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Il cantiere show di Potsdamer Platz

Due case isolate in mezzo a un deserto, delimitato dalla striscia della morte e dal filo spinato, nel pieno centro città: per decenni la famosa Potsdamer Platz era scomparsa. Ma nel 1989, poco prima della caduta del Muro, il capo della Daimler con un gesto profetico compra un’area di 61mila metri quadrati, dopodiché niente sarà più come prima.

PETER SCHNEIDER
Traduzione di Eleonora Di Blasio e David Albamonte

PETER SCHNEIDER — Scrittore e giornalista, leader del Sessantotto tedesco. L’impegno politico è al centro dei suoi primi scritti: Lenz (Feltrinelli, 1973), romanzo di culto per la sinistra di quegli anni, racconta rivolte, utopie e fallimenti dei movimenti studenteschi e operai. L’attualità tedesca, e in particolare quella berlinese, la caduta del Muro e la riunificazione della Germania diventano in seguito i temi delle sue opere, tra cui Il saltatore del muro (SugarCo, 1991) e Accoppiamenti (Garzanti, 1994). Schneider è stato ospite dell’Accademia di Villa Massimo a Roma e visiting professor presso le università americane di Harvard, Stanford e Princeton. Il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia si intitola Gli amici di mia madre (L’Orma, 2015).

Potsdamer Platz è stato il cantiere più discusso degli anni Novanta.

La piazza, considerata negli anni Venti la più trafficata d’Europa, durante il periodo della Guerra fredda si era trasformata nella più grande area abbandonata all’interno della città. Gli unici edifici sopravvissuti alla meno peggio ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale erano stati demoliti negli anni successivi. Sulla linea di asfalto che dall’agosto del 1948 aveva segnato il confine tra i tre settori occidentali e quello sovietico, il 13 agosto 1961 venne eretto il Muro. Con il pretesto di dover proteggere il confine occidentale da una presunta e imminente invasione delle «forze imperialiste», le autorità della Ddr buttarono giù quasi tutti i fabbricati rimasti nel loro territorio.

Così Potsdamer Platz era diventata una sorta di cimitero di edifici senza lapidi. Ormai solo nelle menti dei berlinesi più anziani comparivano ancora i fantasmi dei palazzi di un tempo.

Fino all’inizio degli anni Novanta, la piazza fu dominata dalla costruzione che aveva preso il posto degli edifici scomparsi: il Muro di Berlino. Nella parte occidentale di questo deserto cittadino, largo quasi 500 metri, era stato eretto un piedistallo sul quale si susseguivano chioschi e bancarelle di souvenir, e da cui gli spettatori potevano osservare il Muro. Guardavano dritto nei binocoli delle guardie di frontiera armate che dalle loro postazioni guardavano dritto nei binocoli dei turisti.

Solo una casa era sopravvissuta alla demolizione: l’enoteca Weinhaus Huth. Era stata costruita all’inizio del Ventesimo secolo dal vinaio Willy Huth su un terreno acquistato da suo nonno. Per sostenere il peso del deposito di bottiglie, Willy Huth aveva fatto costruire un edificio di cinque piani con una struttura in acciaio per quei tempi innovativa. Grazie alle cure rivolte alla cantina – oltre che per pura fortuna – la casa sopravvisse abbastanza bene ai bombardamenti e all’artiglieria della Seconda guerra mondiale.

Per decenni la Weinhaus Huth – insieme ai resti dell’Hotel Esplanade bombardato – se ne stette lì come un masso erratico di epoca preistorica nell’altrimenti deserta Potsdamer Platz.

Ogni volta che andando in macchina da Charlottenburg a Kreuzberg vedevo l’edificio, non riuscivo a credere ai miei occhi. Immagini del genere di solito si vedevano solo nei western dell’Arizona: una casa sperduta nel bel mezzo di un deserto che si manifestava come un miraggio davanti al cavaliere assetato dopo una lunga cavalcata. Solo che la casa sperduta si trovava in pieno centro, in una grande città. Era la stella fissa in un luogo deserto, un punto d’orientamento folle. Chi viveva dietro quelle finestre illuminate, chi manteneva quella posizione fuori mano nel vecchio centro, che dopo la costruzione del Muro era diventato la fine del mondo occidentale? Dai libri e dagli articoli sull’enoteca, risulta che in quella casa Willy Huth gestì un birrificio per molti anni dopo la costruzione del Muro. Non volle vendere l’eredità di famiglia, le travi in acciaio ormai arrugginite e le cantine in rovina. A volte lo si vedeva sul tetto della casa. Osservava la piazza vuota, in cui un tempo il primo semaforo del mondo aveva regolato il traffico. Willy Huth se ne andò poco dopo la festa per il suo novantesimo compleanno.

«A volte lo si vedeva sul tetto della casa. Osservava quella piazza vuota, in cui un tempo il primo semaforo del mondo aveva regolato il traffico.»

Le autorità di Berlino Ovest non sapevano che farsene della casa. Nel 1967 la vedova di Willy Huth l’aveva venduta insieme al terreno nel quartiere di Tiergarten a un prezzo irrisorio. L’amministrazione socialdemocratica decise di farne un alloggio popolare. Tuttavia, invece delle famiglie con molti figli che si auguravano i politici comunali, andarono ad abitarci soprattutto personaggi sopra le righe, cani sciolti, pittori e vagabondi, che amavano le condizioni di vita estreme. E poi cosa avrebbero dovuto farci le famiglie numerose di una casa che si trovava su un terreno non edificato e diviso da un muro? Nelle vicinanze non c’erano né panetterie né negozi, non c’erano scuole né asili nido; per arrivare alla fermata dell’autobus più vicina bisognava camminare dieci minuti.

L’unico rumore, simile a un terremoto, che si sentiva ogni paio di minuti, era il tuonare delle metropolitane che sfrecciavano sotto terra attraverso la stazione fantasma murata di Potsdamer Platz. Nel novembre del 1979 l’ufficio comunale di Tiergarten classificò la casa come monumento storico definendola «una delle ultime testimonianze di edificio commerciale moderno dell’impero tedesco». E negli anni Ottanta, un paio di volte all’anno, gli inquilini venivano «disturbati» da nuove scene e rumori: Potsdamer Platz diventò il luogo d’elezione per visite di stato e apparizioni di politici e presidenti occidentali, spettacoli che gli abitanti dell’edificio si godevano dai balconi e dietro le finestre aperte, il loro palco privato.

La scrittrice Inka Bach crebbe a Berlino Est e nel 1972 fuggì dalla Ddr insieme alla sua famiglia. Nell’estate del 1989, dopo lunghi soggiorni a New York e Parigi, si trasferì col figlio appena nato nella casa Huth.

L’appartamento – un atelier di 240 metri quadrati con una piccola camera da letto – non era il luogo ideale per una giovane famiglia, che presto si allargò con la nascita della secondogenita. Davanti a casa c’era molto spazio per giocare, ma non c’erano bambini. Certo, Inka viveva nel vecchio centro dell’ex capitale di Berlino e godeva di una «vista che non le poteva essere tolta», o per lo meno così sembrava in un primo momento.

La strana posizione offriva anche vantaggi unici. Inka non aveva mai problemi a parcheggiare il suo minibus direttamente davanti a casa: nella zona intorno al Weinhaus Huth nessuno dava multe. L’affitto mensile di 2,50 marchi per metro quadro era eccezionale. È vero che doveva prendere la macchina anche solo per andare a comprare il latte o una matita, ma la Philharmonie, il Gropius Bau, la Biblioteca di stato e la Neue Nationalgalerie erano facilmente raggiungibili a piedi.

Neanche i vicini erano l’ideale per una giovane famiglia. Alla porta accanto viveva un dermatologo gay di Monaco di Baviera che aveva un debole per le antiche maniglie berlinesi di ottone. Un giorno lo trovarono morto nel suo appartamento. Si era sparato. In casa c’erano – oltre a un mucchio di maniglie – innumerevoli emblemi e cimeli nazisti, una collezione che sembrava avere poco o nulla a che fare con le simpatie politiche dell’uomo con disturbi mentali.

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IL MERCATO POLACCO

Tra la fine del 1988 e il 1989, durante i fine settimana Berlino Ovest diventa una destinazione di massa per i mercanti polacchi che approfittano della libertà di viaggiare concessa dal governo comunista nel 1988. La Polonia, come tutti i paesi nell’orbita sovietica, vive una crisi economica che si aggraverà ancor di più negli anni successivi, così molti si mettono in viaggio verso Berlino Ovest per vendere i loro prodotti, anche se spesso non si tratta di commercianti di professione ma di semplici cittadini, tra cui molti pensionati, che si improvvisano tali per arrotondare. Potsdamer Platz, una distesa enorme e deserta, è il luogo ideale per questo mercato delle pulci dal sapore orientale dove i polacchi vendono merce di ogni genere: animali in gabbia, formaggi, salsicce e soprattutto alcol e sigarette, il tutto su un semplice telo steso a terra. I prezzi vantaggiosi attirano orde di visitatori, e nel 1989 il mercato illegale cresce di settimana in settimana finendo nel mirino dell’opinione pubblica che ne chiede la chiusura a causa della sporcizia, della confusione e di presunti traffici loschi, compresa la prostituzione che si diffonde nelle vicinanze. Molti berlinesi tuttavia beneficiano di questo viavai, i polacchi infatti non di rado spendono il loro gruzzolo racimolato direttamente a Berlino Ovest, acquistando elettronica di consumo. Più volte chiuso e vietato, il mercato polacco continua a cambiare sede e a far discutere, finché gli eventi dell’autunno 1989 non lo oscurano. Oggi a Berlino vivono più di centomila cittadini di origini polacche, che costituiscono la seconda comunità di stranieri dopo quella turca.

Al quinto piano abitava un’attrice originaria della Ddr – e di cui si diceva fosse amica intima della dissidente e attivista per i diritti civili Bärbel Bohley – che dopo la fine della carriera teatrale si immerse nell’esoterismo. Dal suo appartamento giungevano per le scale profumi orientali e musica meditativa. A volte Inka si faceva massaggiare dalla vicina. Più tardi il suo nome comparve in una lista di informatori della Stasi. Da quel momento in poi, Inka non ricorse più ai servizi dell’esoterista. Si divertiva però a provocare i suoi amici dicendo di essere stata «nelle mani della Stasi» ben due volte a settimana e che le era piaciuto.

Un’altra inquilina aveva creato un giardino davanti alla casa, sulla strada abbandonata. Nel tratto della vecchia Potsdamer Strasse che non era più trafficato da decenni, ma che una volta era un’arteria che portava al grande crocevia cittadino. Non poteva immaginare che il suo giardinetto avrebbe attirato l’attenzione di una multinazionale decisa a edificare proprio lì.

Effettivamente, l’idillio in quella parte abbandonata di Potsdamer Platz finì già prima della caduta del Muro. Improvvisamente, ai conigli e alle talpe si unirono nuovi frontalieri. Si trattava dei polacchi che nei fine settimana dell’estate del 1989 comparvero sul Landwehrkanal e nei dintorni di Potsdamer Platz, offrendo quello che si erano portati dietro: utensili, un servizio di porcellana, un’icona in legno della Madonna col Bambino. Con i polacchi non si può mercanteggiare, scoprirono i berlinesi occidentali, che erano abituati ai venditori turchi. Come avessero fatto quei commercianti improvvisati ad arrivare a Berlino Ovest, rimase un mistero. Si presentavano il sabato mattina e scomparivano la domenica sera.

Ma torniamo a Inka Bach. Dopo il 9 novembre, sentì per mesi e mesi il martellamento dei cosiddetti «picchi del Muro», che lavoravano giorno e notte al colosso di ferro e cemento. Al posto dei mercanti polacchi, adesso erano gli «indiani urbani» con le loro tende e le loro barricate di carri a dilagare sul territorio abbandonato. Intorno alla Weinhaus Huth si creò una sorta di fiera per curiosi e giornalisti provenienti da tutto il mondo, per cacciatori di souvenir del Muro e di bancarelle.

Per Inka, la vita quotidiana andava avanti. Come prima, doveva procurarsi ogni giorno ciò di cui la famiglia aveva bisogno, ma diventava sempre più difficile controllare il figlio desideroso di muoversi.

Fu lui a indicare alla madre l’unica scoperta importante dopo la caduta del Muro. Aveva scovato un asilo nella parte orientale. Inka, coraggiosamente, iscrisse il figlio all’asilo, che era ancora gestito dal personale dello Stato da cui era fuggita. L’istinto le disse che la vista spettacolare di cui godeva dal secondo piano prima o poi le sarebbe stata tolta.

La sua famiglia e gli altri inquilini della Weinhaus Huth più prima che poi sarebbero stati spazzati via da un evento epocale.

***

L’investitore aveva una buona reputazione. Poco prima della caduta del Muro di Berlino, Edzard Reuter, l’allora capo della Daimler, aveva acquistato dal senato di Berlino 61mila metri quadrati nella parte sudovest di Potsdamer Platz. L’affare venne concluso in un periodo in cui solo pochi credevano in una prossima riunificazione della Germania, e ancor meno nel dissolvimento dell’Unione Sovietica, fu quindi un investimento audace e profetico. In realtà, era guidato da una visione politica più che da interessi commerciali. Edzard Reuter, figlio del leggendario primo sindaco di Berlino, Ernst Reuter, in quel posto non voleva soltanto costruire la nuova sede della Daimler, ma un nuovo pezzo di città, che un giorno sarebbe stato collegato con la sua parte orientale. Lui stesso rimase sorpreso dalla rapidità con cui vinse la scommessa. Oggi quell’area, che Reuter aveva acquistato per 93 milioni di marchi, è uno dei terreni più cari di Berlino. 

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Anni Trenta, Potsdamer Platz è uno degli incroci più trafficati d’Europa. Al centro della piazza il primo semaforo della città, installato nel 1924. Alle sue spalle il modernissimo Columbushaus di Erich Mendelsohn, sopravvissuto alla guerra, ma demolito nel 1957.

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1972: Potsdamer Platz e Leipziger Platz trasformati in terra di nessuno.

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Haus Huth nel suo «splendido isolamento». (© Ullstein Bild, Getty Images)

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Resti del Muro e l’Infobox, un edificio temporaneo esistito tra il 1995 e il 2001, che aveva la funzione di mostrare i progressi del cantiere. (© Ullstein Bild, Getty Images)

«Né Edzard Reuter né il suo architetto Renzo Piano potevano intuire allora quante difficoltà avrebbe ancora creato quella casa.»

Come dote piuttosto indesiderata, aveva dovuto comprare anche la Weinhaus Huth, che la città aveva appena rinnovato spendendo tre milioni di marchi. L’edificio era di ostacolo a qualsiasi progetto importante, ma faceva parte dell’area e non era modificabile. Ma né Edzard Reuter né il suo architetto Renzo Piano, l’autore del premiato progetto per l’ampliamento dell’area Daimler, potevano intuire allora quante difficoltà avrebbe ancora creato quella casa.

Dal 1989 la Weinhaus Huth era riconosciuta come monumento storico. Il monumento vincolato significava per i nuovi proprietari soprattutto una cosa: costi enormi e il compito di integrare nei piani di costruzione un ordinario edificio berlinese di fine secolo, che certo non evoca, nemmeno lontanamente, il Colosseo o la Villa Adriana di Roma. 

La casa si ergeva su un terreno paludoso e doveva essere «consolidata», come si dice in gergo tecnico. Temendo che a causa dello scavo di una fossa di quaranta metri l’edificio potesse affondare o addirittura crollare, gli architetti decisero di collocare il «gioiello» su un’impalcatura di pali profonda 18 metri. 

Il provvedimento, che venne a costare cinquanta milioni di marchi tedeschi, aveva qualcosa di commovente: a fronte di una spesa che in Italia non viene sostenuta neanche per la salvaguardia degli scavi di Pompei, la Daimler dovette conservare la casa di un commerciante di vini, che non aveva nulla di notevole, se non il fatto di essere sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale e a tutte le successive ondate di demolizione. Gli inquilini rimasti ad abitare nella Weinhaus Huth fino all’ultimo momento, tra cui Inka Bach, ottennero forti indennizzi e furono tutti «dislocati».

Sin dall’inizio dei lavori, la Daimler dovette far fronte ad attacchi sia da Est che da Ovest. Profeti di sventure, che a Berlino non sono mai mancati, predissero che nei dintorni la falda acquifera sarebbe stata deviata a causa del bacino d’acqua del cantiere e gli alberi dell’adiacente Tiergarten sarebbero seccati. Il progetto Daimler, riportò Manfred Gentz, il direttore dei lavori designato da Edzard Reuter, era stato sin dalle origini il «piano più detestato a Berlino». E non solo le associazioni di architetti più note di Berlino Est e Ovest, ma anche gli abitanti di Berlino Est, appoggiati da un crescente coro da Berlino Ovest, bocciarono categoricamente i costruttori della Daimler. Come si poteva permettere che la ricostruzione di un’intera area urbana venisse affidata a una multinazionale automobilistica di Stoccarda, a cui poteva pure saltare in mente di chiudere di notte i battenti della «propria parte di città»? E poi perché mai la piazza doveva essere ricostruita in così poco tempo – in quattro anni? Perché non si dava la possibilità alla città di crescere in modo organico, in venti, trent’anni? E soprattutto doveva essere ricostruita da subito tutta? Non si poteva lasciarne una parte alle future generazioni?

Manfred Gentz si ripromise di «fare del cantiere più odiato di Berlino il più amato», aprendolo al pubblico. Il piano prevedeva il coinvolgimento dei berlinesi, noti per la loro curiosità, conquistandoli come ospiti fissi per lo spettacolo della «costruzione della torre» a Potsdamer Platz. E il luogo ideale per questa forma di dialogo, decise Gentz, era la Weinhaus Huth. 

Da quel momento invitò la stampa e cittadini di ogni genere nel nuovo quartiere operativo. Col bel tempo gli ospiti, bicchiere di prosecco in una mano e stuzzichini nell’altra, seguivano dal tetto della casa le spiegazioni degli architetti sui progressi dei lavori e fissavano con lieve raccapriccio il laghetto della cava ai loro piedi. Alle feste d’inaugurazione si aggiunsero poi sempre nuovi stimoli dal cappello magico dell’industria del divertimento.  Scalatori che si calavano dalle pareti non ancora terminate dei grattacieli. Poeti provenienti da tutto il mondo declamavano i loro testi in mezzo agli edifici in costruzione, gruppi musicali suonavano su improbabili palchi. Il cantiere diventò un palcoscenico di grande successo. In realtà mancava solo la band berlinese Einstürzende Neubauten che, probabilmente a causa del suo nome (alla lettera «nuovi edifici che crollano»), non fu mai invitata.

La strategia di Gentz funzionava. Mese dopo mese il cantiere attirava sempre più cittadini. Io sono stato più volte ospite di eventi sul tetto della Weinhaus Huth. Quando Daimler convocava una conferenza stampa, già all’ingresso si era testimoni di uno strano spettacolo. Si vedevano ospiti allegri e vestiti a festa che inutilmente cercavano un passaggio per l’area di cantiere protetta dalla rete di zinco. Signore con tacchi alti e vestiti da sera una volta entrate chiedevano informazioni agli operai, che dovevano levarsi i caschetti per riuscire a sentire. Con un grato cenno di approvazione gli ospiti seguivano le indicazioni, si alzavano soprabiti e vestiti da sera, ma non potevano evitare che i passi sulle tavole mobili del cantiere provocassero schizzi di fango che restavano appiccicati ai polpacci bianchi delle signore e ai pantaloni dei completi dei loro accompagnatori.

Siccome sul tetto di solito c’era vento forte – l’edificio di quasi quaranta metri era di gran lunga il punto più alto del circondario – gli ospiti si alzavano i baveri dei cappotti e con le mani si tenevano fermi i costosi copricapi. Il cappello di paglia di un’elegante signora, troppo lenta ad afferrare la falda, fu colto da una raffica, eseguì gonfio di vento numeri spettacolari e veleggiando finì sul fangoso lago freatico ai piedi della Weinhaus Huth.

A una conferenza stampa sul tetto conobbi Renzo Piano, che aveva vinto l’appalto del progetto Daimler. Siccome parlo italiano, ci ritrovammo presto a chiacchierare, cominciò così una conversazione che dura tuttora. Io studiai i modelli di Piano e lui lesse i miei libri su Berlino, sperando in questo modo di imparare qualcosa dell’anima della città. Prima di arrivare a Berlino di solito mi chiamava.

Chiesi a Renzo se era possibile mantenere quell’«intelligenza leggera» di cui parlava Calvino a proposito del Pompidou anche nella luce nordica della metropoli prussiana – nella malia dell’arenaria grigia e dei clinker rossi. Piano ammise di temere il progetto di Potsdamer Platz. Non era il solito horror vacui che si ripresentava a ogni progetto importante, né la dimensione dell’impresa a inquietarlo. Ricordava la sensazione della prima volta che era stato nel terreno abbandonato del centro città, «un luogo intriso di storia. A ogni passo senti gli spiriti del passato, ma sono solo fantasmi quelli che incontri. Non c’è nulla che si lasci vedere o toccare».

L’impresa di creare un corpo urbano vivo da una tabula rasa inizialmente lo disorientava. A parte la Weinhaus Huth e l’Hotel Esplanade non c’era nulla che lo aiutasse a orientarsi. Nessun ensemble da cui farsi ispirare o che provocasse disgusto. Sperava di poter integrare almeno un pezzo di Muro nella sua pianificazione, ma anche il Muro era scomparso senza lasciare tracce. E questa rimozione frettolosa non era forse solo la dimostrazione di un nuovo raptus di smania d’ordine, che aveva portato gli urbanisti del dopoguerra a decidere di cancellare tutte le testimonianze architettoniche dell’epoca prima della guerra?

Piano non credeva ai vantaggi di partire da una tabula rasa. «Una città è un testo con molte pagine e ogni pagina conta. Nella storia urbana berlinese mancano troppe pagine.» Il lavoro era cominciato con la visione di una piazza bagnata dall’acqua verso cui affluiscono le strade dipartendosi in forma radiocentrica. «Si comincia sempre con il vuoto, mai con il pieno. È dagli spazi vuoti che parte la costruzione di una città.»

Al tempo stesso il suo progetto si rifaceva a un paio di icone che si presentavano nel vicinato come edifici solitari o meri fantasmi. Con il Filmpalast rese omaggio alla Biblioteca di stato di Hans Scharoun. La torre che introduce al «suo» quartiere cita un grattacielo mai costruito di Mies van der Rohe. Il desiderio di Mies van der Rohe di annullare la forza di gravità, a quei tempi tecnicamente non realizzabile, mosse e ispirò Piano. Nella fase di esecuzione venne fuori un’ascia da guerra di vetro e acciaio scaraventata nella sabbia del Brandeburgo, alta cento metri scarsi. E gli piacque il fatto che la torre di fronte, disegnata da Hans Kollhoff, contraddicesse in tutti i modi la sua costruzione. Kollhoff aveva contrapposto all’ascia un grattacielo classico e senz’altro elegante di mattoni rossi, come quelli che venivano costruiti negli anni Venti a New York. Vetro e metallo contro pietra, perché non giocarci? Quello che lo preoccupava era l’esagerata velocità con cui sorgevano quei corpi urbani. Questa rivoluzione materiale, diceva Piano, abolisce in pratica la crescita naturale della città: «È la prima volta nella storia in cui è possibile far crescere un quartiere in cinque, dieci anni. È come se fosse possibile mettere al mondo un bambino a due mesi dal concepimento. Non hai idea di chi infonderà la vita nel nuovo quartiere. Deve avere successo da subito. E ci si aiuta sfruttando i soliti stimoli a colpo sicuro che creano un po’ di movimento – gallerie commerciali, casinò, cinema, teatri, piazze, fontane –, non si realizza uno spazio per la vita con i suoi ritmi biologici imprevedibili, ma per la vita virtuale. Questa forma di risveglio tramite un bombardamento a volte mi fa paura.»

Non si può lasciare niente di incompiuto, domandai, o almeno risparmiare una parte di ogni lotto per le idee e lo sviluppo delle prossime generazioni?

Gli obblighi finanziari di progetti giganteschi di questo genere sono dittatoriali, ribatté Piano, e non lasciano spazio a buchi. Per lui come per qualsiasi altro architetto la richiesta di lasciare vuota anche solo una parte di un’area per la quale si è ricevuto un appalto sarebbe stata imbarazzante.

Quello della Daimler fu uno dei pochi grandi progetti di Berlino portato a termine nei tempi e nel budget prestabiliti. La Richtfest (la festa che si tiene quando il tetto di un nuovo edificio viene completato) di un grattacielo di 22 piani, nell’ottobre del 1996, fu il primo di numerosi grandi festeggiamenti. Manfred Gentz e i suoi collaboratori avevano pensato a qualcosa di speciale per questa occasione. Secondo i loro piani, Daniel Barenboim, il direttore della Staatsoper, avrebbe dovuto dirigere un insolito balletto. 19 gru avrebbero dovuto muovere a tempo i poderosi bracci di ferro dopo l’attacco del maestro dell’Inno alla gioia. Nessuno nella squadra di Gentz aveva considerato che il maestro di fama mondiale potesse davvero accettare. Ma con grande sorpresa di tutti, acconsentì.

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I resti della facciata della vecchia stazione Anhalter Bahnhof, demolita nel 1960.

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Potsdamer Platz e il Beisheim Center, situato nell’ex Triangolo Lenné.

«Fu un momento pazzesco e meraviglioso. Ogni due o tre mesi la città ridestata sorprendeva abitanti e visitatori con nuovi e incredibili eventi.»

La notte precedente la prima, Manfred Gentz racconta di essersi recato ancora una volta in cantiere. Trovarlo così illuminato lo confuse. I riflettori di tutte le gru erano accesi e le gru eseguivano con i bracci movimenti non compatibili con il lavoro in cantiere. Muovevano i bracci nella notte al di là di ogni comando sensato, come giganteschi insetti che imparano a volare. Solo dopo un bel po’ aveva colto il senso dello spettacolo notturno. A quanto sembrava, tutti i manovratori di gru si erano dati appuntamento per fare una prova generale sulla melodia dell’inno di Beethoven, provando con radio portatili.

Il giorno dopo Daniel Barenboim diresse l’inno della Nona Sinfonia di Beethoven chiamando con la mano rivolta a sinistra il primo e il secondo violino – le gru più vicine – e poi con la destra i colossi d’acciaio in fondo – gli strumenti a fiato e i tamburi – per il gran finale. I manovratori delle gru fecero del loro meglio per obbedire al direttore, i cui gesti energici erano a stento riconoscibili dall’altezza impressionante delle loro cabine. Fu un momento pazzesco e meraviglioso. Ogni due o tre mesi la città ridestata sorprendeva abitanti e visitatori con nuovi e incredibili eventi. Poco prima del concerto delle gru, sull’altro versante di Potsdamer Platz, quello dominato dal Sony center, era stata spostata la sala imperiale, (la Kaisersaal).

La Kaisersaal era l’unica cosa del leggendario Hotel Esplanade a essere rimasta intatta dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La sala in stile neobarocco deve il suo nome all’ultimo imperatore tedesco, Guglielmo II, che lì organizzava le sue serate di corte. All’Esplanade avevano alloggiato Greta Garbo e Charlie Chaplin, sbeffeggiato dal giornale del partito nazista Völkischer Beobachter come «il clown ebreo». Nello stesso albergo gli ufficiali dell’attentato a Hitler del 20 luglio avevano aspettato la parola d’ordine «Valchiria».

Dell’Hotel Esplanade, con le sue 400 stanze e 240 bagni, dopo i bombardamenti erano rimasti solo la sala imperiale, la sala da bagno imperiale e la sala lettura. Fino alla fine degli anni Ottanta tra le macerie dell’albergo ancora saltellavano conigli, frugavano talpe, brucavano pecore. All’epoca del Muro solo la sala imperiale vivacchiava come luogo di eventi e location per riprese. Film come Cabaret, La croce di ferro, Il cielo sopra Berlino e Anni di piombo furono girati lì. Sicuramente la Kaisersaal non sarebbe sopravvissuta ai lavori in corso a Potsdamer Platz se dopo la caduta del Muro non fosse stata riconosciuta come monumento storico. Proprio come nel caso della Weinhaus Huth, all’improvviso sembrava irrinunciabile – per il solo fatto di essere rimasta in piedi. Nessuno andrà in visibilio per questi edifici berlinesi nobilitati a posteriori. Tuttavia è il caso di dire grazie ai Beni culturali. Perché alla luce dei fatti a Berlino è proprio così. Dopo le distruzioni della guerra e i crimini architettonici del dopoguerra, si dovette imparare a gioire di tutte le cose banali e mediocri che per caso erano rimaste in piedi.

Inizialmente gli architetti del Sony center avrebbero voluto abbattere la Kaisersaal. Nella fase di pianificazione si erano semplicemente lasciati sfuggire il rudere. Poi all’improvviso si erano ritrovati ad affrontare il compito di collocare quel massiccio pezzo unico nei loro piani. La svista costò all’impresa ben 75 milioni di marchi. Là dove stava, la Kaisersaal non poteva rimanere, perché era al centro della nuova Potsdamer Strasse. Così si decisero a spostarla. 

L’impresa fuori dal comune richiese lo sviluppo di un’apposita tecnica. Il colosso sarebbe stato sollevato di 2,5 metri grazie a una leva idraulica e poggiato su una specie di cuscino d’aria. Poi sarebbe stato portato un paio di metri a sud e dopo una stretta svolta a destra sarebbe fluttuato per altri 75 in direzione ovest. Per i curiosi sarebbe stata montata per tempo una tribuna.

LA FUGA CHE NON T’ASPETTI

Non tutti sanno che il Muro non rispecchiava fedelmente la frontiera: di solito c’erano un paio di metri sul versante occidentale che appartenevano ancora al territorio della Ddr, ma in alcuni casi poteva trattarsi anche di aree più vaste. Una di queste si trovava proprio nel deserto a nord di Potsdamer Platz, il cosiddetto Triangolo Lenné, un appezzamento triangolare di 40mila metri quadrati tra Lenné-, Bellevue- (sul retro del Sony center, dove oggi si trova l’hotel Ritz Carlton) e Ebertstrasse. Dopo anni di trattative le due parti della città avevano raggiunto un accordo per la cessione del terreno, che sarebbe diventato di proprietà di Berlino Ovest il 1° luglio del 1988. Ma nel frattempo quell’area rimasta incontaminata per quasi trent’anni era stata occupata da ambientalisti e autonomi che si opponevano alla costruzione di una nuova tangenziale, che sarebbe dovuta passare proprio lì. La tendopoli si era estesa fino a diventare un assurdo villaggio con alcune capanne di legno, capre e galline. La polizia dell’Ovest aveva recintato tutto il Triangolo ma fino a che non fosse entrata in vigore la cessione non osava intervenire. Puntualmente, il 1° luglio, 900 poliziotti di Berlino Ovest in tenuta antisommossa si presentarono per sgomberare l’accampamento ma quando fu dato il via libera non poterono credere ai loro occhi: 182 autonomi salirono sul Muro con delle scale di legno improvvisate e fuggirono a Est, attraverso la striscia della morte, dove avevano preso accordi con il regime comunista per inscenare la più grande fuga di massa nella storia del Muro, ma in direzione opposta, da Ovest a Est.

Il regista Wim Wenders diede il segnale di partenza dell’operazione. Dopo il grandioso spettacolo risultò chiaro che il trasferimento dell’edificio aveva suscitato emozioni di gran lunga più forti dell’edificio in sé. Quando i primi ospiti calpestarono il nuovo suolo della Kaisersaal, si diffuse infatti una discreta delusione. Quella sala, con il suo finto sfarzo e la decorazione restaurata della facciata, era valsa davvero tutti quei soldi e quella fatica? Ma va bene, quantomeno era sopravvissuta alla guerra mondiale e al trasferimento.

Torniamo al progetto Daimler dall’altro lato di Potsdamer Platz. Il 2 ottobre 1998 – la sera prima dell’anniversario della Riunificazione tedesca – ebbe luogo la festa d’inaugurazione. La cosa di maggior rilievo del fiacco discorso del nuovo amministratore delegato della Daimler, Jürgen Schrempp, fu che non degnò neanche di una parola il suo predecessore Edzard Reuter, il quale si era accaparrato il fondo immobiliare prima della caduta del Muro. Evidentemente Schrempp non riusciva ad ammettere di dover dividere il trionfo dell’inaugurazione della nuova città con il suo predecessore. E dove era il profetico inventore del progetto, Edzard Reuter, durante la festa? Da un addetto ai lavori della ditta Daimler venni a sapere che Jürgen Schrempp si era ostinato a voler annullare l’invito dell’ospite d’onore Reuter, già inviato.

Dal giorno in cui era entrato in carica, Jürgen Schrempp aveva rotto le relazioni con il suo predecessore. Non poteva perdonare a Reuter di non averlo avvertito, all’assemblea generale del 1995, di un profit warning che stava per essere lanciato. Ma l’improvvisa presa di distanza era dovuta anche alla diversità culturale dei due uomini. L’ex garagista Schrempp, originario di Friburgo nel Baden-Württemberg, aveva fatto carriera sotto l’egida di Reuter fino a diventare il suo più stretto collaboratore. Con il suo modo di fare compagnone aveva guadagnato la fiducia del molto più riservato intellettuale berlinese e figlio dello storico sindaco. Reuter ci rimase malissimo quando il suo amico Schrempp da un giorno all’altro non volle più saperne di lui e lo escluse dal battesimo del progetto Daimler. Nei suoi anni di servizio, Schrempp si adoperò in modo risoluto per sbarazzarsi della parte della città ispirata dal suo predecessore.

Alla fine del 2012 andai a trovare Manfred Gentz, che avevo conosciuto e stimato sin dall’inizio dei lavori, nel suo ufficio nella Weinhaus Huth. Il prefisso «Wein» era stato rimosso. La Huth Haus, ristrutturata in modo esemplare, si erge come un pezzo da museo della Gründerzeit tra gli edifici dalle facciate graticolate giallo abbagliante di Renzo Piano. Al citofono una voce chiede nome e intenzioni dell’ospite. Nell’androne una porta automatica conduce a un ascensore nuovo di zecca. Quella casa in cui era sempre regnato un enorme trambusto ora era silenziosa e sembrava quasi abbandonata, un po’ come Manfred Gentz, che un tempo aveva diretto il gigantesco progetto a Potsdamer Platz. Gli chiesi come era stato possibile che il progetto Daimler fosse stato venduto a così pochi anni dall’inaugurazione. Aveva sempre ritenuto la vendita un errore, controbatté con rimpianto appena accennato nella voce. La decisione aveva a che fare soprattutto con i cambiamenti nel mercato del capitale. I nuovi criteri di valutazione obbligavano l’azienda a mantenere il capitale dell’attività dell’impresa più basso possibile per poter dimostrare una rendita più alta. Tanto più capitale era impegnato, tanto più bassa era la rendita.

Daimler aveva messo circa due miliardi di marchi nel progetto di Potsdamer Platz. Inevitabilmente durante i primi anni risultarono alti ammortamenti per questo investimento, solo dopo dieci, quindici anni la società avrebbe raggiunto il breakeven, cioè il punto in cui si registrano utili. Jürgen Schrempp non aveva mai fatto mistero della sua avversione per Berlino e per il progetto Daimler in città. Gli investitori gli stavano con il fiato sul collo, con la filosofia di una percentuale ridotta al minimo del capitale vincolato, e lo convinsero a liberarsi di Potsdamer Platz il più rapidamente possibile. La vendita a un fondo immobiliare della Seb (una banca svedese) era avvenuta solo nel 2008 – in un momento in cui gli affitti e i prezzi degli immobili a Berlino erano ancora stracciatissimi.

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L’Alte Potsdamer Strasse vista dalla piattaforma panoramica in cima al grattacielo Kohlhoff Tower, che si raggiunge con l’ascensore più veloce d’Europa.

«La Kaisersaal sta lì smarrita come un tempio al margine della piazza costruita da Helmut Jahn. E sembra domandarsi ancora: come ho fatto ad arrivarci, e che cosa ci faccio qui?»

Anche la Haus Huth in cui risiedeva l’ufficio di rappresentanza berlinese di Daimler fu venduta. Probabilmente l’affitto della casa supera l’ammortamento che sarebbe maturato se fosse rimasta di proprietá della Daimler. Gentz non riuscì a soffocare un sorriso quando nell’andarmene lo salutai dicendogli: dopo così tanti anni in cui aveva fondato e fatto crescere il progetto Daimler a Potsdamer Platz, ora era finito ospite in casa propria. 

Nel frattempo anche il Sony center, che in seguito fu venduto alla banca d’investimento Morgan Stanley, era stato ceduto a terzi. Nel 2010 era stato venduto per 573 milioni di euro a un fondo pensione coreano – nessuno parlò mai di utili. L’onerosa Kaisersaal trasferita viene utilizzata come caffè, ristorante raffinato e lounge per occasioni speciali e deve la sua fama soprattutto al percorso fatto per raggiungere la nuova sede. Sta lì smarrita come un tempio al margine della piazza costruita da Helmut Jahn. E sembra domandarsi ancora: come ho fatto ad arrivarci, e che cosa ci faccio qui? 

Non reputo Potsdamer Platz un capolavoro dell’urbanistica moderna. Ha avuto come ostetrica interessi e mentalità troppo disparati. I tempi prestabiliti e l’obbligo di rientrare in standard che garantissero un immediato successo di pubblico – casinò, centri commerciali, giochi d’acqua – avevano prodotto un’estetica del minimo comune denominatore. 

Effettivamente, sull’ex territorio abbandonato nel centro di Berlino sono sorte due parti della città completamente differenti. Entrambe create da due grandi gruppi industriali, hanno in comune il fatto di non avere nulla a che vedere con la vecchia Potsdamer Platz. Né con quella degli anni Venti, né con quella del dopoguerra, né con l’omonimo deserto degli anni del Muro. Come direbbe la mia guida Jobst Siedler: «Bisognerà sempre decidere tra la bellezza e la vitalità di un luogo.» Beh, senza dubbio Potsdamer Platz non sarà una bellezza, ma vitale lo è sicuramente! E non ultimo, bisogna essere grati per questo alla «cultura circense» inventata da Manfred Gentz ed elevata a programma dal senatore Volker Hassemer. image