto pagata a peso d’oro: osservando l’aspetto ben pasciuto della vedova, a Verneuil fu facile immaginare quanto avesse lucrato il secondino da quella carcerazione eccellente.

«Ah, siete voi, commissario!» gli si rivolse con sussiego la vedova, agitando un ventaglio di piume nere di cui non era ben certa la funzione, all'interno dell’umido sotterraneo: le buone maniere non difettavano alle dame prigioniere, che al mattino si alzavano dal loro tavolaccio per vestirsi di tutto punto e trascorrere poi la giornata in amabili conversari, tesi a esorcizzare lo spettro incombente della ghigliottina. «Ce ne avete messo di tempo! I vostri superiori vi avranno certamente redarguito per aver trattato in modo tanto irrispettoso una patriota fervente quale sono io!» esclamò la Gallimard con inusitata energia.

«L’ufficiale della Guardia Nazionale con il quale eravate in combutta è stato trasferito in prima linea e voi non siete abbastanza importante perché qualcun altro si muova in vostro favore: soltanto io posso farvi uscire di qui, quindi dovete rassegnarvi a trattare con me.»

«Che cosa chiedete?» domandò asciutta la megera.

«Mille pezzi di pane.»

«Di questi tempi, non è un prezzo eccessivo» acconsentì la Gallimard.

«Mille pezzi al giorno» precisò il commissario. «Per tre settimane consecutive, con l'aggiunta di dieci damigiane di vino ogni sabato. Vanno consegnati presso l’Atelier du Nord alla cittadina Berthe Dandel, che provvederà a distribuirli.»

«La farina è a prezzo astronomico. Per procurarmela dovrei vendere i miei colliers.»

«Fatelo, o non avrete più un collo al quale appenderli» sorrise infingardo Etienne, mentre la vedova cominciava sottovoce a fare i conti: per fortuna durante il fermo aveva portato a termine alcune proficue transazioni con un paio di gentildonne, promettendo di adoperarsi per corrompere i guardiani non appena libera.

Una trafficante disonesta in più per le strade di Parigi, contro mille stomaci pieni: tutto sommato non si trattava di un cattivo affare, valutò soddisfatto Etienne.

«Vi darò ciò che volete. E adesso, apritemi le porte di questa fogna!»

«Non ancora. Il nostro patto è subordinato a una condizione: mi direte tutto ciò che è a vostra conoscenza su Lussard, Guy, Lazare Baladier e la baronessa d’Orval.»

«La d'Orval non era mia cliente: io fabbrico solo in serie. Guy e Lussard me li tenevo buoni, sperando di spuntare qualche commessa dall’esercito, quando quegli avaracci del governo si decideranno a fornire ai soldati divise nuove, anziché riciclare quelle vecchie sostituendo i gigli reali con l’alloro della Repubblica. Di Baladier non mi sono mai occupata: i pidocchiosi della Comune calzano berretti frigi fatti in casa.»

«Facevate affari anche con Caron?»

«Ahimè, è fuori dalla mia portata: chi gestisce la vendita dei Beni Nazionali ignora una modesta commerciante come me.»

«E la vostra sedicente nipote Amelie?»

«Si tratta di una ragazza di ottima nascita» cominciò la vedova.

«Lo so, è una dei Saint-Cyr, ci-devant conti della Charente, di nobiltà non eccelsa, ma ben introdotti a corte, in particolare Marie Adélai’de de Guidebon, nonna della nostra comune amica» specificò Etienne, per far capire alla sua ostica interlocutrice che si aspettava indicazioni serie, non vacui pettegolezzi.

«La contessa venne relegata in campagna dal figlio, che le concesse come dama di compagnia la figlia minore Louise-Amelie, a quel tempo ancora bambina, togliendola dal convento in cui veniva cristianamente educata. Dopo la morte della nonna, la ragazza fu richiamata dal padre, che intendeva concordare per lei un vantaggioso matrimonio; ma non ne ebbe il tempo perché, caduta la Bastiglia, preferì fare in gran fretta i bagagli, abbandonando la figlia al furore rivoluzionario. Fu allora che Amelie venne a Parigi: cercava una sistemazione presso qualche signora disposta a fingersi sua parente. Mi avrebbe pagato bene, in cambio di molta discrezione e totale libertà di movimento.»

«Bene, non vi resta che dirmi dove trovarla!»

«Chiedete l'impossibile, commissario: non mi giunge alcuna notizia dal mondo esterno, nell’orrenda sentina in cui mi avete fatto rinchiudere!» sbottò la vedova.

«Via, vi hanno visto confabulare fitto fitto con le altre detenute. . .»

«Ladre, puttane, falsarie!» esclamò sprezzante la vedova.

«Davvero? Eppure negli ultimi giorni avete frequentato a lungo una ci-devant duchessa guascona, promettendole i vostri buoni uffici!» La Gallimard represse un gesto di stizza: quei maledetti avevano spie dappertutto, anche nelle carceri. . .

«Fossi in voi cercherei a Croissy. È un luogo di villeggiatura molto ameno, che attira parecchi parigini, soprattutto quelli nel cui cognome compare la famigerata particella “de”. . .» insinuò la Gallimard.

«In che strada abita?» tentò Verneuil senza troppa speranza.

«Questo non lo so, cittadino, ma siete o non siete un ufficiale della Sicurezza? Certi problemi dovreste essere capace di risolverli da solo!»

«D’accordo, esci pure, ma se ti pesco a ungere un altro funzionario, il patibolo non te lo leva nessuno!» minacciò Etienne passando a un “tu” che sperava intimidatorio. «E non scordarti le mille pagnotte!» le ripetè, mentre faceva segno ai secondini di lasciarla andare.

6 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (27 SETTEMBRE 1793)

Rue du Bac, sezione Unité Quella mattina Etienne s’incamminò di buona lena, sorpassando velocemente il Louvre per varcare il Pont National in direzione di quai Voltaire, ovvero il vecchio quai des Théatins, che aveva cambiato nome da quando le ceneri del grande illuminista erano state traslate al vicino Pantheon.

Imboccata rue du Bac, si fermava poco dopo davanti alla Casa delle Figlie della Carità, l'istituto fondato da Vincenzo de’ Paoli a favore delle vedove pie, di cui la nobile Mathilde de Belleltour, sorella del marchese di Chateau Bois, era stata patronessa.

Ma il donnone dai solidi bicipiti che apparve sullo stipite non somigliava affatto a una monaca.

«Arrivi tardi» gli disse. «Le suore sono state sfrattate e adesso a gestire l'asilo provvede un comitato di donne rivoluzionarie, pronte a trasmettere sani valori patriottici, al posto del vecchio oscurantismo papalino che un tempo affliggeva le assistite!» Verneuil assentì, augurandosi che le patriote conoscessero i princìpi repubblicani meglio delle norme igieniche, cui, stante quanto si poteva osservare dalla soglia, dedicavano un’attenzione alquanto distratta.

«Che fine ha fatto la precedente patronessa?»

«C’è voluto del bello e del buono per far sloggiare quella vecchia cornacchia! Ha seguito le suore in una casa dietro al carrefour du Bonnet Rouge, assieme agli altarini, i rosari, le statuette e tutte le altre carabattole che le religiose usano portarsi dietro. La lana per confezionare gli abiti, però, ce la siamo tenuta noi: in magazzino ne abbiamo trovata abbastanza da vestire un intero esercito, sono tutte stoffe molto scure, ma almeno i bambini staranno al caldo!» ridacchiò la comare, mentre il commissario associava mentalmente il crocicchio citato al vecchio carrefour de la Croix-Rouge, che da poco aveva assunto il nome del copricapo frigio, simbolo degli schiavi liberati.

«Uhm, cittadino. . .» tossicchiò la custode, vedendolo congedarsi in silenzio.

«Salute e fraternità!» salutò con voce stentorea il commissario e soltanto allora, appagata, la virago si decise a richiudere la porta.

 

Carrefour du Bonnet-Rouge, ci-devant carrefour de la Croix-Rouge, sezione Muzio Scevola La casa era buia e modesta. Ad aprire venne una vecchia con il soggolo, una delle tante religiose che, espulse dai loro ricchi e inviolabili domini, vivevano ora alla stregua di semplici popolane. Memore delle raccomandazioni della badessa, Verneuil si era premurato di celare la coccarda tricolore dietro i risvolti della giacca, ma non bastò: riconosciutolo come uno dei feroci repubblicani che davano la caccia al clero refrattario, la suora pensò bene di assicurare, spaventatissima: «Alcune di noi non hanno ancora prestato l’obbligatorio giuramento, ma intendiamo provvedere al più presto!» .

«Il vostro giuramento non mi interessa. Vengo da parte di madre Bénédicte, per incontrare con urgenza Mathilde de Belleltour, che alloggia presso di voi.»

«Siete in errore, cittadino, non ospitiamo alcuna ci-devant tra le nostre mura!» negò la monaca, facendosi pallidissima.

«Lascia a me decidere con chi voglio parlare o meno, sorella!» venne subito redarguita da una voce imperiosa.

Sul pianerottolo dell'ammezzato era comparsa una vegliarda che si appoggiava a un bastone d’ebano, le spalle dritte, gli occhi scurissimi che dardeggiavano ostili, la faccia pesantemente incipriata, come usava ai tempi della sua lontana giovinezza. Lentamente, cominciò a scendere i gradini dell’umile dimora con la stessa maestosa alterigia che avrebbe esibito dando la mano al re sullo scalone di Versailles.

«E così siete voi» disse fermandosi accanto ad Etienne. «Potete anche smetterla di nascondere la chincaglieria tricolore che vi portate addosso, tanto so bene da che parte state, anche se vi fate scudo del nome di una santa donna per entrare in questo ospizio!»

«Sono dalla parte della libertà e dell’uguaglianza, contro tutti i privilegi!» ribattè asciutto Verneuil.

«Princìpi che pagano, almeno per quanto riguarda la vostra carriera: sbaglio, o vi fregiate delle insegne di commissario del Comitato di Sicurezza Generale?» esclamò in tono di spregio. «Mi pare giusto: il posto di un assassino è in mezzo ad altri assassini!»

Con uno sforzo disumano, Etienne s'impose di mantenere la calma: non era lì per discolparsi, ma per condurre un’indagine di capitale importanza.

«D'altra parte, ero stata avvertita» aggiunse la vecchia. «Cagliostro l’aveva predetto, che mio fratello sarebbe stato ucciso dal sangue del suo sangue. Ah, che incredibile veggente era il Gran Cofto, il cavaliere del Tempio, di Malta e dei Rosacroce!»

Il commissario ascoltò infastidito: non erano passati molti anni da quando l’avventuriero Giuseppe Balsamo, sedicente conte e sedicente mago, aveva inguaiato il cardinale di Rohan e la regina stessa in una truffa colossale.

Sebbene ora si trovasse in ceppi in un’oscura segreta, evidentemente mieteva ancora qualche seguace. . .

«Naturalmente voi non gli avreste prestato orecchio, da buon miscredente quale siete, invece vi assicuro che lui ha profetizzato tutto: la Rivoluzione, la rovina della monarchia, la morte del re e la nascita di questa effimera Repubblica destinata a cadere nelle mani di un nuovo Cesare sorto dalle vostre stesse fila!»

«Non è per discutere di un ciarlatano che sono venuto da voi.»

«Immagino chi cerchiate. Perché pensate che io ne sappia qualcosa?»

«Fabien è vostro nipote, l’erede di Chateau Bois.»

«Grazie a voi, che avete provveduto a liberarlo del suo illustre genitore! A proposito, avvicinatevi, giovanotto, voglio guardarvi meglio: non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte a un parricida!» sogghignò la dama.

«Non ho ucciso nessuno, ho messo ai ferri una spia che pugnalava alle spalle la patria, preparandone l’invasione!»

«Abbiate almeno il pudore di non cercare scuse! Il vostro è stato un vero e proprio delitto, sebbene, detto tra noi, mio fratello lo meritasse appieno. Era un uomo abbietto e rotto a ogni scelleratezza: spinse mia cognata a una morte precoce con i suoi continui tormenti e avrebbe fatto lo stesso con me, se il matrimonio non mi avesse liberato della sua tutela. Mio marito, tuttavia, morì prima che fossimo benedetti dal dono dei figli, quindi ora Fabien è l’ultimo della mia stirpe: avete vinto, il mondo è stato messo sottosopra e adesso i proscritti siamo noi. Abbiate dunque pietà di Fabien e lasciatelo alla sua sorte!»

«Si è macchiato di un grave crimine contro la Nazione, partecipando al complotto per liberare il delfino!»

«Da non crederci!» si stupì la vegliarda, spalancando la bocca incartapecorita nel gnigno di un teschio. «Sarebbe il primo atto valoroso nella sua squallida esistenza di codardo. È già molto che non abbia denunciato i compagni, cercando poi rifugio dietro le gonne della sua promessa!»

«Non sapevo che fosse fidanzato» si stupì Verneuil.

«Il contratto venne redatto dal mio defunto fratello poco prima che voi lo faceste imprigionare. Contava di mettere le mani sulla cospicua fortuna di un emigrato della prim’ora, dandone la figlia in sposa al suo erede. Ma ha fatto i conti senza la Rivoluzione, che ha sottratto ad Amelie il suo patrimonio e a lui la vita!»

«Amelie de Saint-Cyr?» domandò il commissario con un filo di voce.

«Una sgualdrinella astuta, abilissima a trovare espedienti per restare a galla!» confermò la vegliarda.

Etienne sentì mescolarsi dentro rabbia e vergogna. «Se cerco Fabien non è per motivi personali: sospetto che sia responsabile della catena di omicidi che stanno insanguinando la città» disse infine, rivelando a una vecchia nemica il dubbio che non aveva osato esprimere agli amici.

Mathilde uscì in una risata sarcastica: «Non crederete sul serio che quello smidollato sia il “Boia di Parigi”, vero? Fabien il fiero vendicatore, il paladino del trono, il cavaliere senza macchia e senza paura che risolleva le speranze dei monarchici perseguitati? È semplicemente ridicolo! Comunque, non so dove sia e anche se lo sapessi non ve lo direi: ho ancora il senso dell’onore, io!» .

«L'onore risiede in una Nazione che ha spezzato le catene della schiavitù. Colpendo i giacobini, il “Boia” irride la Repubblica e tutto ciò che rappresenta, ma non otterrà il suo scopo, perché, con o senza il vostro aiuto, io gli sbarrerò la strada, dovesse essere l’ultimo atto della mia vita!» dichiarò Etienne risoluto.

«Che foga mostrate nel difendere la vostra banda di predoni! È davvero un peccato che siate un bastardo, Etienne: se a partorirvi al marchese fosse stata sua moglie, anziché una serva qualunque, ora mettereste la stessa caparbia volontà nel battervi per il trono e per l’altare!» sogghignò la vecchia.

Rideva ancora quando Verneuil le voltò le spalle.

 

Quai de la Maison Commune, ci-devant quai de la Grève, appartamento di Etienne Verneuil, sezione Maison Commune Che Amelie andasse a letto con Lussard non era un motivo sufficiente per ritenerla implicata nei delitti, cercava di persuadersi Verneuil al suo ritorno verso place de la Maison Commune; perfino la sua fuga era comprensibile, perché chiunque avrebbe preferito sparire nel nulla, piuttosto che rischiare di essere rinchiuso in un carcere da cui si usciva spesso in due pezzi separati. Però aveva mentito spudoratamente sui suoi rapporti con Fabien e quest’ultimo poteva davvero essere il “Boia di Parigi”, anche se la sarcastica Mathilde pareva escluderlo. . .

Doveva trovare quella strega e metterla al sicuro dietro alle sbarre, si ripromise il commissario, domandandosi se l'urgenza del suo proposito soddisfacesse più le esigenze dell’inchiesta o quelle del suo amor proprio.

«Cittadino commissario!» si sentì tirare per la giacca.

Girandosi vide il custode Perronier, che lo aspettava davanti a casa con il berretto in mano e l’aria molto impacciata.

«Devo confessarvi una cosa sulla mattina in cui ho trovato la testa del deputato Lussard» balbettò tutto d'un fiato. «Non ero entrato per caso nel ripostiglio: andavo ad attingere all’acquavite regalatami dal capo del personale perché dimenticassi la sua presenza al museo oltre l’orario!»

«Vuoi dire che la notte del delitto Eglise-Neuve si trovava al Louvre?» sobbalzò Verneuil: possibile che la cagna Mélisende e i suoi cuccioli fossero soltanto un paravento, un astuto alibi di copertura per crimini ben più gravi?

«No, no, l'episodio cui mi riferisco è accaduto il mese scorso, quando scoprii il mio superiore in ufficio di sera tardi, chino sui cataloghi a lume di candela. Mi pregò di non parlarne all’intendente: era rimasto indietro con il lavoro, gli serviva un po’ di tempo per recuperare e, in cambio del favore, mi avrebbe dato una bella fiaschetta forte forte. La tenevo nascosta dietro l’impalcatura dello sgabuzzino, guai se mia moglie sapesse che ogni tanto bevo, è un brutto vizio, lo so. . . mi preparavo appunto a scolarmi un goccetto, quando mi è caduta addosso quella maledetta testa» disse Perronier in tono concitato, con il sollievo di chi si leva finalmente un grosso peso dal cuore.

«Perché vuoti il sacco solo adesso?» chiese Verneuil diffidente.

«Domani mio figlio parte volontario, ha soltanto diciannove anni e va a farsi sparare addosso dai briganti della Vandea» spiegò il guardiano. «Quando ha detto di essersi arruolato, mi sono sentito un verme, perché sapevo di aver commesso una grave mancanza contro la Repubblica, manomettendo un indizio importante: dalla paura che mi requisiste la fiaschetta - e quando mai avrei potuto procurarmene un'altra? - me l’ero infilata nelle braghe prima di dare l’allarme, avvolta in un panno trovato sul pavimento che era invece mio dovere consegnarvi, in modo che ne teneste conto per l’inchiesta. Prendetelo, ve l’ho portato adesso insieme all’acquavite, tanto la voglia di bere mi è passata per sempre: intendo fare il mio dovere fino in fondo, anche se dovesse costarmi il posto di lavoro. E chissà che, mantenendomi sobrio, non porti fortuna al mio ragazzo!»

Il panno era una striminzita banda rossa, stracciata per il lungo e rigida di sangue secco: ecco quindi con che cosa il capo di Lussard era stato fissato al busto monco, comprese finalmente il commissario.

Ma c'era un altro particolare rivelatore in quella striscia di tessuto: nell’ordito, sul lato dello strappo, s’intravedevano alcuni fili bianchi. La stoffa dunque, non era di colore rosso, bensì a righe sottili e Verneuil era pronto a scommettere che in origine doveva essere stato visibile anche un terzo colore, il blu della Repubblica.

Si trattava di un guaio, un guaio grosso, deglutì il commissario, certo ormai di tenere in mano il brandello di una fascia tricolore identica alla sua.

A Parigi erano in molti a portarla, per sottolineare la loro funzione pubblica: i procuratori della Comune, i membri dei Comitati, i rappresentanti delle sezioni politiche, gli ufficiali della Guardia e naturalmente i convenzionali, primo tra tutti Nicolas Caron, che amava sfoggiarla a riprova della sua autorità, magari sotto una giacchetta di brillante raso fiorato o una smagliante houppelande dai risvolti vermigli. Caron, che aveva visitato il Louvre inalberando uno splendido bicorno da cui poteva essere sfuggita la piuma esaminata da Lamarck. Caron, che si acconciava con la parrucca a boccoli, incipriata di una polvere simile a quella rinvenuta sotto il busto del Borbone-Condé. Caron, che era abbastanza robusto da brandire facilmente una mannaia. Caron, che rifiutava reiteratamente l’interrogatorio. Al diavolo Fabien, quella era la pista giusta da seguire!

A casa lo accolse una Pàquerette particolarmente irritata.

«Lo sapevo che non c’era da fidarsi, con tutti questi estranei che mi girano attorno: dalla dispensa è sparito il sacco dello zucchero, assieme alle ultime mattonelle di sapone. Se a rubare non è stata mademoiselle faccio-tutto-io, allora è colpa di quel malnato di Landry, che ho visto uscire poco fa con la gerla in spalla!»

«Gli ho chiesto io di consegnare le nostre provviste a certi scolaretti che di zucchero ne vedono poco e di sapone ancor meno» la smentì il padrone.

«Ma erano libbre e libbre di roba!» esclamò la governante sgomenta.

«Adesso si misura in chili, Pàquerette» le ricordò il padrone.

«Ah, sono troppo vecchia per adattarmi a tutte queste novità, la Rivoluzione, la carne razionata, le candele a peso d'oro e un mucchio di sciacquette che vanno e vengono come se fossero a casa loro! A proposito, di’ a quell’impicciona di Léonie che la smetta di rammendare, ai tuoi vestiti sono in grado di badarci da sola!» brontolò risentita la governante e avrebbe proseguito per un pezzo con la sua geremiade se in quel momento du Plessis non fosse comparso sulla soglia, interrompendola con un tossicchiare discreto.

«Novità?» chiedeva poco dopo al commissario.

«Ho inseguito Caron ovunque» gli riferì Verneuil. «Non si è mai fatto trovare e l’ultima volta ha mandato al suo posto Hérault de Séchelles: parlassi pure con lui, come membro del Comitato di Salute Pubblica era al corrente di tutto ciò che riguardava i suoi più diretti collaboratori. . .»

«Non mi stupisco. Nicolas Caron è per Hérault quello che il vostro amico Pierre Blas è per Saint-Just: lavorando gomito a gomito con uomini potenti, ne condividono i segreti.»

«A differenza di Blas, però, Caron è diventato ricco, molto ricco, e in maniera alquanto dubbia. Sospetto che esista un collegamento tra la sua recente fortuna e alcune risoluzioni del Comitato, di cui poteva essere al corrente. Non sto pensando solo alla cessione dei Beni Nazionali o alle commesse di guerra, ma anche alla compravendita di certi titoli rischiosi: si dice che tempo fa abbia guadagnato un patrimonio rastrellando una ingente quantità di quote della Compagnia delle Indie, subito prima che il blocco atlantico mandasse alle stelle il prezzo delle merci ferme nei porti della Bretagna. Se appurassimo altre coincidenze simili, forse ce la faremmo a incriminarlo. . . ma che c’è, du Plessis? Vi vedo perplesso!»

«Anche ammettendo che l’onestà di Caron non sia cristallina e noi riuscissimo a raccogliere le prove dei suoi intrallazzi, ciò non significa che sia il “Boia di Parigi”. Manca il movente: perché mai il tirapiedi di Hérault de Séchelles, seppure corrotto, se ne andrebbe in giro a decollare i suoi colleghi giacobini?»

«Forse le vittime avevano scoperto i suoi maneggi, forse minacciavano di denunciarlo» annaspò Verneuil.

«Forse» ripetè dubbioso l'abate. «In mancanza d’altro, seguiamo pure questa pista, senza però perdere d’occhio gli altri sospetti. Mi permettete un piccolo suggerimento? Le competenze di Landry sono sottoutilizzate, da un po’ di tempo a questa parte: sarebbe mia intenzione sfruttarle proficuamente per apprendere qualcosa di più sul notaio Sauthier.»

«Volete che ordini al ragazzo di pedinarlo?»

«Veramente io pensavo a qualcosa di più invasivo. . . come rubargli il borsellino, per esempio!» rettificò l’altro, chinando gli occhi.

«Magnifico, François-Xavier! Da dove vi vengono certe ispirazioni?»

«Ho atteso a una dura scuola di sopravvivenza, cittadino commissario. Durante l’ancien regime, tra gli abatini spiantati come me, la concorrenza era spietata: zelo e abilità non sarebbero bastati a mettere le mani su una prebenda decente, occorreva giovarsi di molta fantasia, e anche di un pizzico di spregiudicatezza!» sorrise compiaciuto du Plessis.

9 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (30 SETTEMBRE 1793)

Place des Piques, ci-devant place Louis-le-Grand, studio di Sauthier, sezione Piques Alcuni giorni dopo una signora piuttosto elegante stazionava nei pressi di place des Piques, appiattita in un androne da cui era ben visibile l’entrata di servizio del palazzotto di Sauthier.

La porta dello studio notarile si aprì alle undici in punto per fare uscire l'altezzoso capocameriere dal volto tombale, la borsa del padrone in mano. Non appena il funereo servitore ebbe svoltato in rue Saint-Honoré, la dama uscì dal suo nascondiglio, girò attorno all’edificio, e, dopo essersi rassettata le vesti, afferrò il picchiotto del portone principale, bussando con un gesto deciso.

Dall'aspetto la si sarebbe detta moglie di un prospero borghese ben integrato nel nuovo corso: la gonna riprendeva nelle bande sottili le tinte del tricolore e il giubbetto rosso era bordato di un bel blu acceso che spiccava sul candore della camicetta di mussola fine. Completavano la mise i guanti, l’ombrello e il vezzoso cappellino che la giovane portava di sbieco sui capelli di fiamma.

Caroline si augurò di non aver esagerato con l'abbigliamento patriottico: l’abito da lei prescelto dopo una lunga ricerca negli armadi, ben si addiceva a una sposina desiderosa di discutere del lascito commessole dal padre al momento del matrimonio, abbastanza cospicuo da far sperare in una futura e proficua collaborazione.

«Come non è in casa? Eppure avevo un appuntamento!» protestava poco dopo, nel tono irritato di chi non è avvezzo a ripassare.

«Il notaio arriverà prestissimo. Se desiderate aspettarlo. . .» s'inchinò un segretario troppo biondo e troppo bello, introducendola in un salottino dalle linee eleganti che avrebbe fatto la gioia di molte dame dell’ancien regime.

Da dove cominciare? si chiese Caroline non appena rimasta sola, mentre faceva scorrere gli occhi sulla mobilia, tutta costosa e di gran classe: una scrivania di ciliegio con un cassetto promettente, chiuso purtroppo da una chiave egregia; una commode della reggenza, in prezioso legno di amaranto; un tavolino di palissandro dalle gambe arcuate e infine una di quelle cassettiere alte e strette che chiamavano semainier, perché riservavano un reparto a ogni giorno della settimana. Ora che il mese era diviso in decadi, sarebbero passate presto di moda, stava pensando Caroline quando lo sguardo le cadde sul piccolo secretaire accanto alla finestra, dove sopra alla ribalta intagliata occhieggiavano parecchi tiretti, che avevano tutti l'aria di contenere cose interessanti e molto private. Le fragili serrature non costituivano un problema per chi, come lei, sorreggeva la chioma con numerose forcine, si disse la giornalista mettendosi subito all’opera.

Mezz'ora più tardi il notaio Sauthier attraversava la piazza di ritorno dal suo alloggio, seguito dallo zelante domestico con la borsa. Alzando gli occhi verso l’ingresso principale dello studio, si stupì non poco nel vederne uscire una sconosciuta che si chiudeva piano piano il portone alle spalle, con un atteggiamento visibilmente circospetto.

Un attimo dopo, il cameriere, riconosciuti nei tratti dell'avvenente visitatrice quelli della servetta che gli si era presentata qualche giorno prima in vesti molto più dimesse, mormorava qualcosa all’orecchio del notaio.

«Che ci fate in casa mia, cittadina?» gridò Sauthier, precipitandosi in direzione dell’intrusa con un atteggiamento assai bellicoso.

Caroline, che aveva la coscienza sporca, non esitò un istante: raccolte tra le braccia le balze della sottana, saltò tutti assieme i quattro gradini e si diede alla fuga.

Ma aveva fatto i conti senza la moda. Per quanto il gusto repubblicano avesse posto un limite alla lunghezza delle gonne - che un tempo distinguevano le dame, servite dalla carrozza, dalle donne del popolo costrette a sciaguattare nei vicoli fangosi - gli abiti eleganti continuavano a coprire abbondantemente la caviglia, quindi per una signora ben vestita sgusciare via con rapidità costituiva ancora un’impresa molto ardua.

Mossi appena due passi, infatti, Caroline inciampò rovinosamente, volando sul lastricato con le gambe all’aria.

Il notaio era sul punto di raggiungerla, quando un ragazzetto zazzeruto, sbucato quasi dal nulla, gli si parò innanzi di corsa, sfiorandolo appena: a una mano ben esercitata, bastava la frazione di un secondo per scegliere la tasca giusta e trafugarne un pingue borsellino.

«Al ladro!» gridò Sauthier, ordinando tardivamente al valletto di inseguire il giovane delinquente, che stava già dileguandosi assieme alla refurtiva nell’orto del convento dei Cappuccini.

Soltanto allora il notaio guardò di nuovo verso il punto in cui era caduta la ragazza. Al suo posto c’erano due popolane intente a disputarsi i graziosi stivaletti che Caroline si era tolta per scappare più in fretta.

 

Café La prise de la Bastille, sezione Tuileries Due ore più tardi, Verneuil si affacciò sulla soglia del locale che tutti chiamavano ancora Café Saint-Eloi - anche se, per mettersi al passo con i tempi, i proprietari ne avevano cambiato il nome in La prise de la Bastille -, sperando di scorgere du Plessis tra la folla che sciamava dal pavillon de la Flore.

Lungo la strada si accalcavano deputati, funzionari, borghesi in marsina, guardie in divisa e tricorno piumato, sentinelle sanculotte armate di sciabola, dame con ombrellini di pizzo ben poco adatti alla stagione, un paio di ufficiali a cavallo e perfino una vettura, nel cui abitacolo al commissario parve per un attimo di scorgere il profilo dell'uomo che con Robespierre e Saint-Just formava il cosiddetto Triumvirato giacobino - come lo chiamavano sprezzantemente gli oppositori: quel George Couthon privo dell’uso delle gambe e costretto quindi a spostarsi spesso in carrozza, o addirittura sulle spalle di qualche robusto patriota.

Ma lo sconosciuto passeggero non poteva assolutamente essere il celebre Couthon, perché quest'ultimo si trovava in missione politica nella ribelle Lione, ricordò all’improvviso Verneuil, temendo di aver avuto le traveggole. Forse cominciava a vaneggiare, o a suggestionarsi da solo, forse viaggiava troppo con l’immaginazione, forse le orme diseguali che gli popolavano i sogni esistevano soltanto nella sua fantasia di adolescente solitario. Forse anche tutto il suo accanirsi su Nicolas Caron non era che il frutto di un’ossessiva fissazione, sperò: avrebbe preferito cento volte prendere l’ennesimo granchio che verificare ancora una volta quanto poco onesti fossero tanti uomini vicini al Comitato.

Poco dopo il commissario scorgeva di lontano François-Xavier, dal cui lavoro attendeva molte risposte. L'abate si affrettò a raggiungerlo con un fascio di fogli sottobraccio, inalberando un’aria trafelata ma soddisfatta.

«Ho le date delle principali operazioni finanziarie effettuate da Caron negli ultimi mesi» annunciò, spalancando la porta per dirigersi subito verso un angolo discreto in fondo al locale.

«E David mi ha procurato i decreti della Convenzione. Ora non ci resta che confrontarli!» disse Verneuil e, senza attendere il ritorno in ufficio, si mise febbrilmente a sfogliare gli appunti al tavolino, mentre il garzone gli serviva un bricco fumante. Il caffè speziato era più che decente, come se il gestore ne avesse fatto gran scorta in tempi migliori, o si approvvigionasse al mercato nero, assaporò Verneuil godendosi ogni sorso.

«Allora?» lo sollecitò l’abate.

«Purtroppo non mi sbagliavo! Il 30 maggio Hérault de Séchelles entra nel Comitato di Salute Pubblica come ministro degli Affari Esteri e Caron gli è al fianco; nei due giorni seguenti i membri del passato governo della Giron-da riescono a raggiungere la Normandia prima di essere colpiti dallo stato di accusa, mentre Madame Roland, musa e anima del movimento, rifiuta di lasciare Parigi e viene tratta in prigione.»

«Una nemica, ma di grande coraggio; per fortuna i suoi seguaci non hanno mostrato altrettanto ardimento, o sarebbero ancora al potere!» sospirò l'abate. «Dunque si può supporre che i latitanti siano stati avvertiti dell’ordine di arresto in tempo per prendere la fuga» ammise poi.

«Guarda caso, da quel giorno la liquidità di Caron aumenta. E non è tutto: il 17 luglio la Convenzione attribuisce pubblicamente all'uso del telegrafo ottico parte del merito della resistenza militare; Caron, che proprio la settimana prima ha investito somme cospicue nell’invenzione, vede lievitare sensibilmente il suo capitale. In agosto vende una proprietà acquistata poco prima nelle isole, appena in tempo per evitare il primo decreto sulla liberazione degli schiavi, sancita il 29 dello stesso mese. L’11 settembre, fissato il prezzo unico del grano, cominciano le requisizioni, ma il nostro si è già disfatto con profitto delle sue quote nel commercio dei cereali.»

«Sono coincidenze oltremodo sospette, che però non bastano a mettere Caron in rapporto con i delitti del “Boia”» cincischiò du Plessis. «A questo punto, tuttavia, è opportuno inserire nel quadro un altro piccolo dettaglio: ricordate di avermi chiesto, durante il nostro primo colloquio, se qualcuno tra i visitatori del Louvre avesse dei problemi alle gambe? Ci ho messo un bel po' ad accertarmene, ma pare proprio che il nostro Nicolas soffra di una forma molto leggera di gotta al piede sinistro, disturbo che preferisce nascondere, dato che il popolo associa questa malattia all’alimentazione troppo ricca degli aristocratici.»

«Dunque è costretto ad appoggiarsi prevalentemente alla gamba destra. Le orme disuguali del ripostiglio potrebbero essere sue!»

«È un indizio molto vago. Non abbiamo elementi validi per formalizzare un’accusa.»

«Ma per interrogarlo sì, e ci riuscirò, dovessi smuovere mezzo mondo!» disse Verneuil, facendo mostra di alzarsi.

«Aspettate!» lo trattenne l'abate. «Stamane un particolare interessante è venuto a galla anche dal furtarello di Landry ai danni del notaio Sauthier: ben riposta nel borsellino, e conservata come il più caro dei tesori, c’era la lettera scrittagli dal fratellastro Gerard Sauthier de Noigny al momento di uccidersi, solo poche righe, dalle quali tuttavia emerge chiaramente quanto profondo e affettuoso fosse il rapporto che li legava. Quindi, a dispetto di ciò che si è affannato a dichiarare durante il vostro colloquio, il notaio aveva un ottimo movente per vendicarsi dei giacobini e in particolare del segretario Guy, responsabile della denuncia che spedì l’amato fratello nel carcere da cui non sarebbe più uscito vivo.»

Verneuil, che aveva mal digerito le perfide insinuazioni del notaio Sauthier sulla sua parentela con Fabien, avrebbe dato chissà cosa per piombargli in casa, sventolargli la lettera sotto il naso e vedere finalmente spegnersi sul viso rubicondo l’insopportabile sorrisetto sprezzante. Tuttavia si trattenne: «Pensiamo a Caron, innanzitutto. Come membro della Convenzione, la sua condotta può danneggiare la Nazione più di quella di un semplice privato» .

«Siete davvero convinto della sua colpevolezza? C’erano impronte di stivali, al Louvre, mentre Caron calza quasi sempre gli scarpini. . .»

«Voi che cosa scegliereste di mettervi ai piedi, se meditaste di accoppare un collega, decapitarlo, far sparire il corpo e issarne poi la testa su un collo di marmo?»

«Touché!» ammise du Plessis mentre si avviava all'uscita accompagnato dai vari «Morte ai tiranni!» e «Viva la Nazione!» dei camerieri in attesa della mancia, cui l’abate rispose con un gesto ieratico, da interpretarsi forse come una specie di benedizione repubblicana.

Congedato l’amico, il commissario si avviò verso casa, più fiducioso del solito.

Per quanto labile, aveva una pista da seguire: a uno a uno, tutti i nodi sarebbero venuti al pettine e lui, con pazienza e costanza, li avrebbe sbrogliati, sperò, aggiustandosi con un gesto automatico il nastro della cravatta, che di solito gli pendeva di sghimbescio sul collo, come la benda di un soldato ferito.

Stranamente, quella volta il fiocco di mussola rimase decentemente avvolto nel suo intreccio. Saggiandolo con le dita, Etienne sentì sotto i polpastrelli i piccoli punti con cui Léonie aveva provveduto al rammendo: un lavoro lungo e accurato, compiuto non solo con destrezza, ma anche con amore.

La ragazza stava senza dubbio cercando di sdebitarsi dell’ospitalità che, per quanto modesta, ai suoi occhi doveva apparire pressoché lussuosa: le fiamme che danzavano nel camino, la tinozza da bagno, lo stanzino di decenza, la cameretta povera ma linda, il materasso di lana, la biancheria sempre pulita, una morbida trapunta di piuma, due pasti tutti i giorni - roba sana, calda e fumante -persino qualche spicciolo in tasca guadagnato senza attraversare a piedi mezza Parigi, spezzarsi le braccia con la pressa o compiacere il lubrico capofficina.

Invece sarebbe toccato a lui ringraziarla, per avere accettato di lasciare il lavoro al bottonificio, la soffitta del Roule e la vita cui era ormai assuefatta. Decisamente, i rapporti umani non erano il suo forte, specialmente quelli con l'altro sesso, ammise Verneuil, pentendosi della noncuranza con cui aveva trattato Léonie, rivolgendole la parola soltanto per incitarla a ricordare qualcosa di più sull’uomo intravisto dall’abbaino. Preso com’era dal vortice degli eventi, l’aveva trattata da semplice testimone, non da donna, da essere umano, da cittadina degna di rispetto.

Era tempo di farsi perdonare, si ripromise, fermandosi in place de la Maison Commune, davanti a una fioraia ambulante che vendeva minuscoli bouquet di ciclamini di bosco misti a cespi di cicoria selvatica, buona a insaporire le zuppe più misere.

Un mazzetto solo era troppo poco per dar inizio a una difficile amicizia, valutò il commissario, e, certo che Léonie avrebbe gradito il pensiero, decise di prendere seduta stante tutti i fiori in vendita, cestino compreso.

 

Quai de la Maison Commune, ci-devant quai de la Grève, appartamento di Etienne Verneuil, sezione Maison Commune Fu con il corbello in mano e molti buoni propositi nel cuore che poco dopo Etienne varcò la soglia della camera sotto i tetti. Stringendo gli occhi per distinguere le forme appena abbozzate alla luce fioca del lucernaio, vide sulla paglia giallognola della sedia la gonna di fustagno e, ben ripiegato sulla coperta, il fazzolettone bianco che di regola Léonie portava allacciato in vita. Nient’altro.

I fiori gli caddero a terra.

«Dov’è?» chiese, scendendo a precipizio.

«Mademoiselle “faccio-tutto-io” è venuta a raggiungerti» dichiarò Pàquerette sostenuta, con un tono che la diceva lunga su quanto diffidasse di tutto quell’affannoso lavorio di ago e cotone, mirante chiaramente a far pensare a Etienne quanto sarebbe stato più piacevole tenersi accanto una giovane svelta e premurosa, anziché una vecchia serva brontolona.

«Avevo raccomandato che non si muovesse di qui!» esclamò furibondo il commissario.

«Ehi, mi hai scambiato per una guardia carceraria? Non siamo alla Salpétrière, qui! La tua sartina ha preso la porta assieme a Landry, sostenendo che l'avevi mandata a chiamare!» protestò indispettita la governante, ma un’occhiata al viso pallidissimo del padrone le fu sufficiente a farle capire che l’aveva fatta grossa.

Verneuil si fiondò fuori con un sapore acre in bocca e corse all'impazzata lungo tutte le strade del quartiere, in un’affannosa e vana ricerca.

Sotto la banchina, la Senna scorreva nera. Léonie era perduta, svanita, dispersa, come Francine prima di lei.

Rientrando in casa con il morale a pezzi, trovò Pàquerette in singhiozzi.

«Si vedeva che era in ansia quando è venuta a cercarmi in cucina. Avrei dovuto trattenerla, invece non vedevo l’ora di togliermela di torno. Se adesso dovesse succederle qualcosa. . .» gemeva affranta, in preda a un tardivo rimorso.

Sforzandosi di soffocare lo sgomento, Etienne prese tra le braccia la vecchia serva e cominciò ad asciugarle pian piano le lacrime con la falda del grembiule: era lui il solo responsabile, lui che non aveva saputo difendere Léonie né da se stessa, né dal suo carnefice.

«Parlava in gran fretta, senza darmi il tempo di chiedere niente di rimando» tentò di giustificarsi la governante. «Ha detto qualcosa circa un uomo visto dalla finestra: spero di aver capito bene. . .»

Verneuil sentì il senso di colpa, amaro e rabbioso, abbattersi su di lui come l'onda fangosa che s’infrange sulla spiaggia dopo la mareggiata, lasciandovi una scia di detriti putrescenti: se avesse avuto maggior pazienza e abilità, se le avesse dedicato più tempo, se fosse stato capace di prenderla per il verso giusto, forse Léonie sarebbe stata in grado di riferirgli qualche particolare che le era sfuggito, avendone salva la vita.

O forse invece la ragazza conosceva già da prima l'aspetto dell’assassino e soltanto in extremis aveva deciso di confessarlo, dubitò Verneuil con un brivido, mentre si sforzava di mettere in conto la terribile eventualità che potesse essere lei, anziché Francine, la complice del “Boia”; ma in tal caso, perché si sarebbe risolta a svelare quanto sapeva proprio nel momento in cui stava abbandonando il suo sicuro riparo per scomparire nel nulla?

«Rammenti come ha descritto il personaggio scorto dall’abbaino?» chiese prendendo fra le sue le vecchie mani rugose di Pàquerette.

«Un elegantone, un damerino. . .» balbettò la governante, tirando su con il naso.

«Sii più precisa, sforzati di ricordare ogni singola parola che Léonie ha pronunciato prima di uscire!»

«Ha detto solo che quel tizio portava le culottes e gli scarpini bassi.»

«Non ha parlato dei capelli?» la pressò il padrone.

«Ah, sì! Erano boccoli, boccoli bianchi, tutto attorno alla nuca!» rammentò Pàquerette d’un tratto.

«Nicolas Caron, si tratta dunque di lui!» mormorò Etienne, rosso di collera.

«A dire il vero, non è quello il nome che ha fatto. Quando mi è comparsa davanti tutta agitata, mentre ero ai fornelli, continuava a invocare un certo Flipot e intanto le veniva da piangere.»

Flipot. Un nome, o forse un diminutivo, mai emerso nel corso dell'inchiesta, pensò Verneuil frastornato. L’ennesima traccia da seguire, l’ennesimo indizio che con tutta probabilità si sarebbe rivelato inconsistente come tanti altri.

«Che fine avrà fatto quella povera ragazza?» gemette Pàquerette tra le lacrime.

«Riusciremo a trovarla, vedrai!» la consolò il commissario, omettendo di aggiungere: viva.

Quella notte Etienne sognò un bianco accecante, rotto dallo sfregio di alcune orme viscide e scure. Le querce di Chateau Bois, immense e cariche di neve, piegavano su di lui i rami contorti fino a soffocarlo e lo spingevano giù per l’erta fino alle rive del ruscello, dove tra i sassi umidi giaceva esanime il corpo di Léonie.

Poi gli alberi scomparivano per lasciare il posto agli scranni della Convenzione e sul seggio più alto sedeva il marchese, con Fabien al fianco. Entrambi battevano con il martelletto, per chiedere il silenzio durante il voto.

«Morte!» sentenziavano a uno a uno i membri dell’assemblea e soltanto allora Etienne si accorgeva di essere sul banco degli imputati.

10 VENDEMMIAIO DELL’ANNO II (1° OTTOBRE 1793)

Patos National, sezione Tuileries Il giorno dopo il commissario andò incontro a Pierre Blas ben deciso a rimettergli l'incarico: non era davvero il caso di proseguire l’indagine, dopo essersi reso responsabile della scomparsa dell’unica testimone capace di riconoscere il “Boia di Parigi”. Prima di rassegnare le sue dimissioni, però, voleva fare l’estremo tentativo di incastrare lo sfuggente Caron, su cui pesava un nuovo, grave indizio.

Quella mattina, infatti, al Comitato di Sicurezza era giunto un messaggio dal Belgio, a firma Adrienne Poupeau: l'attrice negava risolutamente di aver trascorso la notte del 1° settembre con il suo amante, lasciandone scoperto l’alibi per il delitto Lussard. Una vendetta, un dispettuccio da donna abbandonata, che tuttavia, se messo immediatamente a frutto, poteva risolvere un nodo cruciale dell’inchiesta. . .

«Mi dici che stai combinando, Etienne?» lo assalì Pierre Blas,. visibilmente contrariato. «Finora tutto quello che hai prodotto sono alcune denunce per corruzione a carico di vari impiegati pubblici. E, come se non bastasse, c'è la tua firma in calce ad alcune scarcerazioni che farebbero imbestialire Coffinhal, se ne fosse a conoscenza: ho fatto in modo che restasse all’oscuro delle tue discutibili iniziative umanitarie, ma non potrò espormi una seconda volta per coprirti le spalle. Voglio risultati tangibili, o mi pentirò di averti dato carta bianca!»

«Devo interrogare Nicolas Caron!» disse il commissario, esponendo per filo e per segno tutti gli indizi che portavano al potente deputato.

«Non se ne parla nemmeno, rischieresti di indisporre Hérault de Séchelles in un momento particolarmente critico per la tenuta dell'esecutivo!» s’inalberò Pierre. «A volte mi chiedo se lo scrupolo di mostrarti imparziale non ti spinga a concentrarti soltanto sui nostri, trascurando le tante piste che ci condurrebbero dritti ai nemici della Nazione. Affermi che un fantomatico monarchico ha tentato di ucciderti, poi che fai? Cerchi il torbido nel governo della Montagna, che già si regge sul filo del rasoio!»

«Sei stato tu a dirmi di non guardare in faccia nessuno!»

«La politica è un terreno scivoloso: serve un punto d'appoggio meno labile della ripicca di una mantenuta licenziata per imporre al delfino di Hérault un colloquio che mette a repentaglio equilibri di estrema delicatezza» scosse la testa l’amico.

Stavolta Pierre non era disposto a soccorrerlo, comprese infine Etienne e, soffocando la collera, si rassegnò a seguire in corrucciato silenzio l'amico verso il pavillon de l’Égalité, ci-devant pavillon de la Flore, dove il Comitato stazionava in riunione permanente.

Nell'appartamento in cui era stata alloggiata Maria Antonietta dopo il forzato ritorno da Versailles, gli arredi erano sempre gli stessi di un tempo, tutti stucchi e fronzoli - raramente gli uomini impegnati a tessere la trama della Storia trovano il tempo per rinnovare la mobilia - e lo scalone del primo piano immetteva ancora negli uffici ricavati dalle decoratissime camere della principessa di Lamballe, l’unica dama di corte pronta a pagare con la vita la fedeltà alla deposta regina.

Fu proprio da una di quelle stanze che uscì all’improvviso Hérault de Séchelles, seguito da un azzimatissimo Nicolas Caron, che ostentava il suo zelo di sollecito portaborse scartabellando con aria di importanza una risma di appunti.

“O la va o la spacca! ” decise Verneuil e in due falcate si parò innanzi al suo sospetto.

«Ho bisogno di conoscere i tuoi movimenti nella notte dal 1° al 2 settembre!» esordì ad alta voce, attirando l’attenzione di tutti i presenti.

«Come ti permetti di rivolgerti così a un membro della Convenzione?» ribattè l’altro sprezzante, cercando con lo sguardo il suo potente protettore. «È ora che si metta fine agli abusi nei confronti degli eletti dal popolo. Hérault ha appena presentato a riguardo una richiesta che vieta. . .»

«È stata respinta, cittadino!» scandì una voce autorevole e sul fondo del corridoio comparve Robespierre in persona.

Eccolo dunque l'Incorruttibile, pensò Verneuil, il Virtuosissimo, il Perfettino, il Noioso, l’Avvocaticchio, il Parrucchetto, “la candelina di Arras”, come veniva chiamato in sarcastica contrapposizione al sanguigno Mirabeau, ”fiaccola della Provenza”. Questo per gli amici; per i nemici era il Demonio, il Sanguinario, l’Anticristo, il Diavolo incarnato.

«Sarebbe auspicabile che i rappresentanti della Nazione collaborassero maggiormente con la Sicurezza» disse l’uomo più potente della Francia, mentre un tremore impercettibile della palpebra destra ne smentiva il tono pacato. «Io non ho alcuna riluttanza a deporre di aver trascorso quella notte nelle mie stanze in rue Saint-Honoré: il cittadino Duplay, presso cui alloggio, e le due figlie nubili che abitano con lui potranno avallare la mia dichiarazione. Qualcun altro se la sente di aggiungere del suo?» chiese mellifluo, volgendo attorno lo sguardo.

«Si tratta della notte che fece seguito al tumulto del pane, vero?» si affrettò a imitarlo Pierre Blas. «Ero a letto, ma non ho nessuno a testimoniarlo.»

«Io invece sì! Ero con l'attrice Adrienne Poupeau!» esclamò Caron, ancora all’oscuro del messaggio che smentiva il suo alibi.

«Una compagnia allettante, ma piuttosto costosa» osservò Robespierre maligno. «Voglio sperare che per pagarla tu non abbia attinto a fondi pubblici.»

«Che dici? È soltanto un'amica d’infanzia. . .» si schermì Caron.

«Un’infanzia vissuta in ristrettezze, mi risulta, mentre ora il tuo patrimonio personale è cospicuo. Sarebbe doveroso da parte tua fornirci qualche ragguaglio sulle tue fonti di reddito, cittadino. . .»

Il deputato deglutì livido, gratificando il commissario di una lunga occhiata rancorosa. Si era procurato un nemico e non di poco conto, constatò Etienne, ma dato che ormai la frittata era fatta, decise di reiterare la dose, chiedendo a tutti di riferire sulla notte della morte della baronessa. Mentre Robespierre e Blas rispondevano compunti - il primo si trovava in riunione, il secondo a casa di Saint-Just -, Caron perse le staffe: «Stai insinuando che abbia qualcosa a che fare con i delitti del “Boia”? Diglielo, Blas, che c'ero anch’io dall’Arcangelo, quella notte!» gridò. Poi, senza aspettare risposta, cominciò a invocare a gran voce: «Hérault, Hérault, ci attaccano!» .

Guardandolo correre agitatissimo verso il suo mentore, Robespierre si aggiustò con soddisfazione gli occhialini sul naso.

«Parigi rischia il collasso. L’ultima cosa di cui ho bisogno è un assassino capace di accendere la fantasia degli esaltati: quando mi porterai il “Boia di Parigi”?» chiese al commissario, sfiorandogli la spalla con la mano cerea.

«Presto, molto presto» mentì quest’ultimo, senza più alcuna intenzione di dimettersi.

«Hai fama di uomo capace di affrontare scelte dolorose, cittadino Verneuil» aggiunse l'Incorruttibile. «Scelte che sono costretto a fare ogni giorno anch’io, contrario come sono alla pena capitale. . .»

«I nemici della Nazione non meritano di vivere!» tuonò Saint-Just avanzando a larghi passi verso di loro. Come sempre, l'espressione dell’Arcangelo era impenetrabile, il tono drastico, le frasi brevi e appassionate: quando parlava, gli si sarebbe data l’anima, quando taceva erano in molti a tremare.

«Louis-Antoine ha ragione» concordò Robespierre. «Spero che il popolo capisca.»

«La Nazione è con noi!» assicurarono in coro Blas e Saint-Just.

«Certo, certo, anche se le obiezioni non mancano. . .» mormorò l’Incorruttibile in tono distratto e la palpebra gli tremò di nuovo. «A proposito, deputato Blas, vedi di rispondere personalmente alle proteste di chi critica mio fratello Augustin per aver imposto allo stato maggiore di Tolone quel piccolo capitano corso uscito dal nulla.»