Nel ventre della balena
Una notte nel locale più trasgressivo della Clubkultur berlinese, il sex club KitKat.
JULIANE
LÖFFLER
Traduzione di Luca Vitali
Illustrazioni di Felix Scheinberger
JULIANE LÖFFLER — Giornalista specializzata in diritti Lgbt e femminismo per BuzzFeed news. In precedenza ha lavorato per cinque anni nella redazione del settimanale der Freitag. I suoi reportage sono stati pubblicati tra gli altri dal Guardian, dalle case editrici Suhrkamp e transcript. È borsista del programma Reporters in the field della fondazione Robert Bosch e fellow dell’International alumni center (Iac).
C’è odore di sesso caldo. Di fianco a me un tale seduto su una panca si allaccia gli stivali, più in là una donna conduce attraverso il locale un uomo con una catena di ferro al collo. Da qualche parte c’è un gorgoglio d’acqua.
Il buttafuori, un uomo massiccio con indosso un bomber, ci ha chiesto se sapevamo che posto è questo, perché dall’esterno il KitKat, con le sue pareti di cemento grigio, ha un aspetto innocuo e poco appariscente. Ma l’innocenza scompare non appena si entra nel vestibolo, perché l’odore di night club e di sesso c’investe in pieno, perché è stretto, e caldo, e i corpi surriscaldati sospinti qui dentro un sabato notte qualunque urtano contro quelli dei nuovi arrivati. Come se fossimo finiti tutti insieme nel ventre di una balena.
Accanto a me c’è una donna con un lungo abito di pizzo nero che le copre tutto il corpo, attraverso il quale si distinguono i seni e le grandi labbra. Al guardaroba un gruppetto di maschi discute in inglese con la guardarobiera. Lei indossa un corpetto di pelle attorno ai fianchi, non ha mutandine, davanti ha un bicchiere pieno di leccalecca. No, le t-shirt bisogna assolutamente toglierle, dice lei, e ai maschi che entrano nudi offre uno schnaps. Contrattano. Alla fine trovano un accordo: tengono i boxer. Fetish, pelle o nudo, il dress code è questo. Gotico e glamour possono andare, i jeans no.
Siamo state accettate nel KitKat, un nome che i turisti bisbigliano con rispetto quando parlano della Clubkultur berlinese. Davanti alla porta a scegliere i frequentatori c’è la padrona, Kirsten Krüger. Ora si avvicina alla cinquantina, e parecchi anni fa ha inventato, insieme al suo compagno, l’austriaco Simon Thaur, questo club «per persone civilizzate», come si definisce il KitKat, il cui nome proviene dal depravato locale del musical Cabaret. È un luogo che da 25 anni è sinonimo di sesso e di eccesso, di edonismo e della stessa Berlino, perché qui regna libertà per tutti, anche se, o proprio perché, è tenuto insieme da regole particolari. Un luogo che è una delle molte terminazioni libere di questa città, che non vuole appartenere a nessun altro oltre che a se stessa.
Ci siamo spogliate, normali slip neri, la mia amica si è appiccicata sopra ai capezzoli del nastro adesivo nero. Lasciamo giù tutto, eccetto un paio di banconote che infiliamo nei calzini, e giriamo l’angolo. Eccitate come bambine esploriamo il luogo, passando ci schiacciamo contro corpi sudati, attraverso un labirinto di stanze e stanzette. È pieno. Sulle pareti luccicano dipinti psichedelici, attorno alle piste da ballo ci sono cubi per i ballerini e nicchie dove sedersi. Una donna con biancheria di pizzo fluorescente balla su una delle sbarre, preme il sedere contro il metallo, e guarda nel locale con fare provocante; arriva una donna, e poi un uomo, bocche avide, corpi che gemono. Sopra di loro, in una piccola galleria che corre tutt’attorno alla pista da ballo, vediamo persone che ondeggiano ritmicamente premute l’una contro l’altra, in orge di sesso semipubblico, sospese sopra le nostre teste. Non abbiamo il coraggio di andare da loro. Dare un’occhiata va bene, fissare non tanto, partecipare è sempre concesso. Vedo una gamba, dei fianchi, attraverso una cortina di fumo un uomo con un completo di vernice sale risoluto le scale. In una stanzetta laterale ci troviamo ad assistere a un bondage show, una donna di una bellezza sconvolgente è piegata dentro funi rosse che le avvolgono tutto il corpo. Ci sediamo, un uomo vuole offrirmi una lap dance, ma ringraziando lo rifiuto. Vogliamo capire il posto, prima di utilizzarlo, ed entriamo nella stanza con la piscina, in cui c’è umidità e un certo odore di cloro. L’azzurro chiaro getta riflessi di luce contro le pareti, e alcuni frequentatori si sono seduti sul bordo, lungo alcuni metri, e lasciano penzolare dentro le gambe. Forse aspettano tutti di vedere cosa succederà. Questo spazio è leggendario, chiunque parli del KitKat parla della swimming pool. Sopra c’è sospesa una grande altalena, perché qui può capitare di tutto, o anche no, e l’acqua in qualche modo simboleggia tutti i liquidi corporei che questa notte si mescolano, ed è una cosa che fa ribrezzo e nello stesso tempo è erotica.
«Eccitate come bambine esploriamo il luogo, passando ci schiacciamo contro corpi sudati, attraverso un labirinto di stanze e stanzette.»
Balliamo, ridiamo, ci meravigliamo, e già dopo un’ora la nostra iniziale timidezza ha ceduto il passo alla normalità. Come in una sauna, dove nessuno si stupisce dei corpi nudi. La cosa strana in realtà, sarà vedere le persone vestite all’uscita.
Per decenni le nicchie della subcultura come il KitKat qui hanno potuto nascere e crescere perché Berlino, isola della Germania Ovest nel mezzo della Germania Est, circondata da mura, poteva ignorare le regole che vigevano altrove. Qui venivano le persone che volevano fare qualcosa di diverso, o che non trovavano altrove un posto adatto a loro. La gente arrivava a Berlino perché qui non bisognava fare il servizio militare, i locali non avevano orario di chiusura, e in cambio c’era molta libertà. Per questo ancora oggi la Clubkultur è queer e diversa, ci sono posti dove si fa spanking, ci sono club per scambisti, dark room che portano nomi come Böse Buben, «monellacci», Silverfuture o Ficken 3000, «scopare 3000». La libertà offerta qui è queer perché non funziona secondo le regole eteronormative che stanno alla base della nostra società. Qui s’incontrano persone che vogliono mettere in gioco vicendevolmente il proprio desiderio.
«Nel KitKat in 25 anni nessuno si è mai lamentato per atteggiamenti di sopraffazione. Forse non ci sono proprio, e per un night club sarebbe una piccola rivoluzione.»
A un certo punto la mia amica è scomparsa, io mi aggiro per le stanze con un gin tonic in mano, ammiro i rotoli di trippa che sprizzano fuori da strette corregge di cuoio, tartarughe scolpite negli addominali, pieghe. Sui divani rossi persone s’incontrano, si sdraiano, si masturbano, si baciano, armeggiano. Ci sono fisici di ogni genere qui, come nella realtà del resto, a differenza del porno, dove tutto è appiattito. Ci sono giovani studenti, scambisti esperti, donne in carne, uomini con la barba, omosessuali, etero, e quelli che rifiutano categoricamente di imporre un’etichetta al proprio desiderio. Prima l’afterhour queer della domenica si chiamava «Freak show», oggi si chiama «Piep show». Appoggiato all’angolo del bar c’è Herbert, che viene qui da più di 15 anni. Ha capelli grigi e radi, la pancia da bevitore di birra e due spessi braccialetti di pelle su ciascuno dei polsi, e chiacchiera con la barista rilassato, come se stesse non tra persone completamente nude ma in una qualsiasi Eckkneipe, la birreria dell’angolo.
«Posso guardarti?» Mi giro. Un uomo giovane, avrà forse qualche anno più di me, mi ha parlato mentre sto appoggiata allo spigolo della porta dei bagni in attesa che si liberi una delle toilette. Ha piccoli orecchini d’argento, è carino, con i capelli arruffati. Non capisco. «Cosa intendi?» gli chiedo. «Sei in coda per il gabinetto?» dice, e mi chiede se ho un bisogno piccolo o grande. «Voglio pisciare» dico io. «Posso guardarti?» chiede ancora. Io sento l’alcol, il mio corpo è un po’ più leggero del solito, e con mia sorpresa accolgo la frase non come una prevaricazione, ma come del tutto comprensibile. Cultura del consenso. Nel KitKat in 25 anni nessuno si è mai lamentato per atteggiamenti di sopraffazione. Forse non ci sono proprio, e per un night club sarebbe una piccola rivoluzione.
E dunque faccio entrare insieme a me nella piccola cabina della toilette l’uomo con i capelli arruffati, lui si preme in un angolo e comincia a trafficare con la patta dei pantaloni. Quando la mia pipì risuona nella conca del gabinetto lui guarda le mie ginocchia, tra le quali stanno in tensione gli slip, geme, si masturba, e all’improvviso diventa troppo. Forse perché non comprendo il fetish, forse perché di colpo divento consapevole dell’intimità che si è creata in questo spazio sigillato di due metri quadrati. «Ok, ora devi andare» dico, e tiro indietro il chiavistello, prima ancora che lui abbia il tempo di risistemarsi l’uccello. Esco dalla toilette quasi inciampando, e trovo la mia compagna avvinghiata al collo di un’altra donna; la tocco leggermente sulla spalla, lei è Lena, mi dice, e indica la donna, ci diamo un bacetto sulla guancia e racconto in breve quello che mi è capitato. Ridiamo, e io sparisco di nuovo nel turbine della pista da ballo, dove osservo un gruppo di giovani maschi gay che hanno slip con piccole aperture sul sedere, e gli addominali cosparsi di glitter dorato. «Benvenuto tra gli unicorni» dice uno, io passo una mano sulla polvere scintillante d’oro ed entro nel loro gruppo danzante, in cui ci rivolgiamo complimenti e scuotiamo i nostri corpi a tempo di musica.
Nel KitKat è cresciuta una cultura parallela che è permeabile, perché in sostanza vi può entrare chiunque, sia il pubblico incuriosito dai party, in cerca di avventure, sia i frequentatori navigati di sex club, che sanno dove sono a Berlino i punti d’incontro veramente hard core. I primi ci sono venuti in cerca di estraneità, gli altri per sentirsi a casa. E in qualche modo, nonostante queste contraddizioni, il KitKat riesce a mantenere la propria identità. Oggi c’è CarneBall bizarre, e il nome si riferisce proprio a questo: qui la stravaganza viene celebrata da persone che sanno quanto la normalità sia un’illusione.
Il club ha tutta una serie di party esplicitamente queer, il più conosciuto è probabilmente il Gegenparty, che ha luogo ogni paio di settimane. Gegen in tedesco indica essere contro qualcosa, ma anche, quando viene usato in contesto temporale, zugegen sein, «essere presente». La Gegenbewegung, il movimento di opposizione, è la queerness, che appunto si contrappone a qualcosa. Contro la norma di essere bianco, eterosessuale, di abitare a Berlino a Prenzlauerberg con una piccola famiglia e andare a letto alle dieci di sera, per essere in forma per il lavoro. Vuol dire riuscire a elaborare concezioni di vita differenti. Alcuni anni fa è arrivato il mercato, e ha cominciato a commercializzare la cultura underground, marchi potenti hanno iniziato a progettare linee di abbigliamento per un gender neutro, da H&M a Louis Vuitton. Che fare quando il presunto nemico all’improvviso assume il nostro stesso aspetto? Fa parte della queerness anche il continuo riprogettarsi, per poter restare queer, «uno specchio infranto delle proprie stesse impossibilità», è scritto sulla pagina web.
Questo è il concetto astratto, quel che sta dietro ai party. Ma in concreto le persone queer e la loro cultura dei party hanno già da tempo un nuovo avversario, che è politico, e ha rappresentanti nel parlamento tedesco. Alla fine del 2018 una politica di Afd voleva presentare una proposta per chiudere il club Berghain, famoso in tutto il mondo, e per imporre l’illuminazione a giorno alla darkroom. La protesta e i sarcasmi sono stati massicci, e la parlamentare non ha proceduto con la sua proposta. Il nemico era visibile, il movimento d’opposizione è stato più forte.
Una notizia è circolata di recente a Berlino, che al KitKat era stato accertato un caso di meningite da meningococco. A tutti quelli che vi erano passati il 29 settembre 2018 venne consigliato, tramite comunicati stampa, di sottoporsi per prudenza a controlli e trattamenti medici, poiché la meningite si può trasmettere con i liquidi presenti in bocca e nella gola. Sono annunci che non si confanno alla gentrificazione della città, al turismo di massa e alle nuove direttive edilizie del Senato di Berlino.
Club con nomi importanti, come il Bar 25, oppure il Farbfernseher, hanno dovuto chiudere già da tempo, altri sono minacciati di chiusura, nonostante i club berlinesi abbiano un fatturato di circa duecento milioni l’anno. Anche l’investitore del KitKat vorrebbe modificarne l’utilizzo, così ha riferito recentemente uno dei grandi giornali berlinesi. La queerness – e l’opposizione – sono desiderate soltanto fin quando sono conformi al mercato. La meningite, l’anarchia mal s’intonano alle nuove norme antincendio e a quelle contro il rumore del Senato. Non si confanno agli affitti in crescita vertiginosa. E le persone che si trasferiscono in città da fuori si lamentano, e trasformano quella che una volta era un’isola in una metropoli cosmopolita, dove le case hanno le facciate rinnovate di fresco.
Ma in questa notte, in questa ora, tutto ciò non ha importanza. Mi getto nell’oscurità. Ci siamo solo noi, e ci avventiamo gli uni sugli altri. Questa notte con la nostra diversità formiamo un’unità.
Le illustrazioni che accompagnano questo pezzo sono di Felix Scheinberger e sono tratte dal libro Hedo Berlin (Jaja Verlag, 2012), un viaggio illustrato nelle notti dei club più trasgressivi di Berlino in cui è vietato fotografare: KitKat, Berghain e Insomnia.