Nel sudario nero s'infiltrò un raggio d'argento lunare, furtivo e incerto, come sentendosi, là, un intruso, e la musica tenue dell'ottavino ne accompagnava l'espandersi. Il chiar di luna si diffuse, illuminando un prato nel cui centro c'era un pantano, con molta mota e poca acqua. Tutt'intorno crescevano gramigne, con cardi e artemisie, e dalla poca acqua del brago salivano le sonore serenate giullaresche e concupiscenti dei ranocchi che cantavano le loro frenetiche canzoni nuziali. Le acque del brago diventarono sempre più brillanti, fino a fare del pantano un disco di raggi di luna, una scodella piena di scintillii. Nell'acqua baluginavano degli occhi: di pesce, di rospo e di rana, di salamandra, di tartaruga, di crostaceo. Palpitavano nei raggi lunari.
Degli animaletti sopraggiunsero di corsa attraverso il prato: tassi, visoni e ricci, e scoiattoli, ratti, marmotte, gatti, ermellini e piccole volpi. Si assieparono intorno al pantano, e i loro occhi formavano un cerchio di puntolini azzurri. Non sapevano perché si radunassero là, ma c'erano venuti, dalla foresta, dalla maremma, dalla collina e dalle cacce. Erano venuti tutti a radunarsi là, e non bisticciavano o litigavano; riuniti in silenzio, aspettavano, chiedendosi perché aspettassero, accanto al pantano nel chiar di luna.
Nella poca acqua le tartarughe nuotavano senza posa, e le chiglie dei loro gusci increspavano l'acqua con sommessi sciacquii. Le salamandre salivano strisciando sulla riva e rientravano in acqua, salivano e rientravano, mentre le rane ammutolivano nelle loro canzoni d'amore, cessavano di deporre uova. Una biscia acquaiola acchiappò un ranocchio verde che lanciò nel chiar di luna il suo grido di morte. E tutte le altre rane gemettero, raggomitolate, verdi, sotto le foglie delle gramigne.
— Silenzio! — urlò Apollonio.
— I serpenti ci aggrediscono — piagnucolarono i menestrelli.
— Silenzio! — disse il mago.
Allora vennero le streghe. Vennero dritte dai monti della luna, a cavalcioni dei manici di scopa, giù per la strada maestra dei raggi lunari, al pantano e alla schiera in attesa. Belle alcune, brutte altre, magre e rancide, grasse e maligne, vecchie e giovanili, repellenti e divine, ne arrivavano senza fine. Ad alcune, il rapido volo aveva fatto male, e vomitavano strani fluidi; alcune sputavano sangue. Alcune avevano la tonaca e la cuffia come monache. Circuitando in ampi cerchi, planando sul manico di scopa, sfioravano il pelo dell'acqua, donne volanti sinistre con i loro cenci e stracci al vento e con risate sguaiate da baldracche; circuitavano, circuitavano, poi atterravano. Le rive del brago erano nere di una folla di sorelle, ma sorelle tentatrici, sorelle di falsità, di corruzione. Era un raduno di garrule cornacchie, di donne sporche, impenitenti, indesiderabili e sterili, che saltellavano e ridacchiavano nella mota.
— Danzate — disse Apollonio. — Viene il padrone.
Nel mezzo dell'acqua, sulla schiena di un'enorme tartaruga, si accese il fuoco in un braciere di ferro. La luce della fiamma combatté contro la luce della luna e fu il chiar di luna a spegnersi, fu l'oro del fuoco a cancellare dal brago l'argento lunare. I batraci, i cheloni e le salamandre levarono le teste bagnate, allineandosi come reparti militari a formare un ponte vivente fino al fuoco. E le streghe, alzandosi le sottane, passarono sopra l'acqua sul sentiero di teste degli abitatori acquatici. Intorno al fuoco svampante fecero il girotondo.
Le rane gracchiando segnavano il tempo dei passi. Giunsero pipistrelli, portati sulle ali della notte, a salutare le suore danzanti. Vennero i pipistrelli, come ondeggianti fiocchi di fuliggine senza requie. Squittivano all'orecchio delle streghe, librati, poi posandosi nei loro capelli ne mordicchiavano amichevolmente le orecchie, le rabbuffavano, raccontavano cose segrete.
Sul dorso della tartaruga portatrice di fuoco, un tizzone ardente cadde dal braciere. Prima che raggiungesse l'acqua, un rospo, scambiandolo per un coleottero luminoso, lo acchiappò con l'agile lingua e l'ingoiò, poi si contorse convulsamente per il bruciore in pancia. E la gran tartaruga, vigilando il falò, immergeva ogni tanto la testa nel pantano per portarne fuori tra le fauci dei pezzetti di torba e delle schegge di legna che lanciava indietro, oltre il proprio capo, nelle fiamme, per alimentarle. Quando questo materiale bagnato cadeva nel fuoco, si levavano gran sibili su ali di vapore.
I visoni e gli ermellini allentarono i lacci delle loro sacche odorifere, e una puzza viscosa inondò l'aria del pantano. I gatti randagi strillavano con voci alte e acute, contrastanti col muggito di basso della rane toro. Le piccole volpi abbaiavano. I porcospini mandavano suoni sgradevoli e squittenti. I tassi stavano a guardare, seduti sul posteriore, con i musi canzonatori simili a maschere, con le loro striature sghembe, con il pelo bagnato e fangoso.
Le streghe piroettavano, danzavano, ridevano, tossivano e facevano smorfie per la puzza pungente dei visoni. Gli animali facevano da orchestra, con la musica dei loro suoni grotteschi.
— Maggior foga! — gridò il taumaturgo. — Viene il padrone!
Le grida degli animali crebbero, crepitando in «staccato» nell'aria del pantano. Le streghe rotearono più veloci, ballarono più sfrenatamente, mentre il fuoco mandava fontane di scintille, si gonfiava e ruggiva.
Allora, sopra le fiamme, annoiato, grasso e ipersessuato, fumando una sigaretta, Satana Mekratrig apparve. Verde egli era, con chiazze nere di muffa sulla faccia e sulle spalle. Soffiava anelli grigi di fumo, ed esaminava il ballo.
— Schifoso — disse. — Schifoso. Mai visto un ballo così scassato. Su svelte, su svelte! — E, agguantata dal nulla, nell'aria, una frusta, si mise a sferzare le streghe. Tra gli schiocchi del lungo sverzino la frusta danzava tra le sorelle danzanti, tagliente e pungente. Tra loro, lo sverzino cadeva più spesso sulla strega più giovane, una pallida snella flessuosa strega, una nuda strega eburnea dai capelli neri, Demisara, la strega dell'incesto, la strega dell'ignominia. Le vecchie sorelle aduste, invidiando quel segno di favore, la urtavano, sibilavano contro di lei, e nascostamente le sputavano addosso; ma la frusta di Satana continuava a cadere sulle spalle giovani e desiderabili di Demisara, si avvolgeva intorno alla sua vita, schioccava sulla sua schiena, e le vecchie megere scarmigliate gettavano risa di scherno vedendo che Mekratrig si era fatta una nuova favorita.
Tutti gli animali entrarono nell'acqua per unirsi al ballo, guadando nella mota, calpestando i gamberetti, i pesciolini e i girini, scavalcando le rane. Aleggiante sulla fiamma, Satana rise della schizzinosità dei gatti impillaccherati, che avevano paura di non ballare anche loro, ma che odiavano l'acqua e il fango, e che camminavano come sui carboni ardenti. Egli afferrò delle manciate di fiamma dal falò e le gettò sull'acqua tra gli esseri pelosi, incendiando le loro pellicce, bruciacchiando i loro baffi, accendendo come micce le code. Gli animali miagolavano disperatamente, bruciati e ustionati, ma continuavano a ballare.
Satana Mekratrig si sporse e afferrò Demisara dai capelli, la tirò via dalle sorelle, l'avvinse a sé tra le fiamme e lì l'amò. Negli occhi della strega c'era brillio di stelle, sulle sue spalle lucevano gocce di rugiada.
— Sarà bene che ti fermi, Apollonio, — l'ammonì il dottor Lao — se no la faccenda ci sfugge di mano.
— Chiar di luna! — gridò il mago. — Musica acuta sul «piccolo»!
Il chiar di luna tornò a precipizio, cancellando la vampa e il riverbero del fuoco. Lo stridio del «piccolo» sommerse il rumore delle voci di animali. Satana Mekratrig ululò una bestemmia, che indugiò nell'aria come un fumo azzurro. Il ritmo del ballo esitò e s'interruppe. La visibilità svanì. Il fuoco si spense. Gli animali scomparvero. Le streghe, corte un fiume, risalirono alle montagne della luna sui manici di scopa. Il chiar di luna si ritirò furtivamente e solo rimase il velario di tenebre.
— Che la luce sia — ordinò il mago.
Venne la luce, la luce diurna di Abalone (Arizona), a illuminare il tendone. Ma nel centro del tendone, sospeso nell'aria sopra la segatura, Satana Mekratrig rimaneva ancora e nelle sue braccia si dibatteva Demisara. Il diavolo inveì contro Apollonio, sfidando la proscrizione. Le sue labbra schiumavano, per la violenza dell'invettiva.
Ficcata la mano nella sua tunica, il mago tirò fuori Un crocifisso. Tenendo alto il piccolo Gesù squartato sulla croce, avanzò fin sotto il demonio. Ci fu uno scoppio di fuoco nel centro del tendone, e il diavolo scomparve, insieme con la strega. Apollonio baciò l'artistico oggetto e lo ripose.
Gli applausi furono radi e poco convinti. Apollonio e il dottor Lao si fecero un grave inchino l'uno all'altro. Poi il mago, sprofondato nei suoi pensieri, se ne tornò lemme lemme in camerino.
Dopo di ciò, gli animali eseguirono rapidamente, l' uno dopo l'altro, le rimanenti parti del repertorio. L'asino d'oro e il bracco delle siepi fecero un numero d' equitazione. Il satiro venne avanti sorridente, in collant viola e fascia rossa e, con le corna aguzze e sicure, bucò dei palloncini che il dottor Lao gonfiava e gli gettava. Ungaubwa, il gran sacerdote dei negri, servendosi di una delle ragazze nere come bersaglio, lanciò coltelli e accette inchiodandola per le vesti a uno schermo. Da una scala di corda altissima, la sirena si tuffò in un serbatoio minuscolo. Avanzarono le ninfe in succinte tuniche greche di vivaci colori, cantando il canto delle sirene, quello stesso in merito al quale il dottor Browne ha affermato ch'era di facile decifrazione, senza azzardarsi tuttavia a precisarlo e contentandosi invece di dichiarare ch'era in grado di farlo quando volesse.
Le pastore e gli agnellini seguivano le cantatrici del canto delle sirene. Si movevano in un pomeriggio colmo della fresca flessibilità della stagione di maggio. Queste pastore, questi agnelli, erano come le figure sull'antica e sottile porcellana cinese, quasi altrettanto idealizzate, quasi altrettanto tenui. Il pubblico si lasciò andare a una specie di lieve sopore nel guardarle. Poi un nuvolone nero, crudele e violento, giunse ruggendo dal nulla, e oltre l'orlo del nembo si sporse la faccia sudata di Satana Mekratrig, con un sorriso acerbo all'indirizzo delle dolci pastore, degli sgambettanti agnellini. Le une e gli altri rabbrividirono e si fecero piccini piccini.
— Ma perché, in questo circo, il simbolo del male deve intervenire in tutto e in ogni scena? — esclamo la signorina Agnes Birdsong. — Quel vecchio cinese cinico non sa far altro che questo! Invece esiste la purezza, esiste la semplicità, esiste la bontà senza il minimo cenno di male. Lo so che esistono. Oh, lui ha torto!
— Si tratta soltanto di un circo — disse il signor Etaoin. — Non si dia pensiero.
Anche il dottor Lao l'aveva udita.
— Il mondo è la mia idea — disse. — Il mondo è la mia idea, e come tale ve la presento. Io ho il mio sistema di pesi e misure, con le mie tavole per calcolare i valori. Lei è pienamente libera di avere i suoi.
Con un cenno mandò via le pastore e il demonio, nonché la stagione mariana. Salì sul piedestallo e annunciò:
— Il pomeriggio avanza, l'ora si fa tarda, su qualche volto scorgo i sintomi di un tedio spaventoso. Be', nell' esibizione di questo circo rimane ancora soltanto una scena: è lo spettacolo del popolo di quell'antica città, Woldercan, che adora il suo dio Yottle, il primo, il più potente, il più spietato di tutti gli dèi.
«Una devozione come quella non esiste più. Una fede così semplice e cieca si è persa, al mondo. Mi è stato detto che qui, ad Abalone, quando voialtri adorate il vostro dio, lo fate in una chiesa provvista d'impianto di diffusione, così che qualsiasi automobile sportiva munita di radio, anche correndo a cento chilometri l'ora, può udire le vostre preghiere. Ma le ode il vostro dio? Ah, be'... come c'entra, questo?
«Per facilitarvi la comprensione di questo episodio che andiamo a rappresentare, è necessario che v'informi che Woldercan era afflitta da una gran siccità. Né ricchi né poveri avevano da mangiare, perché c'era una tale aridità che non cresceva più niente. Era una calamità quale Woldercan mai aveva avuto da affrontare. Se è vero, infatti, che i poveri c'erano sempre stati e avevano sempre sofferto di una fame cronica, com'è d'uso per i poveri, è anche vero, però, che sino a quel momento i ricchi avevano sempre vissuto alla maniera dei ricchi, cioè scremando il fior fiore della terra. Adesso invece non c'era cibo per nessuno, nemmeno per i ricchi, e tutto il denaro del reame non avrebbe potuto comperare nemmeno una rapa marcia.
«Il terrore, quel gran livellatore, spazzava la città. I politici erano impotenti, la polizia era impotente. Erano impotenti gli studiosi, erano impotenti i ricchi. La gente stava in giro, aspettando, in timorosi capannelli, il sopraggiungere della morte per la via dell'inedia.
«Un uomo, tuttavia, fra tutti loro, fece qualcosa. Era egli colui ch'era gran sacerdote di Yottle. Andò rapido tra loro, e:
«"Venite," disse "radunatevi nel tempio. Pregheremo Yottle. Yottle proteggerà i suoi credenti."
«Perciò tutta Woldercan, non avendo nient'altro da fare, andò allora al tempio di Yottle per pregare.
«Ora, questo episodio dei Woldercanesi che, morenti di fame, nel tempio di Yottle, pregano chiedendo soccorso, è indubbiamente una delle scene più straordinarie, vivide e drammatiche che la storia ricordi, ed è con profondo orgoglio che io ve la presento nel mio circo. Come piccolo accenno a quel che accade, desidero ricordarvi che essi sacrificano una vergine al loro dio. Devozione. Quella si che era vera devozione. Quando voialtri, qui ad Abalone, pregate il vostro dio che ponga termine a una siccità, giungete forse a tanto, nelle vostre proteste di fede? Sacrifichereste la più bella vergine di Abalone? Ah, be'...»
Il dottor Lao, sceso a questo punto dal piedestallo, si mise un po' da parte. Si tolse il suo cappello a cilindro di presentatore. — Signore e signori, — gridò — vi presento il tempio di Yottle nell'antica Woldercan!
La parte posteriore del tendone si arrotolò in su e indietro, e là, dinanzi agli occhi di Abalone (Arizona), ecco l'interno del tempio altissimo, grandissimo e cupo, del gran dio Yottle. Dalla navata, oltre il transetto, si gonfiò a grandi ondate la musica delle sfere, indugiò nelle gigantesche travature e salì in alto, sempre più in alto, fino alla sbarra dorata del cielo stesso.
Sopra l'altare, su una predella d'avorio, stava in trono Yottle. Aveva una mano alzata; l'altra gli sfiorava la gola. I suoi occhi, guardando di tra palpebre ingemmate, contemplavano cose lontanissime dalla terra. Presso le sue caviglie fumavano gli incensieri. Era più grande di un mastodonte, più pesante di un ippopotamo, più terrificante e dell'uno e dell'altro. La carne di Yottle era bronzo, e il suo grasso altresì era bronzeo. La sua sacra ascia di selce posava in un canto della predella: arnese sacrificale, mazza brutale di morte.
Inopi e cenciosi, i Woldercanesi, in numero di undicimila, gemevano pietosamente nella loro miseria e alcuni cantilenavano a bassa voce degl'inni di speranza ormai perduta. Grigi erano i volti degli abitanti di Woldercan, ed era, quello, il grigiore della fame e il grigiore della paura.
Dalla massa grigia si levò il gran sacerdote; intorno al capo c'era una specie di santo splendore. Li benedì con le sue mani e:
— Pace — disse. — Pazienza e pace.
Poi il gran sacerdote si volse a Yottle, facendo gesti mistici, cabalistici. S'inginocchiò. Pregò.
— Gloria al tuo nome, Yottle. Omaggio dinanzi ai tuoi occhi, Yottle. Yottle onnisciente, Yottle onnipotente. Peccatori tutti, veniamo dinanzi a te, lordi di peccato, d'infingardaggine, di avidità, d'odio, di lussuria. Stanchi, non possiamo più peccare. Sazi, siamo nauseati e spaventati. Disperati e colmi di vergogna ci rivolgiamo a te. Moribondi, ricordiamo le preghiere dimenticate. Senza speranza, impetriamo: Signore del nostro mondo, perdonaci, Luce delle nostre tenebre, illuminaci, Creatore delle sfere, aiutaci. Yottle, grande Yottle, perdonaci ora. Perdona.
Ma dal fondo del tempio un uomo si alzò a protestare:
— Perché preghi così? Noi, certamente, non ci vergogniamo di noi stessi. Non siamo lordi di peccato e di lussuria. L'unica ragione per cui siamo qui è perché Yottle ha ritenuto opportuno privare della pioggia i nostri raccolti. Non chiediamo il perdono. Chiediamo la pioggia e qualcosa da mangiare. Di' questo, a Yottle. L' affar tuo è d'intercedere per noi, non di spettegolare sul nostro conto. — Si rivolse agli altri. — Non ho ragione? — disse.
— Certo che l'hai— dissero. E al sacerdote dissero: — Ha senz'altro ragione. Abbiamo peccato, sì. Ma non siamo del tutto privi di virtù. Nella prossima frase della tua preghiera, minimizza i nostri punti neri, e accentua i buoni. Non far di noi un gregge di deboli peccatori sguazzanti nel letamaio delle nostre manchevolezze. Di' a Yottle delle angustie in cui siamo, se vuoi, ma non essere così zelante a dire che le meritiamo, perché non crediamo di meritarle.
Con estrema acredine, il gran sacerdote rispose loro:
— Ordunque voi mi criticate e mi umiliate dinanzi agli occhi stessi di Yottle! Dite a me, vostro gran sacerdote, come devo pregare! Benissimo.
Si girò verso Yottle, gridando:
— Ehi, tu, mucchio di bronzo e di pietre lucenti! Guardaci un po', e stupisci che un popolo così stupendo non ti abbatta e non ti fonda e non faccia col tuo metallo dei gingilli. Noi siamo senza paura. Noi siamo grandi. Woldercan non supplica: ordina. Odi e obbedisci.
«Vogliamo avere subito del cibo. E vogliamo avere anche, subito, la pioggia, per poter coltivare altro cibo. Perciò, dalla tua cucina cosmica, Yottle, gettaci giù dal cielo qualche torta, e col tuo innaffiatoio bagna i nostri campi di grano che sono morti. Dacci da mangiare, Yottle, presto e bene. Riempi le nostre...»
Ma prima che il sacerdote potesse aggiungere altro, un torrente di parole, forti, acute, veementi sommerse le sue. Le parole giungevano da tutte le parti contemporaneamente, come fanno gli uragani, come fanno le inondazioni. Poi tacquero.
Gli abitanti di Woldercan caddero prosternati. Quella era stata la voce di Yottle, come ben sapevano.
Il sacerdote fu il primo a rialzarsi. Con le mani, li benedisse.
— Pace — disse al suo gregge. — Pace, e non temete.
Yottle ha parlato. È indignato, ma disposto a lasciarsi intenerire. Dice che dubita della nostra fede in lui, ma ch'è disposto a metterla alla prova. Dice anche, però, ch'è così arrabbiato, adesso, che noi dobbiamo sacrificargli la nostra vergine più bella, prima ch'egli faccia altro. Cominciate col sacrificarla, dice, poi parleremo della pioggia. È molto arrabbiato. Non intende lasciarci molto tempo. Affrettarsi è d'importanza vitale, figliuoli miei. Perciò, presto, sacrifichiamo la vergine per calmarlo. Plachiamo immediatamente il nostro dio infuriato.
— Però, — disse lo stesso che lo aveva interrotto prima — come faremo a trovare la vergine più bella?
— Terremo, seduta stante, un concorso di bellezza — disse il sacerdote. — Che tutte le nostre vergini si allineino. Sceglieremo la più bella per acclamazione popolare. Sarà un grande onore per lei. Inoltre, è meglio che muoia una piuttosto che l'intera popolazione. Questa appunto è la teoria del sacrificio. Quindi, tutte le vergini vengano ad allinearsi qui. Su, svelte, per favore! La rapidità è un elemento essenziale. Yottle è molto arrabbiato. Presto! Presto!
Una dozzina di ragazze formarono una fila inquieta.
— Puah! — disse il sacerdote disgustato. — Ci sono più ragazze di così a Woldercan. Le vedo di qui con i miei stessi occhi. Su! Su!
Un realista gli ricordò che uno dei requisiti riguardava la vera verginità.
— Santo cielo — disse il sacerdote. — Naturalmente. Ciò spiega la cosa. Benissimo. Man mano ch'io cammino dietro queste ragazze, figlioli miei, e pongo la mano sopra ciascuna testa, voi, col vostro applauso, indicherete quella che volete dare in sposa a Yottle.
Di fronte ai volti del popolo di Woldercan, i dodici pezzi di sesso, maturo ma intatto, stavano in posa, stavano in attesa di quella designazione che a una di esse avrebbe recato la corona della bellezza e, insieme, l'amplesso della morte. Il sacerdote vecchio e tremulo passò vacillante dietro le ragazze, ponendo sopra le loro teste belle e trionfanti (belle per la grazia e l'incanto, trionfanti per la giovinezza e la vitalità) le sue mani rugose. Via via che le mani sacerdotali si posavano, interrogativamente, su ciascuna testa, nella congregazione si diffondeva uno scroscio di applausi, or di maggiore or di minor volume. E fu quando le annose mani si alzarono sopra la dodicesima testa, una testolina bruna, orgogliosa, squisita, che l'applauso divenne un frastuono tonante, che andava crescendo, gonfiandosi, echeggiando. La sposa di Yottle era stata scelta.
Ma dalla ressa uscì un gran grido strozzato. E l'uomo che aveva interrotto la preghiera del gran sacerdote s'inginocchiò nella sua infelicità improvvisa, affranta e terribile. Perché Woldercan aveva scelto la sua amata, la sua fidanzata.
Il sacerdote gli porse inefficaci conforti. — La volontà di Yottle è spesso imperscrutabile, fratello — egli disse. — Ed è indubbiamente Yottle ad avere ispirato il popolo a scegliere lei. Pace, fratello, e non temere. L'attende la gloria.
La tensione, negli umori del popolo, aveva raggiunto un punto esplosivo. — Su! — gridava la gente. — Su! Lascialo perdere. Facciamo il sacrificio.
— Sì — disse il sacerdote. — Ora, chinate il capo.
Gli accoliti fecero fare silenzio alla congregazione precedendo la vergine, che, un po' più indietro, andava all'altare. Sul viso di lei aleggiava una strana luce oscura e sopra il suo capo una fioca e pallida aureola. Lei non era più di Woldercan, lo sapevano bene. Sbirciandola fisso in scancio la gente si chiedeva, ora che ella era consacrata, come mai non ne avesse scorta prima la santità. Il tempio della sua carne passava in effetti tra la folla di un tempio di Yottle che era più grato e santo, più misterioso, e ispiratore di maggior adorazione che non il tempio di pietra attraverso il quale camminava.
Il suo innamorato alzò la testa pateticamente e gridò in tono tragico:
— Oh, fermatela! Fermatela! Dio santo e onnipotente, fermatela! Ch'io muoia in sua vece. Moriamo tutti prima ch'ella sia anche soltanto sfiorata. Quell'immagine dalla faccia di bronzo, questa bella fanciulla: uccidere l'una per placare l'altra? Follia! Oh, cielo e inferno, non ammazzatela per quell'idolo!
— Zitto! — diceva la gente. — Mettiti a sedere! Sei isterico. Yottle ha parlato e la sacrificheremo a lui. Gloria al nome di Yottle! Da lui nasce e fiorisce ogni saggezza. Fa' il tuo dovere, sacerdote.
Dal cantuccio della predella d'avorio, il gran sacerdote alzò la sacra ascia di selce. Ordinò alla vergine di spogliarsi, affinché potesse andare a Yottle senza intralci di lino e di cotone. Gli abitanti di Woldercan si agitavano e rumoreggiavano, nella loro eccitazione. Il tempio stesso sembrava vacillare.
Il vecchio sacerdote si sputò nelle mani e alzò l'ascia.
Allora l'innamorato saltò su come un cervo e attraverso la moltitudine si lanciò rapido come una freccia al fianco della sua amata. Strillando «No, no!» e «Ferma, ferma!» si azzuffò col sacerdote, lottando furiosamente per impadronirsi dell'arnese monolitico. Il popolo di Woldercan urlava inferocito, invaso dal furore. Pareva che, come fanno le turbe, stesse per invadere l'altare.
Ma molto silenziosamente, però con una repentinità impaziente e orrenda, Yottle cadde in avanti dalla sua predella d'avorio. La sua mano alzata colse l'innamorato in lotta sulla testa, spaccandogliela come una nocciuola. Nell'impossibilità di fuggire, anche il sacerdote e la vergine furono schiacciati dalla caduta di quel gran corpo di bronzo. Là, ai piedi dell'altare, giacquero tre cadaveri e il gran dio Yottle.
Dall'alto dei cieli sereni scese a grandi pani la manna, cadendo sugli abitanti affamati di Woldercan. E, per le loro messi, venne nel vento a spruzzi un'acquerugiola piangente e gocciolante.
Poi i lembi della tenda ricaddero in avanti e in giù, e con questo il circo del dottor Lao terminò. Nella polvere e nel solleone, la gente di Abalone se ne andò verso casa, o dovunque fosse che andava.