INVERNO, 1957

 

 

 

Era una vecchia casa, scalcinata e dall'aspetto per niente amichevole, con aggiunte in stile vittoriano e parecchie stanze vuote. C'era un perenne odore di carne cotta. In un giorno qualsiasi bastava aprire l'Aga e dentro ce n'era sempre un po', carne in permanenza, e quando non era un arrosto era semmai un pezzo di lingua o un po' di trippa. In aggiunta c'era una specie di mercantile pieno di carne per i cani, stufata senza farci troppo caso e lasciata a raffreddare nei lunghi pomeriggi d'inverno fino alla paralisi definitiva sotto cinque centimetri di grasso giallastro.

La storia della carne era parte della casa come il clima per una regione, come i vapori di benzina in un garage. Forse l'unica stanza che restava immune era sul retro, un gabinetto in cima alle scale rivolto a nord. Una volta qualcuno disse:"Lo facciamo smettere questo gabinetto d'esser verde?". Poi però gli passò la voglia, e il bagno rimase verde e giallo pallido. Dentro c'erano i sei spazzolini da denti dei residenti e una moquette color uovo marcio che faceva venire le verruche ai piedi. Meno male che li chiamano"servizi igienici". L'odore dei panni faceva da antidoto a quello dei pasti e delle ore che a quelli si consacravano in quell'appartamento di mattonelle rotte.

Era in quei paraggi che a suo nonno piaceva appartarsi, non necessariamente nel gabinetto, ma non necessariamente escludendolo. Si sedeva a gambe larghe sulla tazza come su un cavallo, la faccia rivolta al muro, e si trascinava per la mansarda con il pene di fuori. Il ragazzo lo sapeva perché anche lui bazzicava da quelle parti. Ogni tanto, sbadatamente, si spiavano a vicenda. Una volta lui si era nascosto dietro la porta di una camera, guardava fisso su per il corridoio e vide un occhio dietro una fessura di un'altra porta che a sua volta lo fissava. Il ragazzo e suo nonno avevano in comune molto più di quanto avrebbero immaginato. A tutti e due piacevano i segreti ed entrambi erano interessati ai segreti degli altri. Tutti e due pensavano molto alle donne nude.

Suo nonno portava con sé delle foto di donne nude e spesso richiedeva per posta cataloghi di biancheria intima. Chiunque fosse pronto a scalare un muro di quattro metri poteva sdraiarsi sul tetto e guardarlo nel suo"ufficio". Dentro c'erano un paio di schedari di legno, una scrivania con una decrepita Olivetti, e due batterie d'automobile da dodici volt collegate al tasto di un telegrafo Morse. Sfortunatamente l'unico modo per osservarlo quand'era lì era di spenzolarsi oltre la grondaia e abbassare lentamente la testa. Questo per dire che si vedeva tutto capovolto, però era l'unica maniera per guardarlo mentre con le maniche arrotolate e un sigaro in bocca trafficava con le sue foto di donne nude con una lametta e un vasetto di gomma arabica.

Walter era vecchio e soffriva per un tumore, anche se ancora non glielo avevano diagnosticato. Il giorno in cui la prima cellula si riprodusse, al bambino spuntò il primo pelo pubico. Il pelo era modesto, e il tumore limitato a qualche spora maligna nell'intestino del vecchio. Nessuno sapeva nulla, di nessuna delle due cose. A parte il fatto che Walter era dimagrito. Aveva stretto il cinturino dell'orologio di due buchi e il cappotto gli cadeva addosso come l'avessero appeso allo schienale di una sedia.

Nelle sere d'estate la luce del sole bucava il fumo del sigaro e faceva brillare la parte della sua testa coperta da una calotta cromata. A volte ti ci potevi specchiare dentro, come nel cerchione di una ruota.

"Che guardi?"

"Nulla."

Si pettinava con grande cura, sistemava con le mani dei lunghi ciuffi che si era fatto crescere apposta e li fermava con un bel po' di brillantina. Non sempre funzionava. Col tempo afoso la calotta si riscaldava, scioglieva la Brylcreem e la cupola spuntava come una colonnina spartitraffico. Ve lo devo dire, era uno spettacolo. Ecco perché portava il cappello.

"Che guardi?"

"Nulla."

"Bugiardo."

Aveva ragione. Il ragazzo era un bugiardo. Erano tutti e due bugiardi patentati. Nel 1914 suo nonno aveva mentito per entrare nell'esercito. Si arruolò, mentendo sulla sua età, e loro gli misero addosso un paio di scarponi e gli offrirono un passaggio per la Francia. Era il miglior telegrafista di tutto il fronte, era capace di pensare in quel fottuto codice Morse. Allora non lo sapeva, ma il Morse era l'unica cosa che gli sarebbe affatto riuscita bene.

Lo portarono col treno in una piccola città del Belgio, a pochi chilometri dietro la prima linea. I tedeschi c'erano rimasti per un anno e più e quel posto l'avevano praticamente fatto a pezzi. Perfino la scuola era piena di fori di proiettile. Avevano sparato ai bambini? Difficile dirlo, visto che non c'erano bambini per raccontarglielo. Furono acquartierati in alcune classi al piano terra e per un mese o due fu lì che arrivarono i messaggi in Morse. Quindici parole al minuto se eri bravo. Walter riusciva a inviarne trenta. Era capace di guardare fisso oltre la terra di nessuno, verso la chiesa in rovina dove avevano fatto saltare in aria il loro stesso Dio, e di sentirlo in una serie di scariche elettriche - dit - dit - da - da - dit - che gli picchiettavano in testa come uno sciame di mosche. Ma che dire di quelle belle serate quando il cielo si tingeva di rosa? Che dire della ragazza che si era scopata su un prato? Può mai essere bello il codice Morse? Davvero quel linguaggio è buono solo per le cose ripugnanti, come il sangue di un cavallo, e i vermi nella testa del cavallo? Baciare le tette suona quasi come rimetterci il culo.

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Pioggia su tutta la città, e sembrava il 35 gennaio. Ecco cosa scrisse alla sua fidanzata, Ethel, lui che non scriveva poi tanto. Poi arrivò il messaggio e lui fu il primo a trascriverlo:"Ce ne andiamo di qui, per unirci a una specie di offensiva in un posto chiamato Passchendaele". L'ufficiale era un novellino, non l'aveva mai sentito e lo cercò su una mappa. Scoprirono che non era troppo lontano. Walter non aveva mai visto prima un carro armato e quando se lo ritrovò davanti si mise a ridere. Era come un elefante nel sogno di un idiota. Sputava gasolio dalla testa, come un elefante che però respira come una balena.

Eccome se era grosso: lo faceva sentire così piccolo e gli faceva capire di essere ancora un ragazzo.

Ecco perché rideva.

Alle due e venti di quel pomeriggio uno shrapnel da mezzo chilo gli portò via la parte superiore della testa come volesse aprirla per fare colazione. Un'altra scheggia della stessa granata lo colpì all'intestino.

Lo sentì in Morse.

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Sono morto.

Quel giorno creparono in ventimila, ma Walter non fu uno di loro. Per diciassette giorni giacque dov'era caduto, sepolto sotto un mucchio di carogne di cavalli e cadaveri di scozzesi in decomposizione. Quando i tedeschi lo raccolsero aprì gli occhi e loro gli ricacciarono dentro il cervello per fare un esperimento.

Sopravvisse.

Era una storia che a suo nipote piaceva sentire. Gli piaceva sentire dei tedeschi e delle mosche magiche. L'ospedale, a Coblenza, era pieno di entrambi e Walter sinceramente non seppe mai chi tra i due l'avesse salvato.

Suo nipote si chiamava Thomas Christopher Penman, un nanerottolo asmatico di tredici anni con le orecchie grandi e un'abitudine particolare e poco sana. Se proprio ne volete un quadro più dettagliato, dall'età di quattro anni passava da un gabinetto all'altro, eppure si cacava addosso dappertutto tranne che là dentro. Non c'era alcun rimedio medico, non c'era niente di"sbagliato" in lui, non era incontinente o roba del genere. No, si cacava addosso perché gli andava di farlo, insomma lo faceva apposta, e non trascurava nessuna stanza della casa, né l'ampio giardino. A volte lo vedevano nel suo laboratorio, a volte nel Wolsey, o con lo sguardo perso e in estasi tra i lamponi. E con metodica frequenza si piazzava sul pianerottolo in cima alle scale, incastrato tra il muro e un mobile che si chiamava"canterano". Quando non c'era nessuno nei paraggi era quello il suo posto preferito. Era un posto buio e segreto, con una stupida carta da parati a pois. Nessun altro ci andava. (La sola persona che ci andava era suo nonno che, si era scoperto, approfittava dell'isolamento del posto per far penzolare i testicoli oltre la ringhiera.)

Quando questo luogo prediletto non era disponibile si metteva in marcia per i campi in cerca di alternative. Sostanze ipnotiche, ecco cosa cercava, e ce n'era tutta una lista. Muschio che cresceva dappertutto, quasi su qualunque cosa. Chiodi arrugginiti e licheni su cemento vecchissimo con erbacce che vivacchiavano a stento nelle crepe. Macchie di muffa sugli steccati e strisce argentate di lumaconi e una volta, inaspettatamente, persino palline di merda su una radice di broccoli... (Com'era successo, che non era mai successo prima?) Gli piacevano anche i pertugi, soprattutto nei muri malmessi dove scarafaggi neri come telefoni mangiavano i mattoni. Non che gliene fregasse qualcosa degli scarafaggi o di qualunque altro essere vivente, a dire il vero. Quello che voleva era immaginare di essere piccolo come loro e infilarsi in quelle fetide gallerie. Soltanto allora, in quei segreti cunicoli di muschio e silenzio qualcosa poteva avere inizio.

Era una sensazione di totale sicurezza.

Quando gli si muovevano le viscere, un organo sotto al suo cranio produceva una strana specie di aceto aromatico che gli faceva accapponare la corteccia cerebrale, e lo sguardo gli diventava vitreo mentre un eccesso di esaltazione gli agguantava le viscere come la mano di un angelo feroce. In momenti come quelli la sua vergogna era un'estasi. Nei giorni migliori passava interi pomeriggi impalato tra gli arbusti. Perché fintanto che la poteva tenere in transito, in attesa di processo, per così dire, sforzandosi perché non fosse più prigioniera eppure non ancora libera, allora quella avrebbe mantenuto la sua incantevole autorità.

Era come andare a messa in paradiso.

Naturalmente c'erano i fuorilegge, i delinquenti che all'improvviso e a tutta velocità finivano nelle mutande con le inevitabili conseguenze. Una volta perso il controllo il sogno a occhi aperti era finito e bisognava far fronte alla nuova situazione. Si chiamava la Borsa del Sabato. La Borsa del Sabato era tenuta separata dal resto dei normali panni da lavare. Era appesa a un gancio in un capanno e conteneva solo la biancheria di Thomas. Era il fardello di questo sacco di biancheria che costringeva sua madre a montare la guardia fuori dalla porta del gabinetto. Non c'era altro modo: se lei non era lì fuori, lui non era lì dentro. Quand'era allo stremo prendeva le parole crociate e ribadiva che valeva la pena aspettare. Il carico di Thomas significava una giornata intera davanti alla lavatrice, con l'ansia non solo di occuparsene ma di dover prima scoprire dov'erano nascoste le mutande sporche.

"Dove sono?"

"Cosa?"

A meno di staccare il linoleum da terra non c'era rimasto nessun posto al piano di sopra che lei non conoscesse bene come lui. Ma il numero dei reperti a volte era scarso e d'istinto lei capì che Thomas aveva ampliato il proprio giro d'affari in qualche altra parte della casa. Venne interrogato, ma si dichiarò innocente e finse un attacco d'asma appena cominciarono le ricerche. Dopo lo shock del primo ritrovamento nel salottino di sua nonna furono quasi sempre scoperte in fretta, di solito in un cassetto o in un vaso sulla mensola del camino, a volte infilate tra il bracciolo e il cuscino di un divano, oppure sopra un altro paio che fino allora era sfuggito alle ricerche.

Ricordate il Natale del 1955?

Il 1955, quando con orrore di Thomas lo zio Horrie ne tirò fuori non uno ma tre paia incastrate tra il cuscino e il bracciolo di una poltrona: quell'orribile sporco bottino che saltava fuori poco dopo esser riuscito a padroneggiare l'arte di un assolo. Nei giorni seguenti sua madre ne raccolse altre e, per l'ultimo dell'anno, ne aveva otto. Due sulla mantovana della tenda, una dentro la radio, le tre di Horrie e una addirittura spiaccicata sotto al tappeto. Trovò anche un calzino sotto il suo materasso, con dentro un altro paio con cui Thomas giurò di non aver niente a che fare.

"Ho ammesso tutto il resto, perché dovrei mentire?"

Lo fecero visitare da un medico, cui certo non poteva importare granché, il quale disse che crescendo gli sarebbe passata e di riportarglielo in caso contrario. Glielo riportarono e il dottore gli guardò su per il culo. Lassù non trovò niente.

"Quanti anni ha?"

"Quasi quattordici."

Scrisse una ricetta che non fu mai usata, e anche se non fu certo merito suo aveva quasi visto giusto. Nel 1958 successe qualcosa, e Thomas d'un tratto si ritrovò praticamente guarito.

Un pomeriggio era fuori ad affogare mosche quando capì di essere innamorato di Gwen Hackett. Andava alla sua stessa scuola ed era più giovane di sei mesi, ma già con un reggiseno ben imbottito. Fu solo quando si innamorò di lei che si rese conto che lo erano anche tutti gli altri. Gwendolin era bella, biondo cenere e con un sorriso molto sexy, le labbra che sembravano l'imboccatura di un palloncino, quella che sta prima del nodo. La disegnò nuda e le numerò le tette, rispettivamente uno e due. Poi fece altri disegni con altri numeri e frecce esplicative puntate verso i peli pubici. Aveva gli occhi di un azzurro crudele, come due nontiscordardimé, e sembrava sempre rispondesse con un sorriso di scherno quando lui la guardava. Voleva dire qualcosa? Sapeva che le ragazze dovevano nascondere i propri desideri. Le scrisse una lettera anonima firmata"Q" e il giorno dopo la sua amica venne da lui e gli ordinò di darci un taglio.

"Lo sappiamo che sei tu," disse,"Gwen ama Dick Gollick."

Il crepacuore fu istantaneo e devastante. Come poteva qualcuno amare Gollick? Tentò di levarseli tutti e due dalla testa ma Gwendolin non se ne voleva andare. Qualunque cosa facesse, finiva per pensare a lei. Il suo influsso su di lui restò comunque positivo, e nel prosieguo del terzo anno nelle sue mutande non comparve quasi niente, a parte qualche strisciata marrone. Il rischio di una contrazione era limitato alle sole due materie che più aborriva: letteratura (la mattina) e matematica (il pomeriggio), un duetto di cacate da rimbecillire che rivaleggiavano in uggia, e tutte e due al venerdì, giornata bastarda...

Se m è uguale a x fratto b che cos'è n?

Si costrinse a guardare di nuovo la lavagna e diede un'altra occhiata a m. Che cos'era m? E che rapporti aveva con n? Come si faceva a trovare n senza nessun indizio su x fratto b e senza aver mai sentito parlare di quella fottutta m? In certe zone della classe i pennini scricchiolavano sulla carta. Come facevano gli altri a sapere quel che voleva dire? Forse non lo sapevano. In ogni modo questa roba non riusciva a capirla. E di chi era la colpa? Era stato seduto lì per anni e nessuno gli aveva detto niente. Scrisse w e sbuffò, 'fanculo, forse era giusto.

L'orologio segnava le tre e venti. Al piano inferiore c'era G.P. Norris, matematica e musica, accasciato sulla sedia, annoiato oltre ogni misura. Era un piccolo stronzo sclerotico con troppe penne nel taschino, viveva con la madre sul lungomare occidentale e veniva a scuola su una motocicletta col sidecar che usava ogni tanto per portarla fuori. Era una vita per nulla appagante. Senza speranza. Come un fiammifero usato e rimesso nella scatola...

Li potevi sentire, gli ingranaggi dell'orologio, minuto dopo minuto, uno se ne andava e l'altro lo rimpiazzava. Thomas diede un'occhiata al suo libro. In fondo, diverse pagine erano riservate agli elenchi di rime gergali in cockney che gli aveva insegnato suo nonno.

cane = gruccia (cane e cuccia/gruccia)

Maria = minchiate (Maria col frate/minchiate)

merlo = amico (merlo e lombrico/amico)

sigillo = merda (sigillo e ceralacca/cacca)

bicchiere = tasca (bicchiere e fiasca/tasca)

 

Eccone uno, uno difficile, scritto così male che lui stesso lo lesse a stento:

vagabondo = culo - vagabondo come accattone - accattone/cannone (cannone col rinculo/culo)

 

Thomas cominciò a disegnare le maniglie di un timone intorno al calamaio. Lo sguardo si lasciò andare lungo il banco fino a una crepa piena di trucioli di gomma e pezzetti di mina. La luce del sole invernale li illuminava di taglio e all'improvviso diventarono una frotta di delfini: delfini che si tuffavano dentro e fuori da un mare antico e nero come l'inchiostro. In pochi secondi lo sguardo si sfocò e il culo cominciò a produrre. Non riusciva a crederci, era pericoloso, aveva già in transito un patatone degno di Shakespeare e i rischi di mollarne un'altra, se Norris si svegliava, erano allarmanti.

Provò a distogliere lo sguardo ma non ci riuscì, i delfini nuotavano che era una bellezza. Ormai aveva le pupille così violentemente dilatate che ogni idea di controllo era pura fantasia. Improvvisamente eccola fuori, quasi per forza, calda e intransigente; nessuno la voleva, men che mai Thomas, ma si costrinse a controllare e il peggiore dei mondi possibili divenne realtà. Ora guardava fisso davanti a sé, dritto negli occhi di Norris. Allora accadde qualcosa di davvero poco opportuno: Thomas sogghignò, un sorrisetto bleso come avesse qualcosa da spartire con quello stronzo. Ma che altro poteva fare, gonfio e con le lacrime agli occhi, lo sguardo fisso sulle lenti di quel miope buono a nulla con dentro i pantaloni qualcosa di così enorme che sembrava un altro ginocchio.

Il momento era davvero terribile.

Norris guardò altrove, picchiettandosi i denti con una penna e, quando Thomas lo guardò di nuovo, lui era in piedi che scrutava la classe in cerca di una vittima. Adesso la domanda su m doveva avere una risposta. E sarebbe toccato a Thomas, se lo sentiva, e aveva ragione.

"Posate le penne."

Chissà come Norris riuscì ad abbassare la testa fino a farla scomparire nella giacca di tweed. Guardava in mezzo a loro e se la prendeva comoda. Tutto quanto c'era di sbagliato nella sua vita era raccolto qui, una classe piena di disperati figli del dopoguerra, in una squallida scuola secondaria a indirizzo moderno - Maurice Potts e Len Gubb, Fanny Shackles e Pauline Pew, più altri ventisette testoni assortiti - era il destino di Norris, era questo il suo capolinea. E là in mezzo a loro c'era quello sporco piccolo tamarro con le orecchie a sventola che cercava di passare inosservato.

Thomas gli restituì lo sguardo, cercando di apparire normale, di confondersi con gli altri, per così dire...

"X fratto b, allora?" domandò Norris."Cos'è n, allora?"

Si alzò qualche mano, soprattutto quella di Boles, che era servile e ossequioso verso l'autorità e sembrava volesse appendersi al lampadario.

"Penman?"

Le mani continuavano ad agitarsi ma a Norris non interessavano: se ne stava impassibile sotto le sopracciglia aggrottate, con le guance gonfie. Lo faceva sempre, quando aspettava; lasciava uscire lentamente l'aria come se al posto della testa avesse un pallone bucato. E aspettava ancora, con le mani ficcate in tasca come un paio di Colt puntate contro una ragazzina del primo banco.

"Cos'è n? Penman?"

Il doppio punto interrogativo era decisamente di malaugurio.

"W, signore."

"W?"

Sì, signore.

"W?" chiese, con tanta enfasi che diventò un corsivo."Che c'entra W?"

Thomas guardò il suo libro nella speranza potesse suggerirgli qualcosa.

"Volevo dire, k, signore."

"K? Hai detto K?"

"Sì, signore."

Il coglione non sembrava contento, lo fissava con gli occhi ingranditi dalle lenti e quei suoi stupidi baffetti.

"Stai cercando di essere divertente?"

"No, signore."

"No, signore?" ribatté."E n non è k, vero, signore?"

"No, signore."

Il silenzio era tutto per Norris, a Thomas non serviva granché.

"Lo sai che cos'è m?"

"M, signore?"

"M, ragazzo?"

"No, signore."

Thomas era in piena crisi, combatteva contro un nuovo intruso.

"Che cosa stavi scrivendo allora?" domandò Norris. Fece uno o due passi avanti."Che c'è sul tuo quaderno?"

(La data, qualche svastica e un disegno del didietro di Gwen Hackett.)

"Boles, vuoi abbassare la mano?"

Gli occhi puntati addosso, Thomas scosse la testa. Non c'era niente.

"In piedi!"

Bisognò ripetere l'ordine perché obbedisse. Si alzò come un vecchio con la sabbia nelle giunture, sensibilmente piegato in avanti. Subire quell'interrogatorio in piedi aggiungeva una nuova dimensione all'orrore, ne sentiva tutto il peso che puntava verso la persona dietro di lui. Doveva resistere a ogni costo, lo fece a labbra contratte, mostrando i denti appena un po' stretti.

"Qualcosa ti diverte?"

"No, signore."

"Allora levati quel risolino dalla faccia."

"Non sto ridendo, signore."

"Non mi contraddire."

Thomas decise che c'era una sola via d'uscita, ed era attraverso la porta e il più in fretta possibile.

"Non mi sento bene, signore."

"Cosa?"

"Devo andare di sotto, in infermeria."

"Che ti senti?"

"Mal di stomaco."

"Molto comodo," disse Norris, girando un occhio al resto della classe,"stai qui seduto tutto il pomeriggio a non far niente e ora, tutto a un tratto, ti viene male allo stomaco?"

"Sì, signore, devo andare, signore."

"Andare dove?"

"Al gabinetto, signore."

"Sai che ti dico, Penman?" domandò, con evidente rifiuto della richiesta."Tu sei un piccolo zuccone svogliato, un fannullone, e un lavativo. Ti metti nei guai e pensi di poterti rifugiare nel cesso più vicino, ebbene, non è così che va la vita, ragazzo! E andando avanti scoprirai che esistono responsabilità, obblighi, disciplina, lavoro di squadra, lavoro duro, ipoteche. Pensi che potrei pagare la mia ipoteca se restassi chiuso nel cesso?"

Se era una battuta non era intenzionale, ma ottenne una fiacca risata da uno o due seduti in fondo e Norris all'improvviso si sentì sul palcoscenico.

"Non avremmo mai vinto la guerra se fossimo rimasti chiusi nel cesso!"

Altre risate e il testone se le gustò famelico, pavoneggiandosi con l'aria di una persona arguta. La terza C era molto interessata a far passare i minuti e colse al volo l'occasione. Non soltanto lo distoglieva dalle equazioni, ma quella lancetta rossa dei secondi sullo Smith's Selectric continuava a muoversi per tutto il tempo.

Norris tornò a sedersi con le mani intrecciate dietro la testa. Dopo qualche secondo di pausa un dito che sembrava uscirgli da un orecchio indicò la cattedra.

"Qui il quaderno."

Thomas scosse di nuovo la testa.

"Non sono riuscito a risolvere il problema, signore."

Norris l'aveva visto scrivere e glielo disse.

"Ho scritto la data, signore."

"La sai la data, vero?"

"È il venticinque ottobre, signore."

Norris la ripetè scandendola con precisione."Il venti-cinque ottobre?" ma non gli venne in mente niente di divertente da dire su quella data, e quindi non lo fece.

"Qui il quaderno."

Thomas avanzò con passi cauti e tremanti, come stesse misurando la stanza. Norris lo guardò avvicinarsi, sempre più incredulo.

"Hai qualcosa anche ai piedi?"

Thomas non rispose. Era la prima volta che gli capitava di perdere completamente il controllo in classe. Star lì in piedi con quel terribile carico gli aveva fatto quasi decidere di lasciarsi prendere dal panico, fregandosene delle conseguenze, per scappare di corsa. Norris gli strappò di mano il quaderno ed era chiaro che se la stava godendo: erano queste le soddisfazioni che gli dava il suo lavoro, forse l'unico piacere della sua vita.

Si sedette chinandosi in avanti, girando le pagine lentamente, in direzione di ottobre. Da qualche parte verso metà settembre trovò l'oro. C'era una pagina piena di cuoricini e svastiche disegnati col lapis, e Gwen-Gwen-Gwen-Gwen-Gwen. Nella pagina seguente c'era un disegno del fondoschiena di Gwen con una freccia che lo indicava e, accanto, c'era scritto"Culo quattro".

"4) Il culo dovrebbe essere rotondo, pronto per essere palpeggiato e profumato con l'acqua di colonia Yardley's."

Norris alzò e riabbassò lo sguardo.

"1 e 2) Le tette dovrebbero essere sfacciate, senza reggiseno il fine settimana, e sempre a disposizione."

Saltò il 3), ma guarda un po':"5) il suo 'straccio per pulire la sborra' (un disegno di Gwen con in mano un cencio)".

Si tolse gli occhiali e alzò lo sguardo.

"Cos'hai da dire di questa roba?"

Thomas scoreggiò per lo shock, ed ecco fatto, era finita, il secondo bastardo era fuori. E lui puzzava come l'acqua in un vaso di crisantemi appassiti.

"Per caso, hai appena tenuto un comportamento antigienico?"

"Devo andare al gabinetto, signore, devo proprio."

Norris non sapeva per cosa essere più disgustato, lasciò cadere il quaderno, si rimise gli occhiali e si alzò.

"Devo dirti due cose, Penman. La prima è che al gabinetto non ci vai e, la seconda, è che ti farò fustigare. Andrai dal preside e gli chiederai di fustigarti." Tutte le valvole saltate, e il quaderno di nuovo tra le sue mani.

"Come osi venire qui con queste porcherie pornografiche, come osi disegnare svastiche su una proprietà della scuola? Avresti dovuto assaporarne un po'... della svastica. Pensi che fosse uno scherzo? Eh?"

Thomas scosse la testa, a bocca aperta.

"Bene," disse Norris,"scendi con questo quaderno, bussa alla porta del preside, faglielo vedere, informalo che desidero ti fustighi a sua discrezione e poi torna qui immediatamente a riferire, capito?"

Thomas annuì.

"Che significa?"

"Sì, signore."

Thomas uscì coi piedi di piombo e senza guardarsi indietro. Si trovava al quinto piano di una brutta torre di mattoni gialli costruita nel 1953. Scale rumorose con la ringhiera di ferro e la vista sulla rimessa per le biciclette mentre scendeva. La situazione era disperata: come poteva andare dal preside in quello stato, bussare alla porta e chiedere a quell'orco di cento chili di pestarlo? C'era solo una speranza, strappare le pagine più offensive, strappar via Gwen e lasciargli qualche svastica. Norris gli avrebbe detto che cosa aveva visto? Quasi sicuramente no. Strappò le pagine, se le ficcò in tasca e gli venne un'idea.

Che dire di qualche stratagemma psicologico, come quelli di Fratel Coniglietto: fustigatemi quanto volete ma per favore, per favore non ditelo ai miei genitori? Era una pagliuzza che diventava una trave, gli sembrava suonasse bene, scendeva le scale facendo le prove."Per favore, per favore, so che le chiedo molto, ma per favore non lo dica ai miei genitori!" Si esercitò anche in un umile sorriso. Era tutto ciò che voleva, che i genitori lo risparmiassero. Poteva funzionare; se implorava con sufficiente intensità forse Enright si sarebbe impietosito all'idea della"collera domestica", l'avrebbe lasciato andare con una lettera e, questo, non preoccupava affatto Thomas perché nessuno dei suoi genitori era minimamente interessato a cosa accadesse in quella scuola, inclusa la sua istruzione.

"Se insiste, signore, accetterò una lettera."

Questo scenario ottimistico lo accompagnò fino all'ultima rampa di scale ma si infranse del tutto nell'atrio. Che stava dicendo, accettare una lettera? All'improvviso comprese che si stava ingannando; parlava come fosse possibile un qualunque margine di trattativa, praticamente si spingeva fino al punto in cui Enright gli avrebbe offerto del tè. La realtà lo colpì con la consueta efficienza. Non ti darà una lettera. Te lo metterà nel culo!

La luce del sole splendeva sul pavimento di legno lucidato. L'attraversò lentamente, in ansia per il carico che portava, ed ecco la porta,"Amministrazione". Ecco dov'era, ecco dove amministrava: occhi piccoli e sempre contrariati, da evitare anche se non avevi fatto niente. L'ultima volta che Thomas aveva bussato a quella porta c'era stato spinto dalla madre. Era tornato a casa e le aveva raccontato che facevano educazione sessuale e, quando le disse delle"tube di Falloppio", lei non volle sentire ragioni e gli ordinò di chiedere a Enright di essere esonerato. Ci andò e glielo disse e quello stronzo si infuriò e cominciò a strillare come una iena."E dove vuole che lo impari, allora? Agli angoli delle strade?" Thomas non lo sapeva: per quanto la riguardava lei non voleva che l'imparasse affatto.

Questo succedeva un anno prima. Se aveva perso le staffe per una stupidaggine del genere, che avrebbe fatto in questo caso? A quale apoteosi di rabbia poteva arrivare? Thomas si trovò alle prese con un altro pensiero davvero terribile. Finora aveva avuto l'impressione che gli sarebbero toccate sulla mano, sei nerbate rapide e feroci. Ma se il reato era sufficientemente grave non poteva darsi che lo colpisse sul vagabondo? E se toccava al culo, Dio non voglia, ti ritrovi in prima fila per un incubo coi fiocchi. La paura lo piantò nel pavimento e d'un tratto parve ovvio che non ci sarebbe andato. Sicuro, non ci poteva andare. Ciò di cui aveva bisogno, e urgentemente, era di entrare in un cesso e far qualcosa per sistemarsi le mutande.

All'improvviso suonò la campanella e lui guardò l'orologio, non riusciva a crederci. Come faceva a essere già l'ora? Da un momento all'altro adesso ogni scala avrebbe brulicato di ragazzi come una strada all'ora di punta mentre tutti cambiavano classe. Norris sarebbe stato tra loro, guardando anche lui l'orologio. Le voci esplosero nella torre e numerosi piedi erano già per le scale. Thomas fu preso dal panico, doveva andarsene da lì in fretta e corse su per un corridoio male illuminato cercando di orientarsi per arrivare al cesso più vicino.

Ce la fece per un pelo. Venivano giù in una falange di gonne a pieghe e blazer quando trovò la porta rossa e l'aprì di schianto, entrò e, lasciandosi dietro una fila abbagliante di lavandini, finì dritto tra le braccia di una cabina. Sbatté la porta e tentò di chiuderla, ma non c'era il chiavistello e rimase lì ansimando, tenendola chiusa, cercando di riprendere fiato. Un attimo dopo si spostò in una cabina adiacente e chiuse il chiavistello. Ora provava un senso di relativa sicurezza, sebbene quel nascondiglio non fosse così appaltato come avrebbe gradito. I muri e la porta erano di metallo verde e, quest'ultima, presentava in basso un'apertura di circa sessanta centimetri, espressamente progettata dalle autorità per motivi che si spiegavano da soli: insomma, se quella era la vostra vocazione, potevate vedere chi e quanti si trovavano dentro. Consapevole di questo Thomas si mantenne a ridosso del muro, abbassò i pantaloni e poi, con cautela infinita, le mutande. Non c'era bisogno di controllare per confermare il peggio. Bisognava levarsele. Divincolandosi per far passare i pantaloni sopra le scarpe riuscì a sfilare una gamba, col culo sul metallo freddo, quando la porta esterna del gabinetto si aprì di schianto per far entrare una banda di ragazzine vocianti.

Gesù Cristo, che è tutto questo? È mai possibile? Chissà come, si era infilato nel gabinetto sbagliato. Ogni senso di sacralità di quel rifugio lasciò il posto a un istantaneo brivido di vulnerabilità. I ragazzi non andavano nel bagno delle ragazze e basta, era un tabù reciproco e semplicemente non succedeva mai.

Le loro voci lo paralizzarono. Quante ce n'erano: forse una cinquantina. E sembravano pure studentesse anziane, ragazze grandi. Una entrò nella cabina vicina alla sua e lui vide le sue mutande scenderle intorno alle scarpe. Se lui poteva vedere lei, certo lei poteva vedere lui. Si costrinse sempre più nell'angolo, la biancheria intorno alle caviglie con quel terribile, terribile spettacolo.

Con una certa difficoltà salì sulla tazza e rimase in piedi con la testa incastrata sotto lo sciacquone e i piedi sul coperchio. La sua vicina cominciò a tirare l'acqua, quasi la strappò dal muro quella maledetta leva, ma non voleva proprio funzionare e lasciò perdere, passando parola mentre usciva.

"Non entrate lì, non funziona."

"Non funziona?"

"Naa."

"E nell'altra chi c'è?"

"Chennesò."

Thomas si rese conto che ora lei aspettava davanti alla sua porta.

C'era un continuo viavai, molto lavoro di pettini e un gran truccarsi. La conversazione era incredibile, costellata di imprecazioni. Thomas era stupefatto, non sapeva che le ragazze parlassero in quel modo; riteneva che fossero qualcosa di delicato su un piedistallo. Una di loro fischiò e un'altra scoreggiò; rise solo lei, disse:"'fanculo", e sputò.

"Ehi lì dentro, sbrigati." La voce dietro la porta era sgarbata."Chi c'è lì dentro?"

Thomas scosse la testa, scoprendo i denti.

Arrivarono altre ragazze, una o due ovviamente della terza C.

Sentì brani di conversazione mentre si pettinavano. Una sembrava Dorothy Nutt, una rossa di tredici anni con un dente scheggiato e la lisca.

"Lo stanno cercando," disse.

"È spacciato," disse la sua compagna.

" Se lo trovano lo ammazzano."

Thomas era terrorizzato.

"Chi c'è lì dentro?" domandò la ragazza sgarbata."Sbrigati," e batté con le nocche sulla porta.

"'ndiamo, Dot." Le ragazze della terza C sparirono.

Thomas fissava con gli occhi sbarrati il retro della porta. L'orrore raggiunse il culmine quando un paio di occhi lo guardarono da oltre il bordo superiore della porta. Era Margaret Ruther, quindici anni, con un foruncolo sulla palpebra, e lo guardò come un intera pattuglia di vecchiette prima di mettersi a strillare.

Sempre strillando, seguitò a urlare tra la preoccupazione generale: che cosa aveva visto?

"C'è un ragazzo in piedi sulla tazza!"

"Chi è?"

"Non lo so. È lì dentro coi pantaloni calati."

"Che fa?"

"Sta in piedi sulla tazza. Gli ho visto il cazzo."

Thomas guardò al di là della porta.

"Non dite niente."

Provò a sorridere. Lo sconcerto era reciproco. Erano in sei, tutte del quinto anno, inclusa una ragazza alta con l'aria vagamente intelligente e una cicciona.

"Non dite niente," ripetè lui.

"Che ci fai lì?" domandò la cicciona.

"Niente."

Istantaneamente furono tutte d'accordo; lo sapevano bene che cosa ci faceva e una lo disse anche. Era un guardone ed era lì per spiarle.

"Si sta masturbando?" domandò quella alta.

Margaret non lo sapeva, aveva dato solo un'occhiata, ma di sicuro gli aveva visto il cazzo.

"State a sentire," disse Thomas.

"Brutto schifoso, pervertito," disse la cicciona.

"Non ho fatto niente."

"Allora perché stai in piedi sulla tazza?"

Thomas sgranò gli occhi; c'era una spiegazione perfettamente ragionevole, ma loro non erano dell'umore adatto per sentirla.

"L'ho visto per le scale," disse la cicciona."È della terza C."

"Chiamate la signora Bredwardine," disse la Ruther.

"Per favore no," disse Thomas, sparendo per un attimo e poi uscendo, alle prese coi pantaloni."Per favore non dite che mi avete visto qui dentro."

Gli avevano forse visto le mutande? Forse sì. Gridarono tutte e uscirono prendendosi a gomitate. Le seguì, in crisi totale e le vide sparire verso la palestra. Il corridoio era di nuovo misericordiosamente vuoto e si mise a correre come Douglas Bader.

Un'immagine confusa di impermeabili entrò nel suo campo visivo e lui s'infilò nel guardaroba. Era una specie di appendice del corridoio, con le finestre in alto e centinaia di attaccapanni. Con le gambe allargate come due remi si tuffò tra gli impermeabili, sbatté contro il muro, ci si arrampicò salendo su una panca e pensò di uscire da una finestra.

Da qualche parte nelle viscere dell'edificio sentì sbattere una porta. L'eco gli gelò il sangue. Pochi attimi dopo gli smisurati polpacci della signora Bredwardine, la professoressa di ginnastica, gli passarono accanto pompando come due pistoni. Aveva i calzoncini corti e il fischietto ed era capace di scattare all'improvviso per correre all'indietro. Lo faceva nelle gare sportive e lo stava facendo adesso, con le natiche che guidavano la volata mentre lei, torva, ispezionava il corridoio. In preda a un panico senza limiti Thomas si rannicchiò tra gli impermeabili; le ragazze ovviamente lo avevano tradito e lei stava correndo da Enright. Una volta riferito l'accaduto avrebbero intensificato le ricerche: sarebbe stato certamente scoperto, forse fustigato in situ, con conseguenze raccapriccianti per chi somministrava le nerbate come per il destinatario della punizione. Doveva sbarazzarsi del carico, prendere le distanze da almeno una parte della colpa e fu allora, con mani tremanti, che si alzò per dare un'altra occhiata alle mutande. Si era spostata durante il viaggio. Raramente ne aveva viste di peggiori. Era un cumulo di letame, roba da azienda agricola. Prese le mutande con una molletta da bici e sgranò gli occhi, perplesso sul da farsi. Quella pinza improvvisata era eccellente per custodirle, ma come poteva liberarsene? Andò su e giù per il corridoio un paio di volte finché, privo di alternative, scaricò quella partita di merce nel cappello di qualcuno. Era perfetto. Funzionava bene. Piegò la visiera all'interno, chiuse tutto con un elastico e lo cacciò nella tasca dello sventurato. Allo stesso tempo, un colpo di fortuna: quello era il suo guardaroba! Si mise il cappello e la sciarpa e due minuti dopo era al settimo cielo, sogghignava in preda a una tremenda euforia mentre usciva a tutta velocità dalla rimessa per le biciclette.