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Vista del fiume Pinheiros, a San Paolo.

Sul fiume ero un re

La costruzione della diga di Belo Monte ha obbligato uomini, donne e bambini che vivevano felicemente sulle rive del fiume Xingu a trasferirsi nella periferia di Altamira, la città più violenta del Brasile. Ora abitano in mezzo a continue sparatorie e al riparo di finestre munite di sbarre, costretti a comprarsi da mangiare con soldi che non hanno mai avuto, e di cui non hanno mai sentito il bisogno.

ELIANE BRUM
Traduzione di Luigi Maria Sponzilli

ELIANE BRUM — Giornalista, scrittrice e documentarista brasiliana. Ha lavorato a lungo per il quotidiano Zero Hora e la Revista Época. Negli ultimi anni si è occupata soprattutto di Amazzonia e comunità emarginate. Dal 2013 tiene una rubrica su El País. Il suo documentario Uma história severina le è valso numerosi premi, mentre Laerte-se, sulla fumettista transgender Laerte Coutinho, è la prima produzione brasiliana per Netflix.

Antonio das Chagas e Dulcineia Dias possedevano un’isola. Una piccola scheggia di foresta pluviale amazzonica sul fiume Xingu.

«Vivevo meglio di qualunque abitante di San Paolo» dice Antonio, riferendosi alla città più ricca del Brasile. «Se volevo lavorare la terra, lo facevo. Altrimenti la terra era lì anche il giorno dopo. Se volevo pescare, lo facevo, ma potevo anche decidere di raccogliere bacche di açaí. Avevo un fiume, avevo la foresta, avevo la serenità. Sull’isola non avevo porte. Avevo una casa... E poi, sull’isola, non ci si ammalava.»

Antonio e Dulcineia ora hanno affittato una casa che ha una sola finestra, per di più munita di sbarre, perché vivono nella periferia di Altamira, la città più violenta del Brasile. Hanno scoperto cos’è la fame, ma non possiedono le parole per descriverla. Se glielo chiedi, gli occhi di Antonio – un sessantenne che fino a ieri non sapeva neanche cosa fosse la vita in città – si riempiono di lacrime. Dulcineia, che ha otto anni meno di lui, sta accovacciata in un angolo, con la schiena appoggiata a un muro di cemento pieno di crepe.

Nel passaggio dalla loro isola sul fiume alla casa che hanno dovuto affittare ad Altamira, questo popolo della foresta è stato convertito in una massa di inurbati indigenti. Emblema dello sfruttamento dell’Amazzonia deciso dal governo, questo processo ha raggiunto il suo apice tra il 1964 e il 1985, negli anni della dittatura militare, quando vennero lanciati megaprogetti come l’autostrada transamazzonica. Ma l’episodio che ha rovinato la vita di Antonio, Dulcineia e centinaia di famiglie che vivevano lungo il fiume Xingu è avvenuto quando in Brasile era già tornata la democrazia.

Costruito in Amazzonia, nello stato del Pará, il complesso idroelettrico di Belo Monte è uno dei progetti infrastrutturali più grandi al mondo. Ma è anche oggetto di molte e dure polemiche. La procura generale del Brasile ha avviato 24 procedimenti contro Belo Monte per violazione dei diritti umani e delle norme ambientali. D’altra parte, questo progetto ha lasciato una macchia profonda sul Partito dei lavoratori, visto che due dei suoi leader di spicco – Lula e Dilma Rousseff – ne hanno fatto una priorità quando erano al governo.

Ignari delle trame politiche nazionali, Antonio e Dulcineia si ritrovano oggi poveri. Antonio, che non aveva mai pensato di andare in pensione perché «non ne avevo bisogno», vive di un sussidio statale che gli permette di dare da mangiare a sua moglie, sua figlia e un nipote. L’affitto e la bolletta dell’elettricità si portano via il settanta per cento delle entrate, quello che resta sono 1,60 reais al giorno per persona, circa 35 centesimi di euro.

Situata lungo il fiume Xingu, Altamira è una tipica cittadina dell’Amazzonia: quasi tutti i suoi alberi sono stati tagliati perché l’élite politica ed economica locale li considera un intralcio alla circolazione o qualcosa da estirpare. L’indice di calore (che tiene conto della temperatura dell’aria e dell’umidità relativa) raggiunge i quaranta gradi in estate, e supera i trenta anche in inverno, durante la stagione delle piogge. Antonio e Dulcineia non possiedono né un frigorifero né un ventilatore. Il pezzo forte del loro soggiorno è un fotomontaggio della figlia e dei nipoti, ritratti su un finto sfondo disneyano rispettivamente nelle vesti di principessa e di soldati.

«La mia casa era la natura. Ho cresciuto le mie tre figlie orgoglioso di quello che ero. Mi sentivo ricco.»

Quando il bacino formato dalla diga ha cominciato a riempirsi e l’acqua ha iniziato a salire intorno alla loro isola, Antonio ha visto morire diverse creature della foresta. Scimmie, armadilli, aguti e bradipi sono stati sommersi, morendo annegati. «Siamo riusciti a salvarne alcuni tirandoli sulla nostra canoa, ma ne abbiamo visti molti morire» dice. Quegli animali fanno parte della foresta, come lui. E anche Antonio, come loro, è ancora alla ricerca della terraferma, nella solitudine urbana ha la sensazione di annegare. Per sopravvivere all’agra vita di città, si è preso in casa due cuccioli perché non sa «come vivere senza animali intorno». E si è fatto prestare dei soldi per comprare del latte in polvere con cui nutrirli.

Oggi la loro vita è tutta una «novità»: la prima bolletta dell’elettricità, la prima casa in affitto, la prima volta che devono comprarsi il cibo, la prima volta che sperimentano la fame. Antonio si sveglia alle quattro del mattino con l’impressione di soffocare e corre nel cortile interno, un cubo di cemento senza alberi da dove riesce a vedere un pezzetto di cielo. Non si siede perché non ha una sedia. Se ne resta in piedi, aggrappato a questo frammento di libertà, e a volte piange. «Essere poveri è come vivere all’inferno» dice.

«ERO UN RE»

Raimundo Braga Gomes è molto più perentorio: «Sul fiume ero un re.» Raimundo e Antonio sono ribeirinhos, un popolo tradizionale della foresta, tra i più invisibili e negletti del Brasile. I ribeirinhos hanno un’identità del tutto particolare, definita dal loro stretto rapporto con la foresta e il fiume. Non possiedono la terra ma ne fanno parte. È come «camminare sulla ricchezza», per usare un’espressione di Raimundo. «Per essere felice non servivano soldi. La mia casa era la natura. Per il legname e la paglia non servivano chiodi. Avevo il mio pezzo di terra dove piantavo un po’ di tutto, ogni genere di albero da frutto. Pescavo, mi facevo la farina di manioca. Se volevo mangiare qualcos’altro, prendevo una delle mie galline. Se volevo della carne, andavo a caccia nella foresta. E per guadagnare qualcosa, pescavo qualche pesce in più e andavo a venderlo in città. Ho cresciuto le mie tre figlie orgoglioso di quello che ero. Mi sentivo ricco.»

Come Raimundo, la maggior parte dei ribeirinhos discende dai poveri braccianti del Nordest trasferiti nella foresta per raccogliere il lattice alla fine dell’Ottocento, o dai «soldati della gomma» arruolati di forza al tempo della Seconda guerra mondiale. Quando crollò il mercato della gomma e la guerra finì, vennero abbandonati nella foresta. Alcuni di essi misero su famiglia con un’indigena, magari dopo averla rapita dal suo villaggio. Iniziarono a condurre un’esistenza fluida come il fiume, prima su una riva dello Xingu, poi sull’altra: uno stile di vita tra i più affascinanti della foresta amazzonica. Anche i ribeirinhos di origine indigena hanno caratteristiche peculiari. Non sono agricoltori, ma coltivano la terra. Pescano, raccolgono noci, cacciano, incidono gli alberi della gomma per ricavarne il lattice, e in qualche caso si cimentano nella prospezione mineraria. Vivono a cavallo di mondi diversi.

Abituati a cambiare isola e indifferenti al concetto di terra come merce, la loro idea di libertà è spiazzante. «Non ho mai avuto un lavoro» dice Antonio «sono sempre stato libero.» Lavorano tutti duramente, perché la vita nella foresta non è facile, ma fanno solo ciò che vogliono, e quando vogliono. Trasformarli in poveri inurbati li priva della loro essenza e fa di loro dei paria, perché non riescono a trovare un impiego. Da esseri orgogliosi della propria libertà, si ritrovano costretti a vivere di lavoretti e favori. Non è un caso che chiamino la città «il di fuori». «Del fiume so tutto» dice Antonio. «Del di fuori non so niente. Chi mai mi darà un lavoro?»

Fino a poco tempo fa i ribeirinhos non erano riconosciuti come un popolo tradizionale né dal governo né da Norte energia, il consorzio che raduna le imprese pubbliche e private coinvolte nella costruzione del complesso idroelettrico di Belo Monte. Un giorno, era il 2012, Raimundo rimase sorpreso nel vedere arrivare degli estranei su un motoscafo, gente «dell’impresa». Gli dissero che la sua isola stava per essere «eliminata». «Io non me ne vado» rispose. Allora gli venne comunicato che l’isola sarebbe presto finita sott’acqua – o firmava un contratto o sarebbe annegato con la sua isola. «Ho firmato un documento, ma non so leggere. So solo scrivere il mio nome.»

Raimundo venne trasferito in una delle casette a schiera tutte uguali costruite da Norte energia per ospitare le famiglie cacciate da Belo Monte. La zona in cui si ritrovò ad abitare si chiamava Acqua azzurra – una presa in giro, considerando che distava più di sei chilometri dal fiume: molto più del chilometro, o poco più, di cui si parlava nel contratto di costruzione. Quell’accordo stabiliva inoltre che le case fossero di forma e aspetto diverso, e che si impiegassero materiali di qualità. Appena i muri iniziarono a creparsi, il tribunale fece sospendere i lavori della diga finché quelle abitazioni non fossero state risistemate in ottemperanza al contratto. Nel frattempo Raimundo ha visto le crepe nelle pareti e nel tetto di casa sua allargarsi.

STRADA TRANSAMAZZONICA

Nei primi anni Settanta, quando la propaganda del regime militare guidato da Emílio Garrastazu Médici era al suo apice, l’allora ostentato milagre brasileiro si concentrava sulla creazione di imprese statali e grandi opere. La parola d’ordine del governo era: integrazione nazionale. E per integrare servivano le strade. Ma la BR-230, nota come Rodovia transamazônica (1972) era qualcosa di più di una semplice strada, era un antico sogno di conquista, la sfida alla principale risorsa che i militari avevano a disposizione: la foresta. Progettata per tagliare da est a ovest la parte più panciuta della nazione, avrebbe dovuto superare gli ottomila chilometri di estensione, fino al Perù. Si è fermata a poco più di cinquemila, la maggior parte dei quali non asfaltati, ma sono rimaste piste di terra che ancora oggi, da ottobre a marzo, specialmente nella regione del Pará, si allagano e sono impraticabili. Che siano rimaste di terra è forse un bene, poiché la frontiera aperta dalla Rodovia aprì la strada alle motoseghe e per questo le battaglie ecologiste hanno tentato di impedire che si completasse l’opera, che pure ha contribuito a collegare città e aree prima irraggiungibili. La Transamazzonica voleva dare concretezza allo slogan protezionista e nazionalista integrar para não entregar, «integrare per non perdere» (e consegnare agli stranieri), con un piano che oltre a sfruttare le risorse doveva popolare quelle zone. Il lemma, e l’idea, sono stati rispolverati dal governo di Jair Bolsonaro, tornato a considerare quel «deserto verde» una frontiera di conquista e un’occasione di propaganda.

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«Adesso sono povero. Devo comprare tutto ciò di cui ho bisogno» dice. «Ma siccome non ho i soldi per comprare ciò che voglio, compro ciò che posso. Mi piace la farina di manioca, ma posso permettermi solo del riso. Una volta raccoglievo quattrocento angurie di prima qualità, oggi non posso comprarmene nemmeno una mezza marcia. Una volta tiravo il collo a una gallina per metterla in tavola, oggi non ho i soldi per comprarla. Una volta avevo un fiume vivo che mi dava da vivere, oggi ho un lago morto – e devo pure pagare per raggiungerlo.»

«ADESSO VIVO IN MEZZO AGLI SPACCIATORI»

Raimundo ha deciso di sfidare la monotonia di quelle casette tutte identiche aggiungendo delle tettoie di legno, nello stile dei ribeirihnos. Mentre ci stava lavorando, un passante gli ha gridato: «Tutto inutile, sembra comunque povera.»

«Non puoi capire» gli ha risposto Raimundo. «Sai cosa vuol dire essere poveri? Vuol dire non avere scelta.»

Raimundo ha anche imparato che essere poveri vuol dire che «le pallottole ti frantumano le finestre». Dal 2000 la popolazione di Altamira è cresciuta rapidamente, passando da 77mila a 110mila abitanti, un aumento del 44 per cento. Nello stesso periodo, il numero di omicidi è schizzato del 1110 per cento.

Nell’ultimo «Atlante della violenza» pubblicato dall’Instituto de pesquisa econômica aplicada (un istituto di ricerca federale) Altamira viene classificata come la città più violenta del Brasile. Secondo i dati dell’Istituto Igarapé, il tasso annuale di omicidi ad Altamira è di 124,6 morti per centomila abitanti – contro i 21,8 di Rio de Janeiro. Sia l’aumento della popolazione che l’esplosione della violenza urbana sono in parte da attribuire a Belo Monte, che ha attirato migliaia di persone in una città sprovvista di infrastrutture adeguate e ha visto la sua struttura sociale disgregarsi velocemente.

Per i ribeirinhos, abituati a vivere senza porte, l’impatto è stato devastante. «Adesso vivo in mezzo agli spacciatori. Ogni tanto mi capita di imbattermi in un cadavere. Finora ne ho contati 13, ma ci sono anche quelli che non ho visto. Una domenica, nello stesso giorno, mi sono trovato davanti i corpi di due ragazzi del quartiere. Ho sentito degli spari, pum, pum pum» dice Raimundo imitandone il rumore. «Ci hanno cacciato nel regno della violenza.»

Almeno quarantamila persone sono state strappate alle loro case per poter costruire il complesso di Belo Monte. Oltre a circa 1500 ribeirinhos, contadini, pescatori e abitanti delle aree cittadine sommerse dalla diga. Alcuni sono stati pagati in contanti, ad altri sono stati concessi dei crediti di ricollocazione; altri ancora sono stati reinsediati altrove. Ma c’è anche chi non ha ricevuto niente e sta lottando nei tribunali per ottenere un risarcimento. Le lottizzazioni portate a termine per dare una casa alle famiglie costrette a trasferirsi hanno fatto saltare i confini tra quartieri, mischiando gente che non aveva mai vissuto insieme. Gruppi rivali di trafficanti di droga, che fino a quel momento avevano presidiato il proprio territorio, nel volgere di una notte si sono ritrovati vicini di casa.

In meno di quattro anni questi «reinsediamenti urbani di massa» sono diventati un nuovo terreno di guerra all’interno di Altamira. Non solo i residenti sono costantemente oggetto di furti, rapine e omicidi, ma devono anche subire l’infamia di essere etichettati come criminali.

«Una volta avevo un fiume vivo che mi dava da vivere, oggi ho un lago morto – e devo pure pagare per raggiungerlo.»

Eliza Ribeiro, una pescatrice di 47 anni, viveva con suo marito su una piccola isola. Quando vennero trasferiti in città, lui non riuscì a trovare lavoro. «Mio marito era disperato perché cominciavamo a patire la fame, e ha iniziato a bere pesantemente» dice. Si è anche invischiato in traffici di droga.

Al tempo delle elezioni del 2016, Eliza pensava che non sarebbe potuta diventare più povera di quanto già fosse. Iniziò a distribuire dei volantini per un candidato sindaco di Altamira e a brandire degli striscioni lungo le strade per cinquanta reais al giorno. Una domenica tornò a casa e si mise inutilmente ad aspettare suo marito, poi uscì a cercarlo. Lo trovò nudo, con la testa fracassata e la lingua fuori.

Sentì che la sua vita era finita. «Quando vado a letto, non so cosa mangeremo il giorno dopo. La mia figlia più piccola si sveglia piangendo e chiede cibo. Le dico: “Tuo papà è morto, e io non ho soldi.” Poi scoppio a piangere anch’io.» Un giorno è andata a bussare a tutte le porte. Le hanno offerto venti reais e un piatto di riso per fare le pulizie e lavare i panni. «Sì, ma i miei figli cosa mangeranno?» ha chiesto, ed è tornata a casa per condividere la fame con loro.

Ha ricominciato a pescare, ma il tragitto di sei chilometri per arrivare al fiume è caro. Eliza e sua figlia caricano tutto ciò che possono – dalle taniche di benzina ai materassi – su una motocicletta. Con il nipotino in sella, davanti, iniziano un viaggio di quattro ore (in moto e in barca) per raggiungere l’isola di un suo amico. Arrivate a destinazione, issano un telone e appendono delle amache. Dopo cinque giorni di pesca e di fatica, tornano in città per vendere il pesce, e ripartono.

Nelle strade di Altamira se ne vedono a centinaia di queste motociclette, spesso cariche di intere famiglie senza casco, che serpeggiano tra i pick-up dotati di aria condizionata con a bordo il solo guidatore – uno spettacolo che esprime con plastica evidenza la tensione sociale che regna nelle città dell’Amazzonia.

RESISTENZA

Secondo i più critici il destino degli abitanti della foresta trasformati in proletariato urbano non sarebbe una tragedia casuale, ma frutto di un preciso disegno politico. Trattandosi di un popolo tradizionale, ai ribeirinhos la costituzione garantisce il diritto di vivere seguendo i propri usi e costumi. Ma quando diventano abitanti delle periferie questo diritto lo perdono. Da un lato la foresta che abitavano diventa a disposizione dell’industria mineraria, degli agricoltori e degli allevatori, mentre dall’altro i ribeirinhos confluiscono in quelle masse urbane pronte a sostenere chi vuol far scempio della foresta pur di avere un lavoro.

Mai come ora, da quando in Brasile è tornata la democrazia, si avverte in modo quasi palpabile la pressione per ammorbidire le leggi in materia di ambiente e agevolare lo sfruttamento della foresta. Ma è anche la prima volta in cui i ribeirinhos cacciati dalle loro terre hanno dato vita a un vero e proprio movimento di resistenza. Di recente, una loro delegazione si è recata a Brasilia per presentare una richiesta che ha dell’incredibile: la creazione di un «territorio ribeirinho» per circa trecento famiglie lungo il fiume Xingu. Non vogliono più essere degli inurbati ridotti all’indigenza. Vogliono tornare alla loro vita di popolo della foresta.

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La crescita disorganizzata della città di San Paolo ha contribuito all’inquinamento dei suoi fiumi.

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La centrale idroelettrica Traição costruita sul fiume Pinheiros e situata vicino al ponte Engenheiro Ari Torres, fu inaugurata nel 1940.

CACAO MERAVIGLIAO E ALTRE RISORSE

Bordeggiando le coste brasiliane, le spedizioni antiche avvistavano la foresta atlantica. Da lì proveniva una grande ricchezza, un albero dalla corteccia rossa che pareva cotta sulla brace e forse per questo chiamata brasil, esattamente Pau (tronco) brasil. In Europa la sua resina veniva usata per tingere i tessuti, e per via di quell’albero la fiorente terra oltre oceano passò a chiamarsi Brasile.

Grande ricchezza, e poi povertà, provenne dalla seringueira, l’albero della gomma. Il 1896 si chiudeva a Manaus con l’inaugurazione del teatro Amazonas, un tempio della lirica in stile rinascimentale piantato in mezzo alla foresta. Era la prova tangibile dell’opulenza della città, che viveva allora l’auge del «ciclo della gomma», un boom che durerà solo fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. Di nuovo un albero rappresenterà un ciclo di ricchezza, il cacau, che divenne la maggior risorsa dello stato di Bahia per quasi un secolo, facendo per un certo periodo del Brasile il maggior produttore mondiale del frutto che costituisce l’anima del cioccolato. La produzione baiana cala drasticamente alla fine degli anni Ottanta a causa di un fungo, stravolgendo l’economia della regione. Negli stessi anni i brasiliani si sono arricchiti con il caffè, sulla cui produzione è cresciuta la città di San Paolo, anche perché molti immigrati arrivavano proprio per essere impiegati nella raccolta del prezioso frutto. Oggi è il petrolio a rappresentare una risorsa, soprattutto dopo la scoperta, tra il 2008 e il 2009, dei pre-sal, giacimenti sottomarini davanti alle coste dello stato di Rio.

A seguito delle proteste, il consorzio Norte energia è stato obbligato a fornire uno stipendio mensile ad alcuni di loro, per garantire un minimo di sostegno finché la questione non verrà risolta. «Norte energia si attiene a quanto stabilito dal Projeto básico ambiental che chiede di monitorare e mitigare l’impatto ambientale e sociale nel lungo periodo in tutte le aree sottoposte agli effetti, diretti e indiretti, della centrale idroelettrica di Belo Monte. La validità di quel documento è riconosciuta da enti e organismi pubblici e federali.»

Leonardo Batista, un uomo di 58 anni, è uno dei capi del movimento di resistenza e membro del Conselho ribeirinho. Meglio noto come Aranô, è figlio di un ribeirinho e di un’indigena della tribù Juruna. Vive a Jatobá, un altro reinsediamento urbano, dove campa con cinquanta reais al mese. A Natale è riuscito a mettere qualcosa sotto ai denti perché un prete gli ha mandato un po’ di cibo. A casa sua i ladri sono entrati ben tre volte. A quel punto Aranô ha impugnato la sua borduna (l’arma tradizionale a metà tra spada e bastone) e ha fatto irruzione in un’assemblea per catturare l’attenzione generale spaccando tutto. Gli è stato impedito di entrare.

Le lacrime gli scorrono a fiotti sulle guance mentre dice: «Abbiamo sempre avuto un passato, un presente e un futuro. Il passato se n’è andato, il presente è un incubo. E il futuro?» image