Un avvocato che si vantava d'esser dotto in storia e in religioni lesse l'annunzio pubblicitario e s'incagliò sulla «città da gran tempo defunta di Woldercan» e sullo «spaventoso dio Yottle». Andò a cercare nell'enciclopedia, per rinfrescarsi la memoria. Non trovò traccia né di quella divinità né di quella città. Non era ben sicuro neanche a proposito di Bel-Marduk e perciò controllò anche quello. Bel, però, c'era. «Yottle...» pensò l'avvocato «Woldercan... Tutte balle; qualcuno sta sgonfiando. Menando per il naso la gente. Chissà in che modo un circo s'immagina un dio più antico di Bel-Marduk. Oh, Signore! Che cosa inventerà ancora la gente? Credo che andrò a vedere questa roba. Non mi può capitare di peggio che di annoiarmi a morte.»

Una certa signora Cassan, vedova Howard T., lesse l'annunzio alle dieci meno un quarto. «... Il parco dei divertimenti ospiterà un indovino... nel velo del mistero... profezie invariabilmente esatte...» La signora Cassan andava sempre dalle chiromanti. Se non ce n'erano a tiro, si faceva le carte da sola, o faceva sedute spiritistiche con l'ouija. Si era fatta dire la fortuna tante volte che, per far avverare tutte le predizioni, avrebbe dovuto vivere ancora novantasette anni, conoscere e sedurre un intero reggimento di uomini alti e bruni in organico di mobilitazione. «Andrò a chiedere a quest'uomo... vediamo un po'... sì, gli chiederò di quel pozzo di petrolio di cui ho sognato», si disse la signora Howard T. Cassan.

Due studenti venuti dall'Est, Slick Bromiezchski e Paul Conrad Gordon, che si trovavano ad Abalone, Arizona, di passaggio dopo una puntata nel Messico (quello vecchio), lessero l'annunzio pubblicitario e stabilirono di fare una capatina al circo.

— Andiamo al baracchino da guardoni — disse Slick.

— Giusto! E andiamoci benzinati e in cimbali, per di più — disse Paul. — Rifiutare l'ingresso agli uomini sotto l'effetto dell'alcool è una sfida che nessun Sigma Omicron Beta può fare a meno di raccogliere.

Il correttore di bozze della Tribune signor Etaoin scrutinò nuovamente l'annunzio alle dieci e mezzo, durante la sua prima colazione, per vedere se gli fossero sfuggiti dei refusi la sera prima. Fu lieto di non trovarne. Considerò la pagina con affetto, osservando il risalto acquistato dai grandi caratteri neri di scatola grazie all'uso dello spazio bianco circostante, approvò l'impiego limitato del corsivo, ammirando il maiuscolo e il maiuscoletto sottile del Goudy. Il significato di ciò che stava guardando lo colpi. «Chissà che razza di spettacolo è?» pensò il signor Etaoin. «Credo che andrò a vedere questa roba.»

Il signor Larry Kamper lesse l'annunzio pubblicitario di sfuggita, su una copia gettata via della Tribune, mentre oziava sdraiato sotto le palme del giardino pubblico presso la stazione ferroviaria, nell'attesa che un treno merci partisse da Abalone. Larry non sapeva che treno stesse aspettando, né in quale direzione andava, né quando sarebbe partito. Ma non se ne curava. Da poco egli era stato congedato dall'esercito, aveva ancora qualche soldo, era discretamente padrone di se stesso e relativamente libero da preoccupazioni. Il suo ultimo indirizzo fisso era stato presso la Compagnia E del 15° Reggimento fanteria U.S. nella Concessione americana di Tientsin, in Cina. Tornato in America con una nave trasporto truppe, era stato congedato a Fort Mason, aveva riscosso tutto ciò che gli era dovuto, e adesso girava il gran Sudovest, terra a lui sinora sconosciuta, viaggiando lussuosamente a sbafo. Perciò oziava sotto le palme del giardino pubblico presso la stazione ferroviaria, in attesa d'un treno merci che andasse in una direzione o nell'altra, e lesse di sfuggita l'annunzio pubblicitario nella copia abbandonata della Tribune. E guarda un po'! Sul viaggiatore scettico e incallito cadde un velo di nostalgia; dalle ossa dell'adolescenza defunta il fantasma di un tremulo grido venne a colpire le sue orecchie: da dieci anni non vedeva un circo; esser di nuovo come un bambino, tremare alla vista d'animali strani, ritrovare la semplice emozione della meraviglia... che piacere, che bella cosa sarebbe stata. Larry il soldato di fanteria, Larry il rissaiolo da bettola, Larry il cacciatore di baldracche, Larry lo sboccato, lesse l'annunzio ed ebbe nostalgia della propria adolescenza. Lì per lì s'alzò in piedi, chiedendosi che ora fosse, e si avviò alla volta del circo.

Percorsi sei isolati giù per la Main Street, Larry Kamper incontrò la parata. Dunque era ancora presto per lo spettacolo, ed egli, facendosi largo tra la ressa di messicani che ingombravano il marciapiede, andò a dare un' occhiata alla sfilata.

Quasi si mise a ridere nel vederla. Solo tre piccoli carri scassati trainati da animali, il primo condotto da un vecchio cinese, il secondo da un uomo pallido e barbuto, il terzo da un tipo d'ebreo con un trofeo di corna di capra sulla testa. Nel carro del cinese c'era un gran serpente grigio acciambellato, un orso nel secondo carro, un cane verde nell'ultimo.

— Ma... — disse un uomo che stava accanto a Larry — che razza d'animale è quello lì che tira il primo carro?

Larry guardò e vide un cavallo che sulla fronte aveva un corno bianco, lungo e sottile.

— Semplice impostura — disse Larry. — Come si chiamano, quegli affari? Solocorni? No. Monocorni? Macché... uhm... unicorni? Proprio così. Unicorno. Il tizio ha preso un cavallo e ne ha fatto un unicorno incollandogli un corno sulla testa, immagino.

— Già, ma un cavallo come quello io non l'ho mai visto — disse l'uomo. — Guarda lì quella coda. Visto mai un cavallo con una coda come ce l'ha quell'animale?

— Be', non ch'io me ne intenda poi tanto di cavalli — disse Larry. — Sono stato sei anni in fanteria. Ma non è un unicorno; lo so perché gli unicorni non esistono, né mai sono esistiti.

— Be', signor mio, quell'affare non è neanche un cavallo — disse l'uomo. — Son cresciuto con i cavalli fin da bambino, e so riconoscerli, se li vedo; e quello non è un cavallo.

— Immagino allora che sia una qualche specie di aborto — disse Larry. E disse anche: — Ma, Gesù Gesù, che è quell'affare a cassetta dell'ultimo carro?

L'uomo guardò e disse: — Be', è solo un tizio con delle corna di capra sulla testa. Un'altra impostura, probabilmente.

— Mai visto un uomo così — disse Larry. — Guardagli i piedi.

— Che hanno, i suoi piedi?

— Accidenti, li ha tirati giù troppo presto. Li ha posati sul parafango per un attimo solo. Aveva delle scarpe stranissime, se si possono chiamare scarpe. Guardagli la faccia; visto mai una faccia come quella?

— Certo, — disse l'uomo — a bizzeffe. Che ha di strano, la sua faccia?

— Non so — disse Larry. — Tutta la faccenda puzza, comunque. Solo tre carri per la parata di un circo! Dio bonino. Ehi, che animale è quello, sull'ultimo carro?

— Che ne so, fratello? Però, sembra un cane.

— Quello non è un cane.

— Be', senti, cerchiamo di metterci un po' d'accordo — protestò l'uomo. — Chi dei due ha le traveggole, comunque?

— Oh, al diavolo la parata — disse Larry. — Ho qualche soldo. Vieni, andiamo a bere un bicchiere di birra.

— Bene — disse l'uomo.

Entrarono nel locale di Harry Martinez.

— Due cervezas — disse l'uomo al barista Harry.

— Macché, macché ~ disse Larry. — Per me una semplice birra.

— Qui la birra si chiama così; è spagnolo — sorrise Harry.

Larry si rassicurò. — D'accordo, allora. Che ne pensi della parata?

— Mica ne penso un gran che, — disse Harry — eccetto che non sono riuscito a immaginare perché tengono quell'uomo nella seconda gabbia. Cos'è, un selvaggio del Borneo, o che?

— Un uomo? — disse il compagno di Larry. — Non ho visto un uomo in gabbia. C'era un serpente, c'era un orso, e c'era qualcosa che sembrava più o meno un cane, ma un uomo non l'ho visto. Tu sì? — chiese a Larry.

— Adesso non so che diavolo ho visto — disse Larry.

— Ebbene, — disse Harry Martinez — son qui per dirvi che ho dei buoni occhi, e che nella gabbia sul secondo carro di quella parata ho visto un uomo. Sembrava un russo o qualcosa del genere. E che razza di animale era quello che tirava il secondo carro; me lo dica un po', uno di voi due.

— Non ho ben notato — disse il compagno di Larry.

— Neanch'io — disse Larry.

— Be', — disse Harry Martinez — io sì. Avete mai sentito parlare di una sfinge?

— Quella specie di grossa statua in Arabia?

— Proprio. Ebbene, sembrava come se fosse una sfinge a tirare quel secondo carro. Contraffatta, naturalmente. Una grossa mula, ritengo, camuffata in una pelle di leone.

— Eh, no, — disse Larry — adesso ricordo. Quella non era una mula.

— Ebbene, che diavolo era, allora? — chiese il suo amico.

— Non so, ma mula non era, questo è certo — disse Larry, dando fondo alla sua birra.

— Altre due birre — disse l'amico.

— Bene — disse Harry Martinez.

Il correttore di bozze della Tribune signor Etaoin, nell'uscire in Main Street dal ristorante, vide che la parata veniva dalla sua parte. Accese una sigaretta e aspettò che arrivasse.

Quando l'ebbe dinanzi, la fissò attonito, chiedendosi se non avesse le traveggole. Un'anziana signora gli diede un colpetto sul braccio. L'accompagnava un bambino.

— Per piacere, signore, può dirci che specie di serpente è quello sul carro? L'hanno acchiappato qui nell'Arizona? Noi arriviamo da poco dall'Est, sa, e non conosciamo ancora tutti gli animali di qui.

Il signor Etaoin osservò il rettile sul carro che avanzava lentamente. Non aveva scaglie; solo una pelle grigia e limacciosa come quella di un pesce del Mississippi.

— Non so che cosa sia, signora, — egli disse; — ma un serpente dell'Arizona no, questo è certo. Non ce ne sono di così grandi da queste parti. A dir vero, non so in che parte del mondo ci siano serpenti grossi come quello.

— Forse è un serpente di mare, nonna — disse il bambino.

— Idea non peggiore d'un altra — convenne il signor Etaoin.

Due uomini d'affari si accostarono. — Dio, che serpente grosso! — disse l'uno. — Mi chiedo di che specie sia.

— È un serpente di mare — disse il bambino.

— Davvero, eh? — disse l'uomo. — Be', perdiana, ne ho sempre sentito parlare; un po' come i miti, sai. Ma è la prima volta che ne vedo davvero uno. Dunque, questo sarebbe il serpente di mare, eh? Ebbene, signor mio, è un mostro; questo glielo devo riconoscere. Sissignore.

L'uomo ch'era con lui disse: — Che ci fa quell'uomo nella seconda gabbia?

— Quello non è un uomo, Bill, è un orso. Non ci vedi bene?

— A me sembra un uomo — disse Bill. — Come lo chiama lei, amico? — chiese al signor Etaoin.

— Ho gli occhiali un po' appannati, — disse il correttore di bozze — ma a me sembra un uomo che cammina come un orso.

— Be', io dico ch'è un orso che cammina come un uomo — disse in tono faceto il primo uomo d'affari. — Un uomo che cammina come un orso... Ah, ah! Quest'è buona! Come farebbe a camminare, in quella gabbia, eh?

— Ah, ma è un russo, no? — disse la vecchia signora.

— Buon dio, caralei! — disse Bill. — Non siamo ancora arrivati a questo punto, qui nell'Arizona. Non mettiamo i russi in gabbia per esporli con gli animali; cioè, non ancora.

— Suvvia! — disse il primo uomo a Bill. — Non parlare così a una signora. L'hai detto tu stesso ch'è un uomo, no? Che differenza fa se è russo oppure no? Deve scusarlo, signora.

— Non m'importa un prospero s'è un russo, un eschimese o un democratico! — disse Bill. — Perdio, non è un orso, e questo è quanto.

— Oh, non ho mai udito usare un simile linguaggio in vita mia! — dichiarò la vecchia signora. — Se questa è la vostra cavalleria dell'Ovest, farò bene a tornarmene a Sedalia.

Il signor Etaoin, tanto per far conversazione, disse: — Che specie d'asino è quello che tira l'ultimo carro?

— Ma come! E solo un comune ordinario banale volgare pidocchioso scassatissimo somaro d'un asino — disse Bill con truculenza. — Non sono disposto a entrare in discussioni al riguardo, buonuomo. Mi scuso, signora, d' aver parlato come ho fatto. Non mi sento tanto bene stamane.

Il bambino cinguettò: — È un ciuccio, vero, signore?

— Come ti pare, ragazzino. Me ne frego anche se è un tricheco.

— Cribbio, come mai è così giallo? — chiese il primo.

— Sembra quasi fatto d'oro — disse vivacemente la vecchia signora.

Bill si mise a ridere. — Uah, uah, uah! Il mulo d' oro! Il culo d'oro!

Il compagno di Bill lo prese per un braccio. — Vieni, Hill, andiamocene. La gente comincia a guardarti in modo strano.

— Sono tutti così i cittadini di Abalone? — chiese la vecchia signora al signor Etaoin.

— No, non tutti — si scusò egli. — Solo un paio ogni tanto.

I due studenti dell'Est uscirono dall'albergo e salirono nella loro vecchia auto da turismo, con Slick Bromiezchski al volante e Paul Conrad Gordon che dava consigli: — Dai gas, bimbo, dai gas!

L'auto si mise in moto ed essi giunsero fino alla Main Street, dove il rosso li fermò. Poi passò la parata, costringendoli a un'ulteriore sosta.

— Ecco il circo — disse Slick. — Dov'è il carrozzone dei guardoni?

— Un po' di pazienza — disse Paul Conrad. — Lo spettacolo riservato non partecipa alla parata. Questo è solo lo stuzzichino per il piatto principale.

— Che accidenti di parata, però — disse Slick. — Un vecchio cinese con un piede nella tomba, un individuo che sembra Cristo e quel tizio acconciato come il Fauno di Rodin... o dovrei dire di Prassitele? Comunque, che te ne pare, Oom Powl?

— Il Fauno di Rodin! — disse Paul. — Ecco che cosa mi trottava in mente. Pomeriggio d'un fauno. Ninfe. Sai bene.

— Certo. Ma perché proprio quest'associazione d' idee?

— A causa del tizio con le corna in testa — disse Paul. — E se, supponiamo, fosse autentico?

— Bene. Suppongo con tutte le mie forze. E poi?

— Be', Dio mio, prova un po' a pensare: un autentico satiro che guida una mula dorata lungo il corso di una piccola città di provincia!

— Certo. Penso un po' qualsiasi cosa. E con ciò?

— Oh, niente. Andiamo. Il tempo fugge. Ricorderai che dobbiamo provvedere a esser «sotto l'effetto» e attuare una prova di forza nel recinto del circo.

Nel recarsi all'emporio per la spesa, la signora Howard T. Cassan fu fermata per un momento dal passaggio della parata.

«Oh, Dio, che animali orribili» pensò. «Chissà qual è l'indovino; quale degli uomini, s'intende.»

Da una finestra del primo piano, sopra la sua testa, scese una voce femminile: — Mi scusi, ma mi può dire, per piacere, da lì dov'è, se è un uomo o un orso, quello sul secondo carro?

— Ma un orso, credo — gridò di rimando la signora Cassan, cortesemente. — Però non so che specie d'orso sia.

— Joe, la signora qui sull'angolo dice ch'è un orso — disse la voce.

— Orso un corno! — disse la voce di Joe. — Credi che non sappia riconoscere un russo, se lo vedo?

— Oh, povera me! — disse la signora Cassan.

L'avvocato che era fiero della propria cultura extralegale osservò la parata con degnazione dalla porta della cucina, con sua moglie.

— Piuttosto misero, eh? — disse. — Uno spettacolo vagante, piccolo e scassato come questo, che vuol dare agli animali, con stupidi travestimenti, l'aspetto di esseri mitologici. Non è nemmeno fatto bene. Quel cavallo conciato da sfinge, per esempio. Guarda che faccia di donna scema gli hanno messo. Si vede da qui ch'è cartapesta o qualcosa del genere. E quelle assurde mammelle che le penzolano davanti!

— Su, Frank, per piacere, — disse la moglie — non essere volgare. Che ci fa quell'uomo in gabbia, secondo te? È una specie di fenomeno?

— Ma quello, tesoro, non è un uomo. È un orso. Di qui, sembra un grosso orso grigio.

La moglie finse di annusargli il fiato. — Che cos'hai bevuto, Frank caro? Non mi concedi l'intelligenza necessaria a riconoscere un uomo da un orso?

Frank la guardò con finta preoccupazione. — Te l'ho detto, la settimana scorsa, di andare a farti esaminare la vista, tesoro. Subito dopo colazione ti accompagnerò io stesso e diremo al dottore di prescriverti degli occhiali con lenti di triplice forza. Un uomo? Uah, uah uah!

La moglie si seccò. — Mi fai andare in bestia, con la tua ironia. Voglio dire, quando ridi con quel ghignò. Lo fai apposta. Lo sai quanto me ch'è un uomo, cerchi solo di far lo spiritoso.

L'avvocato diede una strana occhiata a sua moglie. — Va bene, tesoro, — disse quietamente — è un uomo. Su, rientriamo e andiamo a tavola.

Proprio mentre si sedevano squillò il telefono. Fu Frank a rispondere:

— Pronto.

— Pronto. Frank?

— Sì.

— Qui Harvey. Voialtri, avete visto passare la parata, un momento fa?

— Sì.

— Anche Helen e io. Non siamo riusciti a stabilire che cos'era, quello nella gabbia di mezzo. L'hai notato? Abbiamo avuto una vera discussione, e ho pensato di chiamarti per risolverla. Helen affermava che quello li dentro era un orso, ma io credevo che fosse un russo. Che ve n'è parso, a voialtri?

— Anche noi siamo indecisi — disse Frank, e riappese.

Il controllore numero due della quarantena vide la parata nel momento in cui si sporgeva dal finestrino del suo coupé per chiamare il controllore numero uno, che veniva passo passo nella sua direzione giù per Main Street. Il controllore numero uno si sedette nel coupé e rimase a guardare con lui.

— Perbacco, che serpente grosso — disse. — Mi ricorda quel grosso serpente a sonagli che ho ammazzato, giù, sulla strada di Beeswax, la scorsa primavera. Aveva sedici crotali.

— Allora doveva avere sedici anni — disse il controllore numero due.

— Oh, è così, secondo te? M'ero sempre immaginato che si trattasse di una cosa del genere. Che te ne pare di quell'orso, là? È un grizzly di Sonora?

— Che orso? Io non ne vedo.

— Ma proprio là, sul secondo carro, grande come l'inferno.

— Sei ancora addormentato, amico; quello è un uomo. Sembra un russo.

— Davvero? E chi sarebbe? Trotzki?

— Chi sia, non so; ma non un orso. Di', guarda un po' quel cane! Ti era mai capitato di vedere un cane verde?

— C'è un mucchio di cose, in questa parata, che non mi era mai capitato di vedere. Perché diavolo t'immagini che non sia un orso, quello nel carro di mezzo?

— Perché ho visto degli orsi e ho visto degli uomini e, quando li vedo, so riconoscere un uomo da un orso, e quell'affare è un uomo, non un orso, e sono stufo di litigare su una simile stupidaggine.

— Bene — disse il controllore numero uno. — Non stare ad arrabbiarti. Non intendo litigare con te. Che te ne pare del cane?

— Be', potrei dire ch'è forse il cane più grosso ch'io abbia mai visto; ma non mi era mai capitato di vederne di quel colore. Guarda che pelle; bisogna riconoscere che ha un pelo ispido! Santo cielo, anche i denti sono verdi! Be', che razza di cane è, insomma?

Che ne so. Guarda il somarello che tira l'ultimo carro.

— Quello non è un asino.

— E allora che diavolo è: un elefante?

— Di' un po', che ti piglia, quest'oggi? Sai bene che non è un asino. Sai bene che gli asini sono pelosi. Sai bene che gli asini non sono levigati come il vetro, com'è invece quel coso. Sai bene che non sono così lucenti.

— Però, somiglia a un asino.

— Già. E ti è anche sembrato che quell'uomo somigliasse a un orso. Non capisco che cosa ti ha preso, quest'oggi.

— Perdio! Quello era un orso! Farai bene a rientrare in te, giovanotto! In questo Stato esiste una gabbia di matti, per la gente che si mette in testa strane idee. — Il controllore numero uno scese dal coupé. Non metterti in testa altre strane idee durante il tuo turno, stasera, o è probabile che perderai il posto. Te lo dico netto e schietto, vedi?

Il controllore numero due accese un sigaro. Un amico poliziotto si avvicinò e lo redarguì scherzosamente per sosta troppo prolungata.

— Senti, Tom, — disse il controllore — hai visto passare quella parata, un momento fa?

— Altroché, ho visto quella roba stramba. Che diavolo di grosso orso che ci avevano, su uno dei carri!

— Oh, Dio! — disse il controllore. E, messa in moto la macchina, se ne andò.

La moglie del capomovimento delle ferrovie gli telefonò, intorno alle undici.

— Ed, — gli disse — hai visto la parata del circo? I bambini vogliono andare a vederla. Ma passa così lontano da casa che ho un po' paura di lasciarli andare. Sai se valga la pena di vederla?

— L'ho vista, sì, poco fa — disse Ed. — Ci sono soltanto tre carri trainati da cavalli o simili. Ero certo che ci sarebbero stati degli autotreni. Non riesco a immaginare come siano arrivati in città. So di sicuro che quegli animali non hanno trainato i carri fin dalla California o da qualsiasi luogo arrivino. E no, non credo che i bambini si divertirebbero. Su un carro c'è un grosso serpente, sull'altro un selvaggio o qualcosa del genere, e uno strano cane sull'ultimo. Davvero, non credo che i bambini si divertirebbero. Niente clown, né nulla del genere. Uno dei suoi compagni di lavoro, che aveva udito la conversazione, disse; — Dove stava il selvaggio, Ed? Dev'essermi sfuggito.

— Sul carro di mezzo.

— Oh, oh, oh! Ma quello non era un selvaggio! Era un grosso orso. Che strano: un paio di tizi che stavano davanti a me hanno fatto lo stesso sbaglio. Hanno preso l'orso per un uomo. Uah, uah, uah!

— Però, quant'è vero Dio, somigliava a un uomo — disse Ed.

— Per tutta la mattina, — disse il sergente scritturale al capo della polizia — ti sei rotto la testa su quel circo; sta passando la parata: perché non esci a darle un'occhiata?

Così, rotta l'inerzia da queste pregnanti parole, praticamente l'intera forza di polizia, smettendo di oziare intorno alle sputacchiere, uscì sul marciapiede, accanto alla camionetta parcheggiata, a veder sfilare il piccolo corteo. Il vecchio cinese che conduceva il primo carro, notate le uniformi, fece un inchino all'autorità costituita. Anche l'unicorno attaccato alle stanghe notò i bottoni d'ottone e, levando al cielo il corno simile a un ghiacciuolo, nitri come una buccina e si sollevò sulle zampe posteriori. L'annoso cinese lo sferzò con la frusta e le corvette cessarono.

— È un brocco d'alta scuola, quello attaccato lì — commentò uno degli agenti. — Come credi che gli sia venuto quel corno? Mai sentito d'un cavallo cornuto.

— Non è un cavallo, — disse un altro agente — è un unicorno.

— E che sarebbe?

— Mah! Qualcosa di simile a un incrocio fra un cavallo e un rinoceronte, forse. Vengono dall'Armenia, credo, o da qualche altro luogo impossibile del genere.

— Ma sì, ricordo adesso di aver letto qualcosa in proposito a scuola, da bambino. Sono rari, no?

— Caspita! Più che rarissimi.

— Accidenti s'è grosso quel serpente, lì. Chissà cos'è.

— A me sembra come un boa constrictor.

— Macché, — disse un agente motociclista — non è un boa constrictor. È un anaconda, del Sudamerica. Ne prese uno Teddy Roosevelt quand'era a caccia laggiù, anni fa.

— È velenoso?

— Sicuro! Quell'affare contiene tanto veleno da avvelenare un reggimento.

— Gesù, che serpente!

— Ne ho visti di più grandi e grossi, quando ho bevuto — disse un piedipiatti grande e grasso.

Gli altri agenti ne convennero, ridendo.

Il sergente scritturale, ch'era rimasto a guardare dalla finestra, gridò: — Ehi, capo, dovremmo avere un carro come quello là, nel mezzo, per rinchiudervi gli ubriachi come vi è rinchiuso quel tizio.

— Già, — disse il capo — buona idea; ma di che tizio parli?

— Di quello sul carro.

Il capo ridacchiò. — Eh, eh! Il buon Crapapelata crede che quell'orso sia un uomo. Gli si deve abbassare la vista.

— Non vedo l'orso, capo — disse l'agente di polizia stradale.

— Ce l'hai davanti al naso. Togliti gli occhiali da motociclista e asciugali, così lo vedrai.

— Ch'io sia dannato se quello è un orso — insistette l'agente.

— Ah! — disse il capo, disgustato. — Ci sono due specie di persone con le quali non discuto mai: una donna e un maledetto cretino. E tu non sei una donna!

La signora Rogers chiese ai tre figlioletti se gli era piaciuta la parata.

— Macché, — disse Willie — non c'erano clown, elefanti, niente.

— A me è piaciuta — disse Alice. — C'era una piccola mula così carina. Tutta lucente, come se fosse d'oro.

— Mi è piaciuto il grosso cane verde — disse la piccola Edna.

— Un cane verde? — disse la signora Rogers. — Suvvia, Edna, che dici?

— Ma sì, era verde, mammà. Verde come l'erba. Però non abbaiava, né niente.

— E poi c'era quell'animale come quella statua che abbiamo sulla tavola — disse Willie.

— Che statua? — chiese la signora Rogers.

Willie andò a prendere la statua e la portò. — Questa. Come si chiama, mammà?

— Si chiama sfinge; ma non direi che abbiate visto una sfinge nella parata di un circo.

— Sì che l'abbiamo vista, mammà, — disse Alice — una vera sfinge viva. Sembrava una donna che spunta da un leone. Tirava un carro in cui c'era un grosso orso.

— Non era un orso, — disse Edna — era un uomo.

— Era un orso — disse Alice. — Era un uomo.

— Era un orso.

— Era un uomo.

— Oh, cielo, non cominciate, adesso! — disse la signora Rogers. — Che cos'era, Willie? Un orso o un uomo?

— Un russo, mammà — disse Willie.

La signora Rogers si sedette. — Certe volte, voialtri bambini vedete delle cose stranissime. Che c'era d'altro. Alice?

Ecco: c'era un uomo con le corna come una capra, e c'era un cinese, e un serpente, e un uomo che somigliava a Dio.

— Oh, Alice, — disse la signora Rogers — come puoi dire una cosa simile?

— Sai, — disse Alice — somigliava proprio a quelle figurine di Gesù nel libro di religione, non è vero, Edna?

— Proprio esattamente così — disse Edna. — Lunghi capelli bruni, lunga barba, lunga tunica bianca. Però sembrava spaventosamente vecchio.

— Be', non c'era altro nella parata? — chiese la signora Rogers.

— Nient'altro, mammà. Niente clown, elefanti, fanfare, cammelli.

— Neanche cavalli?

— Uno, con un corno sulla testa, ma aveva una buffa coda — disse Edna.

— Be', doveva essere una curiosa parata — disse la signora Rogers. — Peccato che non l'ho vista.

Un po' più tardi, rientrò il signor Rogers, con una strana espressione.

— Che hai — gli chiese la moglie.

— Non so, — disse l'idraulico; — ma qualcosa non va. Quella parata, che ho visto un momento fa. Oh, già, prima che dimentico: ho trovato lavoro Sarah, nove mesi di lavoro a cominciare da domani.

— Ah, grazie a Dio! — disse la signora Rogers. — Dove? Dimmi, presto.

— Oh, un lavoro di manutenzione all'albergo. Ma ti stavo parlando di quella parata. Mai visto una cosa simile. Ci hanno un serpente che scommetterei ch'è lungo venticinque metri, neanche un centimetro meno. E poi c'era un cinese. Buffo vecchio, quello. Oh, già; ma ti volevo parlare dell'orso che c'era in una gabbia. Un tizio, accanto a me, voleva sostenere ch'era un uomo. Ti par possibile? Incapace di riconoscere un orso da un uomo! In un primo momento ho creduto che scherzasse, ma s'è arrabbiato da matti, e allora ho pipato, lasciando che credesse pure ch'era un uomo. Hai mai sentito una roba simile?

— Sì, — disse la signora Rogers — ne ho già sentito parecchio, questa mattina.

— Come mai?

— Oh, anche i bambini hanno visto la parata.

— Ah, l'hanno vista? Ottimo. Non avranno mica creduto che l'orso fosse un uomo, eh?

— Willie ha creduto che fosse un russo — disse la signora Rogers.

Alle undici meno un quarto, la signorina Agnes Birdsong, insegnante d'inglese, aspettava in Main Street il passaggio della parata, sentendosi un pochino sciocca. Si senti ancora più sciocca quando vide di che parata miserella si trattava. Ma lì, in piedi all'ombra nel suo leggero abitino estivo, lei appariva molto graziosa, e lo sapeva, ragion per cui rimase a guardare.

Dapprima non riuscì a identificare bene gli animali. Poi si disse: «Ma si, quello è un unicorno». Ma ricordò che gli unicorni sono finzioni dell'immaginazione. «Contraffatto», rettificò.

Considerò il serpente con un vago senso di ribrezzo. Detestava i serpenti in generale; quell'enorme verme grigio dalla lingua gialla, dalle fauci scarlatte, dagli occhi come gemme, la impensierì e la spaventò. Supponiamo che scappasse. Certo, era chiuso li in gabbia. Ma supponiamo che scappasse. Che cosa terribile. Il vecchio cinese sorridente, nel notare la sua preoccupazione, tese dietro di sé il manico della frusta, e stuzzicò il serpente. Che sibilò come un pneumatico che si sgonfia, e spostò le sue spire limacciose.

La signorina Agnes rabbrividì.

Poi vide la sfinge e il vecchio barbuto che la guidava e l'uomo in gabbia sul carro. Il vecchio barbuto aveva la testa fra le nuvole e lasciava lente le redini, abbandonate fra le mani; i suoi pensieri, lontanissimi da Abalone e dal compito di conducente nella parata, si aggiravano pianamente in uno sperduto angolo dell'universo della sua mente. La sfinge, accortasi della distrazione del conducente, prese il morso fra i denti, fece uno scarto indolente e quasi strappò le redini dalla stretta del vecchio.

— Sta' attento al tuo lavoro, Apollonio — ringhiò la sfinge.

Poco mancò che la signorina Agnes Birdsong, dallo stupore, cadesse a sedere sul marciapiede. Diede un'occhiata alle persone intorno; ma non sembrava che avessero udito una sola parola. La signorina Agnes si toccò il polso e la fronte. «Sono una ragazza calma e intelligente», si disse con fermezza. «Sono una ragazza calma e intelligente.»

Passò allora l'ultimo carro, tirato dall'asino d'oro guidato dal satiro dal piede caprino. Il satiro aveva un anellino d'oro al naso; accanto a lui, sul sedile, era posata la siringa. Secondo la signorina Agnes, mandava odor di capra. Aveva il torso magro d'un maratoneta, gli zoccoli maculati d'erba verde. Una foglia di vite era impigliata nei suoi capelli. Sogguardò la signorina Agnes; si fece solecchio e la sogguardò. Si voltò indietro a cassetta, per fissarla, fissandola e fissandola, quasi che in tutto quel cumulo di anni non ricordasse nulla di paragonabile a lei.

«Io sono una ragazza calma e intelligente», si rassicurò la signorina Agnes. «Sono una ragazza calma e intelligente, e non ho veduto Pan in Main Street. Tuttavia, andrò al circo, per accertarmene.»

A mezzogiorno e un quarto, il signor Etaoin, il correttore di bozze della Tribune, passò dalla sala stampa del giornale per vedere di rimediare un tesserino per il circo.

Il capocronaca gliene diede uno. — Li ha portati stamane il vecchio cinese. Buffo tipo. Parlava in buon inglese. Non chiedeva pubblicità gratuita per il suo spettacolo, né niente. Ha detto che secondo quanto gli risultava c'era l'usanza che i giornalisti entrassero comunque gratis a tutti gli spettacoli e trattenimenti, e perciò ha portato alcuni tesserini per evitare fastidi sul posto. Oh, a proposito, Etaoin, l'hai vista la parata, stamane? Io l'ho mancata; ma, da quanto ne ho sentito dire, era un po' una puzzonata.

— Piuttosto una cosa insolita, che una puzzonata — disse Etaoin. — Hai sentito nulla a proposito d'un orso che somigliava a un uomo?

— No, — disse il capocronaca — ma ho in effetti sentito qualcosa a proposito d'un uomo che somigliava a un orso.

— Che è poi lo stesso — disse il correttore di bozze.

— Be', e quella faccenda dell'unicorno?

— Sì, c'era anche un unicorno.

— Ah, sì? Mi pare di aver sentito parlare, inoltre, di una sfinge.

— C'era anche la sfinge.

— Ah, sì?

— Già, già. E c'era l'asino d'oro di Apuleio, c'era il serpente di mare, c'era Apollonio da Tiana, c'era il cane delle siepi, c'era un satiro.

— Una bella raccolta — disse il capocronaca. — Non hai dimenticato qualcosa, per caso?

Etaoin rifletté un poco. — Oh, sì — disse; — ho dimenticato. C'era quel russo.

Alle due e un quarto, il signor Etaoin si avviò verso il terreno del circo con l'intenzione di visitare i baracconi prima che il gran tendone aprisse i battenti per lo spettacolo principale. Tra l'altro, il suo tesserino valeva per tutti e non c'era sugo a non sfruttarlo al massimo, sarebbe stato stupido non spremerne tutto quel che di gratuito c'era da spremere. Il denaro era fatto per comperare le cose, ma i tesserini servivano a farvi entrare gratis. La libertà della stampa.

Faceva caldo, mentre egli camminava per le strade di Abalone. Etaoin rifletté quant'era preferibile che facesse così caldo invece di un grado corrispondente di freddo, che sarebbe stato molto sotto lo zero. Soprabiti. Sciarpe. Soprascarpe. Copriorecchie. E ogni volta che sarebbe entrato da una porta, gli si sarebbero appannati di vapore gli occhiali ed egli avrebbe dovuto toglierseli e guardar tutto con occhi acquosi mentre li forbiva. Che gli venga il colera al clima invernale. Che gli pigli un accidente al tempo freddo. Che sia esecrata la neve. L'unico ghiaccio che il signor Etaoin desiderava vedere era quello in cubetti fatto dal frigo. L'unica neve che volesse mai rivedere era nei film d'attualità. Si asciugò il sudore della fronte e attraversò la strada per andare sul lato in ombra. Gli uccelli appollaiati sui fili telegrafici stavano a becco aperto e penzoloni, nell'afa micidiale. Dai tetti degli edifici si alzavano vampe di calore come tremolanti profili di cellofane.

Quando infine raggiunse il terreno, aveva quasi dimenticato il circo e, nell'andare verso le tende, si chiese perplesso che mai ci facesse, lui, su quell'area polverosa sotto il sole rovente a quell'ora del giorno. Poi, sul passaggio fra le file di tende, vide steso un grande striscione rosso e nero. Che proclamava:

IL CIRCO DEL DOTTOR LAO

«Questo è dunque il suo nome» si disse il signor Etaoin.

Le tende erano tutte nere e lucide, a forma, non già di tenda, ma d'uova sode posate in piedi. Cominciavano di fianco al passaggio e si estendevano, dietro, fino al limite del campo, con i vapori della calura simili a guidoncini sventolanti sul tetto. Niente baracchini di bibite gassate in vista. Niente venditori di palloncini. Niente strombettamenti e altoparlanti. Niente fieno. Niente odore di elefanti. Niente personale di fatica che si lava in buglioli malandati. Niente donne sfiorite che friggono salsicce in spacci infestati dalle mosche. Niente paletti da tenda che ti spuntano sotto i piedi ogni nono passo.

Alcune persone sparse stavano lì alquanto mogie; altre fluttuavano fra le file di tende. Ma le porte delle tende erano tutte chiuse; custodivano come bozzoli le loro misteriose pupe; e il sole picchiava spietatamente sul terreno del circo di Abalone, Arizona.

Poi il clangore di un gong squarciò il silenzio affocato. Le sue urla metalliche rotolarono in ondate irritanti di suono. Ondate di calura scottavano la pelle. Ondate di polvere bruciavano gli occhi. Ondate di suono spaccavano le orecchie. Il gong rintronava, rimbombava, vibrava; e una delle tende si aprì, ne fu spinto fuori un palco, e un cinese saltò sulla pedana, e il fracasso del gong cessò, e l'uomo si mise ad arringare la gente. Il circo del dottor Lao era aperto.

«Venite al circo del dottor Lao!

Vedrete quel che altrove non si può:

dei luoghi che neanche supponete,

le cose che sapere non potete.

Le bestie pel mirifico spettacolo

nel mondo quant'è tondo abbiam cercato,

dalle montagne battute dai venti

alle isole dolci e sorridenti.

Non risparmiammo denaro né stenti

per scavare in lontani portenti,

per spaziare dal cielo al profondo,

ed offrirvi il più bello spettacolo del mondo,

il cui ricordo ancora brillerà

quando la neve da gran tempo avrà

ricoperto l'estivo qui-pro-quo,

che questo è il circo del dottor Lao!

Passa la gioventù, l'età vien presto,

senza veder più un circo come questo.»

L'omino giallo e grinzoso saltellava per il palco cantilenando i suoi dattili e giambi zoppicanti, e la folla di neri, rossi e bianchi, a naso in su, lo guardava, stupefatta della sua aria estasiata.

L'imbonimento terminò. Il vecchio cinese scomparve. Da tutte le tende furono esposti stendardi che facevano la pubblicità a quel che esse contenevano e che, a pagamento, avrebbero svelato. La folla perse la propria identità, l'individuo la ritrovò, ognuno cercando ciò che gli poteva piacere di più. Il signor Etaoin si chiese dove dovesse entrare in primo luogo. Sopra di lui ondeggiava un gagliardetto che conclamava: SI DICE LA FORTUNA. «Mi farò dire la fortuna», confidò il signor Etaoin a se stesso, e sgusciò dentro la tenda.

La signorina Agnes Birdsong, insegnante d'inglese di scuola superiore, giunse al sito del circo dieci minuti dopo le due. Parcheggiò pulitamente il suo piccolo e pulitissimo coupé lungo il marciapiede sul lato opposto della strada, tirò su i finestrini, scese, chiuse le porte e attraversò la strada, verso la moltitudine di tende.

Su un palco davanti a una tenda il vecchio barbuto che la mattina, nella parata, guidava con la testa fra le nuvole, stava facendo l'imbonitore. Era l'imbonimento più scadente che la signorina Agnes avesse mai udito in vita sua, eppure ne aveva uditi di pessimi. Il vecchio parlava con una vocina esile, evidentemente improvvisando, poiché doveva spesso fermarsi a pensare quel che doveva dire poi. Stava parlando delle attrazioni del parco di divertimenti:

«... e in quella tenda lì, la terza dopo la grande, vedrete, gente, la chimera, curiosissima bestia. Immagino che nessuno di voi, gente, sappia che cos'è una chimera, ma non importa; andate a vederla lo stesso. Non può farvi alcun male, naturalmente; l'essere rimasta in gabbia così a lungo le ha ingentilito l'indole. Credo che attualmente si stia liberando della pelle, cioè la sua parte leonina se ne sta liberando, e perciò non sembrerà troppo brillante, ma si riconosce ugualmente, s'intende. E ci sarà nei paraggi il dottor Lao per rispondere a tutte le domande che forse vorrete fare a proposito della chimera. Una bestia curiosissima. Mi risulta che la specie è quasi estinta. Non riesco a immaginare dove il dottore si sia procurato questo esemplare. Nella tenda successiva c'è il lupo mannaro, credo; si, il lupo è nella tenda dopo la chimera. Presumo sappiate tutti che cos'è un lupo mannaro. Bestia interessantissima davvero. Più avanti, nel mese d'ottobre, diventa una donna per sei settimane. È una cosa curiosa, assistere al periodo della metamorfosi. Peccato non stia cambiando forma adesso. So che vi piacerebbe, gente, vedere un lupo che si cambia in donna. Normalmente lo nutriamo con braciole d'agnello. Comunque, il dottor Lao vi dirà tutto in proposito, là nella tenda. Fa un discorso interessantissimo sul lupo mannaro, mi dicono. Davvero devo ascoltarlo anch'io, una volta o l'altra. Per essere sincero, non ne so un gran che, a proposito di questa bestia. Poi, in un'altra tenda, c'è la medusa. Quanto a me, faccio trucchi magici nella tenda dall'altra parte del passaggio. E... vediamo un po', sono certo, gente, che vi interesserà di vedere la sirena, perché in questo paese di tipo desertico, lontano dal mare, queste creature abitatrici degli oceani sono sicuramente insolite. Poi, c'è anche il bracco delle siepi, che probabilmente non avete mai visto, perché è indigeno delle terre prative, delle savane, delle fratte e così via. Lo spettacolo per soli uomini è nell'ultima tenda. Immagino stia per cominciare la danza della fertilità dei sacerdoti negri. Naturalmente, quella tenda è per soli uomini.

«Sono così lieto di vedervi qui così numerosi questo pomeriggio, e sono certo che il dottor Lao ne ha parimenti piacere. Si è dato grandissima pena, per raccogliere tutti questi animali e so che gli strani animali v'interesseranno tutti. Oh, sì, ho dimenticato di parlarvi dell'uovo di roc. È in un'altra tenda laggiù, non so di preciso quale. È un ovone grosso, grande quasi quanto una casa, e trasuda acqua salmastra. Sono certo, buona gente, che v'interesserà vedere l'uovo di roc. Il dottor Lao farà una conferenza a suo proposito nella tenda. Credo che sia la terza tenda, lì, ma non so di preciso. Bisognerà proprio, credo, che io m'impratichisca di più con la dislocazione delle varie esposizioni. Ora immagino che vi sarete stancati di sentirmi parlare e vorrete andare a vedere le attrazioni. Ricordate, compio le mie magie nella tenda dirimpetto, oltre il passaggio.»

Il vecchio scese adagio e stentatamente dal palco e si fece strada fra la folla fino alla tenda dove faceva le sue magie. Alcune persone vi entrarono dietro di lui. La signorina Agnes Birdsong rimase lì, indecisa. Poi, con l'angolo dell'occhio destro, vide il vecchio cinese che se ne veniva, sgusciante, col vasetto del tè in mano e la pipa dell'oppio in bocca. Lo fermò.

— Il dottor Lao?

— Sì, signora.

— Dov'è la tenda con Pan?

— Non abbiamo Pan in questo circo, signora. Lei senza dubbio pensa al satiro che stava a cassetta per noi, stamane, alla parata. È in quella tenda lì. L'ingresso è dieci cents. Se vuole vederlo, mi paghi pure qui ed entri direttamente. Siamo un po' a corto di personale di biglietteria, per il momento.

La signorina Agnes diede due nichelini al cinese e, assicurando a se stessa che era una ragazza calma e intelligente, entrò nella tenda per vedere il satiro.

Questi stava steso su un graticcio di viti, con la barbetta spelacchiata tutta sporca di mosto. Aveva gli zoccoli incrostati di letame e le mani ossute, nodose e contorte, scure, ruvide e con le unghie lunghe. Tra le corna aveva una calvizie circondata di capelli ricci e brizzolati. Le orecchie erano appuntite e sulle sue braccia guizzavano muscoli magri e sottili. Gli nascondeva i muscoli delle gambe il pelo di capra. Gli si vedevano le costole ed aveva la testa fra le spalle.

Sorrise alla signorina Agnes, prese la siringa e cominciò a suonare. Una musichetta ronzante e zufolante danzò nell'aria smorta della tenda scura. Egli si alzò e sull'accompagnamento della propria musica danzò, con brevi sussulti, scatti e palpiti della coda, che sporgeva rigida. I suoi piedi tracciavano una giga, gli zoccoli schioccanti andavano a tempo con lo zufolio, pestando il suolo di terra battuta, schiaccia, chioccola, schiocca. L'odore caprigno divenne più intenso.

La signorina Agnes se ne stava lì assicurandosi ch'era una ragazza calma e intelligente. Il satiro le piroettava intorno, scuotendo le pive, scuotendo la testa, dimenando le anche, agitando i gomiti. La siringa zuffi zuffi zuffolava. La porta della tenda ricadde, chiudendosi. Intorno alla signorina Agnes l'anziano uomo capra galoppava. Il suo zufolio petulante le strillava nelle orecchie come il tintinnio di campanelle chiocce, portatore di un nervosismo che la scuoteva e le accelerava il sangue. Con le vene pulsanti di sangue precipitoso, ella tremava come già le ninfe greche quando quello stesso satiro, di venti secoli più giovane, aveva danzato e suonato per loro. Tutta scossa, lo guardava. E la siringa zuffi zuffi zufolava.

Egli danzava vicino, toccando con la punta dei gomiti volteggianti le sue chiare braccia nude, sfiorando con le cosce ruvidamente pelose il suo abito. Gli si gonfiarono e schiusero, dietro le corna, le minuscole sacche di muschio, lasciando trapelare la materia densa e oleosa, preludio alla fregola. Uno zoccolo le pestò un alluce, il dolore si gonfiò fino agli occhi facendo sgorgare le lacrime. Sgambettandole intorno le diede sulla coscia un pizzicotto. Che le fece male, ma lei si. accorse che dolore e passione erano simili. Quel suo odore era da impazzire. La tenda era invasa dal tanfo del suo muschio. Ella sapeva che era tutta in sudore, che dalle ascelle le goccioline le inzuppavano il corpetto. Che aveva le gambe madide e lucenti. Intorno a lei il satiro danzava sulle zampe rigide e il suo torace ossuto si alzava e abbassava nel soffio. Faceva balzi a gambe rigide; gettò via in un angolo lontano la siringa; e poi l'afferrò. Le morse le spalle, le affondò le unghie nelle cosce. La saliva ch'era sulle labbra del satiro si mescolò con la traspirazione intorno alle sue labbra, ed ella senti di stare cedendo, cadendo, venendo meno, e che il mondo roteava sempre più lentamente, che la forza di gravità si affievoliva, che la vita cominciava.

Poi si aprì la porta della tenda e il dottor Lao entrò.

— Il satiro — disse — è forse la figura più incantevole che troviamo nella mitologia politeistica dell'antica Grecia. La forma dell'uomo e del capro che si uniscono nel suo aspetto esprime la fertilità, poiché sia gli uomini sia i capri sono animali in cui l'attività concupiscente è eccezionale. Invero, per i greci, i satiri erano una specie di deificazione della sensualità, deità dei boschi, semidei silvani. Ancor oggi, del resto, i boschetti e i macchioni sono i luoghi d'appuntamento preferiti dagli innamorati desiderosi di sfuggire a occhi censorii.

«Abbiamo acchiappato questo tizio presso la città di Tu-jeng nella Cina settentrionale, vicino alla Grande Muraglia. L'abbiamo preso in una rete presso una cascatella, una rete che avevamo teso per una chimera. Sia detto per inciso, è impossibile, anche se allora non lo sapevamo, acchiappare una chimera con la rete a causa del suo alito infuocato, che brucia le maghe. Ma di questo parleremo in seguito.

«I satiri non sono onnivori come l'uomo, bensì erbivori come le capre. Nutriamo questo tizio di noci, bacche ed erbe. Mangia anche foglie di lattuga e, qualche volta, di cavolo. Invece ha sempre rifiutato cipolle e agli. E beve solo vino.

«Si noti che ha un anello d'oro al naso. Non ho modo di spiegarlo. C'era già quando l'abbiamo catturato, ma non so come c'era venuto.

«Si noti anche che questo satiro è vecchissimo. Non ho alcun dubbio che si tratti d'uno dei satiri originali dell'antica Eliade. Ovviamente, in quanto semidei, i satiri vivono per lungo, lunghissimo tempo. Pongo l'età di questo tizio a quasi duemilatrecento anni, nonostante che Apollonio, il mio collega, sia incline ad attribuirgliene ancor più. Se avesse la parola, potrebbe dirci alcune cose assai curiose in merito alla sua esistenza. Come l'avanzata del dio cristiano ostile abbia scacciato lui e i suoi congeneri dai colli ellenici, costringendoli a cercare asilo in paesi inospiti. Come alcuni suoi affini, risaliti verso nord in Europa, siano divenuti degli dèi stranieri, ad esempio Adone divenuto Balder o Circe divenuta una Lorelei, o i Lari del focolare divenuti orologi a cucù o statuine da mettere sul caminetto. Sì, potrebbe raccontarci molte cose, credo.

«Più interessante di tutte sarebbe la narrazione della sua trasmigrazione in Cina, del suo stupore dinanzi ai tempietti di lacca e alle ruote di preghiera, la sua ripugnanza per i vin caldi speziati dei cinesi, e la sua tristezza per le vergini cinesi dai piedi inceppati che non potevano danzare al suono del suo zufolo. Oh, povero semidio sperduto!

«I satiri ebbero origine, immagino, nei più remoti tempi pastorali, quando gli uomini se ne stavano via col gregge nelle colline per lunghi periodi di tempo. Tra l'altro, per distrarsi e tener buono il gregge, i pastori suonavano su zampogne come quella che questo tizio ha qui con sé. E indubbiamente, anche, sulle colline, di notte, accanto ai loro focherelli, i pastori sognavano d' amore. Gli uomini sognano d'amore, sapete; gli uomini soli ne sognano. Be', sognavano d'amore e i loro sogni erano di tal potenza da stingere persino sul gregge. Nella magia del chiar di luna, forse, una capra si trasformava in un'incantevole fanciulla... E poi, al tempo degli agnelli, si vedeva magari uno strano tizietto caprioleggiare fra i neonati lanosi. Reca sulla fronte le corna materne, ha i piedi con lo zoccolo, come i suoi; ma, per il resto, è un uomo. Crescendo, giunge a sdegnare le stupide pecore e capre e ad essere timoroso dell'uomo. Ruba la zampogna paterna, e sgattaiola via. La gente semplice lo scorge, nel crepuscolo, in riva a un lago, ed ecco nasce un nuovo dio pastorale...

«Seduto presso lo specchio di un lago, il satiro suona, e persino i pesciolini vengono a frotte e mimano una danza, perché la musica delle canne del satiro è irresistibile. Egli suona la sua zampogna, e le foglie sugli alberi danzano, i vermi fanno capolino dai buchi contorcendosi, e sotto la pietra lo scorpione si stringe allo scorpione in estasi rovente e orgiastica... E alla fine sopraggiunge una ninfa, che spia attraverso le viti...

«Ma tutto ciò accadeva tanto tempo fa, e questo è un vecchio, vecchissimo satiro. Non credo che ormai potrebbe più fare niente di simile. Passiamo nella prossima tenda a vedere il serpente di mare. Da questa parte, per favore.»

La famiglia Rogers al completo venne al circo, quel pomeriggio, poco dopo le due. I figlioletti erano eccitatissimi, perché avrebbero visto il circo, la madre era su di giro perché suo marito aveva di nuovo un lavoro.

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— Badate, — disse papà — non ho un pozzo di soldi; ma credo che possiamo visitare uno o due baracconi, e poi andare allo spettacolo. Che baraccone volete visitare per primo, bambini?

Incapaci di decidersi, i bambini si accapigliarono stizzosamente fra loro.

Dopo essere stata ad ascoltarli per un po', la signora Rogers disse: — Sentite me, andiamo a vedere quell'orso, o russo, o quel che è. Così vedremo perché suscita tante discussioni.

L'idraulico John si dichiarò d'accordo e la famiglia andò in cerca della tenda dell'orso. Non riuscì a trovarla. Poi il dottor Lao uscì di nuovo sul palco a recitare la sua poesia e a parlare dello spettacolo.

John Rogers si avvicinò, di fianco al palco, e lo chiamò: — Dica, Doc, dov'è che voialtri tenete l'orso? Vogliamo rivederlo. Quello che c'era alla parata di stamane.

— Io non sapele niente loba olso — disse il dottóre e tornò a tuffarsi nel suo fervorino.

— Nella tenda a destra, signore e signori, troverete Apollonio da Tiana, taumaturgo di fama mondiale, contemporaneo di Cristo. Si soleva dire: «Socrate lascia gli uomini sulla terra, Apollonio li trasporta in cielo. Socrate è solo un sapiente, Apollonio è un dio». Ebbene, è lì, nella tenda accanto, pronto a fare uno o due miracoli per vostra edificazione. Lo troverete vecchio, vecchissimo. Vive fin dagli inizi dell'era cristiana e comincia a mostrare i suoi anni. Devo anche dire, che ha imparato l'inglese solo da pochissimo tempo, quindi siate comprensivi e non ridete se fa degli sbagli. Ricordate, è l'uomo che è rimasto zitto cinque anni interi ad ascoltare i consigli del suo animo, l'uomo che conversava con gli astrologi della Caldea e disse loro cose che neanche si sognavano, l'uomo che superò le ottanta prove di Mitra. Nella tenda a destra, signore e signori. Ingresso dieci cents. Bambini in braccio gratis.

— Ehi, Doc, — disse di nuovo l'idraulico Rogers — dove sta l'orso grosso? Tutti noi lo vogliamo rivedere.

— Io non sapele niente loba olso — disse il dottor Lao, e prosegui: — In questa tenda alla mia sinistra, buona gente, c'è una di quelle donne stupefacenti, una medusa. Un solo sguardo dei suoi occhi basta a tramutarvi in pietra.

Il dottore aprì la porta della tenda dietro a lui e rivelò una figura di pietra.

— Ecco quel che rimane d'una persona dell'ultima città in cui abbiamo dato spettacolo. Costui non ha dato retta al mio avvertimento, di guardare solamente il riflesso della medusa in uno specchio. Egli è sgattaiolato, invece, dietro il telo di riparo e l'ha fissata dritto in viso. Ed ecco, signore e signori, che cosa rimane di lui. Non vale molto come statua, eh? Io v'imploro, signore e signori, quando entrate in quella tenda, per il vostro bene, guardate solo nello specchio. È molto imbarazzante, per noi, che a ogni esibizione uno o due nostri clienti siano mutati in pietra, oltre alle grosse difficoltà che ciò crea per far capire la cosa alla polizia. Perciò, ancora una volta, vi chiedo di guardare solamente il riflesso della medusa, non la signora stessa.

John Rogers diede una tiratina all'orlo della tunica del dottore. — Vogliamo vedere l'orso grosso, Doc, me, e mia moglie, e i bambini. In che tenda è?

Il dottor Lao chinò uno sguardo corrucciato sull'idraulico. — Che c'è che pallale continuamente questa loba olso? Me non sapele niente loba olso. Te non piace questo dannato spettacolo, te andale altlove. — Il dottore spalancò le braccia e prosegui maestosamente nel suo discorso:

— Forse, l'animale più strano di tutto questo serraglio e che voi, comunque, non dovete certo mancar di vedere, è quella bestia singolare fra tutte ch'è il bracco delle siepi. Nato tra le fratte e i prati della Cina settentrionale, questo animale è il simbolo vivente delle verzure, della feconda e perenne vita vegetale. I più illustri scienziati del mondo hanno esaminato questo segugio, e non hanno potuto decidere se esso appartenga alla fauna o alla flora. La vostra opinione, signore e signori, varrà quanto qualsiasi altra. Vorrete notare, nell'esaminarlo, che, nonostante la sua forma sia quella solita del cane, le sue varie parti corporali hanno la forma di piante. I suoi denti, ad esempio, sono spine, grosse e rigide; la sua coda è una treccia di felci; le sue unghie sono gusci, il suo sangue è clorofilla. Questa è sicuramente la bestia più singolare che esista sotto il trasandato tendone del cielo. Lo nutriamo di sorbe e di noci verdi. Qualche volta, ma non spesso, mangia anche dei kaki. Voglio consigliarvi, buona gente, di vedere il bracco delle siepi, anche a costo di dover rinunciare a vedere la sirena o il lupo mannaro. Il segugio è senza pari.

— Non riesco mica a ottenere un gran che, come informazioni, da quel vecchio — disse l'idraulico alla moglie. — Andiamo prima a vedere qualcosa d'altro; forse poi troveremo l'orso.

— Be', — disse la signora Rogers — che ne dici di fare una visita dal mago? Credo che ai bambini piacerebbe.

Così, l'idraulico e la sua famiglia entrarono nella tenda a destra, per vedere l'esibizione di Apollonio. Eccetto il mago, erano gli unici nella tenda.

Apollonio, mentre entravano in fila indiana, li guardò trasognato. — Saranno dieci cents a testa — disse. John Rogers gli porse mezzo dollaro. Il taumaturgo mise la moneta in una vecchia scatola da sigari e si grattò pensoso la testa. — Ebbene... che specie di magia vi piacerebbe vedere? — chiese.

— La voglio vedere tirar fuori un maiale da questo sacco — disse Alice, alzando verso di lui il sacchetto di caramelle.

— Elementare, bambina mia, elementare — disse Apollonio. Inserì due dita nell'orifizio del sacchetto di caramelle e tirò fuori un porcellino Poland China. Quest'ultimo squittiva, si contorceva e scalciava con le zampette. Il mago lo porse a Willie. — Tienilo, ragazzo. Nutrilo bene. Un giorno dovrebbe dare dei buoni salumi.

— Oh, santo cielo, — disse la signora Rogers — non abbiamo posto, davvero, per un maiale. Sa, casa nostra è piccola.

— Uhm, — disse Apollonio — che peccato. — Tolse il maialetto di mano a Willie e tornò a ficcarlo nel sacchetto. — Era così un bel maialino... Che cosa volete che faccia adesso?

— Conosce dei giochi di carte? — chiese il signor Rogers.

— A iosa — disse Apollonio. Mise la mano nella tasca della tunica, ne trasse un mazzo di carte e le mescolò con una mano sola. Le carte si innalzavano e ricadevano con graziose spirali e parabole, accatastandosi, mescolandosi e separandosi, ma sempre tornando in un ordinato mazzo ben squadrato.

— Questa non è magia — commentò lo stregone. — È soltanto abilità manuale. Volete che vi trasformi del vino in acqua?

— E perché non trasformare dell'acqua in vino? — chiese l'idraulico.

— Per me è lo stesso — disse il mago. Prese un boccale d'acqua e borbottò su di esso. Il colore cambiò, un odore leggermente vinoso si diffuse nell'aria. Egli porse il boccale al signor Rogers. — Ne assaggi un sorso.

John lo gustò. — Sherry — disse.

Apollonio lo gustò. — Direi piuttosto moscatello — corresse. — Secondo lei che cos'è, gentile signora?

La signora Rogers assaggiò il vino. — Sembra un po' quello della chiesa — disse pensosa. — Ma naturalmente questo è l'unico vino che abbia mai bevuto prima, quindi non posso fare confronti.

— Be', non è vino sacramentale — disse Apollonio. — Di questo, sono certo. Ma bevetelo, prima che il dottor Lao lo veda. Non gradisce la presenza di alcool nel recinto del circo.

Edna Rogers tirò sua madre.

— Mamma, fagli fare qualcosa che ci piace — disse imbronciata.

— Ti piacciono i fiori? — disse Apollonio.

— Un po' — disse Edna.

— No, non ci piacciono — disse Willie.

— Oh, sì, faccia dei fiori per i bambini — disse la signora Rogers.

Il taumaturgo fece dei gesti cabalistici in aria, e dei petali di rosa rosa piovvero sulle spalle fruste della famiglia e tutt'intorno. Altri gesti cabalistici, e intorno ai piedi di padre, madre e figli spuntarono le viole. Fiori neri orlati di giallo si arrampicarono sui lati della tenda. Fiori color malva con capolini lanuginosi e foglie verdi sottili si aprirono fra le viole. Un gran fiore grigio, su uno stelo filiforme ondeggiava sulle loro teste. Aveva una barbetta da capra. Aculei e spine sfrangiavano gli orli dei suoi petali disuguali.

Apollonio fissava attonito il gran fiore.

— Santo Dio, — disse — non avevo mai fatto un fiore come questo in vita mia. Mi chiedo che fiore sia. Lei lo sa, signore?

— No, no — disse l'idraulico. — Me n'intendo assai poco di fiori. Solo le specie comuni, come i soffioni e simili.

— Be', — disse Apollonio — sia quel che sia, è grosso davvero.

— Lei fa proprio dei trucchi ingambissimo — disse la signora Rogers. — Non è vero, bambini?

Punto sul vivo, il mago disse: — Ma questi non sono trucchi, gentile signora. I trucchi sono cose per gli sciocchi. In ultima analisi, i trucchi sono bugie. Questi invece sono fiori veri, e quello era vino vero, e il maiale era vero. Non faccio trucchi. Io faccio magie. Creo, traspongo, coloro, transustanzio, disfo, ricombino; ma non trucco niente. Vi piacerebbe vedere una tartaruga? Sono in grado di creare una tartaruga assolutamente di prim'ordine.

— Io si — disse Willie. — Voglio vedere una tartaruga. Col piede il mago tolse via un po' di viole, finché non giunse al nudo terreno. Ne prese, di quest'ultimo, tanto da riempire entrambe le mani. Modellò la terra fra le dita, lisciandola e formandola, con colpetti e sfregamenti. Essa divenne gialla, densa e malleabile.

— Oh, oh! — disse Alice. — Guarda, sta cambiandosi in una tartaruga. Uh, questo sì è un trucco meraviglioso.

Apollonio poso al suolo la tartaruga, che teneva la testa ritirata nel guscio. Le diede un colpetto sul dorso con una bacchetta. — Generalmente, questo le induce a tirar fuori la testa — spiegò.

Effettivamente, dopo essere stata picchiettata per un po', la tartaruga fece capolino. Ma invece di una testa ne spinse fuori due. Le teste erano l'una accanto all'altra, unite per il collo, a forcella. Le due teste aprirono i quattro occhi e le due bocche, e sbadigliarono. Poi, ciascuna testa cercò di andare in una direzione diversa.

— Oh, santo cielo — disse Apollonio, scontento. — Ho combinato un pasticcio, proprio quando volevo fare per voi una magia come si deve. Andare a tirar fuori un fenomeno simile! Due teste! Sinceramente, vi faccio le mie scuse. Mi vergogno della mia incapacità.

— Oh, non fa niente — disse l'idraulico. — Immaginò che codesta roba sia sempre un po' difficile a farsi.

Alcune persone entrarono in frotta nella tenda, seguite dal dottor Lao.

— Uhm, Apollonio, — gli bisbigliò il dottore — ho promesso a questa gente che avresti risuscitato un uomo dalla morte. Lo farai, vero? Tutti hanno espresso un grande interesse di vederti all'opera.

— Ma sì, certo — bisbigliò in risposta lo stregone. — Ma, dottore, ce l'ha un cadavere?

— Vado a vedere — disse il vecchio cinese.

Il crocchio di persone si sparse intorno sui fiori, così che la tartaruga, spaventata, ritirò le sue teste nel guscio. Una donnona grassa ci camminò sopra. Guardò giù, per vedere che cosa c'era sotto il suo piede.

— Dio onnipotente, Luther, — strillò — c'è una tartaruga, qui dentro!

— Dove? Dove? — chiese Luther, con apprensione. — Dove diavolo è, Kate?

— Proprio sotto il mio piede — singhiozzò Kate.

— Non le farà alcun male — disse il signor Rogers. — È una tartaruga completamente domestica, credo.

Luther tirò via Kate e fissò in terra il chelone. — A me non sembra domestica.

— Ha due teste. Vero, mammà? — disse Willie.

— Per Dio, lo sapevo che aveva qualcosa di strano — disse Luther.

Il cinese rientrò con un grosso fagotto sulle braccia.

— Ne ho trovato uno — bisbigliò ad Apollonio. Poi ordinò: — Su, tiratevi indietro, tutti quanti, intorno al bordo della tenda. Apollonio da Tiana sta per compiere la più grande opera di magia che si sia vista da secoli. Dinanzi ai vostri stessi occhi, riporterà in vita un cadavere senza vita. Dinanzi ai vostri stessi occhi il morto ritornerà vivo. Ciò, senza alcun supplemento su quel che avete pagato per l'ingresso in questa tenda. Scostatevi, signore e signori; scostatevi, per favore! Lasciategli tutto lo spazio che gli occorre.

Apollonio si chinò e svolse il fagotto. Apparve un ometto morto e scarmigliato, uno che doveva essere stato un manovale. Aveva indosso una tuta a bretelle, vecchi scarponcelli militari con i lacci di cuoio, una camicia a righe da lavoro e un cappello da cowboy vecchio e logoro. Sulla fascia di cuoio del cappello c'erano le iniziali «R.K.» vergate con scrittura a svolazzi, al lapis copiativo. Una delle stringhe di cuoio degli scarponcelli militari vecchi e logori dell'uomo si era spezzata ed era stata riannodata in più punti. I nodi sembravano fatti da uno che fosse stato marinaio.

Apollonio posò la salma sul fianco, tirandone le braccia più in su della testa. Piegò le ginocchia e allargò leggermente le gambe. Il cadavere sembrava uno che dormisse in posizione molto scomoda.

Apollonio cominciò a pregare, una preghiera fitta, a bassa voce. Le pupille gli diventarono verdi, della roba lieve come una nebbiolina galleggiante gli usciva dalle orecchie. Pregava, pregava, pregava. Mandava, al sottile spirito della vita, la sua terribile invocazione.

Poi, tutt'a un tratto, proprio quando ognuno se l'aspettava, il morto prese vita, si alzò a sedere, tossi e si fregò gli occhi.

— Dove diavolo sono? — domandò.

— È al circo — disse il dottore.

— Be', fatemi uscire di qui — disse l'uomo. — Io ho il lavoro che mi aspetta.

Si alzò in piedi e si avviò per andarsene, un po' zoppicante.

Luther lo afferrò per un braccio mentre si dirigeva alla porta. — Senta, capo, — chiese — era davvero morto?

— Più morto d'un accidente, fratello — disse l'uomo. E uscì in fretta dalla tenda.

Verso le due e mezzo, giunsero al sito del circo due poliziotti per assistere allo spettacolo e assicurarsi che non accadesse nulla di contrario al pubblico interesse. Uno dei poliziotti era un grassone gioviale dall'aria ignorante, l'altro era alto, magro e brutto. Erano in uniforme, con cinturone, pistola e distintivi lucenti d'ottone. Il dottor Lao li avvistò da lontano e scivolò alle loro spalle.

— Che c'è? In caccia di ladlo? Qualcuno rubato? Che c'è che polizia viene questo maledetto posto? Questo è mio spettacolo, pel Dio!

— Suvvia, non ti agitare tanto disse il piedipiatti grasso. — Siamo solo venuti a dare un'occhiatina in giro. Sta' calmo, occhi obliqui. Non intendiamo arrestare nessuno a meno che ce ne sia bisogno. Siamo agenti; che ne dici se vedessimo un po' di queste attrazioni?

— Accomodatevi, signori — disse il dottor Lao. — Andate dove vi pare quando vi pare. Darò istruzioni ai bigliettai di lasciarvi entrare dovunque vogliate andare.

— Questo sì ch'è un bel parlare — disse il poliziotto. — Che cosa c'è di speciale, in questo momento?

— Tutte le attrazioni sono aperte. Andate dove vi piace — disse il dottore. — Ora vorrete scusarmi; devo andare a fare la mia conferenza sulla medusa.

I piedipiatti girellarono per un po', facendo capolino nelle tende, fissando la gente, facendo un cenno di saluto agli amici. Acciuffarono un bambino che si stava infilando di soppiatto sotto una tenda, lo tirarono indietro, fecero la voce grossa e lo rimandarono a casa in lacrime. Poi decisero di vedere un paio di attrazioni.

— Entriamo in tutte, l'una dopo l'altra, così non ne manchiamo nessuna — disse il piedipiatti magro e brutto.

— D'accordo — disse il piedipiatti grasso dall'aria ignorante. — Hai mai visto un circo così scassato?

— Mai — disse il compagno. — Entriamo qui.

Era la tenda della medusa. L'interno era tinteggiato d'un giallo cremoso, e quel giallume era punteggiato di pallide stelle argentate. Sulla parete opposta era appeso un gran specchio. Vi si rispecchiava l'interno d'un cubicolo di tela che gli stava dinanzi. Per veder dentro, bi^ sognava guardare nello specchio. Un guardacorpo di corda proteggeva specchio e cubicolo, affinché non ci si potesse avvicinare troppo a nessuno dei due.

Su un divano, dentro il cubicolo, la medusa si faceva le unghie. Era d'una giovinezza sorprendente. D'una bellezza sconvolgente. D'una grazia di membra eccitante. D'una sommarietà del vestire imbarazzante. Su per un telo laterale della sua cella, corse una lucertola. Un serpe della sua chioma scattò come uno staffile e l'acchiappò. Le altre serpi si accapigliarono col predatore per prendergliela. E questo era stupefacente.

— In nome del diavolo, che razza di donna è? — domandò il grassone piedipiatti dall'aria ignorante.

— Signore e signori, — disse il dottor Lao — questa è la medusa. È una medusa di Sonora, nel Messico settentrionale. Come le Gorgoni sue sorelle, ha il potere di mutarvi in pietra se la guardate negli occhi. Perciò, a salvaguardia dei nostri visitatori, abbiamo attuato questa disposizione a specchio. Lasciate ch'io vi preghi, buona gente, di contentarvi dell'immagine riflessa e di non andare a sbirciarla oltre il bordo della tela. Se qualcuno lo facesse, prevedo dei risultati spiacevoli.

«In primo luogo, però, osservate i suoi serpenti. Vorrete notare che sono, per la maggior parte, dei tantilla: quelli sottili e marrone con un cerchio nero intorno al collo. Ma sulla parte posteriore della testa potete vedere alcuni serpenti grigi maculati di nero. Sono serpenti notturni, chiamati in latino Hypsiglena ochrorhyncus. E i serpenti schiariti della sua frangetta sono, niente di meno, l'Arizona elegans. Or ora uno dei serpenti schiariti ha acchiappato una lucertola, come qualcuno avrà visto. Anche i suoi serpenti notturni mangiano lucertoline; ma i tantilla mangiano solo lombrichi e altri vermiciattoli, e qualche volta è difficile nutrirli, in climi più freddi.

«E stato, credo, un dottore di Belvedere a rilevare per primo che i serpenti di una medusa sono invariabilmente delle specie indigene più comuni della sua contrada nativa. Che non sono mai velenosi. Che comprendono alcune specie diverse. Che si nutrono indipendentemente dalla donna che adornano. Questo dottore belvederiano s'interessava principalmente ai serpenti e solo sussidiariamente alla medusa; le sue osservazioni, perciò, per quel che riguarda gli scopi del parco di divertimenti, lasciano molto da desiderare. Tuttavia, io ho condotto uno studio su questa e su altre meduse e sono in grado, perciò, di dirvene qualcosa.

«L'origine delle meduse costituisce, per la scienza, un rompicapo. La loro collocazione nella scala dell'evoluzione costituisce un mistero. La loro funzione nel grande equilibrio della vita costituisce un segreto. In verità esse appartengono a quel fantastico ed enigmatico mondo degli esseri non biologici di cui sono esempi eminenti il chimera, la sfinge, l'unicorno, il lupo mannaro, e il bracco delle siepi, e il serpente di mare. Io lo chiamo un ordine non biologico perché esso non obbedisce ad alcuna legge naturale dell'ereditarietà e dei cambiamenti ambientali, se ne infischia della sopravvivenza del più forte, si fa beffe dei tentativi umani di scoprirvi un ciclo vitale razionale, è probabilmente immortale, sicuramente immorale, manifesta anabolismo ma non catabolismo, s'infoia, feconda e genera ma non si riproduce, non depone uova, non costruisce nidi, cerca e non trova, vagola e non riposa. Né s'industria o tribola. Gli animali appartenenti a quest'ordine non furono creati dal Dio degli Ebrei per ornarne il suo Eden, non sono frutto dei sei giorni di fatica. Essi sono le anomalie, i cascami, dell'universo anziché della specie; sono i figli ultramondani della libidine delle sfere.

«La scienza non li spiega, ma il misticismo sì. Ascoltate. Quando la gran fecondità misteriosa che popolò i mondi agli ordini degli dèi ebbe terminato i suoi parti, quando le levatrici celesti se ne furono tutte andate, il grembo primevo si ritrovò non ancora esaurito, con i lombi ancora potenti. Quella fertilità spaventosa, quindi, si agitò sul suo giaciglio e in una violenta esplosione generativa finale partorì questi esseri da incubo, a questi aborti del mondo. L'uomo dell'antichità raffigurò vagamente questa procreazione nella statuetta di Diana d' Efeso, che aveva animali strani vaganti sulla tunica e la lorica e sulle spalle, succhiando alle sue numerose mammelle, azzuffandosi tra le ciocche dei suoi capelli. La natura stessa sognava probabilmente di quella prima maternità, allorché creò il rospo di Surinam proprio ai paesi istimici a sud di qui, quell'incredibile rospo che partorisce i suoi piccoli attraverso la pelle della schiena. Sì! Forse attraverso la pelle dorsale della gran madre della vita sono venuti al mondo questi esseri non biologici. Non so.

«Ora, questa medusa qui, è giovane. Valuterei la sua età in meno di cent'anni. Degli intenditori di donne mi hanno detto che è singolarmente attraente, che possiede una bellezza di gran lunga più incantevole di quella posseduta dalla media delle fanciulle umane. E io riconosco che le sue braccia flessibili, il suo seno gonfio, l'ovale del viso, hanno indubbiamente di che toccare il senso artistico dell'uomo. Ma è una medusa con la luna di traverso. Certe volte io cerco di parlarle, di sapere che cosa pensa, a starsene lì seduta guardando il mondo riflesso in uno specchio, e capace, in potenza, di spopolare una città semplicemente andando a spasso per le vie e guardando i passanti.

«Ma lei non mi parla. Si limita a guardarmi nello specchio, con un'espressione di noia... o forse di compassione, di scherno? ... sul viso, e accarezza le sue serpi, sognando senza dubbio l'ultimo uomo che ha ucciso.

«Ricordo un incidente accaduto alcuni anni or sono, quando davamo spettacolo nella città cinese di Shanhaikwan, che si trova all'estremità settentrionale della Grande Muraglia. La medusa e alcune altre attrazioni del mio circo erano un po' indisposte a seguito di un lungo viaggio per mare, e tutto il circo aveva un'aria ammosciata ch'era un vero disastro per gli affari. Insomma, piantammo le tende a Shanhaikwan con l'intenzione di fermarci li per un po', fino a quando gli animali non si fossero ristabiliti. Era estate; i venticelli montani provenienti dalla Manciuria erano ristoratori. Non c'era guerra in corso nei paraggi; caso stranissimo, poiché quello è uno dei luoghi più infestati di guerre che esista al mondo. Perciò decidemmo di sostare per un po' e cercare di ritrovare la nostra serenità abituale.

«C'erano in città dei marinai, marinai di paesi stranieri, sbarcati dalle loro navi da guerra in franchigia a terra, e vennero a vedere il mio circo. Erano una manica d'ubriaconi; ma pagarono, e io li lasciai entrare. Videro la medusa, ed essendo degli asini credettero che si trattasse solo di una ragazza da me provvista di una calotta di serpi per ingannare la gente. Neanche fosse necessario darsi tutta quella pena, per ingannare la gente! A ogni modo, come dicevo, ritennero che la medusa fosse un' impostura; ma la sua bellezza li affascinava e, per fare una burla da ragazzi, architettarono tra loro di rapirla, una notte, portarla giù alla spiaggia, violentarla e poi abbandonarla.

«Così, una notte nera in cui la luna era nascosta da un banco di nuvole, questi marinai se ne vennero di soppiatto al circo, con i loro coltelli tagliarono una fessura nella tenda della medusa ed entrarono a prenderla. Poiché la notte era così tenebrosa che non ne potevano vedere la faccia, andavano sul sicuro, almeno per il momento.

«Apollonio e io, nel rientrare alla nostra tenda bisticciando e barcollando, di ritorno da una bettola, vedemmo quel che stavano facendo. Io mi arrabbiai moltissimo, e avrei sguinzagliato il serpente di mare contro i rapitori; ma Apollonio mi disse di non farlo, che fra poco sarebbe venuta fuori la luna e le cose si sarebbero sistemate da sole. Perciò mi tacqui, e rimanemmo a vigilare e aspettare.

«La frotta era di dieci marinai ubriachi. Pallide come carne spettrale erano le loro uniformi bianche nelle nere tenebre. Come ho detto, essi tagliarono la tenda con i coltelli, afferrarono la medusa, l'imbavagliarono e la portarono giù alla spiaggia. L'avevano appena portata oltre le dune quando la luna uscì da dietro il suo velo. E presumo che i marinai stessero tutti in piedi a semicerchio intorno alla medusa, perché la mattina dopo, quando Apollonio ed io andammo sul luogo, dieci marinai stavano carenati nella sabbia. Avevano ancora lo stupido sogghigno sui loro visi d'ubriachi. Per quel che ne so, l'hanno tuttora, perché quei sogghigni erano scolpiti nella viva pietra.

«Vi assicuro, non conviene scherzare con una medusa. Qualcuno desidera fare delle domande? In caso contrario, propongo che andiamo a vedere la sfinge.»

Una donnona grassa, nella calca, disse: — Ah! Io non credo neanche una parola, di quel che ha detto. Non ho mai udito una simile quantità di sciocchezze in vita mia. Tramutare persone in pietra! Che idee.

L'ometto che le stava vicino disse: — Su, Kate, non farti sentire così, davanti a tutta questa gente.

Kate disse: — Tu, Luther, sta' zitto; io dirò tutto quel che mi pare e piace!

Il dottor Lao disse: — Madam, il róle di scettica non le si addice; ci sono al mondo cose che nemmeno l'esperienza di tutta una vita trascorsa ad Abalone, Arizona, potrebbe concepire.

Kate disse: — Ebbene, gliela farò vedere! La sbugiarderò dinanzi a tutta questa gente, o non sono più io!

E si fece largo tra gli astanti, verso il guardacorpo di corda del cubicolo di tela in cui stava sdraiata la medusa.

— In nome di Budda, fermatela! — gridò il dottor Lao.

Ma Kate, chinandosi sotto il guardacorpo, sporse il viso oltre il bordo del cubicolo. — Cutret... — cominciò a dire. E prima di poter pronunciare la terza sillaba rimase impietrita.

In seguito, mentre tutti si accalcavano intorno chiedendosi che cosa si potesse fare, un geologo dell'università esaminò Kate. — Calcedonio massiccio — disse. — Mai vista una più bella colorazione variegata in vita mia. È cornalina. Se ne fa una bellissima pietra da costruzione.

Ed e Martha, il capomovimento delle ferrovie e sua moglie, avevano accompagnato al circo i loro due figli alle due e venticinque.

— Davvero, — disse Martha — non ho mai visto in vita mia un circo con un aspetto così curioso. Sei certo che non abbiamo sbagliato posto, Ed?

— Certissimo, cara.

— E allora, andiamo pure a vedere qualcuna delle attrazioni del parco dei divertimenti. In questa tenda c'è una sirena. Entriamo qui.

— Ti dirò, Martha. Mi brucia di spender soldi per una cosa che è così evidentemente una contraffazione. Lo sappiamo entrambi, che le sirene non esistono. Guardiamoci ancora un po' attorno. Non m'importa d'essere raggirato se in quel momento non so d'esserlo; ma la sola idea di sborsare dei soldi per vedere una cosa che già so perfettamente ch'è un falso... che vuoi! mi ripugna un po'.

— Forse non è mica un falso, babbo — disse Ed junior.

— Non dire «mica», caro — corresse la mammà con pazienza.

— Andiamo a vedere il serpente — suggerì il piccolo Howard.

— Oooh, i serpenti fanno tanta paura alla mammà. — Mamma rabbrividì.

— E allora, che si fa? Stiamo sempre a girare? — chiese Howard.

— Non parlare così alla mammà, altrimenti il babbo t'insegna un po' d'educazione a suon di busse, quando torniamo a casa — minacciò il capomovimento.

Howard si mise a piangere.

— E niente pianti, adesso, altrimenti le busse vengono subito.

Howard smise di piangere.

— Forse questo bracco delle siepi può essere interessante — disse Martha, guardando lo stendardo che pendeva da una tenda vicina.

— No, — disse Ed — non dice niente. Solo un cane pitturato di verde. L'ho visto alla parata di stamane.

— Oh, su, babbo, vediamo qualcosa — pregò Ed junior.

— Francamente, Martha, — disse Ed — non credo che qui ci sia niente da vedere. Abbiamo sbagliato a venire. Non mi sarei mai sognato che qualcuno cercasse di gabellare al pubblico una simile raccolta di sciocchezze.

Passava li vicino il dottor Lao che stava dirigendosi appunto allora allo stand della medusa.

— Che c'è, che c'è? Semple clede qualcuno plende in gilo. Io non plende in gilo. Lei viene in questo luogo foltunato vedele; foltunato vedele. Pel Dio! Io non fa pagale niente. Entli glatis; polti glatis tutta famiglia. E lei vede: io non la plendo in gilo. Questo luogo non attlaente falso. Questo mio spettacolo, pel Dio!

Spinse il capomovimento e la sua famiglia nella tenda dell'uovo di roc e si precipitò per i casi suoi.

— È il padrone del circo — spiegò Ed imbarazzato alla moglie. — Immagino che si è arrabbiato per quel che dicevo sul fatto ch'era un falso. Ma che diamine è questa roba qui?

— L'insegna diceva ch'è l'uovo del roc — disse Martha.

Dinanzi a loro l'uovo si ergeva come un monolito. Il guscio aveva butteri grossi come palline da golf. Ne trapelava una sottile secrezione acquosa.

— Sembra proprio un uovo, infatti — disse Ed. — Ma è inverosimile che un uovo sia così grosso.

— È grossissimo, vero, babbo?

— Mi pare, ragazzo mio; mi pare.

— E adesso che si fa? Si sta qui a guardarlo?

— Su, non essere impaziente, caro — disse mammà.

— Ascolta me — disse il capomovimento; — credo di aver' capito. Non è affatto un uovo. È fatto di cemento o qualcosa di simile; è una contraffazione. Non può esserci un uovo così grosso.

— Però, sembra grossissimo, babbo — disse Howard.

— Attento, Howard — lo ammoni' mammà.

— E perché ne esce tutta quell'acqua? — chiese Ed junior.

— Oh, un mucchio di volte il cemento trasuda quando fa caldo, se è di cattiva qualità — disse papà. — È poroso, capisci, e s'imbeve d'umidità nelle notti fresche. Poi, quando fa caldo come questo pomeriggio, l'umidità si raccoglie e cola fuori. Un po' come la cantimplora dell'acqua. Effetto della cosiddetta capillarità.

— Bravo, babbo, tu sai tutto, vero, babbo? — disse Howard.

— A ogni modo, sono in grado di riconoscere un mucchio di cemento da un uovo, quando lo vedo — ammise il capomovimento.

L'uovo cominciò a emettere certi scricchiolii. Parve che si movesse un pochino e si udì un picchierellare che veniva dall'apice. — È la dilatazione, dovuta al caldo — disse papà.

Il picchierellare divenne più forte. Lo accompagnava un irritante raschio. L'uovo si scosse e oscillò un poco. — Stiamo un po' più indietro, tutti — disse papà. — Sembra che questo affare stia per rovesciarsi.

Un rumore stridulo e lacerante venne dalla cima dell'uovo, e un grosso pezzo di guscio ne cadde, ai loro piedi. Un becco giallo, grande quanto un vomere, sporse dall'uovo.

— Dio mio, si schiude — disse mammà.

— Indietro, tutti — ordinò papà.

La cima superiore dell'uovo si scheggiò e si screpolò, e dall'irregolare apertura sbucò il capo sporco di un roc neonato e guardò giù verso di loro. Una calugine, grossa come piume di struzzo, gli ornava la pelle grigia e il giallo agli angoli della bocca era color burro. Poi l'uovo si spaccò completamente e il pulcino di roc rimase ritto a piangere fra le macerie del guscio. Aprì la bocca e berciò per orribile fame.

— Presto, usciamo di qui — disse il capomovimento.

— In realtà non era cemento, vero, babbo? — chiese Howard.

— Howard, per piacere! Non fare più domande — disse mammà.

Papà disse: — Andiamocene a casa, Martha. Questo luogo non mi garba.

— D'accordo — disse Martha, sorridendo.

Accanto al marciapiede lungo il bordo dell'area del circo, un grosso autocarro impediva il passaggio, non lasciandoli entrare nella loro auto. Degli uomini d'aspetto rude stavano caricando un grosso pezzo di pietra sul cassone dell'autocarro. Il capomovimento riconobbe un uomo ritto vicino all'autocarro. Gli mandò un saluto:

— Ehilà, Luther! Che hai fatto? Hai comperato una statua, al circo?

Luther lo guardò di traverso. — Questa non è una statua — disse. — È Kate.

— Epitome fragrante delle terre erbose, dei prati, delle verzure, questo madornale bracco spicca, senza eguali, nel lessico misterioso della vita. La maggior parte delle altre curiosità di questo circo presentano, mi spiace dirlo, una sfumatura di male, o d'isterismo. Non così questo magnifico bracco. È odoroso come il fieno appena tagliato in cui stanno ancora intatti i fiori del trifoglio. È ridente come le mattine rugiadose che le erbe sue genitrici amano tanto. È una bestia meravigliosa, se bestia è lecito chiamarlo. Inoltre, pur se ne parlo al maschile, si tratta di un'attribuzione molto generica; poiché, in realtà, questo bracco ha un sesso solo come può averlo una ninfea. È unico della sua specie in tutto il mondo; né riproduttore né fattrice; né accoppiato né progenie. Questo bracco non è più maschio d'un rafano, né più femminile d'una verza, meno carnale di un giglio rosso e non più lussurioso d'un roseto.

«Lo trovammo nella Cina settentrionale lungo i canali dove prosperano le risaie e crescono l'erbe e piccole fratte nane. Quelle terre, per molto, moltissimo tempo, erano state solo polvere riarsa, dove nulla di verde cresceva in alcun luogo. Poi, costruiti i canali, fattavi arrivare l'acqua, il verde cominciò a crescere. Ciò che pareva morto prese vita. Ciò che pareva sterile brillò di fertilità. E come simbolo, come incarnazione di quella fecondità esuberante, le erbe prative o selvatiche, e i fiori, le fratte, i cespugli, diedero ciascuno un po' di se stessi e crearono questo bracco, un risultato davvero senza pari negli annali dell'orticoltura.

«Lo vedemmo per la prima volta verso sera mentre giocava intorno alle siepi, saltando, caprioleggiando, mordendo le bacche, scavando con le zampe piccole buche nel terreno e annusandovi effimeri semi. Impaurito nel vederci, si mise a correre in grandi cerchi, rampando, comparendo fugacemente fra l'erbe, scomparendo dietro le siepi, così veloce che l'occhio non riusciva a seguirlo. Il suo bel verde ci mandava in estasi. Non avevamo mai visto, in tutto il mondo, un così meraviglioso bracco.

«Perciò, lo acchiappammo. Ci guardò, con i suoi strani occhi: occhi ch'erano come baccelli verdi, ancora acerbi. Mostrò una gran dolcezza. Moveva un po' la sua coda di felci, frustandosi i fianchi d'erba verde, verde. Dalla bocca ansante sbavava clorofilla. Aveva una biscetta sottile arrotolata intorno al collo, e le sue orecchie fronzute ospitavano delle cavallette verdi e dei minuscoli grilli neri.

«Stava lì a guardarci, nelle maglie dei nostri cappi. Ah, quella prima volta che vedemmo da vicino il suo verde e splendido testone! Stava in piedi tra l'erbe, in cui affondava fino alle spalle; le sue erbe genitrici, quelle erbe che amava. Esse lo accarezzavano con le verdi dita sottili e cercavano di ripararlo da noi. Cercavano di riassorbire il suo verde nel loro, di nascondere, di proteggere questo ch'era il loro figlio. Vi assicuro, nulla al mondo mi ha mai emozionato quanto la prima vista del bracco delle siepi, e sì che da più di cent'anni venero e studio gli animali! Mi dicevo: "Ecco il capolavoro della vita, qui, in questo stupendo corpo vivo che non è vegetale né animale, ma un perfetto equilibrio d'entrambe. Ecco una massa di cellule viventi così completa in se stessa da non richiedere lo sfogo della riproduzione, contentandosi di sapere che, seppure riproducesse la sua forma mille volte, mai potrebbe, attraverso questo o quel cambiamento nell'evoluzione di mille generazioni, raggiungere un miglioramento rispetto alla sua trionfale completezza".

«Immacolata fra tutte fu la sua concezione in mezzo alle umili erbe. Ogni cosa le calpesta, le divora, le schiaccia e le distrugge. Ma esse sopportano e sono belle e conservano la loro dolcezza e non albergano rancore. Tuttavia, una volta, una grande passione le invase, una passione pura che non sarà mai nemmeno capita chiaramente; c'era in essa la ribellione, e altre cose estranee all'erba; e da quella strana passione delle piante il bracco delle siepi fu concepito e nacque.

«Ed ero anche meravigliato, poiché era sempre stata mia convinzione che la bellezza fosse una modificazione della sessualità. La vita canta la canzone del sesso. Il sesso è l'urlo della vita. Desiderare e moltiplicare è la danza della vita. Genera, genera, genera. Colma e ricolma i grembi del mondo. Tumescenza ed eiaculazione. Spargere spora, seme, uova, germoglio. Eccitazione e nascita. Sterilità e morte. Questa era la vita, credevo, e questi erano i mezzi della vita affinché in ultimo, dopo secoli quasi infiniti di tentativi ed errori, potesse venir fuori l'essere vivente perfetto.

«Invece, ecco questo bracco, che non è frutto di un processo di tentativi ed errori, privo di foia, indenne da paure e istinti ancestrali. E io mi chiedevo se in questo bracco delle siepi non si dovesse vedere l'apogeo di tutto ciò che la vita potesse mai promettere. Poiché aveva la bellezza, la dolcezza, la grazia; solamente la ferocia, il sesso e la malizia erano assenti.

«E mi chiedevo: "Che sia questo un accenno alla vera meta della vita?"».

Il dottor Lao tese la mano dentro la gabbia, e blandi la testa del bracco. La bestia sospirò con un sussurro come di vento fra le foglie del sicomoro.

— Ma di che diavolo sta ciarlando il cinese? — chiese il controllore di quarantena numero uno.

— Che mi venga un accidente se lo so — disse il controllore di quarantena numero due. — Andiamo a vedere la sirena. Questo dannato cane mi sembra un po' una contraffazione.

Adagiata nell'acqua marina della sua vasca, agitava movendo la coda di pesce bollicine salate che le frizzavano intorno ai piccoli seni, e la capigliatura bionda e sciolta tratteneva brandelli di spuma. La coda di pesce, verdemare, delicatamente squamosa, si arcuava dentro l'acqua, e la pinna a ventaglio dell'estremità ne spuntava fuori, rosea come quella di una trota. Ella cantava una canzoncina dolce, di onde lontane alle quali l'avevano tolta, e i ciprini che nuotavano con lei nella vasca sostavano sulle loro pinne nervose, per ascoltare. Ella rideva di quei pesciolini rossi, movendoli con le mani sottili. Essi le si avvicinavano, le mordicchiavano le spalle e nuotavano dentro e fuori fra le trecce galleggianti. Con la grazia di un pesce, era bella come una ragazza; ma più strana e dell'uno e dell'altra. I due ispettori della quarantena si scandalizzarono perché non indossava un costume da bagno.

— L'abbiamo trovata nel golfo del Pei-Chihli — disse il dottor Lao. — L'abbiamo trovata lì sulle onde marrone, fangose. Erano marrone e fangose perché era piovuto nell'entroterra e i fiumicelli avevano trasportato il limo al largo in mare. Dopo avere trovato lei c'imbattemmo anche nel serpente di mare, che catturammo a sua volta. Fu una giornata fortunatissima. Ma lei, credo, qualche volta anela al suo grande oceano grigio. Mi spiace di tenerla segregata in questo serbatoio, ma non so proprio dove potrei metterla. Credo che un giorno la rimetterò in libertà, quando ci capiterà di dare spettacolo sul litorale. Sì, la porterò fuori all'alba, quando non c'è in giro nessun altro, e la trasporterò giù al mare. Entrerò nell'acqua fino alla cintola, tenendola fra le braccia, poi la deporrò dolcemente e lascerò che nuoti via. E io, vecchio sciocco e strambo, rimarrò lì nell'acqua fino alla cintola, piangendo la bellezza che avrò lasciato sfuggire, piangendo la bellezza che avevo veduto e toccato, ma mai completamente capito; e se qualcuno mi vedrà lì, nell'acqua fino alla cintola, mi prenderà certamente per matto. Ditemi: credete che dopo aver nuotato alquanto si volterà a farmi un cenno di saluto? Credete che mi soffierà un bacetto? Oh, Dio! Se soltanto l'avessi veduta quando ero giovane! La contemplazione della sua bellezza avrebbe potuto cambiare interamente la mia vita. La bellezza può farlo, vero?

«Sì, credo che la porterò in mare e la libererò. E rimarrò lì a guardarla mentre nuota al largo nella corsa delle onde. Chissà se si volterà a farmi un cenno di saluto. Lei crede di sì, signore?»

— Mah, non saprei — disse l'ispettore della quarantena numero due.

— Che cosa le dà da mangiare, dottore? — domandò l'ispettore numero uno.

— Frutti di mare — disse il dottore. — Andiamo a vedere la sfinge.

Il viso femminile dal naso camuso di quell'essere fissò i due ispettori che entravano nella tenda dietro il cinese. La coda leonina sferzava pigramente le mosche. — Che razza di gente lei mi porta qui, dottore — disse la sfinge in tono di recriminazione.

— Tutto nell'interesse del mestiere — disse il dottore.

— Santo cielo! Quel coso parla? — domandò un ispettore.

— Ma s'intende — disse il dottore, mentre la sfinge aveva un'aria infastidita.

— Che cos'è, una sfinge maschio o una sfinge femmina? — domandò l'altro ispettore.

Il dottor Lao apparve imbarazzato. — Venite fuori che ve lo dico — mormorò.

Fuori della tenda disse loro con segretezza: — Avrei preferito che non l'aveste chiesto in sua presenza. Capite, non è maschio né femmina, ma entrambi.

— Uah! E come può essere? — domandò il primo ispettore.

— Davvero lorsignori non ne hanno mai sentito parlare? Affé mia, mi meraviglio. Lo ha scoperto molto tempo fa un certo Winkelmann, esaminando attentamente delle piccole sfingi africane. Sono realmente maschio e femmina al tempo stesso. È lo stato che si chiama bisessuato.

— Be', mi venga un canchero — disse l'ispettore numero due. — Rientriamo a vedere l'animale, Al.

Frank Tull, l'avvocato, telefonò alla moglie dallo studio, poco dopo le due, per chiederle se voleva andare al circo.

— No, — ella disse — ma ti consiglio di andarci tu per dare una buona e lunga occhiata all'uomo che credevi fosse un orso. Forse allora ti renderai conto di come sia facile che la gente veda una cosa e giuri d'averne vista una del tutto diversa, quando è al banco dei testimoni.

— Suvvia, tesoro, — disse Frank — perché diavolo vuoi far la cattiva? Credevo che a quest'ora tu non ci pensassi più. E poi, non l'ho detto anch'io, ch'è un uomo?

— Già, ma solo per contentarmi. Non c'è cosa che mi snervi quanto che mi si vada al pelo per blandirmi, specialmente se so di aver ragione.

— Be', sai che ti dico, cara? Vieni, che ci andiamo insieme, ed entrambi osserveremo di nuovo quell'essere. E chi aveva torto chiederà scusa all'altro. Che te ne pare?

— Dio mio, Frank! Io so perfettamente ch'era un uomo! Non vedo la necessità di andar fino a quello sconcio circo, solo per tornare a convincermi da capo. Vacci tu, però, e quando mi farai le scuse, tornando a casa, per avermi schernita come hai fatto stamane, sarò molto benigna.

— Ti stai mostrando molto irragionevole, anima mia.

— All'opposto. Ritengo d'essere l'acme della ragionevolezza, dopo che hai ridacchiato di me, e che hai detto tutte quelle cose orribili sul mio bisogno di occhiali. Se avessi agito seguendo i suggerimenti della mia indignazione avrei provocato una scenata che poteva solo finire con una causa di divorzio.

— Senti, tesoro, realmente sei ancora arrabbiata a proposito di quella parata, o stai solo prendendomi in giro?

— No, Frank, non sono arrabbiata. Ma nemmeno sto scherzando.

— Be', vorrei che tu cambiassi idea e ci andassi.

— No, Frank, davvero non ci tengo a vederlo. Vacci tu da solo e divertiti, caro.

— Be'... ciao.

— Ciao.

Frank, perciò, disse alla sua stenografa di rispondere a tutti i clienti che avessero eventualmente telefonato ch'egli sarebbe stato di ritorno fra mezz'ora, dopo di che uscì, salì nella sua berlina e percorse la Maio Street diretto al piazzale del circo.

Uomo di molte parti artificiali, l'avvocato Frank Tull aveva una dentiera fatta su misura e fissata alle sue mascelle da un odontoiatra. Gli occhi, di vista fioca e cattiva, vedevano il mondo attraverso delle lenti bifocali talmente distorte che la distorsione degli occhi di Frank riusciva, in quell'unico modo, a vedere le cose dritte. Sul cranio aveva una piastra di platino che proteggeva il foro attraverso il quale gli era stato asportato un tumore al cervello. Una gamba era fatta di metallo e fibra; rimpiazzava quella di carne e sangue che la madre gli aveva dato nel proprio grembo. Portava intorno alla pancia un apparecchio aggiustato a labbra sulla sua doppia ernia per prevenire la fuoruscita delle budella. Un sospensorio impediva gli indebiti dondolii del suo scroto. Nel braccio sinistro un cavetto di platino teneva luogo d'omero. Una settimana sì e una no egli andava alla clinica a fare iniezioni sia di salvarsan sia di mercurio, secondo la medicina ch'era stata usata la volta prima della penultima settimana, per frenare un imperio eccessivo della spirocheta pallida sull'anima sua. A scadenze irregolari subiva dei massaggi alla prostata e si sottoponeva a irrigazioni profonde per rettificare un altro difetto cronico del suo macchinario. Ogni tanto, per tenere in funzione quello buono, gli spianavano il polmone marcio col gas. Portava allacciato all'orecchio un apparecchio inteso a rendere più udibili i suoni comuni. Nella scarpa del piede buono un archetto impediva a quel piede di appiattirsi. Una parrucca copriva la piastrina di platino sul suo cranio. Gli erano state tolte le tonsille, come pure l'appendice e le adenoidi. Gli avevano cavato dei calcoli biliari, bruciato una cisti sul naso. Era stato operato di emorroidi, e gli avevano estratto l'acqua dal ginocchio. Talvolta lo nutrivano con clisteri; e gli avevano praticato un foro nella gola affinché potesse respirare con le cavità nasali otturate. Portava la testa in un supporto d'acciaio, perché aveva l'osso del collo spezzato; le unghie gli s'incarnavano correntemente. In qualità di rappresentante della specie più eletta che la vita sinora abbia prodotto, egli non avrebbe potuto strappare il nutrimento dalle piante della terra, né competere con le bestie della stessa; come rappresentante della società in seno alla quale era nato, egli era rispettato, curato, sfruttato, sopravvivendo, senz'alcun dubbio, perché era adatto. Era marito e non padre, sposo e non amante. Aprirono la sua bara, cent'anni dopo la sua morte. Trovarono solamente stringhe e cavetti.

Parcheggiò la macchina, scese, attraversò la strada e andò al circo a vedere i fenomeni.

La chimera dormiva sdraiata su un mucchio di creta rivoltata di fresco, e nel sonno tossiva; il fetore dei suoi sbuffi diffondendosi verso l'alto, asfissiava le zanzare che sciamavano intorno alla sua testa. Questi abitanti minuscoli degli strati inferiori dell'atmosfera cadevano morti come fluttuanti fiocchetti di polvere, e nessun requiem accompagnava la loro caduta. La chimera dormiente tirava calci nel sonno, obbedendo ai dettami di qualche sogno movimentato, e i grandi artigli delle sue zampe laceravano la creta sulla quale dormiva. Allargava a metà le ali d'aquila, aprendo a ventaglio le remiganti, poi le richiudeva, tutte scompigliate, con le penne arruffate e cotonose. La sua coda di drago si moveva a serpente, e il puntale di metallo in cima ad essa scavava piccoli solchi nella creta. Aveva i baffi bruciacchiati dal suo alito di fuoco. Alcune scaglie sulla coda erano incancrenite e si squamavano dove una colonia di parassiti si riproduceva e pullulava. Stava cambiando pelle; grandi chiazze* della sua pelliccia erano, staccate, penzolando dai fianchi come lembi di feltro. Dentro e fuori di quei brandelli si aggiravano rampando le zecche. Mandava il cattivo odore del visone, acutamente dolciastro, untuosamente vomitorio, abietto e penetrante.

Frank Tull, l'avvocato, stava a guardare la chimera con gli occhi sbarrati, inorridito nel vedere che dopo tutto non era un falso.

— Cribbio! — disse uno degli ispettori della quarantena. — Mica credevo che c'era un animale simile.

La chimera dormiente diede una gran russata; dalle sue nari schiumarono scintille, fuliggine, fumo e fiamme.

— Ecco perché siamo costretti a dargli creta per strame — disse il dotto Lao. — Se lo facessimo dormire sulla paglia, le darebbe fuoco. Lo sapete com'è che esala fuoco? Be', signore, la cosa è semplice, una volta capito il suo metabolismo. Vedete, al pari di quell'eminente cittadino dell'Arizona, il mostro di Gila, la chimera non ha un sistema di eliminazione nel senso in cui l'hanno comunemente gli animali. Invece di espellere la materia di rifiuto attraverso gli intestini, li brucia dentro di sé, e sbuffa fuori il fumo e le ceneri. Sì, una chimera è il proprio incineratore. Animale singolarissimo.

— Che cosa le fa credere che i mostri di Gila non abbiano un sistema di eliminazione — domandò il signor Etaoin.

— Be', è quel che tutti asseriscono in giro, da queste parti — disse il dottore. — Me l'ha detto un mucchio di gente. Pare che venga da ciò il veleno dei mostri di Gila: in essi la materia di rifiuto, non avendo uscita, si concentra, s'intensifica, si putrefà e si combina nella loro saliva, così che quando uno di quei lucertoloni morde qualcuno, lo avvelena. Mi pare una teoria molto interessante. La preferisco, nel suo carattere piccante, a una spiegazione più razionale delle prerogative tossiche dell' Eloderma.

— Be', com'è mai che avete fatto ad acciuffarla questa kimerra qui, dottore? — domandò una villanella.

— Oh, l'abbiamo acchiappato molti anni fa in Asia. Le chimere hanno una sola fragilità: sono innamorate della luna. Perciò, preso uno specchio, lo collocammo in vetta a una montagna, dove rimandava il riflesso del chiar di luna di mezzanotte, e il mostro, credette che la sua diletta palla d'argento lucente fosse finalmente a portata. Be', signore, lui cala impetuoso e urlante dal cielo, piomba nello specchio; noialtri, allora, saltiamo fuori, e gli gettiamo sulle spalle una catena d'oro. Gliel'avevamo fatta!

— Oh, dottor Lao! — disse una cronista dell'Abalone Tribune. Spero tanto che lei mi conceda un'intervista una volta o l'altra e mi racconti le sue meravigliose avventure!

— Sarebbero effettivamente notizie da prima pagina in una piccola città come questa — affermò il dottor Lao.

Un tizio dall'aria anzianotta e d'aspetto facoltoso, con i calzoni da golf, la camicia fantasia e i calzettoni a scacchi, punzecchiò la chimera col suo bastone da passeggio. Il mostro sferzò stizzosamente con la coda, come un cavallo che scaccia le mosche, strappando il bastone di mano al tizio anzianotto e lacerandogli gli stinchi col puntale metallico dello stesso.

— Non disturbi l'animale, capo — ammoni il dottor Lao.

— Che cosa gli dà da mangiare? — domandò qualcuno.

— Serpenti a sonagli — disse il dottore.

— Qui in giro ad Abalone ci son crotali a bizzeffe — disse uno degl'ispettori della quarantena. — Giù verso Beeswax, la primavera scorsa, ho ammazzato un diavolo di bestione d'un sistruro.

— Lei deve sbagliarsi, amico — disse il dottor Lao. — I sistruri non raggiungono mai una dimensione considerevole. In realtà, sono fra i più piccoli rettili crotalini.

— Be', questo era un diavolo d'un bestione, perdio! — affermò l'ispettore di quarantena.

— Quel che non capisco — disse il tizio anzianotto in calzoni da golf — è come faccia mai un animale a combinare in sé gli attributi di una lucertola, di un'aquila e di un leone, come fa questa chimera, fondendoli insieme così perfettamente. Guardate, non saprei dire dove finisce il leone, in questa bestia, e dove la lucertola comincia, né dove ha inizio l'aquila; eppure sono equilibratamente combinati tutt'e tre. Che sorta di lucertola, secondo lei, dottor Lao, è incorporata nella formazione del mostro? Può darsi che si tratti d'uno di quei varani dell'America Centrale, o iguana, come li chiamano?

— Me no sa niente questa loba luceltola — disse il vecchio cinese.

— Forse è la bestia dell'Apocalisse — commentò l'avvocato Frank Tull, sentendosi in dovere di dire qualcosa, invece di stare li come un cucco eternamente zitto.

— Neanche per sogno — ribatté il tizio anzianotto in calzoni da golf. — Sappiamo tutti che quell'essere non è mai esistito. Bibliche balle, con sua licenza, caro signore. Pure e genuine balle bibliche. Sissignore, bibliche balle. Se ne trovano a iosa nell'antico libro.

— Be', mio papà dichiara che la Bibbia è un libro bellissimo — disse la villanella.