Parte terza

 

 

IL MOMENTO DELLE SCELTE

 

 

Ma noi moriremo? E cosa succederà dopo che moriremo? Io non voglio morire».

Le domande potrebbero apparire naïf, se non fosse che a pormele è Lorenzo. Di una faccenda del genere è difficile parlare con un adulto, figuriamoci con un figlio che va ancora alla scuola materna. Senza contare che la questione vera, quella che mi angoscia, è perché un bambino di cinque anni debba porsi questi problemi. Dove le capta certe ansie?

A questo non so rispondere, ma a lui una risposta la devo dare. Mi ha messo di fronte a un bel dilemma.

A una scelta.

Io sono ateo, per quanto mi riguarda dopo la morte non mi aspetta niente. Se decido di essere sincero e rispondo così a Lorenzo ho paura di spaventarlo. Per non parlare poi di quanto atterrisca me l'idea di dovergli spiegare cos'è il nulla assoluto.

Come lo spieghi cos'è non esistere più? Fosse anche a un adulto? A te stesso magari.

Il solo modo che riesco a immaginare per far arrivare il concetto è quello di condividere il vuoto che mi scende nello stomaco ogni volta che ci penso. Quando immagino quante cose non vedrò, quanti mondiali di calcio si giocheranno dopo che me ne sarò andato, quando si sbarcherà su Marte, i momenti importanti della vita di Lorenzo a cui non parteciperò.

Il nulla.

La totale assenza di me.

Oppure posso scegliere la risposta consolatoria. Parlargli degli angeli e dei santi, del paradiso e di tutto quello in cui non ho mai avuto la fortuna di credere. Che guarda caso è molto più facile da spiegare, e da capire, anche per un bambino di cinque anni. Sembra quasi l'abbiano inventato apposta.

Non sarebbe onesto, ma sarebbe comodo. In fondo è solo un bambino.

Alla fine m'ingegno e trovo una terza via.

Gli dico di non conoscere la risposta, perché qualsiasi cosa accada dopo la morte nessuno torna indietro per raccontartela. Gli spiego che si può solo decidere a cosa si vuole credere. Gli elenco il mio nulla e il paradiso, tenendomi per ultima (sì, mi concedo una furbizia) la reincarnazione.

E lì Lorenzo torna a vestire i panni del bambino di cinque anni che è, i grandi occhi marroni gli sorridono mentre sogna quale animale diventerà: sarà un serpente!

Se velenoso o stritolatore questo si riserva di deciderlo in futuro, ha ancora tempo.

Purtroppo nella vita quando si tratta di scelte importanti non esiste una terza via.

Le vere scelte comportano sempre delle conseguenze e non ammettono scorciatoie.

O segui la legge o non la rispetti.

O persegui la tua idea di giustizia o non lo fai.

E quando arrivi a uno di questi bivi sai che è giunto il momento.

Il momento in cui scoprire chi sei per davvero.

Il momento delle scelte.

 

 

I genitori erano stipati nella piccola aula adibita ad anfiteatro. Il sole del primo pomeriggio entrava dalla parete a vetri, creando un microclima tra il bagno turco e un vagone della metro nell'ora di punta. Eppure nessuno sembrava curarsene. Cinquanta paia di occhi, coadiuvati da telefonini e videocamere, erano puntati sui bambini impegnati nella recita di fine anno. Guidati dalle loro maestre i piccoli artisti si esibivano in canzoni e balli, per alimentare l'orgoglio di chi li aveva messi al mondo. Lorenzo appariva a suo agio, quando non toccava a lui essere protagonista non perdeva occasione per cercare con lo sguardo il suo papà.

Andrea gli rispondeva alzando il pollice, un sorriso forzato. Non erano passate nemmeno due ore da quando aveva scoperto la foto di Alice nello scannatoio di Begucci. Se non fosse stato per la telefonata di Iolanda, che per una volta si era dimostrata utile, si sarebbe dimenticato persino della recita di suo figlio.

Mesi e mesi a colpevolizzarsi, a flagellarsi l'anima in cerca di una risposta, a caccia di una parola di verità tra ciò che rimaneva di quelle lettere. Una verità tanto squallida che neppure Alice aveva trovato il modo per raccontarla senza vergognarsene.

L'inchino della scolaresca concluse la rappresentazione e chiamò l'applauso, che giunse puntuale. Per molti bambini, Lorenzo compreso, quello era l'ultimo anno di scuola materna. Le maestre, per salutarli dopo i tre anni trascorsi insieme, avevano preparato una poesia. Era un rituale consolidato della loro professione, eppure la voce con cui le due donne si alternavano alla lettura tradiva una sincera emozione.

«Vai via perché s'intitola…». Si fecero coraggio l'un l'altra con lo sguardo.

«Vai via perché nei tuoi occhi la curiosità deve essere saziata in altri modi».

Io mi sazierò solo quando vedrò quel bastardo di Begucci morire dietro le sbarre.

«Noi invece restiamo per far spuntare in altri occhi la curiosità per il mondo».

E sarò io a farlo, sarò io a sbatterti dentro assassino. Sarà la mia vendetta.

«Vai via perché non piangi più senza la tua mamma e il tuo papà».

Alice, ti sei innamorata di quel porco, per questo te ne sei andata!

«Hai imparato che altre persone ti vogliono bene».

Tu lo hai imparato Lorenzo? Hai imparato che anche se tua madre ti ha abbandonato c'è un mondo pronto ad amarti?

«Noi invece restiamo per consolare altre lacrime e amare altri bambini».

Anche io resto amore mio, resto e ci sarò sempre.

Le maestre conclusero la lettura lanciando un bacio commosso alla platea.

Andrea affidò alle lacrime che gli scendevano lente il dolore, alle mani che batteva forte la rabbia, al sorriso che aveva issato a fatica il compito di proteggere Lorenzo dalla squallida verità che non meritava.

 

 

Francesca si era preparata a essere interrogata. La sera prima aveva steso una scaletta dettagliata, si era detta che lo faceva perché sarebbe stato stupido non dire tutto al suo terapeuta. In realtà ci teneva da pazzi a fare bella figura con lui, era la prima volta che il dottore le assegnava un compito, se pure in maniera implicita.

Per quaranta minuti aveva edotto Lamberti sui tormentati rapporti che erano intercorsi tra lei e Andrea. Sui loro innamoramenti asincroni, su quell'unica indimenticabile notte d'amore a Firenze, sul tacito patto che teneva in vita ciò che rimaneva della loro amicizia. Non aveva taciuto neppure il particolare per lei più scabroso.

«Mi ero lasciata da poco con Emanuele, il mio ragazzo storico. Per me la fine di quella relazione era stata la prova che avevo fatto un errore. Avrei dovuto avere il coraggio di chiuderla prima e di prendermi Andrea quando ne avevo avuto la possibilità. Ma ero ancora più convinta che l'errore più grande lo stesse commettendo lui sposandosi con Alice».

Francesca aveva incominciato a torturarsi le dita.

«Così ho provato a riprendermelo, fino all'ultimo, fino al giorno del suo matrimonio».

Le venne fuori una risata isterica.

«Una scena patetica che mi rifiuterei di guardare anche in un brutto film e di cui ancora mi vergogno».

«E lui come reagì?».

«Non bene, anche perché non mi ero limitata a dirgli che noi eravamo fatti l'una per l'altro. Avevo anche cercato di fargli capire che Alice non era una bella persona».

«E lo pensa ancora?».

«Più di prima. Ma il punto è che non dovevo dirlo a lui, non il giorno del loro matrimonio!».

«Quindi il motivo per cui lei oggi non è in grado di parlare col suo amico della scomparsa di sua moglie, di stargli vicino come dice di volere, è dovuto all'imprudenza di quel giorno?».

«Lo conosco, non accetterebbe le mie opinioni sulla scomparsa di Alice, mi rinfaccerebbe quello che è successo».

«Non ne dubito, ma io non le ho chiesto come si comporterebbe lui, le ho chiesto perché lei non fa nemmeno un tentativo. Eppure mi sembra una donna volitiva. È veramente solo perché teme la sua reazione?».

Francesca era confusa.

«Cos'ha provato quando ha saputo della scomparsa di Alice?».

«Mi è dispiaciuto per lui».

«Cosa ha provato lei, per se stessa».

Francesca avvertì un tonfo alla bocca dello stomaco.

«Era felice?».

«Ma come può pensare!».

«Francesca, non sono qui per giudicarla, ma per aiutarla». Il tono era divenuto perentorio. «Era felice che se ne fosse andata?».

Francesca era immobile, paralizzata.

«Era la donna sbagliata, lei lo aveva sempre saputo, si era presa quello che doveva essere il suo uomo. La sua fuga l'aveva resa felice? Ora è felice che Alice non sia più nella vita di Andrea?».

«Sì».

«Ed è questo che la terrorizza, che la blocca, che le impedisce di parlargli? La paura che lui si accorga di questo suo sentimento?».

«Sì».

Gli occhi di Francesca erano gonfi di lacrime.

«Non devo, è sbagliato, lui sta soffrendo, il bambino non ha più sua madre, sono un mostro».

«Riuscire ad accettare la parte meno nobile di noi stessi fa parte del gioco della vita».

Il tono di Lamberti aveva riacquistato una prosodia musicale e paterna.

«Tutti noi proviamo sentimenti, pulsioni, emozioni di cui ci vergogniamo, nessuno escluso. Ma dobbiamo imparare a conviverci, anche se non ci piacciono sono una parte di noi, e nessuno può scappare da se stesso».

Francesca annuì, singhiozzando.

Quando la sua paziente abbandonò lo studio Lamberti, a riprova di quanto aveva appena sostenuto, fece cadere di nuovo uno sguardo lascivo sul suo culo.

 

 

Francesca si trattenne in ascensore. Arrivò a fatica in strada.

Crollò su una panchina. Riprese a piangere.

Ancora.

E ancora.

Fino a che sentì di non avere più forza né lacrime. Era stanca, stremata, eppure le parve di stare meglio.

 

 

Sergio e Marco erano seduti ai tavolini del Roxy Bar, proprio di fronte alla scuola elementare di Valerio. Il professore quel giorno non aveva lezione, così lui e l'ispettore si erano concessi un pranzo frugale, approfittando di quell'inusuale momento di calma nella concitata vita della loro famiglia sui generis.

Sergio intravide un omone con indosso un grembiule carta da zucchero muoversi dietro il cancello della scuola.

«Nando sembra burbero, ma alla fine è una brava persona».

Anche quella mattina Valerio aveva fatto tardi a scuola e il bidello si era esibito nella consueta parte dell'orco che redarguiva zio e padre sotto gli occhi del bambino.

«È come tutti gli altri, né più né meno».

Il professore, malgrado la disgrazia che gli era toccata in sorte, non aveva smesso di credere nelle persone, al contrario di suo cognato.

«Ammetterai che è gentile a recitare così con Valerio tutte le mattine solo per aiutarci».

«Non lo fa solo per aiutarci».

«Dici che si diverte?».

«Dico che mi ha già chiesto se potevo fargli togliere due multe, cosa che ho fatto».

Sergio rimase con la tazzina del caffè a mezz'aria.

«Perché non me lo hai detto?».

«Non mi sembrava importante, e poi è bello vedere che qualcuno crede ancora a babbo natale».

Marco posò la tazzina vuota e si alzò.

«Ora vado, ci vediamo stasera».

Sergio lo osservò mentre si allontanava. Fabiana e Marco erano stati due fratelli molto diversi tra loro. Sua moglie era sempre stata una donna risoluta e sicura di sé, quasi la versione femminile del padre, l'immenso Donato Alfieri. Marco invece, che della figura paterna era a lungo stato succube, era un uomo introverso e insicuro. Dopo la tragica morte di Fabiana però questa sua insicurezza era andata svanendo, come se la perdita di sua sorella fosse stata lo schiaffo di cui l'ispettore aveva bisogno per prendere in mano le redini della propria vita. Così Marco aveva iniziato a mostrare picchi di autorevolezza come quello a cui Sergio aveva appena assistito, parole che sarebbero potute uscire dalle labbra di sua moglie. Peccato che nella propria personale metamorfosi Marco non avesse scelto anche di abbandonarsi alla vita, all'amore: aveva sostituito la timidezza con la misantropia. Il risultato rispetto ai rapporti con gli altri esseri umani rimaneva inalterato, ovvero chiusura totale, con due sole eccezioni: lui e Valerio.

Sergio pagò il conto e lasciò tre euro di mancia. Prima di tornare a casa, dove lo attendevano i compiti dei suoi allievi, s'infilò nella stradina che costeggiava la scuola elementare. Si acquattò dietro un platano per sbirciare attraverso la finestra al pianterreno: la classe di Valerio era vuota. Girò intorno all'edificio fino a fermarsi davanti al cortile, i bambini stavano giocando lì. Cercò un posto da dove osservare senza essere visto. La maggior parte degli scolari stavano facendo una partita a pallone. Sergio li vagliò con attenzione, ma di Valerio non trovò traccia. La cosa non lo sorprese, non amava lo sport, in particolar modo il calcio. Dal lato opposto del cortile un altro gruppo stava giocando a nascondino. Sergio ne individuò un paio imboscati, oltre alla bambina che li stava cercando. Immaginò che Valerio si fosse nascosto bene, e perciò non riuscisse a scorgerlo. Poi lo vide.

Solo.

Seduto in un cantuccio, lo sguardo basso a osservare le dita che spostavano dei piccoli sassi sul cemento.

Sergio rimase lì a osservarlo fino a che le maestre non diedero l'ordine ai bambini di rientrare in classe. Per più di un'ora sperò con tutto se stesso che suo figlio interagisse con qualcuno, che facesse qualcosa, qualsiasi cosa. E invece lo vide muoversi solo quando dovette alzarsi per mettersi in fila: per ultimo, senza compagno, senza un sorriso.

A Sergio scese una lacrima sotto gli occhiali. Forse faceva bene Marco a non credere a babbo natale: per loro, per suo figlio, oramai sarebbe esistito sempre e solo l'uomo nero.

 

 

Il condizionatore dell'auto di servizio era scarico. Andrea aveva abbassato il finestrino per far circolare un po' d'aria in quell'inizio di giugno troppo caldo. Il rumore del traffico lo costrinse ad alzare il tono della voce per raccontare alla Ralli quanto era emerso durante la perquisizione nel locale di Begucci.

«Avevate ragione voi, la testimonianza del cuoco ci fornisce il movente che cercavamo».

Francesca vedeva scorrere di fianco a sé un viale assediato da palazzine basse. Le case popolari di Favale avevano colori improbabili: muri arancio con inferriate verde pistacchio, pareti salmone con cancelli indaco.

«Quindi hai cambiato idea?».

«Sì, Begucci ha ucciso sua moglie perché lo aveva scoperto e poi ha mascherato il delitto per farlo sembrare opera di un maniaco».

Francesca cambiò la messa a fuoco.

Ora il degrado urbano oltre il vetro era vago, mentre vedeva nitido il riflesso del suo viso turbato nel finestrino.

«La Pavesi ci sta aspettando in procura, voglio informarla sugli ultimi riscontri. Se sei d'accordo vorrei chiederle di inoltrare al gip la richiesta per la carcerazione preventiva».

Il commissario Ralli rivolse lo sguardo al volto tirato di Valente: vi trovò un'espressione cattiva di cui non conservava memoria.

«Begucci ha già cercato di sabotare le indagini cancellando il suo profilo Facebook e l'account sul sito hard, e chissà che altro».

Francesca non aveva nulla da eccepire sulla richiesta del suo collega, uno dei motivi per cui veniva concessa la carcerazione preventiva era il pericolo di inquinamento delle prove, e quello le sembrava un caso esemplare. Solo non riusciva a spiegarsi come Andrea avesse cambiato di colpo opinione, non era da lui.

O forse non sarebbe stato da lui? Sbagliava nel continuare a misurarlo usando come metro l'uomo che era stato? Firenze era lontana, persino Roma sembrava esserlo, avrebbe dovuto farsene una ragione. Le persone cambiano, la vita ti cambia.

«Per me va bene».

Si portò una mano dietro la nuca, si torse i ricci alla base del collo fino a provare dolore. Avrebbe dovuto trovare la forza per parlargli: erano loro due, da soli, quale occasione migliore per chiedergli cosa gli stesse succedendo, per offrirgli il suo aiuto?

Non poteva continuare a farsi condizionare dalla vergogna per ciò che provava. Nessuno era mai stato in grado d'impedirle di fare ciò che voleva.

Nessuno tranne se stessa.

Si fece vincere dal silenzio che era sceso nell'abitacolo, ci si nascose dentro.

 

 

Il sole che filtrava dall'ampia portafinestra rischiarava l'ufficio del pubblico ministero. La Pavesi non ne avrebbe avuto bisogno, il suo volto splendeva di luce propria mentre ascoltava ciò che avevano da comunicarle i commissari di pubblica sicurezza.

«Vi faccio i miei complimenti, avete fatto un lavoro eccellente. Inoltrerò subito al gip la richiesta per il provvedimento di custodia cautelare a carico di Begucci».

Il pm s'immaginò davanti al bouquet di microfoni che le sarebbe stato offerto. Si vide tentare di rifiutarlo con affettato fastidio, per poi arrendersi. Costretta a esibire, suo malgrado, i brillanti risultati conseguiti dall'ufficio che aveva l'immeritato privilegio di dirigere.

 

 

Valente l'aveva accompagnata al posto di polizia per farle recuperare l'auto. Era ripartito, lasciandola con un saluto fugace. Mentre raggiungeva la sua Classe A Francesca scorse Alfieri dall'altro lato del parcheggio, gli andò incontro.

«Complimenti per l'operazione alla Lambada, ispettore».

Marco era stato colto di sorpresa.

«Grazie».

Era la prima volta che si trovava da solo con la Ralli. Iniziò ad avere problemi con le mani, non sapeva dove metterle, come sempre quando era in imbarazzo. Avrebbe voluto legarsele.

Francesca si sarebbe aspettata di trovare nell'ispettore maggior entusiasmo.

«Be', sarai soddisfatto che alla fine Valente ti ha dato ragione».

«Ha ammesso che ora esiste un movente, è già qualcosa». Le tasche, che grande invenzione.

Francesca rimase interdetta.

«Siamo appena tornati dall'ufficio della Pavesi, abbiamo chiesto la custodia cautelare per Begucci».

La Ralli apprese così con stupore che Andrea non aveva informato Alfieri delle sue intenzioni.

«Eravate insieme al locale, davo per scontato che fosse stata una decisione condivisa».

A Marco l'idea della carcerazione preventiva di Begucci non dispiaceva affatto, lo entusiasmava meno che Valente non si fosse preso la briga d'informarlo. Del resto l'epilogo della loro visita alla Lambada era stato rocambolesco, e forse era giunto per lui il momento di chiarire i contorni di quella vicenda. Si guardò intorno circospetto, non riuscì a trattenere le mani nelle tasche.

«Possiamo andare a parlare in un posto tranquillo?».

Francesca osservò l'ispettore forse per la prima volta: il naso pronunciato, le mani grandi e impacciate, il sorriso trattenuto come fosse un segreto da non rivelare.

«Solo se mi offri qualcosa da bere».

 

 

Marco e Francesca avevano ordinato l'aperitivo in un bar del corso. L'ispettore fece scivolare la foto sul tavolo non appena il cameriere li lasciò soli con i loro bicchieri.

«È la moglie di Valente, non è vero?».

Francesca restò basita, l'immagine era molto esplicita.

«Sì, è Alice, dove l'hai presa?».

«Nell'ufficio di Begucci».

«E Andrea l'ha vista?».

«Sì».

Alfieri centellinava le parole, era come se ogni singola sillaba fosse un masso che doveva caricarsi sulle spalle per farlo rotolare fuori dalla bocca.

«Quando il bengalese è sceso nei particolari Valente quasi l'ha ammazzato».

Francesca adesso comprendeva perché Andrea aveva cambiato di colpo opinione sul caso. C'era ben più del movente, i sentimenti di Valente nei confronti di Begucci erano virati dall'empatia all'odio.

«So che siete amici. L'ho visto molto scosso. Credi che potrebbe fare qualcosa di sconveniente?».

«Come fare del male a sua moglie?».

L'ispettore annuì. Il commissario portò lo spritz alle labbra.

«No, non è il tipo, e ad ogni modo non ne avrebbe la possibilità. Alice li ha abbandonati un anno e mezzo fa».

Marco non se l'aspettava. Quando Andrea aveva alluso al fatto che loro due vivevano una situazione simile credeva si riferisse alla circostanza per cui entrambi avevano la responsabilità di crescere un bambino. Non lo aveva neppure sfiorato il pensiero che anche Lorenzo, come Valerio, non avesse più una mamma. Che genere di donna era quella che abbandonava suo figlio? Anche sua sorella se Gabriele avesse accettato la gravidanza avrebbe fatto lo stesso con Valerio?

Il pensiero lo turbò.

Francesca invece appariva sollevata dall'idea che Andrea avesse trovato qualcuno verso cui incanalare il proprio risentimento. Un colpevole che non fosse se stesso era già qualcosa. Anche se, come si lasciò sfuggire con l'ispettore, non credeva che fosse Giulio Begucci la causa della fuga di Alice.

I bicchieri si susseguirono, Marco era bravo ad ascoltare e Francesca aveva voglia di parlare, di liberarsi. Aveva finalmente l'opportunità di raccontare la storia di Andrea e Alice, per come l'aveva vissuta lei.

Quando si erano conosciuti a Firenze, lei e Andrea, lui aveva appena iniziato a frequentare Alice. La loro per anni sarebbe stata una relazione a distanza, lontana dai problemi della convivenza, dalle noie della quotidianità. Poi, quando Andrea era riuscito a ottenere il trasferimento a Roma, si erano sposati.

«Non dimenticherò mai il giorno del loro matrimonio…».

Francesca fece una pausa di troppo, che Marco fu bravo a fingere di non notare, consentendole di continuare.

Alice era rimasta incinta quasi subito, una gravidanza difficile, che l'aveva costretta a letto fin dalle prime settimane e che le aveva fatto perdere il lavoro. Tutte queste cose gliele aveva raccontate Andrea, visto che lei in quei mesi era ancora in servizio a Firenze. Quando lo aveva raggiunto alla squadra mobile di Roma Lorenzo aveva già sei mesi. Fu allora che rivide per la prima volta Alice dopo il parto, le sembrò un'altra. Aveva avuto modo di conoscerla piuttosto bene nel periodo in cui andava a trovare Andrea in Toscana: era una ragazza allegra, piena di vita; non le era simpatica, troppo vanesia, troppo superficiale, ma di certo esuberante. A Roma aveva ritrovato una donna stanca, trascurata, spenta. Le sembrava evidente che fosse in difficoltà, che non avesse retto al repentino cambiamento: da fidanzata da weekend tutti sesso e viaggi a donna di casa arruffata e spesso sola. Da professionista vogliosa di affermarsi a mamma a tempo pieno.

«Queste cose mi sarebbe piaciuto riuscire a dirle ad Andrea, ma… Ecco, diciamo che io non sono la persona più adatta per parlargli di Alice».

Francesca alzò lo sguardo verso quegli occhi scuri, si aspettava una domanda che non arrivò.

«Ispettore, sei bravo ad ascoltare ma devi lavorare di più sull'interazione…».

Al commissario sembrò di vedere l'ombra di un sorriso aprirsi sul volto di Alfieri.

«Avete avuto una storia tu e Andrea?».

«Non credo si possa definirla così, abbiamo avuto un'infinità di nonstorie, era la nostra specialità».

 

 

Lo sbuffo dell'autobus notturno entrò dalla finestra aperta. Si mischiò ai gemiti di Francesca, all'affanno di Marco, al ritmico battere della spalliera del letto contro la parete.

Entrambi trattennero un grido, poi lui le crollò di fianco.

Marco era sudato, tremava.

Francesca lo osservò intenerita: era emozionato come un adolescente, gli carezzò il viso. Anche lei non si sentiva a suo agio, perché? Non era certo la prima avventura che si concedeva né la prima volta che scopava con un collega. Eppure c'era qualcosa che le rodeva dentro.

Perché era voluta andare a letto con quell'uomo?

Perché si sentiva sporca anche se non aveva fatto niente di male, anche se non aveva tradito nessuno?

Marco non sapeva come comportarsi.

Non aveva dovuto lasciare i soldi sul comodino, non c'era stata una voce dall'accento esotico che gli aveva chiesto se volesse lavarsi, facendogli intendere che era giunta l'ora di togliere il disturbo.

Cosa prevedeva il rituale socialmente condiviso in una simile circostanza? Avrebbe dovuto dire qualcosa?

Per una volta il silenzio non fu una scelta, ma una penosa mancanza di alternative.

 

 

Non c'era telegiornale che non mostrasse le immagini di Giulio Begucci mentre veniva caricato sull'auto della polizia per essere condotto nel carcere di Rebibbia. Il gip aveva ravvisato gli estremi per infliggergli la misura della carcerazione preventiva.

La casa di Mandela era cinta d'assedio dai giornalisti. Sbattevano contro la porta chiusa come tanti zombie affamati. Un istinto ancestrale impediva loro di rispettare il dolore altrui.

Maria aveva ceduto, era stato troppo persino per lei, non poteva affrontarli. Aveva riparato dietro le imposte. Da lì proteggeva se stessa dalla vergogna e i bambini dal clamore. Se avesse aperto la porta li avrebbero mangiati vivi.

 

 

Quando Giulio vide entrare nella stanza del carcere il commissario Valente si sentì sollevato. Aveva bisogno di una faccia amica, qualcuno a cui aggrapparsi. Non gli diede nemmeno il tempo di sedersi per iniziare a supplicarlo.

«Commissario mi aiuti lei, è tutto un equivoco, io sono innocente».

«Tu sei solo un pezzo di merda».

Andrea lo disse con tono basso ma fermo, strozzando la nenia di Begucci sul nascere. Gli si sedette di fronte.

«Commissario, ma come, proprio lei…».

«Proprio io, e voglio precisare che se sei qui ora è solo merito mio».

«Ma perché mi sta facendo questo?».

Andrea gli mostrò una foto in cui Alice spingeva Lorenzo sull'altalena.

«La riconosci?».

«No, chi dovrebbe essere?».

«Guardala meglio».

Begucci iniziò a trincerarsi dietro la consueta cortina di fumo. Disse tutto e il contrario di tutto: la conosceva, non la conosceva. Forse l'aveva vista al locale, forse aveva fatto sesso con lei, non aveva fatto sesso con lei, solo per una volta, forse anche due.

Andrea voleva ascoltare ben altro. Voleva sentirsi dire che quella era stata la sua amante, che lei se n'era andata, li aveva abbandonati, a causa sua. Che era lui, Giulio Begucci, la risposta che aveva cercato per diciotto mesi in un cumulo di carta straccia. Esigeva una confessione esplicita dall'unico colpevole del disfacimento del suo matrimonio.

 

 

Giulio non capiva. Era confuso.

Cosa c'entrava ora quella donna?

Cosa c'entrava con lui?

Cosa c'entrava con la morte di Margherita?

Era morta anche lei?

Se era così lo stavano mettendo in mezzo. Lui non ne sapeva nulla, lui era una vittima, solo una vittima.

«Quella è mia moglie, e io avrò l'enorme piacere di farti marcire qui dentro per tutta la vita, ci tenevo che lo sapessi».

Giulio fu colpito a bruciapelo dalle parole del commissario, era fottuto. Si era scopato la donna sbagliata, quella troia lo aveva rovinato.

La porta della stanza si aprì, i tacchi della Pavesi seguirono il cigolio dei cardini. Andrea fece scivolare la foto di Alice nella tasca senza farsi notare dal magistrato.

«È tutto suo dottoressa».

Valente si alzò lasciando il posto al pubblico ministero per l'interrogatorio.

«Grazie commissario».

Begucci cadde in un pianto disperato.

«Mi state mettendo in mezzo, mi state portando via tutto. Prima Margherita, adesso la casa, i bambini, la vita mia! Ma io sono solo una vittima. Io sono la vittima!».

Andrea rallentò il passo che lo conduceva all'uscita dal carcere. Le suppliche di Begucci giungevano fino in corridoio, voleva goderne il più a lungo possibile.

 

 

Marco aveva messo giù il telefono. Suo padre riusciva a farlo incazzare anche a undicimila chilometri di distanza. Pretendeva di impartire ordini dall'altro capo del mondo. Stavolta si era incaponito che voleva estradare la salma di Fabiana in Argentina (il vecchio si era ritirato lì a godersi la pensione), per poterla andare a trovare ogni giorno. Se ne sbatteva le palle che questo avrebbe tolto la facoltà di visitarla a chi ne aveva più diritto: Sergio e Valerio, senza contare lui. Per Donato Alfieri esisteva solo Donato Alfieri.

Marco aveva peccato di presunzione, accennandogli in una mail che c'erano stati degli sviluppi sulla vicenda di Fabiana. Le conseguenze erano giunte, puntuali e ineluttabili. Donato aveva preteso di conoscere i dettagli, di sapere come si stesse muovendo. Lo stallo a cui lo aveva condotto l'indagine era già duro da sopportare e le continue pressioni del padre, a cui non bastava sapere che lo avrebbe informato in caso di novità, contribuivano ad acuire il profondo stato di frustrazione in cui versava. Donato era l'unico a cui Marco aveva confessato di aver ucciso Gabriele per vendicare Fabiana. Quando glielo aveva raccontato il vecchio, per la prima volta, si era mostrato orgoglioso di lui. Lo aveva sostenuto, era arrivato a citargli Nietzsche per convincerlo che non doveva sentirsi in colpa: il bene e il male erano concetti relativi. Era stato un buon fratello e un bravo poliziotto, così gli aveva detto.

 

 

Suo nipote lo riportò dalla parte giusta dell'oceano Atlantico.

«Zio, tu sei un buon poliziotto?».

Quando qualcuno diventa padre, o come nel caso di Marco decide di rivestire una figura genitoriale, dovrebbero fornirgli un libretto delle istruzioni. Il primo capitolo reciterebbe più o meno così: i bambini sono delle antenne, captano ciò che nessuno vede e sente. E quel che è peggio ne chiedono conto.

«Non è una domanda semplice a cui rispondere, principe delle tenebre».

«E perché? O lo sei o non lo sei».

Marco per un lungo periodo della sua vita aveva portato una divisa senza fare il poliziotto, così facendo era riuscito a soddisfare l'unico bisogno che aveva: ferire suo padre. Poi era arrivata la morte di Fabiana e pur di scovare l'assassino di sua sorella aveva provato a fare lo sbirro. Così era riuscito a smascherare Gabriele, e per certi versi anche se stesso. I fatti avevano dimostrato che, come sosteneva da sempre il suo vecchio, era tagliato per quel mestiere.

Dopo l'indagine sull'omicidio di Fabiana Marco aveva perduto il paravento dell'ignoranza dietro cui nascondersi. Fu così che comprese di non essere abbastanza masochista da prediligere un'esistenza da frustrato a una possibile realizzazione personale, tutto al solo scopo di contraddire suo padre. Avrebbe provato a darsi una chance per diventare un bravo poliziotto. Gli ultimi sviluppi avevano dimostrato che in quella sua prima indagine aveva commesso degli errori, ma avrebbe rimediato. Avrebbe dato a Filippo Puglia ciò che meritava.

«Un buon poliziotto direi di no, un bravo poliziotto forse».

«E qual è la differenza?».

«I bravi poliziotti fermano i cattivi».

«E quelli buoni?».

«Lo fanno nel modo giusto».

 

 

Erano solo i primi di giugno eppure il sole dell'ora di pranzo era già in grado di rendere il paesaggio immobile. Quando Mignolino aprì la porta della casupola cercò di guadagnare tempo fingendo di non sapere chi fosse quell'uomo calvo che fumava poggiato alla parete.

Filippo Puglia sollevò la maglia verde militare quel tanto che bastò per mostrare il luccichio della 38 che teneva incastrata nella cintura.

Mignolino dimostrò di aver ritrovato di colpo la memoria. Invitò Filippo ad accomodarsi, mostrandosi felice per la bella improvvisata. Un puerile tentativo per distrarlo prima di prodursi in una goffa fuga.

Filippo gli concesse quattro passi, tanto gli occorreva per prendere la mira e lanciare le sue bolas, che si intrecciarono intorno alle caviglie di Mignolino, costringendolo a terra. Filippo Puglia gettò via la sigaretta e lo afferrò per i piedi trascinandolo dentro la casupola.

 

 

Il cielo era di un azzurro irreale, neanche l'ombra di una nuvola. S'interrompeva solo al cospetto del verde lussureggiante che ricopriva la gola, riempita dal fragore della cascata. La città appariva lontana e con lei la routine, il lavoro. Se concentravano lo sguardo sul tempio della Sibilla potevano fingersi lontani decine di secoli dalle angosce di tutti i giorni. E invece Andrea e Marco erano seduti su una panchina di villa Adriana, vicino a tutto ciò che li preoccupava e li rendeva felici. Avevano scelto quell'oasi nel cuore di Tivoli per far conoscere Lorenzo e Valerio.

I bambini scorrazzavano sui sentieri che si snodavano tra i ruderi di epoca romana e la rigogliosa vegetazione. Valerio era più grande di quattro anni, ma era un ragazzino introverso. Era Lorenzo a coinvolgerlo, a pungolarlo perché fingessero che quella fosse una foresta e loro due impavidi esploratori.

I due poliziotti li seguivano con lo sguardo a debita distanza, quasi fosse un pedinamento. Vederli felici li rendeva felici.

«Com'è stata la tua infanzia, è stato facile essere il figlio di Donato Alfieri?».

«Se vuoi bene a Lorenzo evita di diventare un uomo troppo importante. A meno che tu non voglia che tuo figlio diventi come me…».

«Ti ringrazio ma preferirei di no, senza offesa».

Si scambiarono un accenno di sorriso. Il commissario lanciò lo sguardo lontano, sopra la cascata, oltre le colonne del tempio.

«Riguardo a quello che è successo nell'ufficio di Begucci… La donna nella foto è Alice, la mamma di Lorenzo, è andata via un anno e mezzo fa».

Marco tacque. Questa volta fu una scelta. Per non mentire fingendo di non sapere o peggio, per non spiegare come ne era venuto a conoscenza.

Andrea pensò che ora aveva la risposta da dare a Lorenzo, per quando sarebbe stato il momento, un nome e un cognome, un colpevole per la fuga di sua madre. Begucci stava già scontando la pena, e lui avrebbe fatto in modo che continuasse a farlo.

Nello stesso istante Marco sperò di poter punire quanto prima Filippo Puglia, l'altro artefice della morte di sua sorella; per lui, per Valerio, per mettere la parola fine a quella storia e voltare pagina.

Ciascuno scelse di tenere per sé il proprio proposito di vendetta.

 

 

Marco entrò nella guardiola alla ricerca di De Angelis, ma la trovò deserta. Gli parve strano, avrebbe giurato di aver visto il motorino dell'agente nel parcheggio. Non fece in tempo a tornare sui suoi passi che il fischio di un treno ne carpì l'attenzione: uno smartphone si era illuminato sul tavolo. Il mistero s'infittiva, De Angelis non si separava mai dal suo prezioso telefono.

Valente e Alfieri lo videro arrivare sull'onda degli improperi che andava proferendo.

«Che è successo Domenico?».

«M'è toccato andare fino a Sambuci».

«Qualcosa di grave?».

«Tsè».

Appena ebbe schioccato la lingua l'agente spiegò:

«Un incidente d'auto».

«E per un incidente dall'altra parte della valle vengono a rompere le palle a noi? Chiamassero i vigili urbani».

«Tivoli non tenea volanti disponibili quanno è arrivata la chiamata al 113, e siccome c'è scappato il morto…».

«Ma non hai detto che non era grave?».

De Angelis gli rispose con sussiego.

«Se crepa uno che è così cojone da sbattere contro l'unico muro nel raggio de chilometri, e soprattutto se pe fallo aspetta proprio stamattina pe' rompe li cojoni a me, è grave che non jè capitato prima!».

«Qualcuno di qui? Lo conoscevamo?» gli chiese il commissario.

«Tsè, mai sentito prima, pure il nome da imbecille tenea, Consiglio Cristiano, che i diavuru se ju portesse via».

De Angelis salutò la compagnia e si diresse verso la propria tana con la consueta andatura da plantigrado.

Consiglio Cristiano!

Marco era sgomento.

 

 

Eppure a me questo nome sembra di averlo già sentito, a te non dice nulla?».

Valente incrociò lo sguardo dell'ispettore. Lo trovò assente, confuso.

«Oh, tutto bene?».

«Sì, tutto ok, solo che mi sono ricordato che oggi Valerio esce prima e devo andare a prenderlo a scuola».

«Va bene ma questo Consiglio Cristiano non ti dice niente?».

«No, non mi sembra proprio, scappo».

 

 

Il commissario era rientrato in ufficio, quel nome continuava a ronzargli nella testa.

Si mise a sistemare le scartoffie del caso Lazzerini. L'occhio gli cadde sull'elenco che aveva compilato per l'ispettore Alfieri: Consiglio Cristiano era il primo della lista. Il proprietario della rivendita di materiali edili, l'unico che Marco avesse interrogato prima del ritrovamento del cadavere di Margherita.

Eppure ad Alfieri quel nome non aveva detto nulla. Poteva essersene dimenticato, in fondo lo aveva visto solo una volta.

Andrea si passò una mano nei capelli, ripercorse la ferita sotto la frangetta. Sua mamma si lamentava sovente che se le prudeva una ferita stava per cambiare il tempo. Per Andrea invece era il sintomo che qualcosa proprio non gli tornava. Certo che la reazione dell'ispettore, dopo che Domenico aveva pronunciato quel nome così singolare, lasciava qualche dubbio.

Digitò la password e si loggò al sistema informatico della questura. L'istinto non l'aveva tradito, Consiglio Cristiano era già noto alle forze dell'ordine. La prima informazione che gli venne restituita fu il soprannome con cui era conosciuto nell'ambiente criminale: Mignolino. Seguì una fedina penale che una sola schermata del computer non era in grado di contenere: svariate condanne per furto e ricettazione. Risultavano anche due vecchie accuse per molestie e violenza sessuale: da una era stato prosciolto, per l'altra aveva scontato una pena minima.

Ecco, questo sì era grave.

Dopo il ritrovamento del cadavere di Margherita aveva chiesto all'ispettore di controllare se non ci fossero, tra le persone in qualche modo legate all'inchiesta, soggetti con precedenti penali a sfondo sessuale. Perché non l'aveva fatto? O, se lo aveva fatto, perché non gli aveva comunicato quel riscontro?

O Alfieri si era reso protagonista di un'imperdonabile inadempienza, oppure c'era qualcosa che gli sfuggiva riguardo a Mignolino. Decise di verificare con più attenzione le informazioni sul pregiudicato. Scoprì che fino a pochi mesi prima era stato proprietario di un'autodemolizione a Roma.

Valente andò alla finestra, si perse con lo sguardo sul paesaggio apocalittico offerto dalla cava di travertino: un immenso buco scavato nel terreno, come se vi fosse precipitato un meteorite.

Ripensò alla morte della sorella di Marco, all'indagine che l'ispettore aveva condotto senza risultati, senza trovare l'auto, senza identificare il pirata della strada.

Chiamò un suo amico della stradale.

«So che è una vita che non mi faccio sentire e detesto farlo per chiederti un favore. Ma devo chiederti un favore».

 

 

L'ispettore Alfieri era arrivato sul luogo dell'incidente, la Punto bianca era accartocciata contro il muro. Mostrò il tesserino agli agenti della polizia mortuaria e alzò il telo sul cadavere prima che lo portassero via: il volto di Mignolino era velato dal pallore del rigor mortis. Si lasciò sfilare sotto gli occhi il corpo senza vita di quel piccolo uomo lurido per cui non provava nessuna pena. Chiese ai vigili urbani che stavano effettuando i rilievi che idea si fossero fatti dell'accaduto.

«La vittima si chiama Consiglio Cristiano, la macchina è intestata a lui. Nessun segno di frenata, l'auto ha tagliato la curva e si è andata a schiantare».

L'uomo mimò col braccio la traiettoria seguita dal veicolo.

«Forse un colpo di sonno, o un malore. Certo che sfiga, venti metri prima o cinquanta metri dopo e sarebbe andato per campi, ha centrato l'unico muro nel raggio di chilometri».

Già, che sfortuna.

L'ispettore domandò al medico dell'ambulanza quale fosse stata secondo lui la causa del decesso. Il dottore gli rispose che l'urto sembrava avergli causato la rottura del collo, l'autopsia disposta dal magistrato avrebbe comunque fugato ogni dubbio, anche sull'eventuale malore all'origine dell'incidente.

Una lesione procurabile anche a mani nude, mani esperte, mani da assassino. Se c'era una cosa che l'ispettore Alfieri aveva imparato sulla propria pelle era che troppe coincidenze facevano una prova più di tre indizi. Chiamò al telefono Olivieri.

«Ciao, sono Alfieri, nessuna novità su Puglia?».

«Se ce ne fossero ti avrei avvisato».

«Quindi escludi che possa essere rimpatriato?».

«Escludo che possa averlo fatto in modo convenzionale». Il funzionario della Farnesina si stava di nuovo trincerando dietro quella cortina di ambiguità che vestiva come una seconda pelle.

«Quando è stato visto in Africa per l'ultima volta?».

«Siamo fermi a prima del nostro incontro».

«Cazzo! Credi possa avere un documento falso?».

«Se, in via del tutto ipotetica, un simile soggetto dovesse avere la necessità di rientrare in Italia coperto da anonimato credo utilizzerebbe metodi meno raffinati. Ci sono scafisti in Nord Africa che fanno anche viaggi personalizzati se il passeggero è disposto a pagare il giusto compenso».

Marco attaccò senza salutare. Filippo Puglia era tornato e aveva tolto di mezzo un testimone scomodo, l'ultimo. In qualche modo doveva essere venuto a sapere che Mignolino lo aveva tradito. La circostanza che Puglia, a cui certo non mancavano idee su come uccidere un uomo, si fosse preso la briga di camuffare l'esecuzione del delatore da incidente stradale non poteva essere casuale, aveva voluto indirizzare ad Alfieri un preciso messaggio: io so che tu sai che io so.

 

 

Il commissario Valente aveva appena raggiunto il luogo dell'incidente quando ricevette la telefonata del suo amico della stradale.

«Nel luglio scorso Consiglio Cristiano, detto Mignolino, è stato interrogato nelle indagini riguardanti l'omicidio di Fabiana Alfieri. Era sospettato di aver aiutato il pirata della strada a far sparire l'auto. A condurre l'interrogatorio furono l'ispettore Marco Alfieri e l'agente Franco Dionizi. Il caso risulta tutt'oggi irrisolto».

Marco conosceva Mignolino, era legato alla morte della sorella. Per un motivo che il commissario doveva scoprire l'ispettore aveva fatto di tutto per tenergli nascosta quella circostanza. Valente ringraziò il collega e si diresse verso la pattuglia dei vigili urbani che sorvegliava la Punto. I dipendenti del comune lo informarono che, come richiesto dal magistrato, il cadavere era stato accompagnato a piazzale del Verano dove sarebbe stato sottoposto ad autopsia. Anche l'ambulanza era andata via, loro avevano finito i rilievi e attendevano solo l'arrivo del carroattrezzi per andarsene. Valente si diresse verso ciò che rimaneva della macchina. Il cofano era accartocciato, i sedili anteriori schiacciati dalle lamiere rinculate dall'urto, frammenti di cristallo dappertutto. La parte posteriore invece appariva quasi intonsa. Andrea dovette esercitare una forte pressione per sganciare la serratura del bagagliaio, ma alla fine ci riuscì. Dopo uno scatto il portello si sollevò di colpo, Valente fu costretto a farsi indietro per non essere colpito. A una prima occhiata non ravvisò nulla di rilevante, poi le vide: delle macchie scure sul fondo.

 

 

Dopo aver fatto sesso con Marco mi sono sentita sporca, una sensazione sgradevole, come se ci fosse qualcosa di cui vergognarmi».

Una nuvola oscurò il cielo fuori dallo studio, allungò un'ombra sul volto di Lamberti. Il dottore posò il blocco e si alzò, raggiunse la finestra. Dopo attimi che a Francesca parvero infiniti tornò a sedersi, senza dire una parola. Si limitò a portare le mani giunte alla bocca con una gestualità enfatica che non gli aveva mai visto usare. Se c'era una cosa che amava di quel posto, oltre alla voce del suo analista, era la routine. Quel ripetersi liturgico che la rassicurava e la faceva sentire protetta: lei parlava e il dottore prendeva appunti. Lei si torturava i capelli, le mani, assumeva pose assurde; lui manteneva una postura impeccabile e rilassata. Cos'era ora quell'inatteso fuori programma?

«Francesca, devo avvertirla, sto per uscire dal seminato».

Francesca era atterrita, aveva notato certi sguardi poco ortodossi che le aveva riservato Lamberti. Sperò con tutta se stessa che l'unico punto fermo della sua vita non stesse per dichiararle il proprio amore, un controtransfert era l'ultima cosa di cui sentisse il bisogno.

«Normalmente il mio lavoro non consiste nel dire agli altri cosa devono fare per stare meglio, non sono qui per dare risposte. Sono qui per aiutare ciascuno a trovare le proprie risposte».

Ecco, ora sì che era confusa.

«Quando ha intenzione di smetterla di prendersi in giro?».

Sbigottita.

«Veramente lei non capisce come mai si è sentita a disagio dopo essere andata a letto con il più stretto collaboratore del suo amico?».

«No, me lo spieghi lei» rispose dura.

«Con piacere: perché ama Andrea e in cuor suo sente di avergli mancato di rispetto».

«Si tolga pure quella spocchia da sapientone perché non è così».

«Ah no?».

«No».

Si alzò in piedi. Prese ad additarlo, inferocita.

«Io mi sento così perché ho mancato di rispetto a me stessa, non ad Andrea. Perché mi sono tradita, perché ho scopato con Marco solo per allontanarmi da Andrea. Perché non ce la faccio…».

«Non ce la fa a fare cosa?».

Francesca era così travolta dalle emozioni da non accorgersi che Lamberti aveva ripreso la consueta postura.

«A parlarci, ad affrontarlo. Ci ho provato sa? Ma non ce l'ho fatta, è così difficile».

Lamberti tornò ad avvolgerla con la sua voce calda.

«E così ha pensato bene di mettere un ostacolo più grande tra voi che avrebbe reso inutili i suoi sforzi per chiarirsi con Andrea. Se il problema diviene insormontabile diventa inutile impegnarsi per risolverlo, giusto?».

«Non l'ho fatto coscientemente, ma credo che sia andata così, me ne rendo conto solo ora».

«Quando si tratta di scelte importanti raramente le scorciatoie portano in posti interessanti».

Francesca alzò gli occhi verso l'analista.

«Lei deve sforzarsi di capire cosa è meglio per sé. Non si giudichi, si ascolti Francesca, si prenda il tempo per ascoltarsi, senza correre, ma poi prenda una decisione vera, consapevole. Non fugga dalla sua scelta, qualunque essa sia. L'affronti».

Francesca annuì sorridendo.

«Ma come fa a tirarmi fuori queste cose? È come se sapesse tutto prima di me».

Il dottore stava appuntando qualcosa sul taccuino.

«Un mago non rivela mai i suoi trucchi, alla prossima settimana».

Francesca si alzò e andò verso la porta.

Solo quando ebbe sentito lo scatto della serratura Lamberti alzò lo sguardo in direzione dell'uscio, per ammirare il fondoschiena della sua paziente.

«E comunque è dal primo giorno che mi sono accorta che mi guarda il culo».

Ci teneva a far sapere al mago che non era l'unico a conoscere dei trucchi.

 

 

Quando l'ispettore entrò nell'ufficio del commissario ritrovò lo stesso volto torvo che lo aveva accolto al suo primo ingresso in quella stanza.

Andrea non lo assalì, aveva imparato che se voleva sperare di ottenere collaborazione da Alfieri l'attacco frontale non era la strategia adeguata. In quel momento più che accusarlo per le sue negligenze gli premeva capire per quale motivo si fosse comportato così.

«Perché mi hai mentito?».

«A che proposito?».

«Ah, perché ce n'è più di uno?».

Valente lo disse sorridendo nel tentativo di stemperare la chiusura che già percepiva da parte di Alfieri. La battuta era caduta nel vuoto.

«Cosa c'entra Mignolino in questa storia? Te lo sto chiedendo come amico».

«Non sono affari che ti riguardano».

Marco aveva sempre ritenuto di non avere amici e non gli sembrava che Andrea facesse eccezione.

«Mi riguarda nel momento in cui non esegui gli ordini che ti do e non mi tieni informato sugli sviluppi dell'indagine che dirigo».

«Quindi non me lo stai chiedendo come amico».

Andrea aveva già perduto buona parte del suo aplomb. Sottolineò ogni punto che andò elencando pigiando l'indice contro il tavolo.

«So che Mignolino è legato all'omicidio di tua sorella, so che in qualche modo questo c'entra con le tue inadempienze, non so ancora come e perché, ma lo scoprirò». La chiusa prevedeva il dito accusatorio rivolto verso Alfieri.

Silenzio.

«Ok» allargò le braccia, «libero arbitrio, decidi tu se quello che sto per darti è un consiglio da amico o l'ordine di un diretto superiore».

Il commissario fissava l'ispettore che non distolse lo sguardo neppure per un istante. Tornò a brandire l'indice.

«Non mischiare mai le faccende personali con il lavoro, non te lo puoi permettere».

Marco, che in altre circostanze non avrebbe saputo cosa fare con le mani, le tenne immobili: si trovava perfettamente a suo agio in quella situazione. Se Andrea lo avesse osservato meglio avrebbe colto quell'insidioso dettaglio e forse si sarebbe risparmiata la Waterloo retorica in cui stava per incorrere.

«Farò finta che sia il consiglio di un amico con la memoria corta, perché il commissario capo non può certo essersi dimenticato di aver appena sbattuto in galera un uomo che credeva innocente solo perché ha scoperto che era l'amante di sua moglie».

Valente accusò il colpo, un destro al fegato che gli impedì qualsiasi velleità di replica.

L'ispettore uscì dall'ufficio senza aggiungere altro. Nel corridoio incrociò il commissario Ralli, la salutò con un cenno del capo, senza neppure prendersi il disturbo di abbozzare un sorriso.

Francesca restò interdetta, ma poi proseguì. Non doveva farsi distrarre, non doveva concedersi nessun alibi. Si fermò davanti all'ufficio di Andrea, bussò alla porta aperta.

«Possiamo parlare?».

 

 

Il commissario era riuscito a dribblare Francesca con una scusa nonostante le sue insistenze. Non gli era piaciuto lasciarla così, ma non aveva potuto fare altrimenti. Sapeva che stava solo rimandando il problema, che tra loro c'era un sospeso, l'ennesima situazione precaria della sua vita in bilico. Ma doveva fare i conti con la realtà, e in quel momento le poche forze che aveva gli consentivano di affrontare un problema alla volta. Chiedere troppo a se stesso avrebbe aumentato la possibilità di rimanere vittima di un nuovo attacco epilettico, doveva centellinare le proprie energie emotive.

Parcheggiò l'auto nello spiazzo antistante la rivendita di materiali edili. Si guardò intorno, se si escludevano i quattro cani acquattati all'ombra non sembrava esserci nessuno. Aveva deciso di compiere una piccola indagine privata su Mignolino, nulla di ufficiale, temeva che quanto sarebbe emerso avrebbe potuto mettere nei guai l'ispettore Alfieri e lui questo non lo voleva, non prima di aver capito cosa nascondesse. Di fatto era connivente con il comportamento inqualificabile del suo sottoposto e, cosa ancor più grave, stava compiendo un'effrazione. L'integerrimo commissario Andrea Valente che commetteva un reato per salvaguardare un tizio che conosceva a mala pena. Chissà se ad Alice sarebbe piaciuto l'uomo che stava diventando. Magari se fosse stato sempre così elastico sua moglie non avrebbe cercato rifugio tra le braccia di Begucci.

Lo accolse un lezzo di rancido, muffa e sudore: quel posto era un letamaio. Un unico ambiente a pianta quadrata, con un grosso televisore ultramoderno al centro della stanza, davanti al quale era piazzato un divano che aveva tutta l'aria di provenire da una discarica.

L'unica altra porta che si apriva nello stanzone conduceva a una latrina alla turca di due metri per due, che sarebbe stato eufemistico definire cesso.

Si allontanò dal bagno e andò a esaminare la zona notte: un letto dozzinale ma all'apparenza più pulito del resto della casa, con di fianco un comodino. Aprì l'unico cassetto e vi trovò il telecomando del televisore. Non avrebbe saputo dire di preciso cosa stava cercando, ma di certo non l'aveva trovato. Se si escludeva l'imperdonabile assenza d'igiene quella stamberga sembrava non aver nulla da raccontare. Chiuse il cassetto e si diresse verso la porta. Al secondo passo rischiò d'inciampare su uno scendiletto: fu allora che notò la botola, era nascosta dal tappeto.

Usò il cacciavite con cui aveva scassinato la porta per fare leva: un clic fece accendere la luce in fondo alle scale che celava.

 

 

Sceso nello scantinato trovò davanti a sé un tavolo da lavoro, sopra erano affastellati vari utensili e una confezione di guanti in lattice usa e getta. In un angolo c'era una grossa busta di cartone con il logo di una catena di negozi specializzati in articoli da bricolage. Dentro vi trovò un paletto di legno, di quelli usati per sorreggere il filo spinato nei recinti, e delle corde; c'era anche lo scontrino, portava la data di due giorni prima. Tutto in quella topaia era lercio e vetusto, tranne il paletto e le corde, che erano nuovi di zecca. Anche il materasso, poggiato su un letto di ferro battuto proprio sotto la lampadina nuda che pendeva dal soffitto, era nuovo, ancora incellofanato. Il commissario esaminò la spalliera del letto: dei segni simmetrici indicavano che lì c'era stata frizione. Scorse le medesime abrasioni nelle assi di ferro ai piedi del letto.

Il paletto di legno, in tutto simile a quello descritto nel referto della scientifica, quello con cui era stata sodomizzata Margherita durante lo stupro. Le corde e i segni sul letto, come se qualcuno ci fosse stato legato mani e piedi: Margherita, sempre secondo il referto, aveva delle abrasioni agli arti compatibili con l'ipotesi che fosse stata legata mentre le veniva usata violenza. I guanti in lattice, coerenti con i resti plastici ritrovati sul cadavere. Mignolino infine aveva precedenti per reati sessuali.

Il commissario Valente s'inabissava nel proprio ragionamento pur volendo resistergli. Avrebbe voluto nuotare nella direzione opposta, a lui andava benissimo che l'assassino di Margherita fosse quello stronzo di Begucci. Ma persino quando si desidera ferocemente qualcosa non si può andare contro la propria natura.

Mignolino aveva rapito Margherita quando era tornata alla macchina per prendere il cellulare, chissà da quanto tempo aspettava quell'occasione. L'aveva trascinata nella sua tana che distava poche centinaia di metri. L'aveva seviziata e uccisa, quindi si era liberato del cadavere nel fosso. Aveva fatto sparire, forse bruciato, il paletto, le corde, il materasso, i guanti, tutto ciò che poteva contenere le prove organiche del suo delitto. Ne aveva comprati di nuovi, magari era già pronto a usarli su una nuova vittima. Forse, a giudicare dai rimasugli di nastro di carta lungo il perimetro dello scantinato, aveva persino ricoperto il pavimento con del cellofan e poi si era disfatto anche di quello. La prigione appariva pulita, il commissario non era certo che la scientifica sarebbe stata in grado di trovare qualche elemento utile per le indagini.

Sempre che qualcuno avesse deciso d'indagare. Andrea non era riuscito a impedirsi di fare il poliziotto, di trovare il colpevole, ma nessuno gli imponeva di condividere le sue deduzioni con altri. A quale scopo poi? Mignolino era morto, in un certo senso aveva già pagato, e soprattutto non poteva più nuocere a nessuno. E Begucci, anche se non era un assassino, era comunque un laido, un bastardo, un essere tanto esecrabile da masturbarsi all'idea di fare sesso con una delle sue amanti sul luogo dove era stato rinvenuto il cadavere di sua moglie. Chiuso in galera non avrebbe potuto rovinare più nessuna famiglia, meritava di rimanerci. Quella era la cosa giusta da fare, lasciarlo marcire in cella. Solo Andrea conosceva tutta la verità, lui solo poteva accusare, giudicare, condannare. Forse con un'unica eccezione, l'ispettore Alfieri. Quanto sapeva di quella storia?

 

 

Andrea passeggiava per le vie del centro storico di Tivoli senza una meta. S'insinuava tra le decine di turisti in coda dietro un cartello come fosse uno spettro. Pensava a Maria, la madre di Begucci. S'immedesimava con l'immenso dolore che quell'anziana donna così orgogliosa e forte stava patendo, vacillava all'idea che sarebbe bastata una sua parola per liberarla dall'incubo. Poi la mente gli si riempì del pianto dei gemelli, e fu anche peggio. Se avesse tenuto per sé quanto aveva scoperto i bambini, che già si erano visti strappare così precocemente la mamma, sarebbero cresciuti senza alcuna figura paterna. Senza contare poi quanto avrebbe influenzato la loro crescita scoprire che il loro genitore fosse un uxoricida. Ciò che rimaneva della sua raffazzonata coscienza lo stava divorando vivo. A causa sua un innocente era recluso.

D'altro canto Begucci non era il tipo d'innocente che ci s'immagina, non s'era mai visto un innocente tanto colpevole. Un individuo del genere era un pericolo per la società e per la sua famiglia, anche se non aveva ucciso Margherita. Quanti altri matrimoni avrebbe rovinato se l'avesse lasciato a piede libero? I gemelli non sarebbero cresciuti meglio senza un modello così deprecabile al loro fianco? E chi poteva giurare che un soggetto di quella risma alla lunga non si sarebbe macchiato persino di un delitto di sangue?

Mentre metteva in piedi quell'improbabile arringa difensiva un sorriso amaro gli segnò il volto: stava rasentando il ridicolo.

Non doveva prendersi in giro: bisognava conservare la dignità necessaria a fare una scelta onesta, perlomeno con se stesso. Aveva ragione Alfieri, se non avesse trovato la foto di Alice nell'ufficio di Giulio ora lo starebbe ancora difendendo. Non solo avrebbe divulgato senza indugio quanto aveva scoperto, ma avrebbe rivendicato di aver intuito la verità sin dal primo momento: a uccidere Margherita era stata la mano di un maniaco, non quella del marito. Se alla fine avesse deciso di tacere quanto sapeva su Begucci lo avrebbe fatto solo per vendicarsi di lui.

A causa sua non aveva più una compagna, il quadro nel soggiorno aveva mutato significato, la sua vita era divenuta una valle desolata che andava percorrendo da solo.

A causa sua Lorenzo sarebbe cresciuto senza madre.

A causa sua era costretto a convivere con la suocera.

A causa sua aveva trascorso innumerevoli notti a fissare il soffitto, fino a perdere lucidità in missione.

A causa sua era scivolato e aveva esploso per sbaglio il colpo che lo aveva raggiunto alla testa.

A causa sua aveva ricevuto la visita di Jackson il serpente.

A causa sua aveva scoperto la paura, l'insicurezza, il vero dolore. Tutto per colpa dell'innocente Begucci.

«Sarebbe questo il tuo impegno improrogabile?».

Era davanti ai suoi occhi già da qualche secondo, intenta a fissarlo, ma Andrea ne percepì la presenza solo dopo averne udito la voce. Francesca Ralli attendeva una risposta.

 

 

Dal belvedere di Tivoli si poteva ammirare tutta la valle sottostante e sullo sfondo Roma. I commissari erano poggiati con i gomiti sul parapetto di metallo, uno di fianco all'altra.

«L'indagine ormai è agli sgoccioli e presto tornerò alla mobile».

«Questa volta cerchiamo di non far passare un anno per rivederci».

Andrea le rispose consapevole di quanto vacua fosse quell'affermazione.

«Certo, ma ci sono delle cose di cui preferirei parlarti adesso».

«Dimmi».

Francesca si vide in sella allo scooter, una discesa vuota davanti a sé. Sentì lungo la schiena la paura di cadere, di non farcela. Chiuse gli occhi e diede gas.

«In questi giorni ti ho visto comportarti in maniera strana, e mi sono resa conto che noi due non abbiamo mai parlato sul serio di ciò che ti è accaduto».

Andrea aveva indurito la mascella.

«Ho capito, Alfieri ti ha raccontato della foto di Alice nell'ufficio di Begucci. Sei venuta a rinfacciarmi che avevi ragione tu quando mi hai detto che stavo facendo una cazzata?».

«No, ma se quel giorno ho sbagliato a parlare oggi sbaglierei a stare zitta, perché ti voglio bene».

Francesca si era voltata verso di lui.

«Sbagli a colpevolizzarti per la fuga di Alice».

Andrea fece per interromperla, ma lei non glielo consentì, immaginando dove volesse andare a parare.

«E sbagli anche se credi di aver trovato in Begucci la risposta che cercavi».

Gli aveva cavato le parole di bocca.

«Credi davvero che Alice si possa essere innamorata di uno come lui? Riflettici: Alice poteva provare qualcosa per un simile soggetto, qualcosa così forte da allontanarla per sempre da te, da Lorenzo? E come sarebbe andata? Lei ha una storia con Begucci, se ne innamora perdutamente, ma poi lui la lascia per un'altra delle sue tante amanti spezzandole il cuore e quindi Alice, che intanto ha capito che non può più stare con te, vi abbandona?».

Era una domanda retorica, s'interruppe solo per un istante.

«La verità è che Alice non è stata all'altezza dello scontro con la vita vera. Non è stata in grado di cogliere la felicità là dove avrebbe dovuto. Ha continuato a rimpiangere quello che era, quello che eravate, non è riuscita a crescere ed è scappata, come una adolescente scappa da casa, perché è una ragazzina viziata, un'immatura, una vigliacca, ed è lei l'unica responsabile delle sue azioni, l'unica colpevole. Begucci è stato solo un tentativo d'evasione prima della fuga vera».

Francesca tirò su col naso.

«E se pensi che ti sto dicendo queste cose solo perché c'è stato un tempo in cui avrei voluto essere al suo posto vuol dire che oltre a non aver capito un cazzo di tua moglie non hai capito niente nemmeno di me».

Il commissario Ralli aveva detto l'ultima frase tutta d'un fiato, era in apnea. Staccò le braccia dal parapetto e si allontanò. Si sentiva leggera e triste al tempo stesso. Era orgogliosa di essersi liberata, di aver dimostrato a se stessa di esserne in grado. Eppure, anche se non avrebbe voluto, una parte di sé sperava che Andrea la chiamasse, che le chiedesse di tornare indietro, come nei film.

Valente aveva lo sguardo perso verso il profilo di Roma confuso dallo smog. Si passò una mano sulla cicatrice senza rendersene conto.

 

 

Andrea s'incamminò lungo i tornanti che conducevano ai piedi della città, incurante del pericolo rappresentato dalle auto che gli sfrecciavano di fianco; ognuna portava via con sé un ricordo, una storia.

Anche dopo la fuga, anche dopo aver trovato la foto nell'ufficio di Begucci, c'era stata una parte di lui che continuava a vedersi insieme ad Alice.

Cercava di rintracciare le parole giuste Andrea, quelle che non gli erano venute in soccorso durante la discussione con Francesca. Ma non ne trovò. Per quanto si sforzasse non riusciva a individuare un cavillo, una difesa, un'incongruenza nella lucida analisi inflittagli dalla sua amica. Lui quei comportamenti di Alice li aveva vissuti ma, da vero vigliacco, li aveva sempre sottovalutati; o peggio, aveva cercato di travisarne a suo favore il significato. Aveva preferito nascondere la testa per mesi tra i frammenti delle sue lettere, quando gli sarebbe bastato guardarsi dentro per trovare la risposta che cercava. Persino quando Alice aveva provato a sbattergli sul muso la realtà lui era riuscito a non affrontarla.

Tu e la tua egoistica rigidità, ti chiedi mai perché te la puoi permettere? Te lo dico io, te la puoi permettere sulla mia pelle. Tu te ne stai a posto con la tua merdosa coscienza da sbirro e a me chi ci pensa? Tanto per te non è cambiato niente.

E ora che il velo si era squarciato non riusciva a farsi una ragione di come fosse riuscito a ignorare tanta evidenza.

Marco e Francesca gli avevano dimostrato di conoscere meglio e più di lui ciò che lo riguardava da vicino. Alfieri aveva smascherato l'uso personale che aveva fatto della sua posizione di tutore dell'ordine. Francesca aveva smontato l'artificiosa tesi accusatoria secondo cui Begucci sarebbe stato l'unico colpevole della fuga di Alice.

Ormai non aveva più avversari, se non se stesso. La partita che stava giocando si era rivelata per ciò che era: un solitario, barare non avrebbe avuto senso.

Giunse su una via residenziale. Sui due lati si affacciavano villette a schiera di nuova costruzione. Controllò il civico, quella in cui abitava l'ispettore Alfieri era l'unica palazzina datata: le pareti color ocra al posto dei mattoncini di cortina, il tetto di cemento. La casa era circondata da un giardino adibito a orto: oltre il cancello s'intravedevano dei filari di vite, le canne oblique che sostenevano piante di pomodoro, un albero di fico. Andrea tornò indietro per non dare nell'occhio, raggiunse un bar poco distante. Scelse il tavolino più nascosto, da cui poteva osservare l'ingresso sperando di non essere visto. Ordinò una Corona.

Prima di decidere cosa fare di Begucci doveva capire se era lui l'unico custode della verità.

 

 

Doveva fare in fretta.

Almeno su questo Alfieri non aveva dubbi, per il resto era buio pesto. Più tempo trascorreva, più diminuivano le possibilità che riuscisse a intercettare Filippo Puglia prima che varcasse di nuovo il confine.

Scese dall'Audi e s'incamminò.

Di certo l'omicida aveva programmato anche il suo espatrio clandestino. L'unica speranza era che per troppa sicurezza tergiversasse, concedendogli una possibilità.

Superò il bar.

Doveva individuare una rosa di persone con le quali Filippo avrebbe potuto farsi vivo: amici, parenti, amanti. Se Puglia commetteva un errore lui avrebbe dovuto farsi trovare pronto.

Mise la chiave nella toppa.

La canna di una 38 gli premette contro la nuca: problema risolto.

 

 

Il commissario aveva visto quell'uomo calvo sbucare dal nulla e infilarsi nel portone subito dietro l'ispettore, teneva in mano qualcosa che non era riuscito a distinguere. Lasciò cinque euro sul tavolo e abbandonò il bar. Prese la prima strada a destra e girò intorno al fabbricato: il giardino aveva un ingresso di servizio sul retro.

 

 

Marco si era chiuso la porta alle spalle. L'uomo che aveva spento per sempre gli occhi verdi di Fabiana era di fronte a lui. L'ispettore aveva sognato a lungo quel momento, peccato che fosse Puglia quello dalla parte giusta della pistola.

«Hai ucciso tu Mignolino, vero?».

«È stato un incidente» gli rispose Filippo mentre lo disarmava con fare consumato.

«Come quello con cui hai ammazzato Fabiana?».

«Più o meno come la tua legittima difesa con Gabriele» aveva risposto finendo di perquisirlo e spingendolo verso il centro della sala.

«Hai ammazzato mia sorella per avere un posto di lavoro che hai lasciato dopo tre mesi, perché?».

Puglia si carezzò la pelata con la mano libera. Gli rispose con un tono sporcato da un dolore ancora vivo.

«Perché mia moglie aveva scoperto quello che voi sbirri non eravate riusciti a scoprire e non me l'ha perdonato, anche se tutto quello che avevo fatto l'avevo fatto per loro, per dargli una sicurezza economica, per avere un minimo di dignità. Se n'è andata e s'è portata via la principessa mia. A quel punto che senso aveva continuare a fare il pagliaccio lì dentro?».

«Meglio fare l'assassino a tempo pieno allora…».

Filippo alzò le spalle.

«Per quello che conta mi è dispiaciuto per tua sorella. È l'unica cosa di cui mi pento».

Marco aveva commesso un imperdonabile errore di valutazione, non era il primo, ma prometteva di essere l'ultimo. Si era lasciato guidare dall'ingiustificata illusione che fosse lui a braccare Filippo, era così concentrato sul come scovarlo che non lo aveva nemmeno sfiorato il sospetto che potesse essere lui la preda.

«Sei venuto ad ammazzarmi?» provò a prendere tempo, non aveva molte alternative. Cercava una salvezza che non riusciva a scorgere.

«Questa storia va chiusa, e anche se non hai una cazzo di prova non vorrei che ti saltasse il grillo di farmi fare la fine di Gabriele. Quindi meglio tu oggi…».

«Farai sembrare un incidente anche questo?».

«No, sei uno sbirro, chissà quanti ti vorrebbero morto. Niente ti lega a me, e quando ti ritroveranno io sarò già con le palle a cuocere in Africa».

«Getta l'arma».

Andrea era entrato dalla cucina, aveva ascoltato tutta la conversazione e aveva deciso che era giunto il momento d'intervenire. Impugnava la Beretta con entrambe le mani, teneva Filippo sotto tiro.

Marco alternava lo sguardo tra le due pistole spianate, forse la salvezza aveva trovato lui.

Filippo, colto di sorpresa, continuò a puntare l'arma contro Alfieri. Aveva preso le sue informazioni prima di agire, sapeva chi era quell'uomo, il commissario capo Valente, un passato nella squadra mobile, tiratore scelto: un gesto affrettato ed era fottuto.

Tre uomini, due pistole, molti colpi.

Stallo.

Andrea sentì salire l'angoscia.

Era terrorizzato dalla possibilità che accadesse, questo aumentava l'ansia, che a sua volta nutriva la paura che potesse succedere.

La canna della Beretta iniziò a tremare.

 

 

Filippo allargò le braccia e, molto lentamente, posò la pistola a terra. La lasciò. Quando rialzò gli occhi rimase sorpreso per la seconda volta: il braccio destro del commissario sembrava un tubo da cui sgorgava acqua ad alta pressione senza che nessuno lo tenesse, la Beretta andava di qua e di là.

Jackson il serpente aveva scelto il momento meno indicato per uscire dalla tana.

Marco aveva intuito ciò che stava avvenendo con una frazione di secondo d'anticipo, provò a sfruttarla per impadronirsi della pistola abbandonata da Filippo.

Puglia fu reattivo, lo colpì con un calcio al volto prima che l'ispettore riuscisse a raggiungerla, scaraventandolo al suolo.

Andrea era all'acme della crisi.

Filippo recuperò la 38.

Marco aveva la vista annebbiata per via del colpo subìto, intuì solo la figura del contractor puntare l'arma contro il commissario.

Andrea fissava Jackson negli occhi, guardava dritto in faccia il suo male, le sue paure. Si strappò la Beretta dalla mano destra e fece fuoco con la sinistra contro Filippo.

Puglia rimase sorpreso per l'ultima volta. Il proiettile lo raggiunse in piena fronte, vide l'immagine della sua principessa, poi più nulla. Marco si tirò su col busto, stava seduto a terra, dal grosso naso colava del sangue. La visuale era ancora appannata: la sagoma del corpo esanime di Filippo Puglia al suolo; più in alto la silhouette di Andrea rallentava i movimenti convulsi, fino a fermarsi. La mano che fino a poco prima era stata imbizzarrita ora si apriva verso di lui.

«Vuoi un consiglio da amico?».

Marco la afferrò, fece di sì col capo.

«La prossima volta fidati di me».

 

 

Andrea e Marco erano in piedi davanti al cadavere di Filippo, il silenzio che era sceso nella stanza pronunciava la domanda che li divideva. Cosa fare? Era evidente che spettasse al commissario la decisione: dove passava la linea che separava il bene dal male?

 

 

Il tonfo nel fiume Aniene echeggiò nella notte. Le acque ingoiarono il grosso fagotto nero. Per quanto ne sapeva il mondo quello di Filippo Puglia poteva essere uno dei tanti cadaveri senza nome sepolti in una fossa comune nei paesi dove vendeva i suoi servigi da assassino. I due poliziotti rimasero sul viadotto fino a che l'ultima bolla non scomparve. Malgrado l'oscurità Marco lesse sul volto di Andrea i dubbi che lo tormentavano.

«Hai fatto quello che pensavi fosse giusto» proseguì poggiando una mano sulla spalla del commissario.

«Il bene e il male sono solo i pregiudizi di Dio. È forse l'unica cosa decente che mi abbia insegnato mio padre».

Marco fece un cenno col capo ad Andrea, dovevano andarsene.

 

 

Andrea rincasò a notte inoltrata. Entrò in camera di Lorenzo e si fermò a osservarlo mentre dormiva. Si sentiva addosso lo sguardo di Iolanda, non se ne curò; si tolse le scarpe e si coricò di fianco a suo figlio, aveva bisogno di sentirlo vicino. In un solo giorno aveva commesso un'effrazione e un occultamento di cadavere, senza contare il resto. L'omicidio di Filippo era la cosa che lo turbava meno, era stata legittima difesa, non era la prima volta che toglieva una vita per salvare la propria. Forse un giorno avrebbe spiegato a Lorenzo ciò che aveva fatto, l'uomo che aveva scoperto di essere, una scelta dopo l'altra. Cosa avrebbe pensato di lui? Non c'è niente che un padre desideri di più che suscitare l'orgoglio di suo figlio. Lui non faceva eccezione.

Si alzò e rimise sul cuscino il serpente corallo a cui aveva usurpato il posto. Entrò in camera sua. Prima di provare a riposare mise la sveglia alle 7:00, doveva fare una telefonata importante.

 

 

Marco non aveva chiuso occhio. Lui che non aveva mai perduto una sola notte di sonno, nemmeno nei momenti più delicati della sua vita, a quarant'anni aveva scoperto cosa si provava a fissare il soffitto, incapace di spegnere i propri pensieri. Grazie al racconto di Andrea era riuscito a ricostruire i fatti. Il giorno in cui era andato da Mignolino per interrogarlo, nel portabagagli della Punto doveva esserci il corpo senza vita di Margherita. L'assassino stava per andarlo a depositare nel fosso, il suo arrivo gli aveva scombinato i piani. L'uomo era stato lesto a improvvisare la storia dell'auto rubata per non insospettirlo, e lui era caduto nel tranello. La soffiata sul nome dell'assassino di Fabiana aveva fatto il resto, distogliendo la sua attenzione dall'auto. Persino quando era andato sul luogo dell'incidente e i vigili l'avevano informato che l'auto era intestata a Consiglio Cristiano, quella stessa Punto bianca che stando alle parole di Mignolino doveva essere rubata, l'ispettore era riuscito a non cogliere quella palese incongruenza. Inetto.

«Zio, cosa hai fatto al naso?».

Era stato Valerio a chiederglielo. Seduto al tavolo della cucina faceva colazione con la consueta indolenza, non aveva nessuna voglia di andare a scuola.

«Te lo spiego dopo, ora sbrigati ché facciamo di nuovo tardi».

Si era fatto fottere come l'ultimo degli imbecilli. Se fosse dipeso da lui quell'animale di Mignolino avrebbe potuto continuare indisturbato a seviziare e uccidere donne innocenti. Se non fosse stato per l'intervento del commissario, Filippo Puglia l'avrebbe ammazzato e sarebbe fuggito di nuovo. Fabiana non sarebbe stata vendicata, Valerio avrebbe dovuto lottare col dolore di una nuova perdita. Era un incapace, un mentecatto, un presuntuoso. Per il solo fatto di aver smascherato Gabriele Gagliardi si era convinto di essere un grande investigatore, lui che aveva indossato per anni la divisa senza impegnarsi, senza imparare nulla. Si era illuso che bastasse essere il figlio di suo padre, come se quell'abilità gli dovesse scorrere nelle vene, un diritto di nascita, a parziale risarcimento. Aveva dimostrato una boria degna del suo vecchio, quella sì.

Dalla morte di Fabiana aveva sentito il bisogno di trovare un senso, qualcosa che in passato non aveva mai chiesto alla vita. Si era raccontato che avrebbe potuto trovarlo nel suo lavoro, in cui era così bravo. Conclusa l'indagine, tirate le somme, si ritrovava al punto di partenza: era un uomo senza talento e senza uno scopo.

«Zio, ma ti sei fatto male al naso per fare il bravo poliziotto?».

Marco non si sarebbe mai fatto una ragione dell'abilità di suo nipote nel radiografargli l'anima.

«No, mi sono fatto male proprio perché non sono un bravo poliziotto. Sbrigati che mi fai fare tardi al lavoro».

Valerio alzò lo sguardo dalla ciotola di latte, mostrò a Marco un'espressione complice.

«Anche tu non ci vorresti andare al lavoro, vero zio?».

Marco lo fissò, la morte di Fabiana aveva creato una simbiosi tra lui e suo nipote: per superare le loro inadeguatezze avevano bisogno l'uno dell'altro. Non aveva nulla da insegnare al bambino, ma forse avrebbero potuto imparare insieme. Forse era questo il senso, forse questo poteva dargli un senso.

Annuì, cercando di trattenere le lacrime. Se lo strinse al petto.

 

 

Francesca aspettava Andrea nello stesso punto in cui si erano visti l'ultima volta. Era stato lui a darle appuntamento lì, con quella strana telefonata che l'aveva buttata giù dal letto.

I giardini adiacenti al belvedere erano presi d'assalto da coppie di adolescenti sensibili al richiamo dell'estate incombente. Avevano preferito i baci sulle panchine alle ultime lezioni dietro i banchi di scuola. Il commissario Ralli li osservava con un pizzico d'invidia, la mano di Andrea la invitò a voltarsi.

Dopo i saluti di rito Valente andò subito al sodo.

«Sono inciampato in una pista in grado di riaprire il caso Begucci».

Francesca ci rimase male, il suo animo romantico non si aspettava di dover sostenere una conversazione di lavoro.

«Avevo deciso di lasciare stare, di guardare dall'altra parte. Poi ho parlato con te e mi hai costretto ad affrontare la realtà».

Francesca si disinteressò del panorama oltre il parapetto.

«Per me era più facile credere che Alice avesse commesso un errore, piuttosto che accettare che fosse la donna sbagliata. Io l'ho amata, è la madre di mio figlio, capisci quanto è difficile accettare che sia finita per sempre? Non poter conservare neppure la speranza?».

Francesca annuì.

«Prima di raccontarti il resto della storia volevo ringraziarti per esserti comportata da amica, anche se non ti ho reso la vita facile. Mi hai impedito di fare una stronzata di cui mi sarei pentito».

Andrea l'abbracciò senza preavviso. Francesca si fece accogliere da quel corpo e da quell'odore che non era mai riuscita a dimenticare. Avrebbe voluto intrappolare quell'istante.

«La cosa assurda è che devo ringraziare anche quel bastardo di Begucci».

Lei si staccò e lo osservò perplessa.

«Begucci?».

«Se non fosse stato un individuo tanto squallido da rendere inverosimile la possibilità che Alice si fosse innamorata di lui… Be', forse non ce l'avresti fatta nemmeno tu a convincermi».

Francesca era felice, non c'era più cattiveria né tristezza sul volto dell'uomo che amava. Da quanto tempo non lo vedeva così sereno? Le sembrò ancora più bello.

Il commissario proseguì raccontandole di come, a seguito di un incidente d'auto, lui e l'ispettore Alfieri fossero arrivati a perquisire, in modo del tutto casuale, l'abitazione di Mignolino. Entrò nei dettagli di ciò che avevano trovato sotto la botola degli orrori. In parte aveva omesso, su altro era stato elusivo. Voleva evitare di riferirle la storia di Marco: le sue negligenze, l'omicidio di Gabriele Gagliardi, la morte di Filippo Puglia, in fondo quello non era affar suo, sarebbe stato ingiusto coinvolgerla anche in quella vicenda dai contorni acuminati. Voleva proteggerla.

«Ma se lo scantinato è così pulito come dici dove troveremo le prove per scagionare Begucci? Non credo che basteranno un paletto di legno e delle corde nuove per far tornare la Pavesi sui suoi passi».

«Lo so, vieni con me, speriamo di essere ancora in tempo».

 

 

La pressa comprimeva le lamiere, il lamento che emetteva sembrava raccontare che quelle auto avessero un'anima. All'uscita dal macchinario i cubi venivano allineati l'uno di fianco all'altro.

I denti della gru afferrarono un altro tetto, la Punto bianca venne calata tra le fauci della pressa.

«Fermi, commissario capo Valente, rimettete giù quell'auto».

 

 

Le analisi della polizia scientifica confermarono che le macchie di sangue sulla tappezzeria del portabagagli dell'auto di Consiglio Cristiano appartenevano alla defunta Margherita Lazzerini. Indiscrezioni che filtrarono dall'ufficio del medico legale raccontarono quanto fosse limitata la dotazione sessuale dell'omicida. Questo dettaglio, tra il macabro e il pruriginoso, fu un ghiotto boccone per i media. Non potendo più accanirsi su un mostro già deceduto ancor prima di essere scoperto spostarono l'attenzione, per una volta, sul perché.

Mignolino: ecco spiegato quel curioso nomignolo che gli era stato affibbiato nell'ambiente malavitoso, da cui traeva origine la sua misoginia, quella violenza esercitata con l'ausilio di mezzi esterni, vista l'inadeguatezza dei propri. Consiglio Cristiano, in arte Mignolino, era insieme simbolo e metafora degli uomini che odiavano le donne, non essendo in grado di amarle. In questo risiedeva la loro natura miserabile.

 

 

Il gip ordinò l'immediata scarcerazione di Giulio Begucci e lo prosciolse da tutte le accuse a suo carico. Giulio tornò a Mandela, alla sua villa in collina, alla sua Mercedes. Trovò una mandria di giornalisti ad aspettarlo. Riabbracciò i gemelli, mentre sua madre, rinvigorita nel corpo e nello spirito, tentava di tenere lontana la selva di microfoni.

«L'avevo detto io che ero la vittima. Ora chi mi ridarà la mia Margherita?».

Quel pomeriggio Begucci passò anche alla Lambada, aveva una questione urgente da dirimere.

«Sei licenziato».

Il cuoco bengalese volò fuori dalla porta. Lo raggiunsero nell'ordine: il calzolaio, l'arrotino, l'ombrellaio, lo scorcio della cascata col tempio della Sibilla e, di taglio sulla nuca, Villa d'Este. I quadri raffiguranti vecchie vedute della città e antichi mestieri che Begucci aveva munificamente deciso di donargli a titolo di liquidazione.

 

 

Il sole filtrava a fatica nel sottobosco della pineta, i piccoli piedi di Lorenzo calpestavano con circospezione le foglie secche. I passi di Andrea erano meno felpati, urtò contro una pigna. Lorenzo gli fece segno di non fare rumore: non voleva mica fargli scappare la lucertola!

Andrea rideva con suo figlio, senza pensare a Jackson, senza pensare ad Alice, per la prima volta erano solo loro due e non era un male, gli piaceva, ora si sentiva forte a sufficienza perché si bastassero. Alla fine nella vita la cosa più difficile era accettare se stessi, a partire dalle proprie debolezze. Lui in fondo non aveva risolto nessuno dei suoi problemi, Jackson era sempre in agguato, pronto a fargli perdere il lavoro, e Alice non era tornata, avrebbe cresciuto Lorenzo da solo, anzi peggio, con sua suocera! Avrebbe affrontato tutto questo senza più voltarsi indietro.

 

 

Iolanda spiò suo genero che bruciava i ritagli delle lettere nel barbecue del terrazzino, vide mesi di sofferenza andare in fumo, confondersi nel nero della notte; Andrea fece finta di non accorgersi della sua presenza. Anche Iolanda diede il proprio contributo al gioco delle parti, aspettò di rientrare in camera per lasciarsi andare a un sorriso soddisfatto.

 

 

L'indagine era finita. Il commissario Francesca Ralli diede uno sguardo di commiato allo squallore che circondava il posto di polizia di Villalba. Non avrebbe sentito la mancanza della puzza di uova marce, dello sbuffare dei camion schiacciati dal peso del travertino, della polvere bianca che per giorni le si era infilata dappertutto. Tra coloro che erano accorsi a salutarla c'era un'inattesa defezione: il pm Pavesi le mandava i suoi cordiali saluti, ma impegni improrogabili la costringevano in procura. Era evidente che la piega presa dall'inchiesta non era stata quella che aveva sperato, e che ritenesse Francesca una delle responsabili della brutta figura in cui era incorsa. Il commissario se ne fece una ragione, ebbe un sorriso e una stretta di mano per tutti. Ad Alfieri concesse due baci sulle guance.

«Mi raccomando, lavora sull'interazione, va bene che a noi donne piace essere ascoltate, ma tu esageri».

L'ispettore costrinse le mani nelle tasche, le liberò solo per unirsi al rituale del saluto collettivo che aveva richiamato fuori dalla guardiola persino De Angelis. La Ralli gli passò davanti sull'auto guidata da Andrea.

Malgrado Valente sapesse di poter contare sul suo silenzio alla fine aveva deciso di fare il proprio dovere. Marco aveva rimuginato parecchio sul fatto che se fosse dipeso da lui Begucci sarebbe marcito in carcere anche da innocente. Ma non era questo a farlo sentire a disagio mentre li vedeva allontanarsi. Avrebbe voluto non aver fatto sesso con Francesca. Ora che aveva trovato qualcuno che somigliava a un amico non sopportava l'idea che ci fosse già un segreto pronto a dividerli.

 

 

L'auto s'immise su via Tiburtina. Andrea si era offerto di accompagnarla alla sede della mobile di Roma, ne avrebbe approfittato per rivedere i vecchi colleghi. Glielo chiese come fosse la cosa più naturale del mondo.

«Se non hai già altri impegni stasera potremmo approfittarne per cenare insieme».

Francesca sgranò gli occhi. Le sembrava impossibile che per una volta desiderassero tutti e due la stessa cosa, nello stesso momento.

 

 

Era scesa la notte, Mandela era stata avvolta dalla quiete. I gemelli dormivano, Maria e suo marito stavano seduti sul divano a guardare la tv. Giulio era salito in camera sua, aveva acceso il computer portatile. Per prima cosa si era reiscritto al forum hard, dove era stato accolto alla stregua di una star. Poi aveva ricreato il suo profilo Facebook, stava richiedendo l'amicizia a tutte le sue amanti. Emma fu la più lesta a rispondergli. La conversazione si spostò presto al telefono.

«Mi sei mancata».

«Anche tu a me, non ho mai creduto che fossi un assassino».

«Hai ancora voglia di scopare nel fosso?».

«Be', se te la senti».

«Io le promesse le mantengo sempre. Potrei anche darti qualche vestito di Margherita…».

Begucci iniziò a masturbarsi. Sorrideva.

 

Luca Poldelmengo - I pregiudizi di Dio
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