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Baia di Abukir, alla foce del Nilo

1° agosto 1798, poco prima del crepuscolo

Il fuoco dei cannoni rimbombava attraverso la vasta baia di Abukir mentre lampi di luce illuminavano il tramonto grigio e lontano. I proiettili di ferro che mancavano i loro bersagli sollevavano schizzi d’acqua, ma la squadra navale di attacco stava avanzando rapidamente verso una flotta all’ancora. Il successivo fuoco di sbarramento non sarebbe stato sparato invano.

Una barcaccia sospinta dai forti muscoli di sei marinai francesi si stava dirigendo verso quel groviglio di alberi. Puntava dritto alla nave al centro dello scontro in quella che sembrava una missione suicida.

«È troppo tardi», disse a gran voce uno dei marinai.

«Continuate a remare», rispose l’unico ufficiale del gruppo. «Dobbiamo raggiungere l’Orient prima che i britannici la circondino e attacchino tutta la flotta.»

La flotta in questione era la grande armata mediterranea di Napoleone, diciassette navi, compresi tredici vascelli di linea, che rispondevano alle raffiche inglesi producendo a loro volta una serie di boati, tanto che, nel giro di poco, ancor prima che calasse il crepuscolo, tutta la scena fu avvolta dal fumo dei cannoni.

Al centro della barcaccia, preoccupato per la propria vita, c’era un civile francese di nome Emile D’Campion.

Se non avesse temuto di morire da un momento all’altro, D’Campion avrebbe potuto ammirare la cruda bellezza di quello spettacolo. L’artista dentro di lui – giacché era un noto pittore – avrebbe potuto riflettere su quale fosse il miglior modo di riprodurre una tale ferocia sull’immobilità di una tela. Su come raffigurare i lampi di luce muta che illuminavano la battaglia; il fischio terrificante dei colpi di cannone che si dirigevano verso i loro bersagli; gli alti alberi delle navi, rannicchiati come fossero un boschetto in attesa dell’ascia. Avrebbe potuto prestare particolare attenzione al contrasto tra gli spruzzi d’acqua bianca e l’ultima traccia di rosa e azzurro nel cielo che andava oscurandosi. Ma D’Campion tremava dalla testa ai piedi e doveva aggrapparsi al fianco della barca per riuscire a stare fermo.

Quando un colpo vagante aprì un cratere nella baia a un centinaio di metri dalla loro posizione, disse: «In nome di Dio, perché stanno sparando a noi?»

«Non stanno sparando a noi», rispose l’ufficiale.

«E allora come spiegate quei colpi di cannone arrivati vicinissimi alla nostra barca?»

«Quanto a precisione di tiro», spiegò l’ufficiale, «gli inglesi sono extrêmement pauvres. Molto scarsi.»

I marinai si misero a ridere. Un po’ troppo smodatamente, pensò D’Campion. Avevano paura anche loro. Sapevano da mesi di essere selvaggina per i cani da caccia inglesi. A Malta non si erano incrociati soltanto per una settimana e ad Alessandria per non più di ventiquattr’ore. Ora, dopo che l’esercito di Napoleone era sbarcato e la flotta era ancorata lì, alla foce del Nilo, gli inglesi e il loro predatore preferito, Horatio Nelson, avevano finalmente fiutato la loro presenza.

«Devo essere nato sotto una cattiva stella», borbottò D’Campion tra sé e sé. «Torniamo indietro.»

L’ufficiale scosse la testa. «Ho ricevuto l’ordine di consegnare voi e questi bauli all’ammiraglio Brueys a bordo dell’Orient

«So bene quali sono i vostri ordini», rispose D’Campion. «C’ero anch’io quando Napoleone ve li ha impartiti. Ma se intendete portare questa barca in mezzo al fuoco dell’Orient e delle navi di Nelson, riuscirete soltanto a farci ammazzare tutti. Dobbiamo fare dietrofront e tornare a riva oppure raggiungere una delle altre navi.»

L’ufficiale voltò le spalle ai suoi uomini e guardò verso il cuore della battaglia. L’Orient era la nave da guerra più grande e potente del mondo. Era una fortezza sull’acqua, con centotrenta cannoni a sua disposizione e un peso di cinquemila tonnellate, che trasportava più di mille uomini. Era scortata da altri due vascelli francesi in quella che l’ammiraglio Brueys considerava una posizione difensiva a prova d’assalto. Purtroppo, però, sembrava che i britannici, per nulla scoraggiati malgrado le dimensioni più ridotte delle loro navi, non ne fossero stati informati, dato che stavano sferrando un attacco diretto proprio all’Orient.

Ci fu uno scambio ravvicinato di bordate tra la nave da guerra francese e il vascello inglese Bellerophon. La piccola imbarcazione britannica ebbe la peggio: il suo parapetto di tribordo andò in frantumi e due dei suoi tre alberi si spezzarono, cadendo di schianto sui ponti. Eppure, mentre il Bellerophon stava ancora abbandonando la battaglia, dirigendosi verso sud, altre navi inglesi attaccarono nel vuoto che questo aveva lasciato. Nel frattempo, le loro fregate più piccole si spostarono nelle acque poco profonde della baia, infilandosi nei punti scoperti della linea francese.

D’Campion riteneva che buttarsi in quella mischia fosse una follia e diede un altro suggerimento: «Perché non spedite semplicemente i bauli all’ammiraglio Brueys dopo che avrà sconfitto la flotta britannica?»

L’ufficiale annuì. «Visto?» disse ai suoi uomini. «Ecco perché Le General lo definisce un savant.» Poi indicò una delle navi nella retroguardia francese che non era ancora stata attaccata dai britannici. «Dirigiamoci verso la Guillaume Tell», dichiarò. «Il contrammiraglio Villeneuve è lì. Lui saprà cosa fare.»

Gli uomini continuarono a remare, e la piccola imbarcazione si allontanò in tutta fretta dal teatro dello scontro. Manovrando attraverso l’oscurità e il fumo che aleggiava sull’acqua, l’equipaggio portò la barcaccia verso la retroguardia della linea francese, dove c’erano quattro navi in attesa, stranamente placide, mentre più avanti imperversava la battaglia.

Non appena la barcaccia urtò le spesse coste di legno della Guillaume Tell, dalla nave vennero calate delle cime, che furono assicurate in fretta. Poi sia gli uomini sia il carico vennero issati a bordo.

Quando D’Campion arrivò in coperta, la ferocia e la violenza della battaglia avevano raggiunto un grado che difficilmente avrebbe potuto immaginare. I britannici avevano conquistato un enorme vantaggio tattico pur essendo in lieve minoranza numerica. Anziché affrontare l’intera flotta francese bordata contro bordata, avevano ignorato la retroguardia delle loro navi e raddoppiato il fuoco sull’avanguardia. Adesso ogni vascello francese stava combattendo contro due navi britanniche, una su ciascun lato. I risultati erano prevedibili: la gloriosa armata di Napoleone stava subendo una rovinosa sconfitta.

«L’ammiraglio Villeneuve vuole vedervi», disse un ufficiale di bordo a D’Campion.

L’uomo fu accompagnato sottocoperta e portato al cospetto del contrammiraglio Pierre-Charles de Villeneuve, che aveva una folta chioma di capelli bianchi e un viso stretto caratterizzato da una fronte alta e da un lungo naso aquilino. Indossava un’uniforme impeccabile, con la giacca blu scuro decorata da ricami d’oro e una fascia rossa a tracolla. A D’Campion sembrava pronto per una parata piuttosto che per una battaglia.

Per qualche istante Villeneuve giocherellò con i lucchetti di un pesante baule. «Mi sembra di capire che siete uno dei savant di Napoleone.»

Savant era la parola usata da Bonaparte, che D’Campion e alcuni degli altri trovavano però irritante. Erano scienziati e studiosi che il generale Napoleone aveva radunato e spedito in Egitto, convinto che nel Paese si trovassero tesori in grado di soddisfare sia il corpo sia l’anima.

D’Campion si stava affermando come esperto della nuova disciplina della traduzione delle lingue antiche, e non esisteva luogo che avesse un’aura di mistero o un potenziale maggiore in tal senso rispetto alla terra delle piramidi e della Sfinge.

E D’Campion non era semplicemente uno dei savant. Napoleone l’aveva selezionato di persona perché scoprisse la verità che si celava dietro una misteriosa leggenda. Gli aveva promesso una lauta ricompensa, che comprendeva una ricchezza più grande di quella che D’Campion avrebbe potuto raggiungere in dieci vite, oltre a terreni che gli sarebbero stati donati dalla nuova Repubblica. Avrebbe ricevuto medaglie, gloria e onore, ma prima avrebbe dovuto trovare qualcosa che si vociferava essere esistito nella terra dei faraoni: un modo per tornare a vivere dopo la morte.

Per un mese, D’Campion e il suo piccolo distaccamento avevano portato via tutto ciò che erano in grado di trasportare da una località che gli egizi chiamavano la Città dei Morti. Avevano preso papiri, tavolette di pietra e incisioni di ogni tipo. Quello che non avevano potuto spostare, lo avevano copiato.

«Sono un membro della Commissione delle scienze e delle arti», disse D’Campion, usando il nome ufficiale, che preferiva.

Villeneuve non parve colpito. «E cosa avete portato a bordo della mia nave, commissario?»

D’Campion si irrigidì. «Non posso dirvelo, ammiraglio. I bauli devono rimanere chiusi per ordine del generale Napoleone in persona. Non è consentito discutere del loro contenuto.»

Villeneuve continuava a sembrare indifferente. «Si possono sempre richiudere. Ora, datemi la vostra chiave.»

«Ammiraglio», lo ammonì D’Campion, «il generale non ne sarà felice.»

«Il generale non è qui!» rispose bruscamente Villeneuve.

All’epoca Napoleone era già una figura importante, ma non era ancora imperatore. Al governo c’era ancora il Direttorio, composto dai cinque uomini che avevano guidato la Rivoluzione, mentre altri manovravano per conquistare il potere.

A ogni modo, D’Campion faticava a comprendere le azioni di Villeneuve. Napoleone non era un tipo con cui scherzare, come non lo era l’ammiraglio Brueys, il diretto superiore di Villeneuve, che in quel momento stava lottando per la propria vita a meno di mezzo miglio di distanza. Perché Villeneuve si stava preoccupando di simili questioni quando avrebbe dovuto essere impegnato ad attaccare Nelson?

«La chiave!» ordinò Villeneuve.

D’Campion si riscosse dalla sua esitazione e optò per la prudenza. Si tolse la chiave che portava al collo e gliela porse. «Vi affido la custodia dei bauli, signore.»

«E fate bene», rispose Villeneuve. «Ora potete andare.»

D’Campion si voltò, per poi però arrestarsi di colpo e azzardare un’altra domanda. «A breve prenderemo parte anche noi alla battaglia?»

L’ammiraglio inarcò un sopracciglio come se fosse una domanda assurda. «Non abbiamo ricevuto l’ordine di farlo.»

«Ordine?»

«L’ammiraglio Brueys, che si trova sull’Orient, non ci ha dato alcun segnale.»

«Signore», disse D’Campion, «gli inglesi lo stanno bersagliando da entrambi i lati. Non è certo il momento di aspettare un ordine.»

Villeneuve si alzò di scatto e puntò verso D’Campion come un toro alla carica. «Mi state forse dicendo cosa devo fare?!»

«No, ammiraglio è solo...»

«Il vento è contrario», replicò Villeneuve in tono secco, agitando la mano con un gesto sprezzante. «Dovremmo bordeggiare lungo tutta la baia per avere qualche speranza di unirci allo scontro. La cosa più semplice è che l’ammiraglio Brueys torni alla nostra posizione così da consentirci di supportarlo. Finora, però, ha scelto di non farlo.»

«Ma non possiamo starcene qui con le mani in mano.»

Villeneuve afferrò un pugnale dal suo scrittoio. «Se mi parlate un’altra volta in questo modo, vi ucciderò seduta stante. Cosa ne sapete voi di navigazione e combattimenti, savant

D’Campion capì di aver passato il segno. «Le mie scuse, ammiraglio. È stata una giornata difficile.»

«Andatevene», disse Villeneuve. «E ringraziate che siamo ancora alla retroguardia, altrimenti vi piazzerei sul ponte di prua a fare da bersaglio per i britannici.»

D’Campion arretrò, fece un piccolo inchino e sparì dalla visuale dell’ammiraglio il più in fretta possibile. Salì in coperta, trovò uno spazio vuoto lungo la prua della nave e rimase a osservare la carneficina in lontananza.

Persino da quella postazione, la scena gli sembrava di una ferocia quasi sconcertante per riuscire a guardarla. Per parecchie ore le due flotte fecero fuoco l’una contro l’altra da una distanza ravvicinata; da fianco a fianco, da albero ad albero, i fucilieri sui ponti cercavano di uccidere chiunque sorprendessero allo scoperto.

«Quel courage», commentò D’Campion tra sé e sé. Che coraggio.

Ma il coraggio non sarebbe stato sufficiente. Ogni nave britannica stava sparando tre o quattro volte per ogni colpo fatto partire dai francesi. E, grazie alla riluttanza di Villeneuve, gli inglesi avevano un numero maggiore di unità impegnate nella battaglia.

Al centro dell’azione, tre delle navi di Nelson stavano concentrando il fuoco sull’Orient, arrivando a ridurla a una carcassa irriconoscibile. Le sue meravigliose linee e gli imponenti alberi erano spariti già da parecchio, e le spesse fiancate di quercia erano danneggiate. E anche mentre i pochi cannoni rimasti continuavano a rimbombare, D’Campion capì che la nave stava per morire.

Vide un incendio propagarsi alla velocità della luce lungo il ponte principale. Le perfide fiamme guizzavano di qua e di là, spietate, passando sopra le vele cadute per poi tuffarsi nei boccaporti aperti e raggiungere la stiva.

Ci fu una fiammata improvvisa, che lo accecò nonostante avesse chiuso gli occhi per ripararsi, e seguì un boato più forte di qualunque cosa D’Campion avesse mai sentito. Fu scaraventato all’indietro da un’onda d’urto che gli strinò la faccia e gli bruciò i capelli.

Atterrò sul fianco, ansimando, rotolò su se stesso diverse volte per spegnere le fiamme che lo avvolgevano. Quando alla fine alzò lo sguardo, rimase scioccato.

L’Orient era sparita.

Il fuoco ardeva sull’acqua, disegnando un grande cerchio intorno ai suoi resti. L’esplosione era stata così violenta che altre sei navi stavano bruciando, tre della flotta britannica e tre di quella francese. Il fragore della battaglia si arrestò mentre gli uomini degli equipaggi, armati di pompe e secchi, cercavano disperatamente di evitare di finire a loro volta distrutti dal fuoco.

«Le fiamme devono aver raggiunto il deposito di munizioni», sussurrò un marinaio francese con voce triste.

In fondo alla stiva di ogni nave da guerra c’erano centinaia di barili di polvere da sparo. Anche la scintilla più insignificante era pericolosa.

Il marinaio aveva il volto rigato dalle lacrime mentre parlava, ma D’Campion, sebbene con lo stomaco sottosopra, era troppo esausto perché qualunque emozione reale potesse trapelare.

Quando l’Orient era arrivata ad Abukir, trasportava più di mille uomini. Lo stesso D’Campion vi aveva viaggiato a bordo e vi aveva pranzato con l’ammiraglio Brueys. Quasi tutte le persone che aveva conosciuto durante il viaggio si trovavano su quella nave, persino i figli degli ufficiali, bambini di appena undici anni. Mentre teneva lo sguardo fisso su quella devastazione, D’Campion immaginava che non potesse essere sopravvissuto neanche uno di loro.

Fatta eccezione per i bauli di cui ora aveva preso possesso Villeneuve, erano andate in fumo anche le fatiche del suo mese in Egitto, insieme all’occasione della sua vita.

D’Campion si lasciò cadere a terra. «Gli egiziani mi avevano avvertito», disse.

«Avvertito?» ripeté il marinaio.

«Sì, di non portare via pietre dalla Città dei Morti. Sostenevano che una maledizione si sarebbe abbattuta su di noi. Una maledizione... Io ho riso di loro e delle loro sciocche superstizioni. Ma ora...»

Provò ad alzarsi ma crollò a terra. Il marinaio lo raggiunse e lo aiutò ad andare sottocoperta. Lì, D’Campion restò ad aspettare che arrivasse l’inevitabile assalto nemico a finirli.

All’alba, i britannici riunirono le forze e si prepararono ad attaccare ciò che era rimasto della flotta francese. Ma invece di tuoni provocati dall’uomo e del rumore rivoltante del legno che si incrinava, colpito da palle di cannone di ferro, D’Campion non udì altro che il suono del vento mentre la Guillaume Tell cominciava a muoversi.

Salì in coperta e scoprì che stavano facendo rotta verso nord-est a vele spiegate. I britannici li seguivano, ma ben presto restarono indietro. Di tanto in tanto uno sbuffo di fumo segnalava i loro vani tentativi di colpire la Guillaume Tell da molto lontano. E poco dopo, anche le loro vele divennero quasi invisibili all’orizzonte.

Per il resto dei suoi giorni, Emile D’Campion avrebbe dubitato del coraggio di Villeneuve, ma non avrebbe mai parlato male della sua scaltrezza e avrebbe sempre sostenuto, con chiunque, di dovere la propria vita a quella qualità del contrammiraglio.

Prima di metà mattina, la Guillaume Tell e le altre tre navi comandate da Villeneuve erano riuscite a distanziare di parecchio Nelson e la sua spietata Banda di fratelli. Fecero rotta verso Malta, dove D’Campion avrebbe trascorso il resto della sua vita, lavorando, studiando e persino intrattenendo una corrispondenza epistolare con Napoleone e Villeneuve, senza mai smettere di interrogarsi sui tesori perduti che aveva sottratto all’Egitto.

Il segreto di Osiride
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