Parte seconda
IL CONFINE
Dove c'è un confine esiste un al di qua e un al di là.
Tutti i giorni demarchi i tuoi confini, e tutti i giorni puoi decidere di superarli o di difenderli, perché un confine può essere anche attaccato.
Esistono confini che attraversi infinite volte senza che succeda nulla. Altri invece sono soglie che una volta varcate ti cambiano per sempre.
C'è chi oltre il confine c'è stato scaraventato, giù per un dirupo da cui fatica a risalire. È solo, impaurito e braccato da un serpente.
C'è chi ha scelto di superarlo, il confine, premendo il grilletto in una notte piovosa per vendicarsi, conscio che non sarebbe ritornato indietro, mai.
C'è un cadavere di donna che sta lì a dimostrare che il confine tra la vita e la morte è stato attraversato. Ed ecco che dalla morte si crea un confine nuovo: quello tra la verità e l'impunità, e c'è già qualcuno che ci si nasconde dietro.
Per cancellare la linea che occulta il volto dell'assassino qualcuno dovrà sporcarsi le mani, l'anima, il cuore. Solo così è possibile ridisegnare certi confini, a cominciare dai propri.
Il sole di quella mattina di maggio doveva ancora raggiungere il fondo della valle. La brina ricopriva l'erba, inumidiva i rami secchi, bagnava la carne.
Il cadavere era prono, disteso in un fosso, coperto da frasche.
«Lo ha ritrovato uno scout, dice di non aver toccato nulla. Il ragazzo è ancora sotto shock».
«È stato avvertito il pm?».
«Sta arrivando».
Andrea scese ancora di due passi. Arrivò di fianco a uno degli agenti in tuta bianca che stava liberando il corpo dai rami.
Da lì poteva osservare con più chiarezza la figura femminile: la gonna di jeans sollevata, gli slip celesti abbassati alle caviglie, gli evidenti segni di escoriazione profonda intorno all'ano. Lungo il collo c'erano larghe ecchimosi, una guancia era poggiata sull'erba. Il viso violaceo era comunque riconoscibile.
«Margherita Lazzerini» disse Alfieri dietro le sue spalle.
Marco era scosso, non aveva confidenza con la morte. L'unica altra volta che aveva veduto il cadavere di una donna era stato quello di sua sorella.
Fabiana era distesa sul ruvido asfalto anziché sull'erba, e non portava addosso i segni di una violenza così efferata. Ricordava ancora il momento in cui aveva dovuto sollevare quel lenzuolo bianco, il dolore lancinante che l'aveva trafitto, il rumore dei flash, il brusio tutt'intorno, le tute bianche, come in quel momento.
«Con ogni probabilità il decesso è avvenuto per asfissia dovuta a strangolamento, da non più di quarantotto, massimo settantadue ore. Dopo l'autopsia sarò più preciso».
Era la voce del dottor Bruio, medico legale. Il commissario lo ringraziò con un gesto sbrigativo, conosceva a menadito la liturgia di un assassinio. Andrea Valente, un decennio in forza alla squadra mobile, sezione omicidi, anche se avesse voluto non sarebbe stato in grado di ricordare quante volte aveva dovuto assistere a scene come quella. Ma questa volta era diverso, il diaframma che separava l'uomo dal poliziotto era venuto meno.
Andrea aveva lasciato due passi indietro il commissario capo Valente, era uscito allo scoperto ed era stato investito dall'angoscia. Quella che vedeva distesa dinanzi a sé non era la vittima di un delitto, era Margherita. Una donna verso cui provava una pietà intima e straziante.
Andrea non poté fare a meno di pensare a Giulio Begucci, ai suoi bambini, alla madre che lo avrebbe aiutato, al dolore che non lo avrebbe abbandonato, alle domande dei suoi figli a cui un giorno avrebbe dovuto rispondere, pugnalate rispetto alle quali sarebbe stato solo e disarmato. Chissà quale bugia avrebbe inventato Giulio. Di certo una storia che i gemelli avrebbero potuto ripetere agli amichetti, sotto lo sguardo imbarazzato dei genitori, impacciati e compassionevoli.
Poi sarebbe venuto il giorno della verità, Andrea sapeva che lo attendeva la medesima sorte. Il momento in cui avrebbe dovuto svelare a Lorenzo che sua madre non si era allontanata per lavoro: li aveva abbandonati. Sperava che quel giorno avrebbe saputo spiegare a suo figlio anche il perché.
Quella che guidava il commissario era una logica booleana, colpevole o innocente. Di fronte a una stortura, a un evento negativo, c'era sempre un artefice, qualcuno da accusare. Non era mai colpa del caso, le cose non accadevano per natura o destino. Andrea Valente seguiva questa logica da prima di vestire una divisa, ed era forse il principale motivo della sua presenza nelle forze di polizia: era insito nella sua natura cercare un colpevole. La scomparsa di Alice non faceva eccezione. Se fosse stato quello il giorno in cui raccontare la verità a Lorenzo non avrebbe saputo cosa dirgli, se non “È colpa mia”, certo di non mentire. Ma anche se fosse stata quella la risposta giusta, eventualità che più di ogni altra lo debilitava, mancava comunque un perché.
Ora però c'era un lavoro da fare, un nuovo colpevole da scovare. Andrea ci avrebbe messo tutto se stesso. Perché Giulio Begucci potesse raccontare un domani ai gemelli tutta la verità, a cominciare dal nome dell'assassino.
Il pubblico ministero, la dottoressa Pavesi, scese dall'auto e raggiunse il luogo del ritrovamento. Ispezionò con sbrigativo distacco il cadavere, poi prese in disparte il commissario.
Andrea aveva già incrociato la Pavesi in procura. Dietro i modi composti e l'austerità dei tailleur scuri gli era parso di cogliere una sincera umanità. La ritrovò tutta dentro quel brivido di freddo che, ne era certo, il pm simulò per sfogare lo sdegno.
Convennero che la cosa migliore fosse chiedere l'aiuto della squadra mobile di Roma.
«Del resto sono stati suoi colleghi fino a poco tempo fa, non le sto togliendo l'indagine, le sto solo chiedendo di collaborare».
«Dottoressa, le assicuro che per me non è un problema».
Sapevano bene entrambi che non appena si fosse diffusa la notizia dell'omicidio l'occhio ciclopico dei media si sarebbe acceso su di loro, senza lasciare respiro.
«Dei giornalisti mi occuperò io commissario, stia pur certo che di questo non dovrà farsi carico».
Andrea intercettò nel tono della Pavesi un compiacimento che non si sarebbe aspettato di trovare.
Francesca era seduta. Teneva il busto dritto e si tormentava le mani.
«Ormai questi episodi stanno diventando sempre più frequenti».
Il dottor Lamberti osservò le dita di Francesca, erano l'unica parte del corpo che dimostrasse più dei suoi trentotto anni.
«Vuole raccontarmi l'ultimo?».
«Mi è capitato la settimana scorsa, ero in scooter, sul raccordo. Io sul mio Burgman praticamente ci vivo, odio prendere la macchina. Eppure quella mattina, appena è iniziato un tratto in discesa, di colpo ho avuto paura».
«Vuole descrivermi questa paura?».
«Quando ho visto la strada scendere sono stata assalita dal terrore di non riuscire a fermarmi, di perdere il controllo. Ero paralizzata dalla paura di cadere, come se il motorino dovesse scivolarmi da sotto il culo da un momento all'altro. Ho rallentato e ho dovuto accostare sulla corsia d'emergenza».
«Le era già successo?».
«Non così forte».
Lamberti prese un appunto.
«Come riposa la notte?».
«A volte ho difficoltà ad addormentarmi, altre mi sveglio alle tre del mattino ed è come se si fosse acceso un interruttore, non riesco più a prendere sonno».
«Con che frequenza?».
«Due o tre volte alla settimana».
Lamberti diede una rapida scorsa al blocchetto su cui aveva annotato quanto ascoltato negli ultimi cinquanta minuti, poi lo poggiò sulla scrivania.
«Francesca, le dirò quello che penso, così avrà gli elementi per decidere se intende intraprendere questo percorso di analisi insieme a me».
Francesca alzò lo sguardo, Lamberti poté ammirarne il profilo egizio dentro al quale i piccoli occhi scuri sembravano non riuscire ad aprirsi del tutto.
«Le ricapitolo il suo stile di vita degli ultimi anni, per come me lo ha descritto lei: è un commissario della squadra mobile di Roma, sezione omicidi. Il suo è un lavoro piuttosto usurante. E sono altrettanto convinto che lei lo faccia bene, cosa che la gratifica e non le fa sentire la fatica. Quindi le rimangono sufficienti energie per prendere una seconda laurea con una media da lode e bacio accademico».
Francesca provò a intervenire, ma Lamberti la bloccò con un cenno.
«Sì lo so, questo non me lo ha detto, ho divinato. Sono fuori strada?».
«No». A Francesca scappò un sorriso.
«Poi non solo pratica la kickboxing a livello quasi agonistico, ma le piacerebbe persino insegnarla».
Francesca passò a tormentarsi i capelli. Infilò un dito nei ricci alla base del collo e ce lo annodò come fosse un bigodino.
«Poi» Lamberti riprese i suoi appunti, «ha iniziato a seguire anche un corso d'inglese avanzato».
«Ok, credo di aver capito il senso» lo interruppe.
Lamberti posò il blocco.
«Francesca, lei sta per esplodere. La gratificazione che prova per ciò che fa, per come lo fa, alimenta il suo ego, e le fa chiedere a se stessa più di quanto dovrebbe. Episodi come quelli che mi ha raccontato oggi sono segnali d'allarme che le sta mandando il suo corpo. E se non sarà brava a coglierli arriverà di peggio».
«Attacchi di panico» azzardò Francesca.
«E non solo. Il suo organismo deve difendersi e ci riuscirà, che le piaccia o no. Lei rischia la depressione o, come lo chiamavano una volta, l'esaurimento nervoso».
Lamberti fece una pausa.
«Immagini se stessa come un palloncino». Lo psicoterapeuta accennò a una forma sferica con le mani. «Più lei fa cose, più queste le riescono bene, più si riempie d'aria». Le mani si allontanarono alludendo a un aumento di volume. «Ma nessun palloncino può gonfiarsi all'infinito, e quello che le sta accadendo in questo periodo può immaginarlo come il sibilo della gomma che si dilata facendosi sempre più sottile».
CLAP!
Lamberti aveva chiuso di colpo le mani.
Francesca ebbe un sussulto.
«È più o meno quello che accade quando scoppia il palloncino».
Lamberti proseguì. Ora il suo eloquio si era fatto meno severo.
«Ma il suo corpo questo non vuole permetterlo, perciò la costringerà a fermarsi, e se non basteranno i segnali che le sta inviando ci andrà giù pesante, le toglierà ogni forza». Il dottore accostò le mani una sull'altra, delicatamente. «Un palloncino sgonfio è pur sempre un palloncino sano».
Francesca era sedotta dalle parole di quell'affabulatore dal volto spigoloso.
«Lei è stata brava».
Il commissario inclinò il capo da un lato, assunse un'espressione interrogativa, socchiudendo ancor di più gli occhi.
«La mia esperienza mi dice che spesso individui nelle sue condizioni arrivano da me solo dopo che il panico li ha vinti, quando sono già costretti a farsi aiutare dai farmaci, ed è stato proprio lo psichiatra che glieli ha prescritti a inviarmeli. Forse è per via degli studi che ha fatto, che fanno di lei praticamente una collega, ad ogni modo è stata abile a cogliere certi segnali che la maggior parte delle persone tendono a minimizzare o a far finta di non vedere».
Lamberti si fece indietro col busto fino a toccare lo schienale della poltrona e allargò le braccia.
«Si è regalata la possibilità di scegliere».
Francesca si era lasciata cullare dalla musicalità di quella voce, avvertiva una sensazione di piacere alla base del collo.
«Se per lei va bene, dottore, io vorrei che mi seguisse».
«Non deve decidere ora».
«So quello che dico». Francesca era scattata. Aveva raddrizzato busto e testa riprendendo una posizione eretta, pronta all'attacco.
Lamberti assentì e buttò un occhio alla sua agenda.
«Dovremmo sforzarci di capire per quale motivo a lei piace così poco stare ferma».
Alzò lo sguardo verso Francesca, notò un baratro spalancato dietro gli occhi socchiusi. Capì di aver toccato un nervo scoperto, ma l'ora era terminata.
Francesca aveva provato dolore. Quella voce calda aveva superato il confine della piacevolezza ed era divenuta bollente.
«In questa prima fase se è d'accordo opterei per una frequenza bisettimanale. Per lei va bene il mercoledì e il venerdì a questo stesso orario?».
Lamberti strinse la mano a Francesca e la salutò. Fece uno strappo alla propria deontologia e aspettò che gli desse le spalle per valutarne il fondoschiena. Anche stavolta il suo fiuto non l'aveva ingannato, Francesca Ralli aveva un gran culo.
Il commissario Ralli riaccese il cellulare quando ancora era in ascensore. Il tempo di scendere in strada e tre messaggi l'avvisarono di altrettante chiamate dal suo dirigente.
Si diede cinque minuti per decomprimere l'impatto emotivo che aveva avuto su di lei la seduta. Si accomodò su una panchina.
Fece un respiro.
Chiamò il suo capo.
«Era ora Francesca, altri cinque minuti e avrei passato il caso a qualcun altro».
«Se mi risparmi una volta ogni tanto non mi offendo».
«Allora vuoi che mandi Artibani al commissariato di Tivoli?».
Francesca sgranò gli occhi.
«Tivoli?».
«Hanno appena chiamato dalla procura di Tivoli per un supporto in un caso di omicidio. Che fai allora, vai tu ad aiutare Valente o mando Artibani?».
Il commissario Ralli aveva raggiunto il luogo del ritrovamento. Superò il blocco che gli impose un agente mostrando il tesserino.
Fece attenzione a non calpestare i reperti, ciascuno contrassegnato da una lettera: A) una borsa di pelle, B) una scarpa nera modello ballerina, C) un orecchino a forma di pendente. L'alfabeto di Pollicino – così Francesca aveva ribattezzato la fila di lettere lasciate dai colleghi della scientifica sulla scena del delitto – anche questa volta l'aveva condotta a un cadavere.
Andrea ne avvertì il profumo e capì che era arrivata prima ancora di vederla. Lo avevano avvisato che avrebbero mandato lei, era stata l'unica bella notizia di quella giornata funesta.
Lui e Francesca si erano conosciuti all'inizio delle loro carriere. Entrambi romani, avevano visto incrociarsi i loro destini a Firenze. Poi avevano chiesto e ottenuto il trasferimento alla squadra mobile di Roma. I loro percorsi professionali avevano viaggiato in parallelo fino a quando il colpo di pistola che aveva ferito Andrea non li aveva separati.
«Ciao Francesca» la salutò. «Non dirmi che sei venuta in scooter fin qui».
Francesca s'irrigidì.
«No, sono in macchina». Poi si rivolse al pm. «Commissario Francesca Ralli, squadra mobile di Roma».
«L'aspettavamo, benvenuta».
Le due donne si strinsero la mano.
Il commissario presentò a Francesca l'ispettore Alfieri. I due la misero a conoscenza di quanto già sapevano sul delitto.
«Avete avvertito i familiari?».
«Ancora no, contavamo di farlo adesso». Valente era devastato dall'idea di dover dare la ferale notizia a Begucci. In nessun caso avrebbe permesso che se ne occupasse l'ispettore Alfieri, aveva dimostrato di avere la sensibilità di un varano, non era così vigliacco da far scontare alla famiglia di Margherita la sua debolezza.
«Potrei andarci io, sarebbe una buona occasione per conoscerlo».
Andrea incrociò lo sguardo di Francesca, era ancora capace di leggergli dentro?
«Sarebbe più giusto che andassi io, già mi conosce» rispose sperando di essere contraddetto.
«Potrebbe non essere un bene, e questo lo sai».
«Be', la psicologa sei tu, se ci tieni».
«Ci tengo».
A Marco bastò assistere a quel breve scambio di battute per capire che quei due si conoscevano bene. Colse qualcosa che gli sembrò andare persino oltre: complicità? Amicizia? Di più? Non avrebbe saputo dirlo, ma quell'alternarsi di formalità e confidenza lasciava spazio a molteplici interpretazioni.
Il commissario Ralli aveva preferito parcheggiare fuori dalle mura. Prendeva l'auto di rado e non se l'era sentita di avventurarsi per le strette vie del piccolo borgo. Era salita in paese a piedi. Una volta in cima si era fermata ad ammirare il panorama. Il silenzio era infranto solo dall'eco delle automobili che percorrevano l'autostrada. Per il resto c'erano colline tutt'intorno, coperte da piante di ulivo. Su quella proprio di fronte a lei, a metà costone, le punte verdi dei cipressi ornavano il bianco latte del cimitero. Francesca immaginò che Margherita Lazzerini sarebbe stata seppellita lì. Le sembrò un buon posto per riposare in pace.
S'inerpicò ancora sulle ripide strade ciottolate. Seguiva la stella polare che le aveva indicato Andrea per individuare la casa di Begucci: è proprio sotto il campanile.
Gli sguardi delle poche anime che incrociò la fecero sentire ciò che era, un corpo estraneo, una forestiera.
Le aveva aperto la mamma di Giulio, la signora Maria.
«Mio figlio è in bagno, scende subito, le posso offrire qualcosa, un caffè?».
«No grazie, sto bene così».
«Dove sono i bambini?» chiese Francesca.
«Dormono al piano di sopra, Giulio ha messo quello per sentirli».
La donna indicò un ricevitore con la luce rossa accesa. Francesca capì di avere a disposizione abbastanza tempo. Decise di cogliere l'occasione e iniziare da Maria, le sembrava una donna equilibrata. Le sarebbe stata d'aiuto quando avrebbe dato la notizia a suo figlio: Andrea gli aveva descritto Begucci come un soggetto molto emotivo.
«Forse prima che scenda suo figlio è il caso che le dica una cosa».
«Queste le faccio io».
Maria le aveva poggiato davanti un vassoio con dei grossi biscotti rotondi dalla vaga forma a cupola. Avevano un colore dorato e un odore invitante.
«Grazie ma preferirei prima dirle il motivo per cui sono qui».
«Si chiamano tisichelle, le assaggi, sono il dolce tipico del paese».
«Mi ascolti».
«Le uova sono delle nostre galline sa?».
Francesca incrociò lo sguardo di Maria e le fu tutto chiaro. La donna aveva già capito, solo non voleva sentirselo dire, desiderava procrastinare l'inevitabile, fosse anche solo di un altro minuto. Perché avrebbe dovuto negarle questa cortesia?
L'odore dei dolci era irresistibile. Ne prese uno. Diede un morso, aprendo un sorriso sul volto di Maria.
Francesca assaporava il morbido sciogliersi della glassa, il retrogusto di anice.
«Sono buonissime».
«Grazie».
La porta si aprì, dalle scale scese Giulio.
«Ah, un'altra giornalista, ce l'hanno fatta a mandarne una carina finalmente».
Begucci si sedette di fianco a Francesca.
«A un angelo come te do l'esclusiva».
Andrea ebbe l'occasione di restare da solo con Alfieri. Da quando l'ispettore aveva assistito alla sua crisi epilettica i due erano stati travolti dagli eventi e il commissario non aveva avuto modo di affrontare l'argomento.
Il pericolo era incombente. Certo, sarebbe stata la parola dell'ispettore contro la sua, e tutti al posto di polizia avevano notato come tra loro non corresse buon sangue. A ogni modo Alfieri avrebbe potuto metterlo in difficoltà. Tanto valeva sapere subito che intenzioni avesse, c'erano già troppe questioni in sospeso nella sua vita. Approfittò del viaggio di ritorno a Villalba per intraprendere il discorso.
«Riguardo a ciò che è accaduto stamattina nel mio ufficio…».
«Stai tranquillo commissario, sarò tante cose ma non sono una spia».
Cosa voleva dire? Che ora si aspettava un trattamento di favore? Che pensava di poter fare i cazzi suoi perché lo teneva per le palle?
«Devo farti solo una domanda».
Ecco che arrivava al punto.
«Quella cosa che ho visto può metterci in pericolo?».
Era davvero tutto lì?
«No, è una forma di epilessia minore, non perdo mai conoscenza e poi la sto curando, probabilmente non accadrà più».
«Bene». Marco riportò lo sguardo sulla strada davanti a sé.
«Vorrei che fosse chiaro che questo non mi farà cambiare atteggiamento nei tuoi confronti».
Alfieri assentì senza neppure voltarsi.
Andrea non riusciva a far cadere così l'argomento. Ora che aveva messo le cose in chiaro riteneva fosse giusto far sapere all'ispettore qualcosa di più. E lui doveva fare la cosa giusta, sempre. Gli raccontò del conflitto a fuoco in missione e di quel colpo alla testa che gli aveva regalato Jackson. Usò la versione ufficiale, un po' perché si vergognava di come fossero realmente andate le cose, un po' perché non sapeva fino a che punto potesse fidarsi di quell'uomo. Aggiunse che proprio quella circostanza gli aveva fatto scegliere di abbandonare la squadra mobile: per stare più vicino a suo figlio e per il serpente, come lo chiamava lui.
Marco aveva ascoltato in silenzio.
Era rimasto colpito da come, per certi versi, lui e il commissario vivessero situazioni simili. Decise di dire qualcosa, non perché fosse giusto, solo perché ne aveva voglia.
Raccontò ad Andrea della morte di sua sorella Fabiana, pur immaginando che lo sapesse già, e dell'impegno verso suo nipote Vaerio. Evitò di mettere quella notizia in relazione con il suo ritardo del primo giorno, che li aveva fatti partire con il piede sbagliato. Non si stava giustificando. Aggiunse che la sua presenza a Tivoli era dovuta al trasferimento del padre di Valerio al liceo cittadino.
«Per questo ho scelto questo buco di culo di commissariato».
Si guardarono e ci risero sopra insieme: perché chiamavano quel posto allo stesso modo e non lo sapevano, perché avevano responsabilità simili verso un bambino e non lo sapevano, perché la vita era strana, ma forse questo lo sapevano già; di certo adesso sapevano di detestarsi un po' meno.
Quando Francesca lo aveva messo al corrente della morte feroce toccata in sorte a sua moglie Giulio Begucci non aveva espresso rabbia o desiderio di vendetta, né palesato un profondo dolore. Non aveva urlato, né imprecato, né pianto. Aveva iniziato a emettere solo un sottile guaito, sommesso e costante, come la lagna sfiancante di un bimbo a cui era stato tolto il giocattolo.
Lo stesso copione che ripeté, immutabile, quando venne accompagnato in obitorio per il riconoscimento.
Nell'assistere a quella sceneggiata Marco dovette sforzarsi di reprimere il proprio disprezzo.
Andrea dal canto suo interpretò la reazione di Begucci come una difesa. Sembrava che la morte della moglie lo avesse fatto regredire alla prima infanzia. Del resto un bambino non può comprendere la morte, e Begucci non voleva capire ciò che non era in grado di affrontare. Non poteva sostenere quella realtà: che esistesse una bestia in grado di fare quello scempio del corpo di Margherita, che lei non ci sarebbe stata più, che lui sarebbe rimasto solo a crescere i gemelli. Per ribellarsi a tutto ciò con l'odio Begucci avrebbe dovuto possedere una tempra che Andrea non gli riconosceva.
Il commissario Ralli aveva soffocato l'irritazione per il modo poco ortodosso con cui Begucci l'aveva accolta quando era andata a informarlo della morte di Margherita.
Aveva limitato a delle composte condoglianze l'umana pietà che in condizioni diverse avrebbe riservato a un uomo che si era visto sottrarre in maniera così truce la compagna di una vita.
Non lo aveva giudicato neppure per il singolare modo con cui esprimeva il proprio dolore, non era compito suo. E poi esisteva qualcosa di più personale del dolore?
Il distacco era una regola fondamentale, e lei la osservava con ossequio, assecondando la propria propensione all'eccellenza.
Malgrado il continuo piagnisteo, che rendeva l'eloquio di Giulio ancora più fumoso, era riuscita a carpirgli le informazioni che le occorrevano. Ora anche lei aveva un quadro esaustivo della vicenda, al pari dei suoi colleghi. La prima della classe non era più un passo indietro.
Congedato Begucci i tre fecero ritorno a Villalba.
Andrea aveva disposto sulla scrivania i primi riscontri e le foto scattate dalla polizia scientifica.
L'orrore, scomposto in tasselli fatti di istantanee e di frasi ingessate dalla sintassi procedurale, restituiva un mosaico dal quale poter evincere la nuda dinamica criminale. Nonostante i referti medicolegali non fossero ancora completi era già assodato che Margherita Lazzerini era stata legata mani e piedi: lo rivelavano i segni evidenti su polsi e caviglie. Aveva subìto una violenza sessuale nell'ano per mezzo di un corpo estraneo. Non erano state rilevate impronte significative. L'uomo, o la donna, doveva aver messo dei guanti, ma anche quel particolare sarebbe stato confermato.
Legata, sodomizzata con un oggetto di legno, percossa sul volto e infine strangolata. Questa era stata la sequenza che le aveva inflitto il suo aguzzino.
Un altro dato certo era che il tutto era avvenuto altrove, e che il cadavere era stato occultato nel fosso solo in un secondo tempo.
Esauriti i dati scientifici, era giunto il momento di proporre le possibili ipotesi investigative. Valente prese l'iniziativa.
«Marco, controlla se tra le persone collegate alla vittima, a dove abitava, ai posti che frequentava o anche al luogo della scomparsa c'è qualcuno con precedenti penali a sfondo sessuale».
Alfieri ascoltò in silenzio.
«Parti dalla lista che ti ho già dato e vai oltre: amici, compaesani, persone che possono averla incontrata. Questo è un lavoro da maniaci, e i maniaci tendono a ripetersi».
«Lo farò, anche se non credo sia la strada giusta».
«Quale sarebbe allora la strada da seguire?». Era stata Francesca a chiederlo, facendo morire in bocca ad Andrea la piccata replica che era pronto a proferire.
«Io mi concentrerei sul marito».
Dietro la laconica affermazione di Alfieri si celava un profondo convincimento: il matrimonio era il miglior tappeto sotto il quale nascondere l'immondizia. Anche il matrimonio di sua sorella Fabiana gli era sempre sembrato perfetto: un marito che adorava, un figlio meraviglioso, eppure nelle pieghe di quella stupenda normalità si annidava il germe del tradimento, una debolezza che sua sorella aveva finito per pagare con la vita.
«Dipendesse da me chiederei subito al magistrato il permesso di controllare i tabulati telefonici della vittima e di Begucci».
Andrea afferrò stizzito dal tavolo le foto che ritraevano i particolari del corpo deturpato di Margherita.
«Questo è un lavoro da maniaci, non è un delitto passionale. Credo di avere esperienza sufficiente per riconoscere la differenza, io».
Francesca era rimasta delusa dall'arroganza e dalla superficialità con cui Andrea aveva battezzato il caso. Sapeva quanto fosse meticoloso nel suo lavoro, un simile comportamento non era da lui. Conosceva abbastanza del recente vissuto del suo amico per capire quali corde quell'indagine potesse aver toccato in lui. L'obiettività di Andrea su quel caso era compromessa. Avrebbe dovuto tenerne conto.
«Il marito è l'ultima persona ad aver visto viva Margherita, inoltre la casistica dice che molto spesso queste morti sono causate dai compagni delle vittime stesse» intervenne per poi ricordare che il loro soggetto aveva dato prova, come loro stessi le avevano raccontato, di avere un certo feeling con la menzogna. Quella del maniaco poteva essere stata solo una messa in scena nel tentativo di depistarli.
Andrea non l'aveva interrotta, aveva ascoltato la sua amica prendere le difese dell'ispettore elencando una serie di banalità degne di un trafiletto di cronaca nera. Francesca non aveva tenuto in nessun conto la sua esperienza, il suo istinto, quello che nessun manuale del bravo poliziotto, nessuna statistica poteva insegnare. E soprattutto non aveva tenuto conto che fosse stato lui a esprimere quell'ipotesi.
Marco restò confuso.
Gli aveva dato ragione.
Contro ogni probabilità, e al di fuori di qualsiasi logica, il commissario Ralli aveva sposato la sua tesi.
Non solo era bella e intelligente, ora saltava fuori che possedeva persino una marcata onestà intellettuale. Dove stava la fregatura?
Francesca non conosceva Marco Alfieri, sembrava un uomo di poche parole e dallo spiccato cinismo. Considerava la sua perentoria presa di posizione avventata quanto quella di Andrea. Solo che in quel caso non aveva elementi per capirne le ragioni.
«Detto ciò al momento non c'è nessun addebito rilevante a carico di Begucci: non una prova né un movente. La perizia con cui ha agito l'omicida per non lasciare tracce sembrerebbe scagionarlo, visto che le sue tracce organiche sul corpo della moglie sarebbero normali».
«Ma anche questo potrebbe far parte di una strategia per confonderci» le contestò Marco con un pizzico di delusione.
Francesca fece cadere l'eccezione. Era palese che i due si fossero fatti idee preconcette e opposte sul caso, e questo era un errore. Al punto in cui erano l'unica cosa sensata da fare era agire a trecentosessanta gradi.
Il medesimo concetto che, in quello stesso momento, una puntuale e disinvolta dottoressa Pavesi stava propinando a un tenace giornalista in cerca di rivelazioni.
«Al momento nessuna pista è da escludere».
Marco aveva accolto con rabbia la rivelazione di Mignolino, l'idea che Fabiana non fosse stata vendicata, che lui dovesse ancora farle giustizia. Poi, indagando su Filippo Puglia, aveva riscoperto quale enorme soddisfazione gli procurasse l'essere padrone delle proprie azioni, il poter decidere in prima persona e in assoluta libertà la strada da seguire. Si sentiva inebriato dall'intraprendenza e dalla voglia che gli metteva addosso quella caccia solitaria. L'esatto opposto della frustrazione che gli procurava l'inutile compito che gli aveva affidato il commissario Valente per il caso Lazzerini. Setacciare il vissuto di Margherita alla ricerca di fantomatici pregiudicati per reati sessuali, quando era evidente che l'unico maniaco lo avessero sotto il naso. Una colossale perdita di tempo, tempo che lui avrebbe impiegato in maniera più fruttuosa.
Non fu difficile scoprire che Puglia era sposato con una donna slovacca e che avevano una bambina. La famiglia risultava risiedere a borgata Fidene, periferia nord di Roma.
Uscì dal suo ufficio e si fermò in portineria prima di lasciare il posto di polizia. La guardiola puzzava di sigarette al mentolo, malgrado non vi fosse consentito fumare. Trovò De Angelis stravaccato alle prese col telefono.
«Senti, se mi cercano Valente o la Ralli».
«E chi sarebbe mo 'sta Ralli?».
«Il commissario della mobile che ieri era con noi, non dirmi che non l'hai notata…».
«Tsè» negò col consueto schiocco della lingua.
«Comunque se mi cercano di' che sono fuori per le indagini sul caso Lazzerini».
«Io cercherei tra i rumeni».
«Cosa c'entrano i romeni?».
De Angelis fece un segno di disappunto per tanta inconcepibile ignoranza.
«Qui in zona ormai è pieno de rumeni, so diventati i padruni. Rubeano, beano, e quanno stanno 'mbriachi diventeno bestie. Qualche anno fa a Guidonia so fatto no stupro de gruppo. Hanno chiuso il ragazzo nel portabagagli e hanno violentato a essa, ventun'anni tenea».
L'agente annuì severo mentre buttava fuori l'aria dal naso.
«Quattro rumeni li abbiamo raccattati che si nascondevano a casa de n'amico loro a Castel Madama. Io presto servizio ecco da vent'anni, e ce vivo da sempre. E te dico che quello che hanno fatto alla Lazzerini è un lavoro da bestie, e qui le bestie so' issi».
Ecco, ci mancava solo l'illuminante teoria dell'agente più improbabile e indecoroso dell'intero corpo di polizia, espressa in un italiano peggiore di quello dei rumeni che tanto detestava. Per sua fortuna l'ispettore aveva altro a cui dedicarsi.
L'ultimo domicilio conosciuto della famiglia Puglia era in una delle tante palazzine abusive affastellate nella borgata Fidene. Lì l'ispettore scoprì con una punta di delusione che l'appartamento era sfitto da sei mesi e che moglie e figlia lo avevano lasciato tempo prima che lo facesse anche Filippo. Nel palazzo si mormorava che lei lo avesse abbandonato per tornare dai genitori in Slovacchia, insieme alla bambina. Sul perché solo una ridda di voci, una più fantasiosa dell'altra, ma con la stessa morale di fondo, come nelle favole: moglie e buoi dei paesi tuoi.
A Marco era sorto il sospetto che anche Filippo potesse essere espatriato, magari per raggiungerle. Si rivolse così a Olivieri, un amico di famiglia impiegato presso la Farnesina. Il cognome che portava era ancora un discreto passepartout, e pur di fare un favore al figlio del grande Donato Alfieri l'uomo dimostrò una lodevole efficienza. Richiamò Marco a distanza di poche ore. Chiese all'ispettore di incontrarsi di persona, riteneva che quanto aveva da comunicargli non fosse adatto a una conversazione telefonica.
La sfera di bronzo di Pomodoro rifletteva l'immagine del palazzo di marmo bianco.
Olivieri accolse Marco nel suo ufficio. Il diplomatico indossava un abito blu sopra la camicia carta da zucchero, una cravatta regimental completava quella che sembrava un'uniforme senza esserlo.
Fece accomodare Alfieri su una delle sedie di pelle riservate agli ospiti.
«Posso chiederti perché cerchi quest'uomo?».
«Preferirei di no».
Olivieri tamburellò il pollice sul tavolo in noce.
«Dimmi almeno se c'entrano i servizi, in questo caso dovrei saperlo».
Che cazzo c'entra Filippo Puglia con i servizi segreti?
Marco aveva trattenuto a fatica lo stupore che la domanda di Olivieri gli aveva suscitato.
«Perché me lo chiedi? E comunque la risposta è no. Si tratta di una faccenda personale, hai la mia parola».
Il dirigente della Farnesina sembrò rassicurarsi.
«Be', spero che sia il meno personale possibile» disse l'uomo avvicinandosi col busto al suo interlocutore.
«Esiste un dossier dell'Aise su questo individuo, un amico dei servizi me lo ha fatto sbirciare in via confidenziale».
«Come mai i servizi segreti militari si occupano di uno come Puglia?».
«Perché è un contractor».
Olivieri comprese dall'espressione di Marco che avrebbe fatto meglio a essere più esplicito, sebbene ciò andasse contro la sua indole di diplomatico.
«È un mercenario. Uno che uccide al soldo del rivoluzionario o del dittatore di turno. I servizi tengono sotto controllo i nostri connazionali che esercitano questa professione. Sai, un passaporto italiano ritrovato dalla parte sbagliata di un conflitto può creare più di un imbarazzo, guarda quello che è successo ai francesi con la guerra in Libia».
Tra le informazioni che Marco aveva recuperato su Filippo c'era anche quella che aveva svolto il servizio militare come paracadutista della Folgore, con rafferma per due anni nel nono reggimento Col Moschin, corpo speciale, fucilieri assaltatori. Questo ne faceva un uomo abile nell'uso delle armi da fuoco e addestrato alle tecniche di guerriglia urbana. L'ex guardia del corpo del suo amico Gabriele sembrava aver deciso di fare dell'omicidio una professione.
«E dov'è ora?».
«In una zona non meglio precisata dell'Africa subsahariana, l'ultimo avvistamento è stato a Mogadiscio, ma risale a ventitré giorni fa».
Marco era rincasato.
Aveva trovato Valerio seduto al tavolo della cameretta e suo padre in piedi di fianco a lui. Il professore aveva tra le mura domestiche il suo allievo più problematico. Quando c'era ancora Fabiana si occupava lei di fargli fare i compiti, era l'unica a saperlo prendere. Pur essendo molto intelligente, Valerio mostrava dei grossi limiti di attenzione, oltre a una patologica insicurezza nelle proprie capacità. Le cose dopo la morte della mamma erano andate peggiorando.
Sergio gli stava spiegando le frazioni. Dal tono della voce, che si sforzava di mantenere pacato, s'intuiva che non doveva essere la prima volta che lo faceva.
Forse avrebbe dovuto mollare tutto e prendere il primo volo per Mogadiscio. Andare ad ammazzare quel bastardo. Ma Marco non era un sognatore, e neppure un illuso. Sapeva bene di non avere nessuna possibilità di trovare uno come Puglia in un paese straniero devastato dalla guerra civile. Per di più, se mai fosse riuscito a incontrarlo, avrebbe rischiato di vestire lui i panni della vittima, quello che stava braccando era un soggetto pericoloso. L'unica speranza di avere la meglio era quella di giocare in casa. Quando Puglia sarebbe rientrato in Italia avrebbe dovuto fare molta attenzione nell'avvicinarlo, ma almeno così avrebbe avuto la possibilità di sopraffarlo, anche grazie al fattore sorpresa. Non gli rimaneva che aspettare e sperare che il suo uomo rimpatriasse presto. Aveva chiesto a Olivieri di tenerlo informato sugli spostamenti di Filippo. Sapeva che in quel momento non poteva fare nulla di più, eppure il suo pragmatismo non riuscì a proteggerlo dalla straziante sensazione d'impotenza e inutilità che lo macerava.
«No, tre quarti è maggiore di due terzi, riproviamo. Su, concentrati Valerio, per cortesia, è l'ultima».
Se solo si fosse posto a tempo debito qualche domanda. Se avesse interrogato Gabriele prima di sparargli, di sicuro il bastardo avrebbe tradito Puglia nella speranza di salvarsi la vita.
«Ciao zio».
Valerio ripose i quaderni nello zaino e prese il gameboy dal cassetto.
«Ciao principe delle tenebre, tutto bene?».
Suo nipote si era già seduto sul letto, le ginocchia raccolte al petto, i gomiti poggiati sulle gambe, la schiena curva, gli occhi fissi sul videogioco che stringeva tra le mani.
Non gli rispose.
Il mondo era un brutto posto e Valerio aveva dovuto impararlo sin troppo in fretta. Poteva biasimarlo se sentiva la necessità di proteggersi?
«Mi aiuti a preparare la cena?».
Sergio gli aveva poggiato una mano sulla spalla.
«Certo».
Erano entrati in cucina.
«Com'è andata con i compiti?».
«La verità? È sfibrante».
Sergio gli era stato di grande aiuto nell'indagine che lo aveva portato a scoprire la colpevolezza di Gabriele. Per lui era stato un momento difficile, accettare il tradimento e l'assassinio di Fabiana in un sol colpo. Questa volta non l'avrebbe coinvolto, aveva già abbastanza problemi. Non era necessario che Sergio sapesse dell'esistenza di Filippo, era giusto che lui si permettesse il lusso di continuare a credere che l'omicidio di sua moglie fosse un capitolo chiuso.
Marco avrebbe condotto la cosa da solo. Poteva farcela, aveva solo bisogno che si presentasse l'occasione giusta.
Francesca e Andrea non avevano avuto particolari difficoltà a convincere il pm Pavesi che fosse il caso di chiedere al gip il permesso per accedere ai tabulati telefonici della vittima e di suo marito. Ora erano al tavolo di un caffè nel centro di Tivoli, mentre il pm era a colloquio con il magistrato.
Per ingannare l'attesa iniziarono a intrattenersi con i ricordi delle tante indagini condotte insieme: al commissariato e alla squadra mobile di Firenze prima, alla sezione omicidi di Roma poi. Si rifugiavano nell'aneddotica da colleghi, ma in realtà il non detto rimandava a qualcosa di molto più intimo. Andrea e Francesca erano stati un perfetto esempio di asincronicità amorosa.
Ciascuno dei due sapeva che l'altro provava più di una semplice amicizia. Sentimenti che però si erano manifestati sempre in momenti e contesti tali da non essere corrisposti. All'inizio, quando si erano conosciuti, Andrea era agli albori della storia con Alice, e la sua infatuazione per Francesca era stata fulminante. Erano finiti a letto una notte che aveva lasciato segni più profondi di quanto ciascuno dei due avrebbe mai ammesso. Fosse stato per Andrea in quel momento avrebbe lasciato Alice e provato ad avere una storia con lei, ma Francesca viveva una relazione che durava già da qualche anno con Emanuele, un compagno di università, e non se l'era sentita di lasciarlo. Col passare del tempo il rapporto di Francesca era andato logorandosi, mentre quello di Andrea con Alice era divenuto un amore solido. Francesca aveva tentato allora di giocare di nuovo le sue carte, ma Andrea aveva rispedito le avances al mittente.
Erano comunque riusciti a rimanere buoni amici, bastava far finta che tra loro non fosse mai accaduto nulla, come in quel momento. Entrambi però avrebbero sempre coltivato il dubbio di come sarebbe potuto essere tra loro.
Proprio la domanda che attraversava la mente di Francesca quando il telefono di Andrea prese a vibrare.
«È la Pavesi». Valente rispose. «Dica dottoressa».
Dopo pochi istanti chiuse la comunicazione.
«Il gip ha firmato la richiesta per i tabulati».
Gianluca Di Pietrangelo era un ambulante di sapori genuini a km zero.
Tutte le mattine si alzava alle cinque per andare ad approvvigionarsi di formaggi e insaccati dalla rete di piccoli fornitori che si era creato nella provincia di Roma. All'orario di uscita dagli uffici rivendeva i prodotti dal banco della sua pizzicheria ambulante. Possedeva un malinconico furgoncino Fiat 242 che parcheggiava davanti alle sedi delle maggiori aziende capitoline.
Quella mattina il giro prevedeva, tra l'altro, il ritiro delle ricotte di capra di Agata. Abbandonata via Tiburtina si immise nella strada che conduceva a Mandela, ma si accorse subito che c'era qualcosa di anomalo. Di Pietrangelo andava da Agata una volta alla settimana ormai da più di tre anni e mai gli era capitato d'incontrare quel via vai di vetture. Quando scollinò e si trovò nel borgo iniziò a comprendere. Lungo tutto il perimetro erano parcheggiati pulmini grandi due volte il suo, con grosse parabole installate sul tetto e i loghi dei maggiori network nazionali.
«Bella Giallu', e chi te c'ha mannato, c'ho una fame. Che me fai un panino con la mortazza?».
L'uomo che lo aveva riconosciuto, Sguazzino Angelo, era uno dei suoi più affezionati clienti. Dal tecnico della tv di stato Di Pietrangelo apprese che a causa del feroce assassinio di una povera madre di famiglia quella mattina, e per chissà quanto tempo ancora, non avrebbe potuto raggiungere Agata.
Il paese era sigillato.
La mail con i tabulati era arrivata, come di consueto il file era criptato e la password giunse separatamente. Questa volta non avevano dovuto aspettare poi tanto: entrambi i coniugi erano abbonati al medesimo operatore. Il resto lo avevano fatto i contatti personali di Francesca e Andrea con alcuni referenti della compagnia telefonica.
Decisero di dividersi il lavoro.
Ad Andrea toccarono i tabulati del telefono di Margherita.
Con una certa soddisfazione ne ottenne quanto aveva immaginato. Margherita Lazzerini aveva intestata una sola SIM, dalla quale risultava un traffico molto contenuto. Aveva contatti pressoché esclusivi con due sole utenze: una era intestata al marito, l'altra a sua madre.
Francesca si trovò davanti a una situazione ben più articolata. Anche Begucci possedeva una sola SIM, ma quel telefono a fine giornata doveva essere bollente. Senza l'ausilio del software in dotazione alla polizia le ci sarebbero voluti giorni per scremare i numeri più significativi. Alla fine il computer evidenziò nove utenze di particolare interesse. Erano quelle con cui Giulio aveva avuto il maggior numero di contatti nel periodo preso in esame. I commissari richiesero alle rispettive compagnie i nominativi degli intestatari.
Le risposte che giunsero non li lasciarono indifferenti.
Marco navigava in internet alla ricerca di informazioni su Mogadiscio. Aveva scoperto che era in corso la stagione delle piogge. Si chiese se questo avrebbe potuto favorire il rimpatrio di Puglia. Era così logorato dall'impaludamento a cui lo aveva condotto la caccia da aggrapparsi persino alle previsioni meteo. Così quando il commissario capo lo chiamò all'interfono ne fu sollevato, almeno si sarebbe distratto. Si presentò nell'ufficio di Valente con inusuale tempismo.
Andrea ne rimase sorpreso: che il suo sottoposto avesse intuito cosa aveva da comunicargli? Prima però toccava a lui farsi relazionare.
«Novità sulle tue ricerche? Hai trovato qualche precedente interessante?».
«Niente, nessun maniaco in zona. Voi invece avete avuto i tabulati?».
Il commissario passò all'ispettore un elenco scritto a penna.
Carlotta Facchini, anni 32, Roma.
Alessia Trappi, anni 31, Tivoli.
Patrizia Forni, anni 22, Licenza.
Orietta Sella, anni 43, Tivoli.
Simona Basili, anni 28, Vicovaro.
Elena Orlandi, anni 40, Subiaco.
Geta Ionesco, anni 33, Tivoli.
Isabella Lai, anni 38, Castel Madama.
Emma Bernabei, anni 41, Sambuci.
«Sono i contatti più frequenti che risultano dai tabulati telefonici di Begucci» spiegò Valente.
«Tutte donne» disse in un ghigno l'ispettore.
«Un filotto, nove su nove, e tutte con un'età compresa tra i ventidue e i quarantatré anni» chiosò Francesca.
Marco gongolava. Lo sapeva, se lo sentiva nelle ossa. Aveva fatto bene a non perdere tempo in quelle inutili ricerche, Begucci era l'uomo che cercavano.
Andrea si passò una mano sotto la frangetta, si accarezzò solo per un istante la ferita. Non aveva intenzione di negare l'evidenza. Ammise che, seppure andassero verificati, quei dati sembravano disegnare l'identikit di un fedifrago indefesso.
La maniacale curiosità dei media sul caso aveva portato Begucci a occupare nei telegiornali più spazio di Papa Bergoglio. Giulio era dipinto come una vittima, un povero padre che a causa di un maniaco assassino aveva perduto in un sol colpo, e senza motivo, la donna che amava e la madre dei suoi due gemelli. Davanti alle telecamere appariva inconsolabile: rivoleva la sua Margherita, erano al prato, non facevano male a nessuno, perché doveva capitare proprio a loro?
L'Italia compassionevole si stringeva intorno a lui, mentre criminologi patentati e profiler da schermo piatto lanciavano la caccia al mostro.
Marco s'imbatté per caso in uno di quei salotti televisivi, Giallo su giallo. Non poté fare a meno di constatare come l'immagine che la tv era in grado di restituire potesse essere mendace. Presto le cose sarebbero cambiate, a breve quello che al momento sapevano solo loro, ovvero il contenuto dei tabulati, le numerose amanti, sarebbe venuto a galla. Allora quel salotto per Begucci sarebbe divenuto una gogna, e ai criminologi da sagra del morto ammazzato sarebbe bastato voltarsi in direzione del loro ospite per additare il mostro.
Ad Andrea faceva male la spalla. Lorenzo lo stava di nuovo stracciando al bowling della Wii.
«Fai un altro strike e ti diseredo».
«Capirai che perdita». Iolanda, spettatrice non pagante ma parlante, non rinunciava a dire la sua.
«Strike! Hai perso!».
Iolanda portò Lorenzo con sé verso il bagno. Padre e figlio si scambiarono uno sguardo complice.
Andrea sedette sul divano massaggiandosi la spalla infortunata. Accese la tv: il logo di Giallo su giallo comparve nell'angolo in basso a destra.
Chi aveva ucciso Margherita? I mandellesi avevano dei sospetti?
La giovane e rampante Adele D'Antona, inviata sul posto per Giallo su giallo, si era fatta carico di dare voce a chi Margherita l'aveva conosciuta bene.
La giornalista imbracciava una piccola videocamera, le immagini instabili amplificavano l'effetto da tv verità.
«Tu sei di qui?».
Lo chiese a un giovane segaligno con un orecchino di legno che gli apriva un buco nel lobo destro.
«Io sono nato a Mandela, ora vivo a Castel Madama, ma ho i miei qui».
«E conoscevi Margherita?».
«Certo, tutti in paese la conoscevano».
«E secondo te chi è stato a ucciderla?».
S'intromise un nerboruto con il fisico da spaccalegna.
«So' stati li forestieri!».
Altri avevano preso coraggio accalcandosi dietro la telecamera, si era levato un coro rabbioso contro lo straniero.
Andrea non restò per nulla sorpreso dalle accuse razziste lanciate dai compaesani di Margherita. Dodici mesi a capo della polizia giudiziaria della zona lo avevano istruito sul grado di risentimento dei locali verso gli stranieri. Quel territorio aveva subìto un'immigrazione selvaggia, sregolata e disperata. L'ottanta percento degli arresti che aveva effettuato da quando prestava servizio a Villalba erano stati ai danni di cittadini stranieri. Non per gravi reati: piccolo spaccio, taccheggio, furti di rame e, nell'ultimo periodo, anche qualche rapina in villa. Era comunque abbastanza per minare la serenità delle persone, per creare un disagio sociale, una tensione sotterranea che ora rischiava di esplodere. Un'altra variabile imponderabile a cui avrebbe dovuto prestare attenzione. Ne sentiva la mancanza.
Francesca tirava calci e pugni al sacco che aveva posizionato in mezzo al soggiorno. Tra un diretto e un circolare buttava un occhio non poi così distratto alla tv.
La D'Antona si era defilata dalla frangia più oltranzista. Aveva individuato un uomo non più giovanissimo in abiti da lavoro che seguiva la bagarre in disparte.
«Salve, lei è di qui?».
«No, ma ci lavoro». Mignolino era stato tentato di non rispondere e girarle le spalle, ma poi il seno procace della giornalista lo aveva convinto a farsi intervistare.
«La conosceva?».
«No, ma è scomparsa vicino allo smorzo dove lavoro io».
«Pensa anche lei che siano stati dei forestieri?».
«Signori', io co' 'sta gente c'ho lavorato pe' 'na vita: albanesi, zingari, so' gentaccia. Bestie. Se fossi 'na guardia inizierei da loro».
Francesca spense la tv, le era venuta la nausea.
Il palazzo di giustizia di Tivoli si ergeva proprio di fronte al belvedere. I tre poliziotti entrarono dal largo portone di legno incastonato in un arco di pietra per recarsi nell'area riservata alle udienze civili. Intorno a loro una clientela griffata confabulava con i propri avvocati o ingannava l'attesa armeggiando con tablet e telefonini. La maggior parte era lì per cause di divorzio.
Il pm li fece accomodare nel suo ufficio. Francesca analizzò l'ambiente. Malgrado la Pavesi portasse la fede non vide in giro foto di famiglia, si chiese se avesse dei figli. Apprezzò la vaga essenza di mughetto che aleggiava nell'aria, la confortevole sobrietà dell'arredo, ma più di tutto la vista di cui godeva il magistrato: uno spazio aperto, senza ostacoli. A confronto con l'ufficio di Andrea in cui era stata costretta a trascorrere molte delle ultime ore quello era il paradiso.
«Dottoressa, come le accennavo per telefono abbiamo esaminato i tabulati e se lei è d'accordo vorremmo che chiedesse al gip il permesso di mettere sotto controllo queste utenze e predisporre intercettazioni ambientali su Giulio Begucci».
Valente passò una lista alla Pavesi.
La Ralli le spiegò come erano arrivati a quei numeri e a chi fossero intestati.
«Ottimo lavoro, porterò subito queste novità all'attenzione del magistrato. Voi nel frattempo farete un controllo capillare a campo Stacchini».
I tre si scambiarono uno sguardo interrogativo, Marco e Francesca non sapevano neppure dell'esistenza di quel luogo.
«Perché campo Stacchini? Ci sono dei riscontri di cui non siamo a conoscenza?».
«Nulla in particolare. Come c'eravamo detti vanno seguite tutte le piste, e questa è solo una delle tante».
«Scusi giudice, perché proprio lì?» chiese Francesca.
«È un campo nomadi nato sul terreno di un vecchio polverificio, è la zona più degradata sotto il nostro controllo, tutti rumeni, molti con precedenti penali». Era stato Andrea a risponderle, con una nota di piccato disappunto.
«Quindi facciamo un rastrellamento etnico?» disse Francesca.
«No, l'etnia non c'entra nulla, semplicemente in mancanza di una precisa ipotesi investigativa è normale cercare i delinquenti là dove sono più numerosi».
«Ma noi ce l'abbiamo una pista» rintuzzò la Ralli indicando la lista sul tavolo.
«Vero, ma in attesa di poterla percorrere, fintanto che il gip non avvallerà la mia richiesta, darete ai cittadini ciò che vogliono, sicurezza. Andate lì in forze, fatevi vedere, magari eseguite qualche fermo, anche per reati non connessi a questo caso. Vi rammento che il nostro ordinamento prevede l'obbligatorietà dell'azione penale».
La Pavesi inserì il foglio che aveva ricevuto dentro un portadocumenti di cuoio con fare sbrigativo.
«Se non avete altro da dirmi potete andare».
I tre erano di nuovo in macchina.
Marco aveva trovato il comportamento della Pavesi più che comprensibile. Non aveva una grande esperienza come detective, ma conosceva certe dinamiche sin troppo bene. Suo padre era stato vicecapo della polizia, e a quei livelli più che poliziotti si è politici. Non faticò a immaginare le pressioni che aveva dovuto ricevere il magistrato. Se la trasmissione che aveva visto in tv era un valido esempio di come veniva riportata l'inchiesta agli italiani non si sarebbe meravigliato di scoprire che il pm aveva ricevuto una telefonata da qualche sottosegretario, se non dal ministro in persona. Funzionava così, e la Pavesi gli sembrava una che ci teneva a fare bella figura. L'ispettore ne era talmente convinto che fece una piccola scommessa con se stesso.
Francesca non riusciva a credere che Andrea, l'uomo più integerrimo che avesse mai conosciuto, non avesse detto una parola, anche solo per mostrare il proprio disappunto per quella pagliacciata. Ma cosa era diventato? Quella stronza di Alice con la sua sciagurata fuga come lo aveva ridotto?
Prese a torturarsi le dita. Infierì sulle pellicine intorno alle unghie. Scrostò la pelle dai polpastrelli.
Andrea non proferì una sola parola. Passò tutto il tempo a rimuginare su quello che avrebbe voluto dire alla Pavesi, sulle parole che proprio non aveva trovato, sulla forza che gli era venuta meno, ancora una volta.
Parcheggiò.
Doveva organizzare quella ridicola messa in scena, si sentiva una merda. Incrociò lo sguardo di Francesca. Comprese che almeno gli era stata concessa la possibilità di sdebitarsi con lei.
«Francesca, tu torna pure a Roma, questa cosa ce la sbrighiamo noi».
«D'accordo».
La Ralli scese e si avviò verso la sua auto.
Campo Stacchini.
Per accedervi in auto bisognava attraversare un passaggio a livello. La palazzina di fianco alla sbarra era così male in arnese che sembrava non poter resistere al transito di un altro convoglio.
Oltre le rotaie l'asfalto lasciava posto allo sterrato. Il sentiero sconnesso s'insinuava nei dedali di un terreno dalla vegetazione rada e sovrastata dalle immondizie: montagne di pneumatici e carcasse di frigoriferi ovunque. Qua e là i ruderi in muratura del vecchio polverificio, uniche vestigia dell'insediamento industriale che quel luogo era stato.
Le baracche erano riunite a gruppi di due o tre, sparse lungo tutta l'ampia macchia che si spingeva sin oltre il viadotto dell'autostrada. Erano state tirate su usando un'accozzaglia di materiali. Assi di armadi sventrati, lastre di eternit, teloni, fusti di plastica. Rifiuti che gli abitanti di quella comunità avevano recuperato nei cassonetti e in quello stesso terreno che molti usavano come discarica abusiva.
Le pale dell'elicottero ronzavano sopra il campo.
L'odore acre della gomma bruciata sovrastava gli altri miasmi.
Da dietro la tenda di una baracca uscì un ragazzo col capo chino e le braccia torte dietro la schiena. Un agente lo stava scortando verso la camionetta.
Andrea notò un bambino che seguiva la scena in sella a una bici senza catena né pedali. Ne incrociò lo sguardo indifferente, poteva avere l'età di Lorenzo.
«Commissario, può dirci qualcosa su questo intervento in forze? È da legare all'omicidio Lazzerini? Avete dei sospetti?».
La giornalista e il cameraman gli si erano fatti incontro ostruendogli la visuale.
«Mi lasci lavorare».
Andrea rispose stizzito alla donna, facendole segno di spostarsi. Avrebbe voluto chiederle come avesse fatto a essere lì prima ancora del loro arrivo.
Il bambino riapparve da dentro la baracca. Aveva posato la bicicletta e ora teneva per mano quella che doveva essere la sua sorellina. La piccola salutò il commissario. Andrea ricambiò con un gesto della mano. Avevano censito pochi mesi prima quel posto, su trecento abitanti la metà aveva meno di quattordici anni.
Alfieri non riusciva a provare pena per le persone che vivevano lì, neppure per i bambini. Se vivi come un'animale ti comporterai come un animale. Era un retaggio dell'educazione che gli aveva imposto suo padre. Lo aveva indottrinato sull'importanza dell'ordine e della forma, e ciò lo rendeva intollerante a qualsiasi tipo di sciatteria. Quello che vedeva intorno a sé non aveva il decoro né la dignità adeguati a un essere umano. Fosse dipeso da lui avrebbe sgombrato con la forza quell'immondezzaio putrido.
Quando si accorse della troupe Marco si aprì in un inusuale sorriso in direzione della giornalista. Non era un tentativo di ammiccamento, ma un ghigno compiaciuto. L'ispettore aveva vinto la sua personalissima scommessa: la Pavesi aveva organizzato una retata a favore delle telecamere. Un evergreen.
Giulio entrò di soppiatto nella stanza. Suo padre aveva il respiro pesante e sua madre faceva finta di dormire. Si sedette di fronte alle culle. Osservò i gemelli riposare.
Poi il pensiero fuggì subito a quello che era accaduto. Si sforzò, ma tutto divenne troppo doloroso. Li salutò con una carezza sulla testa.
Entrò in camera sua, si buttò sul lettone e accese il computer portatile.
Entrò su Facebook, il nome del profilo era “Tanto Matto”. Iniziò la procedura per cancellarlo. Prima che la ultimasse lo raggiunse un messaggio in chat.
“Ciao, come stai?”.
Giulio rispose: “:-(”.
“Immagino, posso chiamarti?”.
Begucci mise il cellulare in vibrazione.
“Sì”.
La donna gli fece le condoglianze, espresse tutto il suo dolore per quanto era accaduto a Margherita.
«Mi è sembrato strano vederti su Facebook».
«In effetti credo che non ci tornerò per un po', solo che stasera avevo bisogno di distrarmi, altrimenti impazzisco».
«Lo capisco, uno deve continuare a vivere, è umano».
«Vorrei che fossi qui».
«E io ci verrei volentieri, saprei come distrarti…».
«Me lo succhieresti?». Giulio si era slacciato i pantaloni.
«Forse un po'».
«Solo un po'?». Aveva iniziato a masturbarsi.
«Be', voglio divertirmi anch'io».
«E cosa vorresti che ti facessi?».
«Mi è venuta una fantasia strana, ma non so se posso dirtela».
«Devi».
«Vorrei che mi scopassi nel fosso dove hanno ritrovato tua moglie».
Il commissario Francesca Ralli faticò a credere alle proprie orecchie. Si voltò verso Andrea, sgomenta. Valente annuì, quello squallore aveva intaccato persino il professionale distacco che si imponeva la sua collega.
Tornarono ad ascoltare l'intercettazione.
«Va bene, quando si saranno calmate le acque giuro che ti scopo lì, ma ora dimmi come lo vorresti fare».
La voce di Giulio si faceva sempre più affannata, mano a mano che la donna scendeva nei particolari. L'orgasmo concluse la telefonata e fece scendere il gelo nella scalcinata stanza del posto di polizia allestita per ascoltare le intercettazioni.
Una lama di luce tagliava in due la stanza, un confine dietro il quale ciascuno era impegnato nel proprio ruolo. Da un lato il dottor Lamberti ascoltava le parole della sua paziente, dall'altro Francesca raccontava la propria vita. Era il loro settimo incontro, e il commissario aveva imparato le regole di quella bolla sospesa fuori dal mondo.
Il dottore l'aveva fatta accomodare, le aveva chiesto di parlare di quello che desiderava, senza suggerire un tema specifico, non ne aveva bisogno. Lamberti era abilissimo a portare il discorso dove voleva, con domande solo all'apparenza casuali.
«Non ci vediamo da un anno e lui cosa mi chiede? Se ero arrivata lì in motorino. Capisce, era passata appena un'ora dalla prima volta che ero stata qui! Sembrava che sapesse tutto e mi stesse rinfacciando di essere cambiata, quando invece è lui che è diventato la controfigura dell'uomo che era».
Lamberti alzò un sopracciglio verso Francesca. Lei si sentì come se l'avesse vista nuda sotto la doccia.
«A proposito del motorino, penso di aver capito perché il panico mi ha preso proprio lì».
«Dica pure». La voce calda di Lamberti l'aveva avvolta, sentiva di nuovo quella sensazione di piacere alla base del collo. Lo avrebbe pagato il doppio solo per stare l'intera ora ad ascoltarlo.
«Il motorino è il mio modo per non fermarmi mai, per fare tutte le cose che faccio, per correre dal lavoro all'università, dall'università alla palestra, e se m'impedisco di usarlo sono costretta a fermarmi».
Francesca si sarebbe aspettata una reazione alla sua disamina, un commento. Invece Lamberti si era chiuso in un insolito silenzio.
«Prima di condividere con me questa intuizione mi stava raccontando del caso che sta seguendo e di questo suo amico».
«Andrea».
«Esatto, lo ha portato spesso qui dentro».
«Be', ho iniziato un'indagine con lui dopo tanto tempo».
«Capisco, ma secondo lei se non ci fosse stata questa coincidenza non me ne avrebbe parlato?».
Francesca sentì il collo irrigidirsi.
«Mah, non so, non c'è poi molto da dire, non più».
Lamberti prese un appunto.
«Mi stava raccontando di averlo trovato cambiato, le va di spiegarmi meglio?».
«Alice, sua moglie, è fuggita. L'ha lasciato solo con suo figlio, per stare più tempo con il bambino Andrea ha mollato la squadra mobile». Il tono di Francesca si era incrinato.
«E la fuga di questa donna come l'ha vissuta lei?».
«Be', mi è dispiaciuto per Andrea, è un amico, anche se non ci frequentiamo più molto». Francesca prese a torturarsi le dita. «Ma perché stiamo parlando di lui?».
«Perché da quando è in analisi non fa altro che nominarlo per poi cambiare subito discorso. Oggi si è addirittura decisa a condividere con me la sua teoria sul panico in motorino nel tentativo di distrarmi. Credo che lei sappia benissimo che Andrea è un punto irrisolto della sua vita, vorrebbe parlarmene ma non trova il coraggio».
Francesca sentì un dolore acuto che non seppe localizzare.
«L'ora è finita, se vorrà riprenderemo da qui mercoledì».
Suonava come una minaccia.
Il vaglio delle intercettazioni proseguiva. Quanto emergeva tracciava un quadro a tinte sempre più fosche della personalità di Giulio Begucci. Francesca e Andrea ci lavorano con tenacia, gomito a gomito.
Lei avrebbe voluto approfittare di tutto quel tempo trascorso insieme per parlargli. Di lui, di come stava, del modo in cui Lorenzo stesse vivendo l'abbandono della mamma, di cosa avrebbe potuto fare per aiutarlo. Perché era evidente che avesse bisogno di aiuto. Purtroppo il particolare rapporto che si era instaurato tra loro, quella strana sorta di tregua armata che relegava la sfera dei sentimenti al di fuori di quanto potessero permettersi di condividere, rendeva quel terreno minato. Così il massimo che riuscì a chiedergli fu:
«Che tipo è Alfieri? Ho avuto l'impressione che tra voi non ci sia grande sintonia».
Andrea le raccontò per sommi capi la storia di Marco: chi era suo padre, la morte della sorella, l'omicidio per legittima difesa di quello che si era scoperto esserne l'amante. Preferì tacerle le mancanze professionali dell'ispettore che erano all'origine dei loro dissapori. Malgrado la cosa non gli piacesse provava un debito morale nei confronti di Marco, non se la sentiva di sputtanarne l'inefficienza.
«È il primo caso che seguiamo insieme e ci siamo fatti idee diverse, tutto qui».
Andrea si trovò a riflettere su quanto fosse paradossale quello che stava accadendo: mentiva a Francesca e Alfieri sapeva la verità. Francesca era la sua migliore amica, la persona (Alice esclusa) con cui aveva condiviso le esperienze più importanti della propria esistenza. Eppure non sapeva che soffriva di epilessia e non avevano mai parlato, se non in modo asettico e superficiale, della scomparsa di Alice. Possibile che si fossero allontanati così tanto? Come aveva perduto Francesca? Bastavano il lavoro, suo figlio, le incombenze di tutti i giorni a spiegare perché una persona così essenziale fosse andata a occupare l'ultimo banco nella sua vita? Quante volte l'aveva vista da quando si era trasferito al posto di polizia di Villalba?
Una. In dodici mesi.
Per una volta il destino era stato magnanimo e puntuale con loro, aveva azzerato le distanze, l'aveva riportata da lui nel momento in cui ne avrebbe avuto più bisogno. E allora perché non ne approfittava? Perché non si confidava con lei?
Non sapeva più niente. Stava di fatto che l'unico custode del suo segreto era l'ispettore Alfieri, poco più di uno sconosciuto, anche se non era stato lui a sceglierlo. Francesca ne era all'oscuro, e questa sì era stata una sua decisione. Come quella di mentirle, o comunque di non dirle tutta la verità, sul suo sottoposto.
«E secondo te Alfieri è un buon poliziotto?» gli chiese Francesca.
«Questo devo ancora capirlo». Almeno stavolta non le aveva mentito.
La Pavesi arrivò in procura quando mancavano pochi minuti alle dodici. Aveva trascorso la notte a vagliare tutto il materiale che le aveva sottoposto la polizia giudiziaria: volevano convincerla a richiedere al gip il sequestro del computer e del telefono di Begucci, oltre alla perquisizione di auto e abitazione. Per sua natura quell'atto sarebbe divenuto di dominio pubblico, e le indagini sul marito della vittima sarebbero uscite così dalla discrezione che le aveva coperte fino a quel momento. Ciò l'avrebbe esposta all'attenzione dei media, e sottoposto il suo operato al giudizio dell'opinione pubblica. Sapeva che quel caso rappresentava uno spartiacque nella sua carriera.
Maria li vedeva sbirciare da dietro le persiane mentre la polizia entrava in casa sua per perquisirla. Sentiva i mormorii accusatori dei paesani che scortavano gli agenti mentre portavano via le cose di suo figlio.
Si sforzò di rimanere algida. Non avrebbe dato loro soddisfazione.
Ringraziò il pianto dei gemelli che le consentì di abbandonare la soglia di casa senza che la sua potesse essere interpretata come una fuga di fronte alla vergogna.
Giulio si affacciò nella stanza. Vide sua madre asciugarsi le lacrime, i gemelli continuavano a piangere. Poi scese le scale a capo chino.
Gli esperti della polizia postale avevano setacciato l'hard disk del computer di Begucci. Nell'era digitale indagare nei dispositivi elettronici di una persona è un po' come scavare nella sua psiche. Nello specchio nero dell'anima di Begucci ognuno degli inquirenti colse il riflesso che più lo riguardava.
Andrea notò che erano stati rilevati gli estremi per accusarlo di pirateria. Un malcostume che riguardava molti, se non tutti, anche in quella stanza.
Il vecchio Andrea Valente era estraneo persino a quel reato che la cattiva coscienza italiana, diversamente dal codice penale, si rifiuta di riconoscere come tale. Nella libreria del commissario i cofanetti dvd delle prime tre stagioni di Breaking Bad raccontavano l'uomo che era stato. Le ultime due, scaricate online sul suo pc, lo mettevano invece alla stregua di tutti gli altri, Begucci incluso. Dal punto di vista legale non faceva nessuna differenza che il materiale pirata fosse una serie tv americana pluripremiata o dei film porno come quelli che affollavano l'hard disk di Giulio.
L'occhio di Francesca cadde sulla nota del rapporto in cui si evidenziava che Begucci aveva cancellato il suo profilo Facebook dopo il ritrovamento del cadavere di Margherita. Anche lei avrebbe voluto cancellare alcuni errori del suo passato, certi tratti del suo profilo. Non era così semplice, e forse non ce l'avrebbe fatta da sola. A breve avrebbe rivisto il dottor Lamberti, la cosa la preoccupava e la rendeva felice al tempo stesso.
Marco concentrò la sua attenzione sulla parte del referto in cui veniva riportato che Begucci era stato amministratore di un forum hard, “Vivalafoca”. Il sito dava la possibilità agli utenti, coperti da anonimato, di incontrare persone con le medesime inclinazioni sessuali. Ospitava inoltre anche recensioni di locali per scambisti, film porno, escort, oggettistica.
Tornato a casa Marco aveva ispezionato quelle pagine web con cura. Aveva riconosciuto, tra quelle recensite, anche un paio di professioniste con cui aveva investito parte del suo stipendio. Si trovava abbastanza d'accordo con quanto riportato dagli improvvisati assaggiatori, così si definivano gli autori delle recensioni.
L'ispettore aveva creato un suo account: “L'alfiere”. Lo avrebbe adoperato per sconfiggere la solitudine quando sarebbe tornata a bussare alla sua porta. Lui ne aveva tutto il diritto.
Begucci venne convocato nel posto di polizia per essere interrogato, vi entrò come persona informata sui fatti.
Giulio fu fatto accomodare in quello stesso ufficio, su quella stessa sedia, nell'aria la medesima puzza, sulle imposte la consueta patina bianca. Non era cambiato nulla da quando era andato a denunciare la scomparsa di Margherita, ma in realtà era cambiato tutto.
Quei tre tizi stavano lì a recriminare, a contestargli ogni singola parola che era uscita, o non era uscita, dalla sua bocca. La fica che aveva scambiato per una giornalista, lo stronzo ispettore che chissà perché lo aveva odiato dal primo momento, persino Valente si era messo a tormentarlo.
Gli rinfacciarono “le sue molte bugie”.
Giulio iniziò a comprendere che era stato spiato, che quelli mentre gli dicevano di volerlo aiutare lo stavano fottendo.
Si difese. A modo suo.
«Non ricordo».
«Simona? Mi pare di conoscerla, o forse mi sbaglio, sono confuso».
«Su Facebook, ma quello è un gioco».
«Do il mio numero a tante donne per le prenotazioni al locale, questa Emma l'avrò sentita per l'organizzazione di una festa. Perché non cercate l'assassino di Margherita invece di perseguitarmi?».
Ma il tempo era contro di lui.
Begucci iniziò a piagnucolare, a mangiarsi le parole, stava cedendo. Ammise una tresca che poi ritrattò, confuse i nomi delle sue amanti, cercò di passare per un uomo assediato da un'orda di pazze.
Poi, passate le prime tre ore d'interrogatorio, riconobbe qualche responsabilità.
Il suo locale sempre pieno di donne, un goccio di troppo, la difficoltà a ritrovare intimità con Margherita da quando erano nati i bambini. Umane debolezze di un uomo non irreprensibile, niente di più.
Quando gli venne chiesto perché non aveva informato da subito la polizia di quella situazione, dipingendo il suo matrimonio come idilliaco, la sua risposta fu immediata e puntuale.
«Io amavo Margherita e lei amava me, quelle cose non ve le ho dette perché non sono importanti».
«E tua moglie sapeva che ti prendevi certe libertà con altre donne?» gli chiese il commissario Ralli.
«Che sei un consumatore abituale di pornografia?» le fece eco Valente.
«Che sei l'amministratore in un forum hard?» lo incalzò Alfieri.
Begucci provò a eludere le domande dirette, ma questa volta nessuno dei tre aveva intenzione di consentirglielo. Alla fine Giulio, stremato, fu costretto a dare una risposta.
«Sì, lei sapeva tutto, non le piaceva ma lo accettava, perché ci amavamo».
Prima di congedare Begucci, Valente lo informò che il pm lo avrebbe iscritto nel registro degli indagati.
Finito l'interrogatorio gli inquirenti si scambiarono le loro impressioni.
Andrea prese tutti in contropiede.
Continuava a ritenere quella una falsa pista. Fece notare che comunque, anche dall'analisi del computer e dell'attività di Begucci sui social network e sui forum a luci rosse, non era emersa nessuna relazione stabile né alcuna donna che gli stesse facendo pressione perché lasciasse la moglie. Le indagini avevano rivelato la figura di un uomo dissoluto, era vero, ma lui continuava a non vedere né prove né movente.
Marco aveva invece le idee chiarissime rispetto a quanto era accaduto. Gli sembrava di rivedere un film a lui già noto. Gabriele Gagliardi aveva una relazione segreta con sua sorella, quando lei era rimasta incinta quel gioco per il bastardo era divenuto pericoloso. Fabiana non aveva voluto saperne di abortire e questo aveva messo in pericolo l'imminente matrimonio di Gabriele con una facoltosa nobildonna romana. Per questo motivo aveva fatto uccidere Fabiana da Filippo Puglia, per mantenere il segreto. L'ispettore era certo che, seppure declinato in maniera diversa, il movente di quel caso fosse lo stesso. Alfieri non si capacitava di come il commissario Valente si mostrasse cieco anche di fronte a tale evidenza: «Giulio Begucci ha ucciso la moglie perché lei aveva scoperto che è un porco, i suoi centinaia di film porno sul computer, le sue frequentazioni di forum per pervertiti, le sue amanti… l'ha uccisa per tapparle la bocca».
Francesca decise di mettere in gioco le proprie conoscenze professionali. Aveva ormai a disposizione elementi sufficienti per abbozzare un profilo psicologico dell'imputato.
Definì Giulio Begucci un soggetto affetto da pseudologia fantastica, una sorta di bugiardo patologico. Spiegò che questo genere di persone mente abitualmente, e non sempre per avere un tornaconto pratico.
«Begucci ha un'indole narcisistica, usa tutte quelle bugie per dipingere la sua vita migliore di quella che è, perché altrimenti non sarebbe in grado di accettarla. Se ci pensate è un meccanismo che almeno una volta abbiamo utilizzato tutti».
Io di certo, si disse.
Gettò uno sguardo involontario ad Andrea. Proseguì sperando che la sua empasse fosse passata inosservata.
«Un simile soggetto desidera più di ogni altra cosa avere successo, per questo trasforma una casa contadina in una villa in collina, un ferrovecchio in una Mercedes, prende un particolare di verità e ci romanza sopra. Di certo non è un testimone attendibile, neanche per se stesso. La sua attitudine alla menzogna può persino arrivare a penalizzarlo, proprio perché non è legata a un tornaconto, ma a una necessità patologica».
Ci si può fare del male anche da soli, chiosò tra sé e sé.
Spiegò poi che molti psicologi sostenevano che questo genere di soggetti arrivasse a vivere in modo così intenso le proprie proiezioni e le proprie bugie da ritenerle reali. Detto ciò non stavano parlando di un povero pazzo, Begucci era a suo parere un uomo in grado di intendere e di volere, solo le sue affermazioni andavano valutate in un'ottica particolare. Comunque, anche volendo tenere distinti il giudizio sull'uomo e quello sul caso, nella vita segreta di Begucci era rintracciabile un possibile movente. Quando il cadavere di Margherita era ancora caldo Begucci aveva impegnato parte del suo tempo per cancellare il profilo Facebook e l'account dal forum hard. Queste azioni erano la prova di come lui si rendesse conto che la sua vita segreta in quel momento poteva metterlo nei pasticci. E forse era proprio nelle pieghe di quell'esistenza parallela, come suggeriva l'ispettore, che poteva essere rintracciato un movente. Perché non si poteva prevedere la reazione di un simile individuo di fronte alla realtà.
«Dove può arrivare per mantenere inalterato il mondo che si è creato? E se fosse stata proprio sua moglie a scoprirlo? A rinfacciargli le bugie, i tradimenti? Cosa è disposto a fare uno come Begucci pur di continuare a vivere nella sua quotidiana menzogna?».
Andrea controbatté che le loro ipotesi sul movente erano poco più che illazioni. Rimarcò che tanto nella versione prosaica dell'ispettore quanto nella variante pseudoscientifica del commissario, non c'era nulla di penalmente rilevante a carico dell'imputato.
«Il fatto che sia un traditore, un laido e un bugiardo compulsivo non fa di lui un assassino. Non tutti quelli che non ci piacciono sono colpevoli».
Una figura calva, sudata e muscolosa, nella penombra di una stanza d'hotel di Mogadiscio, era illuminata dal riverbero dello schermo di un computer portatile. Somigliava al colonnello Kurtz di Apocalypse Now, con una ventina di anni di meno.
Filippo Puglia aveva ancora qualche amico in Italia, era stato proprio uno di loro a scrivergli. La mail lo informava che c'era un poliziotto che stava facendo in giro un mucchio di domande sul suo conto. Filippo avrebbe anche potuto non leggere quel nome, sapeva già che si trattava dell'ispettore Alfieri.
Puglia era certo che all'epoca del loro ultimo incontro l'ispettore non sapesse che ruolo aveva ricoperto nella morte della sorella. Se ora lo stava braccando in quel modo qualcuno doveva averlo informato. Non erano molti i candidati al ruolo di delatore, considerato che per fare la spia bisognava essere ancora in vita.
Andrea rientrò a casa, la trovò avvolta nel buio. Accese la luce nel salone e raggiunse con passo felpato la cameretta, la porta era aperta. Si sedette sul letto di Lorenzo. Lo osservò dormire, ne annusò l'odore, ne intuì il respiro. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, chiedergli com'era stata la sua giornata. Quando c'era ancora Alice gli capitava spesso di tornare a casa e sedersi dove era ora, mentre Lorenzo dormiva, per sussurrargli domande a cui il bambino non poteva rispondere. Quel rituale esorcizzava il dispiacere per aver trascorso un'intera giornata senza parlare con suo figlio. Da quando Iolanda dormiva nel letto di sopra non gli era venuto più naturale, si sentiva a disagio, spiato. Detestava quell'invadenza necessaria, ma più di ogni cosa detestava lei.
Poggiò le labbra sulla fronte di Lorenzo e si alzò.
Si sedette nello studio e aprì il cassetto, prese la cartellina con i frammenti delle lettere. Era stata proprio quell'arpia di sua suocera a farglieli avere.
Alice se n'era andata da due giorni, la mattina aveva ricevuto quella che sarebbe rimasta la sua unica telefonata. Sua moglie gli diceva di stare bene e lo implorava di smettere di cercarla. Andrea non le aveva creduto, era certo che qualcuno la stesse costringendo, avrebbe fatto di tutto per scovarli. Iolanda gli aveva detto che sarebbe stato inutile, che era la verità, che se anche l'avesse trovata non avrebbe risolto nulla, lei sarebbe fuggita ancora. Perché sua suocera gli diceva quelle cose? Come faceva a esserne così convinta?
L'indomani Iolanda si era presentata a casa sua per rimanerci, portava in dote una scatola da scarpe. Andrea l'aveva aperta: era piena di pezzetti di carta.
«Cosa sono? Perché li hai tu?».
Iolanda gli aveva risposto che da un anno a quella parte sua figlia le faceva visita col bambino, le chiedeva di portarlo fuori così lei avrebbe riposato un po' e si chiudeva in quella che una volta era stata la sua cameretta. Dopo ogni visita Iolanda trovava una lettera stracciata nel cestino sotto la scrivania. Non sapeva nemmeno lei perché, ma non le aveva mai buttate. Le aveva conservate in quella scatola, e ora le consegnava a lui.
Se lei sapeva che Alice voleva andare via perché non lo aveva informato prima, perché non aveva provato a parlarci? Iolanda a quella domanda avrebbe sempre dato la stessa risposta:
«Non erano affari miei, e poi nessuno poteva farci nulla».
Come previsto dall'ispettore Alfieri l'immagine restituita dai media di Begucci virò da povero padre distrutto dagli eventi a potenziale carnefice. Uscirono le prime indiscrezioni di stampa sulle intercettazioni: le numerose amanti, il contenuto pornografico (che diventò come sempre pedopornografico, anche se non era così) del suo pc, la frequentazione di forum specializzati in incontri perversi. L'Italia, ora forcaiola, si ritrovò allineata e coperta dietro il dito accusatorio che indicava il mostro. La prima conseguenza per Giulio fu l'immediata rottura dei rapporti con la famiglia di Margherita.
«Non so se è un assassino, di certo è un porco, lo voglio rivedere solo in tribunale» dichiarò la madre di Margherita ai microfoni dei tg.
Begucci viveva ormai segregato dentro casa, insieme ai gemelli e ai suoi genitori. Solo Maria aveva il coraggio di uscire per fare la spesa, non rivolgeva la parola a nessuno, ma guardava tutti dritto negli occhi. Giulio trascorreva la giornata piagnucolando e inveendo contro il televisore. L'attenzione sull'omicidio di Margherita era cresciuta dopo le indiscrezioni che lo riguardavano. La tv non faceva altro che mostrare sue foto e vecchie interviste, ponendolo sotto una nuova luce. In un servizio avevano persino montato un video in cui chiamava in lacrime Margherita, dicendo quanto le mancava, con l'intercettazione in cui, mentre si masturbava, pianificava un atto sessuale nel fosso dove era stato ritrovato il cadavere di sua moglie.
Quelle cose erano personali, solo sue. Ognuno dovrebbe avere il diritto di essere becero e debole quanto vuole nella sua privacy. E poi tutti questi falsi indignati, come si permettevano di giudicarlo?
Non dovevano fare i santarellini con lui.
Come amministratore del forum hard Giulio aveva avuto accesso alle identità di coloro che nascondevano le proprie depravazioni dietro uno pseudonimo. Per non parlare poi delle sue numerose amanti, la metà delle quali era sposata e aveva dei figli.
Quanti padri puttanieri, quante mogli zoccole, quanti preti che lo prendevano nel culo, quanti giornalisti che lo andavano a succhiare ai trans, quanti stronzi ipocriti c'erano tra quelli che ora gli davano del mostro?
Avrebbe voluto vedere i loro di segreti messi in piazza.
Quella mattina il commissario Valente e l'ispettore Alfieri si erano recati a controllare il locale gestito da Begucci.
La Lambada era un ristorante-nightclub ricavato in una grotta di tufo subito fuori Tivoli. Davanti all'ingresso il commissario ricordò come mai conoscesse il nome di quel posto pur non essendoci mai stato prima, gliene aveva parlato Alice. Era andata lì per festeggiare l'addio al nubilato di una sua amica. Il matrimonio che ne era seguito era stata l'ultima festa a cui avevano partecipato insieme. L'ultimo momento di vera spensieratezza. L'ultima notte in cui avevano fatto l'amore: alticci, allegri, felici. Lui di certo.
Chiuse gli occhi e vide le spalle nude di Alice sopra di sé, i capelli scompigliati che le coprivano parte della bocca socchiusa, quel modo innaturale di inclinare la testa mentre raggiungeva l'orgasmo, il suo odore. L'odore del sesso di Alice aveva su di lui un potere assoluto, un richiamo che non avrebbe mai ritrovato in nessun'altra.
Alfieri sentiva avvicinarsi il momento della vittoria, quello in cui avrebbe dimostrato in maniera incontrovertibile che era stato lui ad avere ragione su quel caso, sin dal principio. Che malgrado quello che recitava il suo scarno curriculum era lui il bravo poliziotto. Aveva lasciato il commissario sulla porta ed era andato in perlustrazione.
La Lambada si presentava sin dal primo sguardo come un locale a vocazione femminile. Sulla parete lunga della sala c'era un piccolo palco con tanto di pertica. Lì, due volte alla settimana, si esibivano degli strip men, come recitava la puntuale locandina. Sul bancone del bar degli opuscoli cartacei riportavano le infinite raffinatezze che la direzione era in grado di offrire alle signore che avessero voluto festeggiare lì un addio al nubilato, o comunque una frizzante serata tra donne. C'era persino il menù afrodisiaco farcito di doppi sensi, il gran finale prevedeva la torta dall'inequivocabile foggia fallica, di cui veniva riportata anche una foto. Marco e Andrea si scambiarono un sorriso sardonico: Giulio Begucci aveva investito nell'attività perfetta per le sue inclinazioni.
Era mattina, il locale era chiuso al pubblico, ad aprire era stato il bengalese che si occupava della cucina. I due poliziotti volevano fare quel primo sopralluogo senza Begucci tra i piedi. Alle pareti erano appese, qua e là, foto di feste scatenate: uomini muscolosi ricoperti d'olio con indosso solo gli slip, in piedi sui tavoli, brandivano enormi falli di gomma in direzione di donne ululanti. Alcune istantanee erano anche più esplicite, con pose che alludevano ad amplessi selvaggi. Il commissario fece notare all'ispettore che almeno in questo Begucci non aveva mentito: quel locale, sempre pieno di donne sole, doveva essere il territorio di caccia ideale per un uomo con le sue attitudini. Questo la moglie non poteva ignorarlo, e se fosse stata una donna gelosa non l'avrebbe accettato.
L'ispettore Alfieri replicò interrogando il cuoco.
«La moglie del proprietario veniva spesso qui?».
Il bengalese dimostrò da subito di non avere in simpatia il suo principale. Invece di rispondere prese a lamentarsi dei numerosi emolumenti arretrati.
Alfieri si stizzì, ma cos'era, un virus? Chi entrava in contatto con Begucci perdeva la capacità di rispondere in maniera chiara a una semplice domanda?
«Guarda che siamo della polizia, non del sindacato».
Il bengalese dimostrò di essere più ricettivo del suo datore di lavoro.
«La signora era tanto una brava persona e questo posto non le piaceva, per fortuna non veniva quasi mai».
«Come mai per fortuna, visto che ti era così simpatica?».
«Perché ogni volta che veniva qui lei dovevo pure fare il lavoro delle foto. Oltre a pulire, cucinare, apparecchiare, portare fuori l'immondizia».
I poliziotti lo osservarono aprire un ripostiglio che custodiva una serie di quadri dozzinali, di quelli raffiguranti vecchi scorci della città o antichi mestieri.
«Begucci voleva che cambiassi le foto alle pareti quando veniva sua moglie?» gli chiese incuriosito il commissario.
«Non qui, nel suo ufficio».
L'extracomunitario indicò un cunicolo sul fondo della sala. Valente gli fece cenno di condurli lì.
L'ufficio di Begucci era una stanza di quattro metri per quattro, fronte cesso, senza finestre, con una scrivania sul lato destro della porta e un divano su quello opposto. Alle pareti altre foto, stavolta di un tenore diverso. A differenza di quelle nella sala in ciascuna era presente anche Begucci e con lui una o più donne in atteggiamenti disinvolti, per non dire lascivi.
«Queste erano le foto che dovevi sostituire con i quadri quando veniva sua moglie?».
L'uomo assentì.
Se Begucci si adoperava così alacremente per tenere nascosti a Margherita quegli scatti era evidente che, diversamente da quanto aveva affermato, lei non fosse a conoscenza della sua vita da libertino. L'ispettore Alfieri stava per articolare in parole quel pensiero ma fu preceduto.
«Ora abbiamo un movente» ammise il commissario. «Lei sarebbe pronto a ripetere davanti a un magistrato quanto ci ha appena raccontato?».
L'uomo realizzò solo in quel momento che se il suo principale fosse finito in prigione lui sarebbe passato dal ricevere lo stipendio in ritardo a non percepirlo affatto. Alfieri glielo lesse in faccia.
«Come siamo messi col permesso di soggiorno?».
La medesima logica elementare portò il bengalese a ritenere che nessun lavoro in Italia fosse meglio che nessun lavoro in Bangladesh. E poi si sarebbe tolto la soddisfazione di fare uno sgarbo allo stronzo. A quel punto non solo diede il suo assenso, ma arricchì la storia con dovizia di particolari. Spiegò che ogni donna ritratta in quelle foto era stata scopata da Begucci.
«Per lui sono dei trofei, come le teste che appendono i cacciatori».
«E tu che ne sai?» gli chiese divertito Valente, che iniziò a passare in rassegna le foto.
Il cuoco rispose che era stato il suo capo a vantarsene. Il bengalese si accorse che il commissario ne aveva staccata una dal muro. Ritraeva Giulio e una bionda sorridente e alticcia. Erano guancia a guancia, di profilo, lei mostrava un cocktail alla macchina, lui le agguantava una natica.
«Quella per esempio» indicò la foto nelle mani del commissario, «se l'è scopata qui fuori, nel parcheggio dietro il locale. Io ero andato a buttare l'immondizia e ho visto che se la faceva di brutto sul cofano della Mercedes».
Il rumore del vetro infranto interruppe il racconto.
Andrea lo prese per il collo sbattendolo contro il muro.
«Che cazzo dici, stronzo? Che cazzo dici!».
Il commissario aveva il volto trasfigurato, l'ispettore se ne accorse solo in quel momento. Lo afferrò per le spalle, obbligandolo a mollare la presa sull'immigrato che iniziava a diventare cianotico.
Andrea si divincolò e uscì dall'ufficio spalancando la porta con un calcio.
Marco raccolse da terra la foto di Begucci con quella donna. La liberò da ciò che rimaneva della cornice, se la mise in tasca.
Andrea era in strada.
Prendeva aria.
Aveva appena superato il confine che lo divideva dalla risposta che andava cercando da mesi.