image

La cantante Mc Carol, famosa per i suoi testi che affrontano tematiche sociali e giocano con doppi sensi piuttosto espliciti sul sesso.

Funk, orgoglio e pregiudizio

Volgari, esagerate, sguaiate. Ma anche pionieristiche, liberatorie, femministe. Le funkeiras rovesciano il paradigma della società patriarcale, che vuole un corpo femminile scultoreo e perfetto, e si oppongono allo stereotipo della bellezza bianca e borghese.

ALBERTO RIVA

ALBERTO RIVA — Scrittore e giornalista, ha vissuto a Rio de Janeiro. Tra gli altri, è autore del romanzo Sete (Mondadori, 2011) e del reportage Seguire i pappagalli fino alla fine (Il Saggiatore, 2008). La musica è una sua grande passione: insieme a Enrico Rava ha scritto Note necessarie (minimum fax, 2004). Con Stefano Bollani è autore di Parliamo di musica e Il monello, il guru e l’alchimista, entrambi editi da Mondadori. Collabora con Il Venerdì di Repubblica e Internazionale.

Il mio uomo, canta la funkeira, è un cretino buono solo a lavarmi le mutandine. E lo avverte: «Se brontoli ti mando in cucina a sbrigare pure i piatti. Non ti sta bene? Ti metto a dormire davanti alla porta di casa, perché ho voglia di uscire a divertirmi.»

La giudicano volgare, esagerata, sguaiata. Forse Mc Carol, una delle principali esponenti del funk femminile nero in Brasile, sta solo sovvertendo le regole, capovolgendo il quadretto per vedere che effetto fa.

A cominciare da sé, dal suo corpo. Sul palco del programma tv Furacão 2000, davanti a una pista da ballo grande come un campo da calcio, Mc Carol incombe dall’alto delle sue zeppe giallo limone, le forme debordanti sugli shorts di jeans, guizzanti sotto il body aderente. Si piazza al centro, si porta il microfono alla bocca. Non canta, declama gridando: «Voglio l’aria condizionata, del ventilatore non mi frega niente, fa un caldo bestiale! Scopami con il tuo cazzo gelido! E se il condizionatore si rompe, mi cerco un altro uomo.» Dove la ragazza di Ipanema era un’onda che passava, leggera come una brezza sulla sabbia dorata, la funkeira pianta le gambe sulla scena come fossero due cannoni. Non vuole corrispondere all’ideale comune di bellezza, vuole avere potere. Un potere che le è stato sottratto.

Mc Carol è, insieme ad altre artiste nere come lei, provenienti dalla favela proprio come lei, protagonista di un movimento musicale che racconta molto bene una delle pulsioni più forti del Brasile di oggi: la presa di coscienza del ruolo femminile negli strati più bassi della società.

È in questa sezione molto ampia ma molto trascurata della popolazione, infatti, che i ruoli sociali, nella famiglia e nei rapporti tra i generi, si sono mantenuti rigidi, quasi immobili per decine di anni, anzi per più di un secolo. Si potrebbe dire che sono rimasti cristallizzati dalla colonia portoghese fino a ieri.

Nella musica, l’onda cresce: prima il funk femminile lo si vedeva solo nelle feste periferiche del sabato sera, nei quartieri lontani dal centro, Nova Iguaçu, São Gonçalo, ora ha invaso YouTube e i locali di Copacabana. Perché il funk è un fenomeno prevalentemente carioca, cioè di Rio, sebbene poi abbia ispirato artisti anche nel resto del Brasile.

Mc Carol non è sola: come lei ci sono personaggi quali JoJo Todynho, Mc Mayara, Ludmilla, Mc Rebecca, la rapper Karol Conka, la lista è lunga. Le hanno definite femministe e loro ci si sono trovate bene. D’altra parte, cantano il punto di vista femminile, affermano la resistenza femminile in una società tra le più maschiliste del pianeta.

Nel caso di Mc Carol e JoJo Todynho, lo fanno prima di tutto esibendo un corpo orgogliosamente king-size, volutamente contro lo stereotipo della bellezza bianca, scultorea, palestrata, che è l’immagine delle ragazze borghesi impegnate al tramonto a fare jogging sul lungomare di Ipanema.

Ma lo affermano anche in un altro modo: mettendo in discussione, con la satira, con il turpiloquio, con le iperboli, i modelli di comportamento stabiliti, dove il sesso, proprio per essere strumento di prevaricazione, gioca un ruolo importantissimo. Mc Carol, in uno dei suoi pezzi più suonati ma anche più criticati, domanda: «Che succede caro? Cos’hai amore? Io ho appena cominciato e tu hai già goduto? Diciamolo, mi hai scopato proprio male.» Ma sarebbe da ingenui credere che Mc Carol sia solo un’arguta provocatrice che mette insieme qualche verso forte, colorito, giocando sui doppi sensi (ma neanche troppo), per far sballare una platea sempre più trasversale, per la semplice ragione che alla platea questa cosa piace.

È vero, Mc Carol ha cominciato così, giocando sul sesso e sul sovvertimento dei ruoli, ma sul tema del sesso ci hanno militato tutte.

In «Cai de boca», («Usa la bocca») Mc Rebecca declama un’ode al sesso orale, attività, suggerisce, che gli uomini dovrebbero praticare alle donne senza che gli fosse ogni volta espressamente richiesto. Il cunnilungus è un must: Karol Conka ci ha scritto una delle sue hit, «Lalá», titolo enunciato e ripetuto mimando esplicitamente il movimento della lingua: «Ora piangi, ti lamenti solo perché ti ho messo in ginocchio a fare un lalá di qualche ora…» E poco dopo: «Parlano, parlano, poi non sanno la differenza tra un clitoride e un ovaio.»

NON È DA OGGI

Tutto nasce con il funk. Ma dimenticatevi i Funkadelic e i Kool and & the Gang. Il funk carioca non ha nulla a che vedere con quella cosa ritmata, swing, dalle melodie accattivanti, la malizia di James Brown, il basso di Sly and The Family Stone.

Il funk carioca è un ritmo nudo, ripetitivo, un mantra metallico, sintetizzato, un martello echeggiante, sul quale la voce, gridata dentro il microfono schiacciato contro la bocca, snocciola i suoi versi, non necessariamente in rima. Non necessariamente versi.

Atterra a Rio nei primi anni Settanta con i grandi ritrovi che hanno ancora una matrice impregnata del soul afroamericano, come il famigerato baile del dj BigBoy. Si consumano in zone periferiche della città, chiamano a raccolta anche diecimila persone. Poi la musica cambia, prende spunto dal Miami bass, le melodie si asciugano, si svestono rivelando beat nudi e crudi, le preziose, ricercate, utilissime «basi». Il tesoro da trovare è la base giusta, sulla quale aggiungere il canto a cappella: urlato, ritmato, magari rimato. La batteria è ormai quella del campionatore. Il funky non esiste più, quello di Rio è il funk, che dopo essere stato divertimento passa per un periodo segnato anche da violenza, quando questi eventi si risolvevano come battaglie tra due fazioni contrapposte, dove poteva scapparci il morto, anche più di uno.

Poi qualcosa cambia di nuovo, il funk risorge come un’espressione tipica della comunidade, della favela. Artisti spontanei che si scoprono capaci di creare su quelle basi, di raccontare la loro realtà, le loro storie, in quel modo.

Il funk vive, per questo motivo, un lungo periodo di quarantena, di discriminazione, che è la discriminazione della povertà: le due cose coincidono. Favela uguale povertà. Funk uguale musica marginale, fatta da emarginati.

Espressione della favela, per trovare spazio al di fuori il funk deve lottare contro una barriera che non è culturale, ma che dimora nella struttura stessa di una società che il sociologo Jessé Souza definisce «schiavocratica», cioè che perpetua la struttura della società coloniale, per cui il nero è un subcittadino. Da qui l’origine della violenza (spesso poliziesca) e della sua impunità: perché il nero, in Brasile, dice Souza, «è ancora lo schiavo che scappa dalla piantagione». Gli oltre 57mila morti ammazzati solo nel 2018 sono in larga parte neri. Non è facile da spiegare quanto ancora oggi la favela sia un mondo estraneo alla classe media brasiliana; ma l’impunità che vi impera potrebbe essere un buon barometro.

image

Carolina de Oliveiro Lourenço, aka Mc Carol.

PROIBIDÃO, FUNK PROIBITO

Parente del gangsta rap statunitense, il proibidão, il funk «proibito», è sorto negli anni Novanta in molte favelas di Rio come una musica i cui testi raccontavano con realismo esacerbato la realtà locale, la lotta tra narcos e polizia, e per questo motivo sono stati accusati spesso di fare apologia del narcotraffico. Alcuni esponenti del funk più duro, emersi poi alla notorietà nazionale, come per esempio il rapper Mv Bill, impegnato per altro in attivismo sociale, hanno sempre respinto l’accusa spiegando che si tratta di cronaca nuda e cruda e non di apologia. I temi, in ogni modo, sono estremamente controversi: i codici delle diverse fazioni del narcotraffico di Rio, come Comando vermelho, Terçeiro comando, Amigos dos amigos; la descrizione minuziosa del pensiero criminale, come la vendetta nei confronti dei cosiddetti X9, gli «infami» che denunciano e fanno la spia, stigma che terrorizza la gente di favela; e dunque la descrizione senza sconti delle esecuzioni, delle punizioni in cui incorrono, i vari tipi di armi e il loro uso. Il funk proibidão è stato anche indicato, talvolta, come un linguaggio cifrato per mandare messaggi agli avversari o ai complici senza essere intercettati. Per estensione, ma si tratta di stili e generi di funk da considerarsi differenti, l’etichetta di «proibito» e la relativa accusa di apologia hanno riguardato anche il consumo di droga, quando nelle canzoni era eccessivamente esaltato; e anche il sesso, se troppo esplicito, è rientrato, come nel caso di Mr Catra, nel campo del «proibito».

Emarginato dal mainstream culturale, il funk si sviluppa come un’espressione reietta, che nasce nella favela per la favela e produce il fenomeno degli Mc, acronimo di Maestri di cerimonia, i funkeiros e i loro temi: la violenza della comunidade, il narcotraffico, il sesso, tantissimo sesso, tonnellate di sesso. Visto, raccontato, imposto dal punto di vista degli uomini. Prendiamo Mr. Catra, personaggio leggendario del proibidão sessuale degli anni Novanta e Duemila (come dimenticare la sua hit «Uma mamada de manhã», la popolarissima «poppata mattutina», che univa in un unico doppio senso il sesso orale e il fumo), morto neanche cinquantenne dopo una vita di eccessi. Dello stesso periodo sono le pioniere del funk sensual, personaggi che vengono da lavori umili e si scoprono compositrici, come Deize Tigrona, Tati Quebra-Barraco, gruppi come Bonde faz gostoso, Gaiola das popozudas, da cui poi emerge Valesca Popozuda, in auge ancora adesso. Tutte loro cominciano a raccontare il sesso e i desideri delle ragazze. Insomma, le prime funkeiras di quegli anni sono atterrate sul pianeta sesso per riprendersi uno spazio che era stato il campo di battaglia esclusivo del funk maschile. Deize, che veniva dalla Cidade de Deus, la mega favela immortalata dal film omonimo, è la prima a snocciolare versi espliciti sotto forma di doppio senso, come il suo funk in cui il dottore deve fare un’iniezione e lei sospira: «Sta ardendo ma sta entrando…» Un pezzo delle Bonde faz gostoso («La gang che lo fa bene») invitava le ragazze ad andare dal ginecologo, a non trascurare il proprio corpo. E declamava: «Siamo noi a comandare.» La parola d’ordine era: «Sfogati, racconta, parla!» L’attuale femminismo nel funk non esisterebbe se non ci fosse stata, quindici anni fa, la fase del funk sensual di Deize, Tati e le altre, se non ci fosse stata quella prima messa a fuoco della consapevolezza dei desideri femminili. Subirono forte ostracismo, perché erano nere e della favela e la reazione fu il tentativo di delegittimare quel grido. Furono definite pornografiche, stigmatizzate e ridotte a puro trash.

D’altra parte, non c’era coscienza femminista nella prima fase del funk sensual: il discorso delle funkeiras era intrinsecamente femminista ma loro rifiutavano l’etichetta. Nel documentario di Denise Garcia che racconta di quella stagione, il cui titolo è preso da uno dei primi successi di Tati, Sou feia mas tô na moda («Sono brutta ma sono alla moda»), un celebre protagonista del movimento, Dj Marlboro, lo dice bene: «Questa donna è femminista senza avere il tesserino. Ha imparato a esserlo vivendo.»

FEMMINISTE DICHIARATE

Oggi è diverso. Per artiste come Mc Carol trovarsi in quello spazio di contesa, giocando con quei temi, sarà pure cominciato come una maniera di guadagnarsi il pane, ma è diventato presto qualcosa di più serio. È stato il primo passo di un’appartenenza a qualcosa di più grande. Non a caso, Mc Carol ha finito per incontrarsi con Karol Conka e insieme hanno firmato un pezzo simbolo del movimento, «100% feminista», i cui versi sono programmatici: «Sono donna, sono nera, i miei capelli son duri…» «Sono indipendente, non accetto imposizioni, abbassa la voce, abbassa le mani!» «In famiglia ho visto la donna con gli occhi gonfi, picchiata tutti i giorni.» «Ci hanno detto che eravamo inadeguate: non sono d’accordo! Per essere ascoltate il grido deve essere più alto.» Mc Carol, che ha denunciato di essere stata aggredita e minacciata di morte dall’ex compagno, dimostra un percorso preciso quando passa dall’intrattenimento secondo i canoni del funk sensual alla militanza femminista, una presa di posizione chiara e una resistenza che finisce per avere una precisa connotazione politica.

«Sono donna, sono nera, i miei capelli son duri. Non accetto imposizioni, abbassa la voce, abbassa le mani!»

Al secolo Carolina de Oliveira Lourenço, Mc Carol, classe ’93, è di Niterói, la città che si staglia sull’altro lato della baia di Guanabara, a Rio, dove sorge il museo d’arte contemporanea disegnato da Oscar Niemeyer. Ma Carol è cresciuta nella favela del Preventório, lontana dalle cartoline che illustrano le bellezze turistiche. Si dice funkeira per caso: ha cominciato dopo essere stata spinta sul palco. Se anche è andata così, si è subito ritagliata un ruolo preciso, mischiando pezzi all’insegna della putaria (sesso, turpiloquio) con pezzi più sofisticati. Ha messo in funk una sua personale versione della storia del Brasile, «Não foi Cabral», che comincia con una parodia dell’inno brasiliano e continua enumerando i crimini dei colonizzatori. Uno dei suoi primi pezzi, «Bateu uma onda forte» («Sento una super vibrazione») è diventato uno slogan delle manifestazioni contro il rincaro del biglietto dei mezzi pubblici a San Paolo nel 2016. Anche se cosciente della sua vocazione pop (ha partecipato anche a un reality della Fox, che l’ha consacrata come icona), Mc Carol finisce naturalmente per identificarsi con le istanze del nuovo femminismo brasiliano: perché una donna come lei deve ancora rivendicare tutti i giorni la sua autonomia, la voglia di considerarsi bella, persino sexy, senza dover essere ridotta a oggetto sessuale.

Dopo l’omicidio della consigliera comunale Marielle Franco e del suo autista, avvenuto a Rio il 14 marzo 2018, senza dubbio il primo delitto politico in Brasile dopo il ritorno della democrazia nel 1985, Mc Carol le dedica una canzone in cui canta: «Mi sento imprigionata, demotivata, in quella macchina sono stata ammazzata anch’io. Provo odio, paura, terrore, la schiavitù non è finita, stanno uccidendo il nero, stanco di essere maltrattato, derubato, oppresso, arrestato, incastrato…»

LA LEGGE DI MARIA

Se ci domandiamo il perché dell’esigenza di una presa di posizione così forte, guardiamo i numeri. In Brasile la violenza di genere è un flagello sociale. Secondo dati dell’Istituto di sicurezza pubblica di Rio, nel 2018 si sono registrati, solo nello stato, 350 casi di femminicidio e 288 tentativi di compierne uno. Il 62 per cento dei delitti sono avvenuti in casa, il 56 per cento sono stati commessi dai compagni o dagli ex. Ogni 24 ore, quattro donne sono vittime di lesioni corporali, e altrettante sono minacciate. O Globo ha riunito i dati sul triennio 2016-2018 in tutto il Brasile: i casi di femminicidio sono stati dodicimila e novecentomila donne hanno chiesto a un giudice di essere messe sotto protezione.

Il contrasto al fenomeno si regola su una duplice legislazione. La Lei do feminicídio, promulgata nel 2018, e la Lei «Maria da Penha», del 2006.

Il nome della legge si deve a una vicenda che ha segnato la storia civile del paese. Maria da Penha Maia Fernandes è una farmacista nata nel 1945 nella città di Fortaleza, capitale dello stato del Cearà. Nel 1983 subisce due tentativi di omicidio da parte del marito, un professore universitario di origine colombiana. La prima volta, l’uomo le spara alla schiena mentre dorme, simulando una rapina. La donna perde l’uso delle gambe. Quattro mesi dopo, uscita dall’ospedale, la sequestra per 15 giorni e cerca di ucciderla con la corrente elettrica mentre fa il bagno.

La vicenda giudiziaria si trascina per molti anni, si giunge alla condanna ma l’ex marito riesce sempre a evitare la galera. Nel 1998 il caso finisce davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh/Oea) che accusa il Brasile di grave omissione dinanzi alle violenze subite dalla donna. Senza che vi sia una risposta adeguata da parte delle istituzioni brasiliane, nel 2002 un consorzio di Ong, partendo dal singolo caso, comincia a delineare un disegno legislativo che vada a colmare il vuoto, o meglio l’abisso in cui Maria e le donne come lei sono destinate a sprofondare. In quello stesso anno, grazie alla pressione dell’organo internazionale, cioè 19 anni dopo i fatti, l’uomo entra in carcere, per restarci meno di tre anni.

Il 7 agosto del 2006, l’ex presidente Lula ha sanzionato la legge n°11340 «Maria da Penha», intitolata alla protagonista di una lotta impari, che da anonima farmacista si è trasformata in una delle maggiori specialiste e attiviste per il contrasto alla violenza di genere in Sud America. La legge è considerata innovativa dall’Onu perché include, oltre alla violenza fisica, quella psicologica, morale, sessuale e patrimoniale. Nonostante i numeri ancora oggi esorbitanti della violenza di genere nel paese, si è stimato che la legge abbia contribuito a una diminuzione del dieci per cento delle aggressioni.

I CONTI CON IL PASSATO

Il Brasile è un paese che ha fatto fatica a fare i conti con i diritti delle donne. Il primo stato a permettere il voto è il Rio Grande do Norte nel 1927. Bisogna aspettare il 1934 per una legge federale estesa a tutto il Brasile e per vedere una donna, la scrittrice e medica Carlota Pereira de Queirós, entrare in parlamento. Ma le figure pioniere, come lei, dei diritti civili femminili avevano tutte una caratteristica in comune: erano bianche.

E le nere? Anche se la legge che aveva sanzionato la fine della schiavitù risaliva al 1888, si portavano ancora addosso il peso simbolico delle catene, delle regole discriminatorie della casa grande – la residenza padronale della fazenda – marcatamente separata dalla senzala, il recinto dov’erano stipati gli schiavi. Un esempio di queste catene virtuali? Ancora nel 2016, uno dei più prestigiosi club sportivi di Rio de Janeiro esibiva un cartello che vietava alle tate dei bambini di utilizzare lo stesso bagno dei soci, invitando le babá, tutte immancabilmente nere e vestite di bianco, a usufruire dei bagni dei bambini. Un caso molto classico di apartheid in pieno Ventunesimo secolo, nel paese che curiosamente ha costruito il proprio immaginario sul mito del cosiddetto «uomo cordiale», il risultato teoricamente conciliante della convivenza tra le «tre razze tristi», colonizzatori, schiavi e colonizzati. Una grande illusione.

Le donne in questa narrazione hanno recitato la parte più difficile. A maggior ragione le donne nere, quel popolo vastissimo di lavoratrici che tutte le mattine lasciano le grandi favelas carioca come Rocinha, Vidigal, Dona Marta, Providência, Cabrito, Coroa, o scendono dal Complexo da Maré (che non è una collina, ma uno sterminato dislivello del suolo) – come ne usciva Marielle Franco – e si disseminano nella città a lavorare. Per questo, le caratteristiche che prima erano motivo di discriminazione (e lo sono ancora), per Mc Carol diventano adesso il suo orgoglioso biglietto da visita: «Grassa, nera e favelada», si definisce senza alcun problema.

La musica, contrariamente a quanto si possa supporre, in questa dura battaglia non ha sempre aiutato. La musica che per eccellenza ha intrattenuto, raccontato, definito e paradossalmente unito i brasiliani, cioè il samba, ha rappresentato nel corso del Novecento, non sempre ma spesso, il luogo di sopravvivenza degli stereotipi più deteriori. Non tanto per quanto riguarda la sua funzione di «cronaca» realistica, quanto per lo sguardo maschile sul mondo femminile.

Un famosissimo samba degli anni Quaranta, cantato dallo swingante Jorge Veiga recitava: «Oh che donna sempre di cattivo umore, sarà che le vuol prendere?» Bezerra da Silva, altro sambista, se la prendeva con la mulher que engana, la donna «che tradisce». Costei, secondo il suo testo, meritava di essere «buttata in una colonia, le orecchie tagliate, i capelli rasati, a portare pietre, per mostrarsi in tutta la sua vergogna». Non è un testo tanto distante da quanto cantato da funkeiros odierni come Mc Denny, autore di versi come «se mi chiedi di smettere non smetto», accusato di incentivare lo stupro, bandito dalle piattaforme digitali, così come accaduto con altri Mc accusati di fare lo stesso.

POVERETTA MAI!

Eppure è proprio dal samba, dal suo ambiente, dai suoi codici, dalla sua cultura, che negli anni Cinquanta è venuta fuori una figura pionieristica della resistenza femminile, senza dubbio fonte di ispirazione per le artiste brasiliane di oggi, nere e non solo. Elza Soares, oggi che va per i novanta, è ancora al centro della scena musicale. Nel 2018, circondata da una leva di giovani autrici e paroliere, ha intitolato un suo disco Deus é mulher, «Dio è donna». Venuta dal samba, Soares non ha avuto paura di «rappare» su versi altrui, come nel caso di «Haiti» di Caetano Veloso, uno dei pezzi più antirazzisti del compositore baiano. Anche in quest’ultimo disco, in cui affronta i temi del sesso, della discriminazione, della violenza verso i neri, con la sua voce roca Elza Soares scandisce ogni parola come fosse uno slogan. Spiega: «Presto molta attenzione alle parole, al messaggio, a quello che le canzoni dicono. In questo momento mi preme parlare della situazione in cui versa il Brasile, parlare di neri, delle donne, del mondo gay, che soffre moltissimo a causa della vigliaccheria di chi lo discrimina. È il mio mondo, il mio lavoro si occupa di questo. Bisogna guardare la realtà in faccia.» Per Elza la battaglia femminista ha avuto un ruolo decisivo: «Vedo oggi le persone più sensibili, più combattive, più coscienti, le donne sono più consapevoli di una volta e si prendono maggior cura di sé. Le donne oggi hanno più spazio per parlare, per reagire.» Nata in una comunità molto povera della periferia di Rio, Elza ha cominciato aiutando la madre lavandaia e ha avuto i primi figli che era ancora minorenne. Racconta: «Mi sono sposata e sono diventata madre molto giovane. Da adolescente ero già adulta, sono stata costretta a esserlo. La mia vita è stata sempre difficile: sono stata una bambina povera, di una famiglia povera, ma non sono mai stata una poveretta, poveretta mai! Ho sempre avuto carattere: da subito ho voluto aiutare mia madre e mio padre, per loro non era facile. Ho lavorato tanto fin da ragazzina. Ma non ho mai voluto essere compatita e che gli altri pensassero: povera Elza! Elza è stata una bambina che voleva vincere: c’era una strada da percorrere, e allora percorriamola!»

image

Una delle ballerine che accompagna la funkeira Mc Carol, dopo le prove.

#ELENÃO

Il 29 settembre 2018, al culmine della campagna elettorale per l’elezione del presidente della Repubblica (il primo turno del voto sarebbe occorso una settimana dopo), in una grande piazza di San Paolo conosciuta come Largo da Batata si è svolta una grande manifestazione che era venuta annunciandosi attraverso la pagina Facebook del gruppo autonominatosi «Mulheres unidas contra Bolsonaro», «donne unite contro Bolsonaro». In poche settimane la pagina ha superato il milione di contatti, fino a che all’inizio di quel mese è stato creato l’hashtag #EleNão, che riassumeva in modo molto efficace la parola d’ordine del movimento: LuiNo.

La novità era che si trattava di una manifestazione di piazza programmaticamente femminile, un’insurrezione sospinta dalle donne. L’obiettivo era il ripudio alle posizioni razziste, maschiliste, autoritarie, omofobiche che il candidato alla presidenza veniva esprimendo in maniera sempre più contundente. Manifestazioni simili si sono avute in tutte le grandi città brasiliane e anche all’estero, da Londra a New York. Al movimento hanno aderito star nazionali come l’attrice Sônia Braga, la cantante Daniela Mercury, la compositrice Maria Gadu e internazionali come Madonna.

image

image

Ballerini che accompagnano Mc Carol durante i suoi spettacoli.

PLAYLIST FUNK FEMMINISTA

Elza Soares

A carne

2002

Mc Carol

Não foi mabral

2016

Mc Rebecca

Cai de boca

2018

Ludmilla e Anitta

Favela chegou

2019

Elza Soares

Malandro

2007

Karol Conka

Lalá

2017

JoJo Todynho

Que tiro foi esse

2017

Mc Carol e Karol Conka

100% Feminista

2016

Deize Tigrona

Injeção

2014 (remix)

Anitta

Vai malandra

2017

Ludmilla

Fala mal de mim

2014

Tati Quebra Barraco

Sou feia mas tô na moda

2004

E la sua strada l’ha percorsa tutta. Diventa famosa negli anni Sessanta: Elza Soares porta per prima lo swing, le sfumature del blues, le sofisticazioni jazz nel canto sambistico. Ed era bella. Faceva impazzire gli uomini. Di lei si invaghisce il grande calciatore Garrincha, e lei di lui. Peccato che lui abbia già una moglie con un sacco di figli, che abbandona e dalla quale torna ciclicamente. Ma la colpevole, per tutti, è Elza, additata dal moralismo imperante, dai giornali come la causa delle tristezze del campione dalle gambe storte, di quel prodigio che mentre dribblava beveva come una spugna, tanto che morirà alcolizzato, povero in canna, solissimo, a 49 anni. Elza gli ha dato un figlio, che morirà ragazzino. Garrincha, ubriaco, uscirà di strada con la macchina ammazzando la mamma di Elza. Lei per farlo smettere di bere farà un voto, tagliarsi tutti i capelli: e lo manterrà. Ricomparendo poi con una monumentale parrucca afro, riprendendosi la scena da cui era stata allontanata a forza di minacce anonime, nel periodo più cupo della dittatura militare. La ragione: essere una donna libera. Peggio: essere libera, nera, nata povera e uscita da quella povertà.

Donna di lotte, Elza ha sempre raccontato di aver sentito su di sé il doppio peso di essere donna e nera, quando già anziana ha cantato la bellissima canzone di denuncia intitolata «A carne»: «La carne meno cara del mercato è la carne nera.»

Quando assistiamo, in Brasile, all’emergere di personaggi come Mc Carol e delle sue colleghe del funk femminista, sullo sfondo c’è sempre l’ombra di Elza Soares. La novità è che una volta dovevano essere anche belle, com’era lei. Oggi non è più necessario: sou feia mas tôna moda.

NON È SOLO UNA MODA

JoJo Todynho, all’anagrafe Jordana Gleise de Jesus Menezes, non è nata lontanissimo da Niterói, a Bangu, dove Rio si sbriciola in una sterminata periferia senza mare, senza cartoline, chiamata baixada fluminense. Ventidue anni, si è fatta conoscere attraverso i social parlando di uomini, o meglio, della sua indipendenza dagli uomini. In uno dei suoi video dice: «Non abbiamo bisogno di portare gli uomini a casa. Vuoi scopare? Pagami un motel! Non viviamo solo di cazzo: io vivo di cibo, di acqua, potendomi pagare i miei lussi.» Ha un rapporto turbolento con i suoi fan. Capita che risponda in video a certi commenti. Uno spirito polemico che esplode facilmente. Il video della hit che l’ha resa molto popolare, «Que tiro foi esse» («Che colpo è stato», con tutti i doppi sensi del caso) è una vera e propria destrutturazione dell’immaginario sessuale. JoJo domina lo schermo con le sue forme esagerate, esibite in modo parossistico. Il suo funk ha una vocazione più «Beyoncé», che per altro è il mito di quasi tutte le funkeiras alla ricerca di una rivalsa rispetto al ruolo marginale che la società ha riservato loro.

Il funk di fatto sta uscendo dalla sua fase «pura», e avanza a grandi passi verso la contaminazione con il melody e il pop. Lo vediamo con Ludmilla Oliveira da Silva, oggi nota semplicemente come Ludmilla, ma all’inizio della sua carriera, qualche anno fa, emersa guarda caso con lo pseudonimo di Mc Beyoncé. È cresciuta nel suburbio di Duque de Caxias, che è sempre Rio de Janeiro ma, se vi capita di andarci, vi sentirete davvero lontani dal Pan di zucchero. Anche lei ha postato le sue prime canzoni su YouTube. «Fala mal de mim» («Parla male di me»), con il suo tono imperioso, ha fatto milioni di visualizzazioni. Poi Ludmilla ha firmato con una grossa etichetta e ha costruito una carriera fatta di clip patinati e musica da ballare, senza timore di dichiararsi gay. È una tendenza forte, questa del funk-pop: continua a giocare con l’appeal sessuale, eleva un’artista nera a protagonista, ma se prestiamo un po’ più di attenzione noteremo che la favela è diventata uno sfondo, è stata normalizzata da cultura marginale a trionfo di consumo.

MALANDRO E MALANDRAGEM

Quando Anitta intitola una sua canzone «Vai malandra», sta usando una parola chiave della cultura popolare brasiliana, che ha una lunga storia e un significato immediato: la malandragem è la cultura del malandro.

Il malandro è l’uomo astuto, la canaglia, il balordo di piccola taglia, il balordo da bar, e siccome il samba era considerato equivoco, bassofondo, il sambista è per antonomasia malandro.

Jorge Amado, nel suo romanzo Jubiabá, dà una definizione più vasta e affascinante della parola: la usa come sinonimo di libertà. Il malandro è dunque, essenzialmente, un uomo libero. Libero dai lacci della moralità condivisa, da una etica personale, dai cardini sociali. La grande cantante Cássia Eller, nel suo pezzo intitolato «Malandragem» cantava un verso molto bello: «Io chiedo a Dio/ solo un po’ di malandragem/ perché sono fanciullo/ e non conosco la verità.Sono poeta e non ho imparato ad amare.» Se volessimo trovare un ambito che concretizza il sentimento della malandragem meglio di qualsiasi altro, dovremmo pensare al carnevale.

Il carnevale è il trionfo della malandragem, la parentesi dove tutto è permesso, a patto, specialmente in passato, che si appartenesse al genere maschile. Nel momento in cui Anitta usa la parola al femminile, sovverte la regola e trasferisce lo status di libertà sulla donna. Sembra una cosa da poco ma non lo è.

La regina in questo senso è Larissa de Macedo Machado, alias Anitta. Carioca, numeri da capogiro sui social, sdoganata nel giro musicale che conta (tv, festival, radio, premi), Anitta canta bene ma non pretende di essere considerata Elis Regina, è bella ma costruisce un video ormai celebre, «Vai malandra», nel quale dice centinaia di milioni di volte alle donne brasiliane (queste le visualizzazioni) che non devono avere vergogna della cellulite. Nel caso specifico mette in scena, sui tetti di una favela che, benché reale, pare una scenografia di Broadway, la moda che ha gettato alle ortiche i bikini e li ha sostituiti con il nastro isolante. Metri su metri di scotch incollato al corpo: così l’abbronzatura si distribuisce in sagome perfette e riduce al lumicino le parti coperte. Il potere passa anche dai difetti, dalle imperfezioni. Per strano che possa sembrare, il proclama di Anitta funziona come un’ispirazione. Anche il nastro isolante, anche la cellulite esibita, anche il brincar com bumbum («scherzare con il culo»), può diventare un atto di resistenza. Il malandro perde terreno, perché la malandra adesso è lei.

Non è affatto un caso che queste nuove star del funk che si connota come pop o come rap scelgano quasi sempre la favela quale scenario dei loro videoclip. Perché la favela è il luogo archetipico dove la donna nera brasiliana ha vissuto e vive la sottomissione (anche se non è affatto solo lì che ciò accade). Ed è nella favela del Boqueirão, nella Zona Sud di San Paolo, che vediamo incedere Karol Conka nel suo video «Cabeça de nego» («Testa di nero»), rap melodico dove le parole questa volta contano più per il loro suono, per ciò che evocano. Quello che conta è la figura di una donna come Karol che conquista il suo spazio di libertà in quel contesto. Nata nel 1987 in una famiglia umile con il nome di Karoline dos Santos Oliveira, in quel di Curitiba, nel Sud del paese, in un altro suo celebre clip, «Vogue do Gueto» («Vogue del ghetto»), Karol Conka domanda all’ascoltatore: «Dove è capace di condurti il tuo sguardo? Non sarà che la nostra cecità mentale ci ha bloccati nel tempo? La nostra eco può rompere il sistema.»

«Quella del più radicale governo di destra, è anche l’epoca della più tambureggiante resistenza femminile.»

TEMPI BUI

Lo scorso 7 agosto, la legge «Maria da Penha» ha compiuto 13 anni di vita e in tutto il paese si sono avute occasioni di commemorazione. Quel giorno, il ministro della Giustizia Sérgio Moro ha dichiarato in un tweet che gli uomini ricorrono alla violenza contro le donne per il fatto di sentirsi sotto pressione e non accettare i progressi femminili. Un discorso magari in buona fede, che ricorre però ai soliti luoghi comuni: gli uomini che si sentono minacciati. Ha sottolineato, il ministro, che ciò accade perché le donne, contrariamente a quanto si pensa, non sono più il lato debole, ma sono «più forti e in numero maggiore di noi e dobbiamo riconoscere che sono migliori». Moro, l’ex giudice della celebre inchiesta Lava jato, è l’uomo forte del governo di estrema destra guidato da Jair Bolsonaro, il capitano in congedo dell’esercito che è stato eletto alla presidenza dopo una sotterranea carriera politica all’insegna di discorsi omofobi, misogini e razzisti. L’ascesa di Bolsonaro, il suo approssimarsi alla presidenza, ha certamente contribuito negli ultimi anni al risveglio della coscienza femminista nel paese, che ha trovato uno dei suoi momenti di maggior visibilità durante la campagna elettorale del 2018 nel movimento d’opinione #EleNão, «#LuiNo». Un movimento nato via social in ripudio alle esternazioni aggressive di Bolsonaro, simbolo di un potere bianco, maschilista, discriminatorio nei confronti dei diritti civili e delle minoranze di ogni genere. Molte artiste musicali vi hanno aderito. Anche se il tam tam è stato forte, non ha inciso sul risultato elettorale, ma la sua stessa esistenza ha rappresentato una novità nella storia dei movimenti d’opinione nel paese. Non è casuale dunque che il femminismo rivendicato dalle artiste nere abbia oggi una forza prima impensabile. Quella del più radicale governo di destra dalla fine della dittatura, è anche l’epoca della più tambureggiante resistenza femminile. Ed è significativo che un saggio come quello della sociologa femminista, nera, Djamila Ribeiro sia assurto a bestseller proprio adesso. Nel titolo l’autrice si domanda: Chi ha paura del femminismo nero?

Be’, non è un titolo peregrino, considerando che quello di Marielle Franco non è stato soltanto il primo omicidio politico dalla fine della dittatura, ma è stato innanzitutto un omicidio maschilista, il delitto dell’uomo che odia la donna e la odia specialmente perché è nera, attivista, lesbica, proveniente dalla favela. Quello che i killer non hanno ammazzato è l’eco di cui parla Karol Conka nella sua canzone: una eco che può rompere il sistema. image

image

Il movimento del baile funk è stato criticato per i testi violenti e volgari, che denigrano la donna presentandola come oggetto sessuale. Nei testi le ragazze sono spesso chiamate cachorras (battone) o popozudas (culone), e si parla di frequente dell’attrazione per le novinhas (sbarbine). Una donna balla sul palco mostrando le gambe e i genitali al pubblico.

image

Un balletto durante l’evento Nitro night.

image

Una coppia simula un amplesso.

image

Un gruppo di uomini guardano e filmano una ragazza senza mutande in un baile funk di San Paolo. Le foto di queste pagine mostrano la realtà maschilista della maggior parte di questi locali.