Campionato di prosa

di Bill Pronzini & Barry N. Malzberg

 

 

Titolo originale: Prose Bowl 

Traduzione di Laura Serra

© 1979 Fantasy & Science Fiction

 

 

 

Lì in piedi in mezzo all’arena del Colosseo, davanti a centomila fanatici del Nuovo Sport in delirio e a un pubblico TriDim valutato intorno ai trenta milioni di persone, ero in preda a sensazioni diverse: eccitazione, orgoglio, tensione e forse anche un pizzico di paura. Non riuscivo ancora a credere di essere lì: Rex Sackett, il più giovane concorrente che fosse mai riuscito a superare tutte le eliminatorie per arrivare al Campionato di Prosa. Ma ce l’avevo fatta, e se riuscivo a superare anche l’ultimo ostacolo sarei diventato il nuovo campione del mondo. Un altro ostacolo soltanto.

Guardai il vecchio oltre la Linea. Leon Culp, meglio conosciuto come Il Macinatore. Cinquantasette anni, venti milioni di parole, una carriera che durava da quasi quarant’anni. Sconfitto due volte nei quarti di finale, e una volta nelle semifinali di due anni prima. Anche lui per la prima volta al Campionato di Prosa e, per molti, il favorito. Io ero solo un ragazzino, una matricola: a buon diritto, moltissimi scrittori avevano detto che non meritavo di essere arrivato lì, alla mia età. Ma gli allibratori mi davano favorito per tre a due in considerazione della mia giovane età, della mia resistenza e del modo in cui avevo avuto ragione dei miei avversari durante le eliminatorie. Ma anche perché molti pensavano che Il Macinatore non fosse capace di vincere le gare più importanti; pensavano che ormai il suo rendimento dipendesse troppo dal Carburante, che in pratica fosse quasi un uomo finito, e che fosse arrivato così lontano solo perché aveva trovato avversari deboli.

Forse tutto questo era vero, ma non ne ero tanto sicuro: Leon Culp era sempre stato il mio idolo; ero cresciuto leggendolo e studiandolo e, ai suoi tempi, malgrado la sfortuna che aveva avuto nei campionati passati, era il migliore che ci fosse. Mi aveva fatto soggezione quando ero ancora un bambino, nelle Società Creative Junior, e mi faceva un po’ di soggezione anche adesso.

Non che mi mancasse la fiducia in me stesso. Mi sentivo molto sicuro di me, e con moltissima voglia di riuscire; volevo vincere i centomila dollari in palio non solo per me stesso, ma anche per Sally, e per Mort Taylor, il migliore agente che ci fosse, e soprattutto per mamma e papà, che mi avevano aiutato in quei primi cinque anni magri in cui avevo gareggiato nei campionati semiprofessionisti. Eppure, mi pareva di non poter riuscire a scrollarmi di dosso quel senso di meraviglia irrequieta. Non era un comune professionista, quello che mi accingevo ad affrontare. Era Il Macinatore.

Era quasi l’ora dell’inizio dell’Incontro. L’annunciatore mi presentò per primo, perché, essendo il più giovane dei contendenti, indossavo la divisa rossa dell’ospite: mi feci avanti e salutai con la mano la tribuna gremita di gente. Si levò un coro di evviva, soprattutto dal Settore G, dove Sally, Mort e i miei vecchi sedevano tra i Sostenitori di Sackett. La banda intonò la canzone della mia vecchia scuola, e io mi commossi sentendola.

Quando l’annunciatore chiamò Il Macinatore, gli evviva furono ancora più sonori, ma in mezzo c’erano anche fischi.

Lui non parve badare né agli uni né agli altri. Se ne stava tranquillamente in piedi, immobile, con un’espressione di stoica determinazione sulla vecchia faccia segnata. Nella sua divisa azzurra, stagliato contro il caldo cielo di Capodanno, sembrava più grande di quanto non fosse, sembrava terribile, implacabile. Imbattibile.

Tutti si alzarono in piedi quando fu intonato l’inno nazionale. Poi si levò dal pubblico un altro boato; non avevo mai immaginato che potesse essere così assordante per chi si trovava nell’arena, e finalmente il Caporedattore arrivò di corsa e ci convocò per il lancio della monetina. Io scelsi croce, e la moneta cadde sull’erba segnando croce. Il Caporedattore mi si avvicinò e mi batté la mano sulla spalla per indicarmi che avevo vinto il sorteggio: i Sostenitori di Sackett mandarono urla di approvazione. Durante tutto quel tempo, Culp rimase immobile e in disparte, apparentemente senza guardare né me, né il Caporedattore, né nessun altro.

Culp tornò alla Linea e si tenne pronto. Io ero sempre più teso, a mano a mano che il momento dell’Incontro si avvicinava: avevo i palmi umidi e la testa vuota. E se non mi viene in mente un titolo? pensai. E se non mi viene in mente la frase iniziale?

«Sta’ calmo, ragazzo» mi aveva detto prima Mort Taylor. «Non cercare di forzare le cose. Le parole ti verranno proprio come ti sono sempre venute.»

Il Macinatore e io eravamo in piedi l’uno davanti all’altro, e guardavamo gli enormi tabelloni elettronici ai lati opposti dell’arena. Poi, con la coda dell’occhio, vidi il Caporedattore dare il via al Redattore di Linea agitando la bandierina rossa. Un attimo dopo, i due argomenti scelti dalla giuria lampeggiarono sul tabellone.

 
A) AVVENTURA D’AMORE DEL FUTURO
B) DETECTIVE DELLA SECONDA METÀ DEL VENTESIMO SECOLO.
 

Avevo cinque secondi per fare la mia scelta. Entrambi gli argomenti sembravano difficili, ma quello era il Campionato di Prosa, ed era logico che non fosse facile. Feci una scelta istintiva e gridai al Caporedattore: — Intreccio B! — Lui spiegò la bandierina bianca con sopra la lettera B, e immediatamente l’annunciatore ruggì: — Rex Sackett sceglie l’Intreccio B!

La folla esplose in un applauso assordante, che mise a dura prova i miei timpani. Sentii che il cuore accelerava i battiti, e che lo stomaco mi si chiudeva. Cercai di non pensare ai trenta milioni di persone che mi guardavano in primo piano dagli schermi TriDim.

Il Redattore di Linea suonò il clacson del via.

Io e Il Macinatore ci precipitammo alle nostre macchine per scrivere. E di colpo, mentre scivolavo nella mia sedia, sentii un senso di calma e di autocontrollo. Mi succedeva sempre così, e così succedeva a tutti i grandi, aveva detto Mort: non importa quanto tu sia nervoso prima che la gara cominci, diceva, perché una volta che il clacson ha suonato, il professionismo prende il sopravvento, e tu dimentichi tutto, tranne il lavoro che devi fare.

Avevo già in mente un titolo prima ancora di prendere il foglio bianco che stava a fianco della macchina per scrivere, e avevo in mente la frase iniziale già mentre inserivo il foglio nel rullo. Sparai il titolo, Il diamante Micawber, buttai giù la frase iniziale e i primi agganci narrativi, ed ero già al secondo paragrafo prima che la macchina di Culp cominciasse, dall’altra parte della Linea, il suo ticchettio amplificato. 

Centomila voci urlarono, incitando alla velocità e alla coerenza. Il settore degli aficionados di Culp e i Sostenitori di Sackett facevano più rumore di tutti: sapevo che Sally avrebbe trascinato gli altri a incoraggiarmi, e me la immaginai col suo maglione bianco e rosso e la grande S sulla fronte. Dolce, bellissima Sally...

Mi chinai sulla macchina, stringendo coi denti il cannello della mia vecchia pipa, e buttai giù altri due paragrafi del canovaccio. Fine della prima pagina. Sfilando il foglio e introducendone un altro, diedi un’occhiata al tabellone a sud. SACKETT 226, CULP 187. Sfornai mezza pagina di flashback, mettendoci aggettivi e avverbi per arrotondare il conto, aumentato anche da otto righe di descrizione che mi servirono a introdurre il primo dialogo. Quello che io scrivevo appariva in alto sul tabellone, stampato elettronicamente con caratteri grandi una trentina di centimetri. Le parole sembravano quasi stampate nel cielo. 

 
SAM SLEDGE ENTRÒ NEL SUO LUSSUOSO UFFICIO LASCIANDO SULLO SPESSO TAPPETO INCRESPATO ORME CHE PAREVANO FRITTELLE. VELDA VANCE, BELLA E SEDUCENTE SEGRETARIA DELL’AGENZIA INVESTIGATIVA SLEDGE E CHANDLER, LO GUARDO ALLARMATA. — QUALCUNO IERI SERA HA ASSASSINATO MILES CHANDLER — RINGHIÒ SLEDGE — E HA RUBATO IL DIAMANTE MICAWBER CHE LUI CUSTODIVA.
 

Era roba buona, lo sapevo di certo. Non era il mio meglio, ma era buona eccome, ed era proprio quello che i fan volevano. Il mio nome, gridato da qualcuno, echeggiò nel grande stadio e mi fece venire dei brividi lungo la schiena.

— Dài, Sackett, dài, dài che ce la fai!

Finii l’ultima riga della pagina due e avevo già il foglio bianco dentro la macchina dopo due secondi netti. Mentre premevo i tasti, i miei occhi scivolarono di nuovo al tabellone: SACKETT 529, CULP 430. Avevo un vantaggio di cento parole, ma non era niente in questa prima fase della gara. Senza perdere né velocità né concentrazione, diedi un’occhiata a quello che stava battendo Il Macinatore. 

 
IL MOSTRO VERDE DENEBIANO LE SI AVVICINÒ, MUOVENDOSI CON MOVIMENTI CURIOSAMENTE FLUIDI, E I SUOI TENTACOLI OSCILLARONO IN UNA SENSUALE DANZA DI LIBIDINE ALIENA. LEI, CONGELATA, ERA IN PIEDI CONTRO UNO SPUNTONE DI ROCCIA E FISSAVA INORRIDITA LA BESTIA. I TENTACOLI ONDEGGIANTI LA SOVRASTARONO E LE VERDI ONDE DI UMORI CHE IL MOSTRO TRASUDAVA LA FECERO RABBRIVIDIRE IN TUTTO IL CORPO.
 

Dio, pensai, questa è prosa super. È ispirato, sta rifacendosi del tempo perso.

Sentivo i cori dei suoi sostenitori, che riuscivano quasi a soffocare le grida d’incitamento dei miei.

— Dài, forza, Culp! Scrivi quel pulp!1  

Era la gara più difficile della mia vita, non c’era dubbio. Sapevo che sarebbe stata dura, ma saperlo e trovarcisi in mezzo erano due cose diverse. Il Macinatore era leggendario ai suoi tempi: quando era in palla, superava tutti in abilità, in velocità, per non parlare della sua finezza nel costruire i passaggi e della sua capacità di produrre anche sotto sforzo. Se riusciva a mantenere il ritmo e la forza creativa, non c’era nessuno scrittore al mondo che potesse batterlo... 

SACKETT 920, CULP 874. 

Registrai nella mente quel punteggio, e sussultai, accorgendomi che il mio ritmo era calato: Culp aveva dimezzato lo svantaggio. Questo succedeva quando si cominciava a preoccuparsi del proprio avversario e di quello che faceva. Mi pareva di sentire echeggiare nella memoria le parole di Mort: «La tensione può farti perdere la testa, ragazzo, se glielo permetti. Ma non credo che ti succederà. Credo che tu sia in gamba, credo che tu abbia fegato e cervello».

 

LA RABBIA SUL VISO DI MICAWBER SI DISSOLSE COME SAPONE IN UN PORTASAPONI INONDATO DA UN FIOTTO DI ACQUA SPORCA BOLLENTE.
 

Cancellai quella riga e mi sentii tornare in piena forma, sentii di poter macinare al meglio. La mia macchina tornò a battere con regolarità. Dialogo, qualche veloce accenno per preludere a sviluppi futuri, una serie di quattro aggettivi che strappò un’esplosione di applausi ai Sostenitori di Sackett. Ormai sentivo i polsi indolenziti dallo sforzo, e mi faceva male la gamba sinistra, dove mi ero fatto uno strappo durante la semifinale in cui avevo giocato contro il Lampo di Kansas City. Ma non ci badavo: avevo già scritto altre volte avendo male, e non volevo che il dolore mi fosse d’intralcio proprio adesso. Continuai a pensare solo a buttare giù la mia prosa.

Solo che, come vidi, non riuscivo più a riguadagnare vantaggio. I numeri sul tabellone dicevano: SACKETT 1163, CULP 1127. Anche Il Macinatore era tornato al ritmo normale di lavoro, e si stava avvicinando a me di parola in parola, di frase in frase. 

 

LEI NON AVEVA PIÙ LA FORZA DI SCAPPARE. ERA IN TRAPPOLA ADESSO, NON C’ERA VIA DI FUGA. UN URLO ESPLOSE DALLA SUA GOLA QUANDO IL MOSTRO BALZÒ SU DI LEI E LA STRINSE FRA I SUOI SPAVENTOSI ARTIGLI, SOFFIANDOLE IN FACCIA I SUOI FUMI VERDI. STAVA PER FARE DI LEI QUELLO CHE VOLEVA! STAVA PER FARE COSE INENARRABILI AL SUO CORPO!
 

— Culp, Culp, Culp!

 

LA NOTTE ERA BUIA E UMIDA E FREDDA E LA PIOGGIA CADEVA SU SLEDGE COME UN MILIONE DI LACRIME DI UN MILIONE DI AMORI PERDUTI SU UN MILIONE DI MONDI IN UN MILIONE DI GALASSIE.
 

— Sackett, Sackett, Sackett!

Il sudore che mi scivolava a rivoli sugli occhi mi fece apparire i numeri del tabellone appannati e scintillanti: SACKETT 1895, CULP 1857. Mi asciugai il sudore con la manica della divisa e infilai un nuovo foglio nella macchina. Dall’altra parte della Linea, Il Macinatore stava seduto dritto e rigido dietro la macchina per scrivere, con le dita in continuo movimento e la testa arruffata immersa nel fumo delle sigarette. Ma non batteva i tasti, li aggrediva, come se loro, e non io, fossero il suo avversario, e come se lui tentasse di ridurli al suo volere con la forza bruta. 

Arricchii ancora un po’ la frase, mi affrettai a finire il resto del passaggio, buttai là tre paragrafi d’introspezione e altri cinque di dialogo. Nuova pagina. Ancora dialogo, poi un altro aggancio narrativo per preparare la prima scena di confronto diretto. Nuova pagina. Descrizione, e un po’ di azione tipo gatto col topo tanto per creare suspense.

 

MENTRE ASPETTAVA NEL VICOLO BUIO L’UOMO CHE LO STAVA SEGUENDO, SLEDGE TENEVA LA MANO DESTRA SULLA TASCA DOV’ERA LA PISTOLA. SENTIVA UNA VECCHIA RABBIA FAMILIARE BRUCIARGLI DENTRO E FARGLI RIBOLLIRE IL SANGUE COME L’ACQUA DELLA PENTOLA SUL FORNO A LEGNA DEL SUO VECCHIO, NEL SUO APPARTAMENTO AL QUARTO PIANO.
 

La mia macchina per scrivere si bloccò. Sentii il crescendo delle grida di incoraggiamento, e duecentomila mani cominciarono ad applaudire quando squillò il clacson del Redattore di Linea.

Fine del primo quarto d’ora.

SACKETT 2500. CULP 2473.

 

Mi appoggiai allo schienale della sedia, asciugandomi con la manica il sudore dalla faccia, e tirai due o tre profondi respiri. Il Macinatore si era alzato in piedi. Se ne stava tutto rigido, con una sigaretta appena accesa fra le labbra, e sbirciava verso le linee laterali. I suoi secondi erano già sul campo, e gli correvano incontro portando un secchio d’acqua e una bottiglia di Carburante. 

Poco dopo arrivarono anche i miei. Uno di loro mi offrì il Carburante, ma benché avessi la bocca secca e disidratata, scossi la testa e feci segno di no. Mort e io avevamo convenuto che dovevo evitare più che potevo di prendere il Carburante: faceva parte del piano di gara che avevamo elaborato.

Quando ebbi finito di spruzzarmi acqua in faccia e di asciugarmi, vidi che mi rimaneva ancora meno di un minuto. Alzai gli occhi verso il Settore G. Non riuscii, in quel mare di facce, a distinguere papà e mamma, e nemmeno Mort e Sally, ma mi bastava sapere che erano là.

Tornai a sedermi, tolsi dalla pipa i residui di tabacco, vi pigiai dentro un po’ di tabacco fresco e l’accesi. La mia mente era corsa già avanti formulando ben quattro frasi, quando Culp tornò a sedersi e il Caporedattore alzò la bandierina rossa.

Clacson.

 

IL QUARTIERE VECCHIO. IL TIPO CHE LO SEGUIVA AVEVA QUALCOSA A CHE FARE CON L’ASSASSINIO DEL SUO SOCIO E IL FURTO DEL. DIAMANTE, SLEDGE NE ERA CERTO. ADESSO AVREBBE AVUTO ALCUNE RISPOSTE, IN UN MODO O NELL’ALTRO

 

E ripartii con la mia macchina allo stesso ritmo febbrile del periodo iniziale. Buttai già un’intera pagina di azione, seminando qua e là un po’ di dialogo e tirandola per le lunghe: il tutto mi valeva almeno altre 500 parole. Dodici pagine fatte e la tredicesima nella macchina per scrivere. Il mio livello qualitativo era ancora buono, ma quando diedi un’occhiata al tabellone, vidi che Il Macinatore ancora una volta macinava al meglio della sua forma.

 
MA ANCHE QUANDO SI STRINSE FORTE AL COMANDANTE DELLA FLOTTA SPAZIALE CHE LE AVEVA SALVATO LA VITA, LEI AVVERTÌ UNA STRANA TRISTEZZA. IL MOSTRO VERDE ERA STATO DISINTEGRATO E ADESSO NON ERA ALTRO CHE UNA POZZANGHERA VERDE FRA LE SABBIE POLVEROSE DI DENEB, SIMILE A UNA MACCHIA DI COLORE SU UNA TELA ALIENA. L’ORRORE ERA FINITO. E TUTTAVIA... E TUTTAVIA, NONOSTANTE IL SENSO DI REPULSIONE CHE LE AVEVA PROVOCATO, LA CREATURA LE AVEVA TIRATO FUORI DAL PROFONDO QUALCOSA DI PRIMITIVO CHE LEI COMINCIAVA APPENA ADESSO A CAPIRE.
 

— Culp, Culp, macina quel pulp! 

Il mio vantaggio si era ridotto a sole dodici parole: sul tabellone si leggeva SACKETT 3359, CULP 3347. Il Macinatore guadagnava sempre più terreno, nonostante che io lavorassi alla velocità massima. 

Il senso di tensione e d’incertezza cominciò di nuovo a tormentarmi. Cercai di combatterlo, mi concentrai ancora più intensamente, battendo i tasti così forte che sentii male a entrambi i polsi. Il sudore mi correva giù a rivoli, e il sole cocente mi picchiava sulla nuca come una mano incandescente.

 

SLEDGE RINGHIÒ: — PARLA, PERDIO! — E COLPÌ IN TESTA L’UOMO COL CALCIO DELLA SUA CALIBRO QUARANTACINQUE. IL TIPO ANNASPÒ E BARCOLLÒ, ANDANDO A SBATTERE CONTRO IL MURO UMIDO DEL VICOLO. SLEDGE GLI SI AVVICINÒ, SPOSTANDO LA PISTOLA ALLA MANO SINISTRA. COLPÌ L’UOMO UNA SECONDA VOLTA, LO COLPÌ IN BOCCA CON LA MANO COME UN PUGNO.
 

Il Caporedattore fischiò.

La mia macchina per scrivere si bloccò, e con essa si bloccarono le mie dita.

Fallo. Fallo!

Mi sentii un nodo in gola. Mi voltai di scatto verso le linee laterali e vidi agitare la bandierina della penalità di dieci secondi, la bandierina verde e nera che voleva dire Espressione inaccettabile. La folla faceva un rumore esagerato, metà di eccitazione, metà di delusione: sapevo che le telecamere TriDim avrebbero trasmesso agli spettatori lontani una serie dì primi piani della mia faccia. Mi sentii arrossire. La prima penalità della gara, e avevo permesso che capitasse a me. 

Ma quello non era il peggio. Il peggio era che questo mi sarebbe costato la perdita del vantaggio che avevo: la macchina per scrivere del Macinatore continuava a ticchettare con la massima foga, sfornando parole e frasi che brillavano come insulti sul tabellone.

Feci mentalmente il conto dei secondi, e quando la bandierina del Caporedattore s’abbassò e la mia macchina fu sbloccata, battei i tasti con rabbia, riscrivendo la frase incriminata: COLPÌ IL TIPO UNA SECONDA VOLTA, LO COLPÌ IN BOCCA CON LA MANO COME UN BLOCCO DI CEMENTO. Ma ormai il danno era stato fatto. Il tabellone me lo diceva, e lo diceva anche chiunque altro. 

CULP 3899, SACKETT 3878.

Il mio fallo pareva avere infuso nuova energia al Macinatore, pareva che gli avesse dato una spinta psicologica; adesso lavorava più in fretta che mai, con ancora più furia di prima. Avvertii la lieve morsa della paura. In genere l’unico modo per battere i grandi era di prendersi il vantaggio iniziale e di mantenerlo. Una volta che un vecchio professionista pieno di esperienza come Culp fosse riuscito a superarmi, il vantaggio era tutto suo.

D’un tratto mi venne in mente una frase che avevo letto molto tempo prima in un libro di storia dei Vecchi Sport, e questa frase mi fece rabbrividire: Gareggiare con i migliori è un pochino come gareggiare con la Morte. 

Adesso ero tornato a essere veloce, ma la mia capacità di concentrazione non era più così buona come prima del fallo; un paio di volte battei i tasti sbagliati, sbagliai a scrivere le parole e dovetti riscriverle. Era la tipica reazione alla penalità di cui mi aveva avvertito Mort. «Le penalità non significano niente» aveva detto. «Quello che devi temere è la tua eventuale reazione a esse. Non devi lasciarti turbare dalla cosa, non devi permettere che freni la tua vena e che t’induca a fare un altro errore.»

Ma non c’era Mort lì nell’arena, sotto il sole cocente del Campionato di Prosa. Non era Mort a gareggiare direttamente con un uomo leggendario...

Il suono della macchina per scrivere di Culp sembrava più forte del mio, più regolare, più ritmico. Nervosamente, controllai ancora il tabellone. La sua prosa adesso veniva sfornata così in fretta che avrebbe potuto essere stata scritta da uno dei computer da prosa sperimentali invece che da uno scrittore di pulp. 

 
LEI GUARDÒ DALL’OBLÒ DELL’ASTRONAVE LA VUOTA VASTITÀ DELLO SPAZIO. ALLE SUE SPALLE, SENTIVA CHE IL COMANDANTE PARLAVA CON IL COMANDANTE DELLA BASE DELLA COLONIA TERRESTRE NUMERO SETTE, E CHE TRASMETTEVA INFORMAZIONI SULL’INCIDENTE CHE ERA CAPITATO ALLA NAVE-SPOLA SU DENEB. — SOLO UN SUPERSTITE — STAVA DICENDO. SÌ, PENSO LEI, SOLO UN SUPERSTITE, MA VORREI CHE NON CE NE FOSSE STATO NESSUNO. SE FOSSI MORTA ANCH’IO NEL DISASTRO, NON SAREI STATA ATTACCATA DAL MOSTRO VERDE. E ADESSO NON AVREI QUESTE STRANE E TERRIBILI SENSAZIONI, QUESTO SENSO DI VUOTO E DI PRIVAZIONE E FRUSTRAZIONE
 

Alcuni fan erano in piedi, e urlavano: — Macinatore! Macinatore!

CULP 4250, SACKETT 4196.

Mi sentivo stordito dalla tensione, ma l’adrenalina continuava a scorrere e le parole continuavano a venire, a uscire dal mio inconscio, ad attraversare la nebbia della mia mente fino ad apparire sul foglio della mia macchina, nel pomeriggio assolato: sostantivi, verbi, aggettivi, avverbi. Non fargli guadagnare ancora terreno. Stagli dietro. Stagli dietro, pensai.

 

SLEDGE SEGUÌ L’UOMO GRASSO LUNGO IL FIUME IMMERSO IN UNA CUPA OSCURITÀ. PUZZA DI PESCE, DI MELMA E DI SPAZZATURA EMANAVANO DALLA NERA ACQUA OLEOSA E GLI SCHIAFFEGGIAVA LA FACCIA COME UNO SPORCO ASCIUGAMANO BAGNATO. NON SAPEVA DOVE IL GRASSONE LO STESSE CONDUCENDO, MA ERO SICURO CHE...

 

Fischio.

Blocco.

Fallo.

Incredulo, alzai gli occhi e vidi il Caporedattore agitare la bandierina rossa e gialla che indicava la penalità Cambio di Persona. Un coro di protesta si levò dalle tribune. Il mio sguardo guizzò al tabellone, ed era vero, ero passato dalla terza persona alla prima: un errore da dilettante, una grossolana distrazione da pivello. Dalla vergogna, abbassai la testa: fu come se, in quel momento, sentissi concentrata su di me l’ondata di disgusto dei sessanta milioni di occhi che mi stavano guardando. 

I dieci secondi di penalità furono come cento, come mille. Perché intanto la macchina del Macinatore continuava ad andare velocissima, senza mai rallentare o perdere il ritmo. Quando finalmente la mia macchina si sbloccò, riscrissi la frase in terza persona e mi buttai a scrivere senza controllare il punteggio. Non volevo sapere quanto fossi indietro. Temevo che se l’avessi saputo la fretta mi avrebbe reso imprudente, spingendomi a commettere un altro stupido errore.

Avevo la bocca secca e in fiamme per via del fumo della pipa, e per la prima volta pensai al Carburante. Era da un pezzo che non mi capitava di desiderare il Carburante durante la prima mezz’ora d’Incontro, ma adesso ne sentivo il bisogno. Solo che non potevo averlo, non prima dell’interruzione, a meno di non beccarmi venti disastrosi secondi di penalità.

Mi dissi che dovevano esserci ancora meno di 600 parole alla fine del quarto d’ora: potevo resistere. Un professionista serio doveva riuscire a buttar giù 600 parole quali che fossero le circostanze. Lo stesso Macinatore aveva detto una volta di poter scrivere 600 parole anche da morto. 

Mi imposi di escludere dalla mia mente qualsiasi pensiero che non fosse quello di scrivere la mia prosa. Via la pagina vecchia dal rullo, dentro una nuova. Fuori la vecchia, dentro la nuova. Velocità, velocità, ma assicurarsi anche della correttezza della grammatica, dei tempi, delle espressioni. C’erano ancora 5000 parole da usare nella gara. Avevo buone possibilità di rifarmi nella seconda mezz’ora,

 
L’INTERNO DEL MAGAZZINO ERA UMIDO E SAPEVA DI MUFFA, ED ERA PIENO DI OMBRE STRISCIANTI CHE PAREVANO UN PLOTONE DI SPIRITI MALIGNI IN ATTESA DI SALTARGLI ADDOSSO. POI SUL DI DIETRO APPARVE UN GUIZZO DI LUCE, CHE FECE CAPIRE A SLEDGE CHE IL GRASSONE AVEVA ACCESO UNA PICCOLA TORCIA TASCABILE. PISTOLA ALLA MANO, SLEDGE SCIVOLÒ FURTIVAMENTE VERSO...
 

La mia macchina si bloccò di nuovo.

Alzai di scatto la testa, quasi aspettandomi di vedere per la terza volta la bandierina delle penalità. Ma non era una penalità: era finalmente finita la prima mezz’ora.

Il clacson del Redattore di Linea suonò. I sostenitori del Macinatore stavano gridando in coro: — Culp, Culp, Culp!

Dovetti per forza guardare il cartellone, e vedere il punteggio che brillava luminoso contro il cielo: CULP 5000, SACKETT 4796. 

 

Sentii la tensione allentarsi un po’ e rimasi seduto sulla sedia, fiacco e affaticato. Sentii le giunture delle dita tutte irrigidite: c’era una macchia di sangue sul polpastrello dell’indice destro, dove la pelle, vicino all’unghia, si era scorticata. Ma il punteggio era l’unica cosa che mi interessasse in quel momento, e non era così brutto come avevo temuto. Ero indietro solo di 204 parole. Avevo rimontato svantaggi maggiori di quello, nella mia carriera: potevo farlo ancora.

Di là della Linea, Culp era in piedi e guardava l’erba con occhi scintillanti e fissi. Curiosamente, non era più così importante, adesso. Aveva la schiena curva e le mani un po’ tremanti, come se fosse lui quello che era indietro di 204 parole e che doveva aspettarsi una battaglia tutta in salita nella seconda mezz’ora.

Quando tirai indietro la sedia e mi alzai in piedi, un’acuta fitta al tendine del ginocchio mi costrinse ad afferrarmi all’orlo del tavolo. Ero inondato di sudore e avevo una tal sete che facevo fatica a deglutire. Ma non presi il Carburante quando arrivarono i miei secondi: nonostante ne sentissi il bisogno, non ne volevo prendere finché ero lì, non volevo far vedere al Macinatore e alla gente e al pubblico TriDim che ne avevo bisogno. L’avrei preso nello spogliatoio, sì. Dovevo aspettare solo qualche minuto. 

Due dei secondi di Culp lo accompagnarono fuori campo, verso il tunnel del lato sud: Culp era attaccato alla bottiglia di Carburante e la teneva con tutt’e due le mani. Io mandai via con un gesto i miei secondi e mi diressi da solo, zoppicando, verso il tunnel del lato nord. 

Mentre stavo per entrare nel tunnel, i miei fan mi avvolsero in una pioggia di rose e coriandoli. Era un buon segno: non mi davano per perso. Il corridoio era fresco, confortevole dopo quel sole cocente, ed era vuoto, a eccezione di due guardie che erano piantate lì per tenere lontani i fan, i cronisti del Nuovo Sport, e chiunque altro cercasse di vedermi. Le regole del Campionato di Prosa erano severe: ognuno dei contendenti doveva passare l’intervallo da solo, chiuso nel suo spogliatoio, senza macchina per scrivere o altri eventuali strumenti da lavoro. Nel ’26, l’anno della Rivolta contro le Tariffe Postali, un professionista soprannominato Gordon la Scamorza era stato squalificato per frode quando gli organizzatori avevano scoperto che un altro brocco come lui, pagato dall’agente di Gordon, aveva scritto un veloce seguito di mille parole durante l’intervallo e l’aveva consegnato a Gordon, che l’aveva corretto con la penna, mandato a memoria, e poi usato per accumulare vantaggio nel terzo quarto d’ora di gara. L’incidente aveva provocato uno scandalo abbastanza grosso a quell’epoca, e quelli del Campionato di Prosa non avevano nessuna intenzione che una cosa del genere si ripetesse.

Appena arrivai allo spogliatoio, mi assalirono piacevolmente gli odori familiari da camera-dello-scrittore, cioè l’odore del sudore, del tabacco vecchio e del Carburante, e mi fecero sentire un po’ meglio. Gli organizzatori del Campionato di Prosa ci tenevano anche molto a creare la giusta atmosfera: volevano che ciascun contendente si sentisse come a casa sua. Il pannello della porta si chiuse elettronicamente alle mie spalle con un lieve fruscio, e io mi precipitai verso la scrivania, dove c’era ad aspettarmi la bottiglia di Carburante.

Ne versai tre once, lo bevetti d’un fiato, e aspettai che facesse il suo magico effetto. Non ci volle molto: dopo pochi secondi, gli ultimi residui di tensione e gran parte della stanchezza erano scomparsi. Versai altre tre once, le misi da parte e mi tolsi la divisa inzuppata di sudore.

Mentre facevo la doccia pensai al Macinatore. Il suo rendimento nella prima mezz’ora era stato perfetto: niente penalità, velocità incredibile, prosa di prim’ordine. Nemmeno i suoi detrattori avrebbero potuto trovargli una pecca, né avrebbero potuto notare segni tali da confermare il sospetto che fosse ormai finito e in procinto di gettare la spugna.

Quindi, se intendevo batterlo, dovevo farlo affidandomi al mio talento, alla mia velocità, alla mia voglia di riuscire: in una parola, dovevo fare affidamento su me stesso. Non c’era niente di facile e piano, in questo tipo di faccende, e quindi nemmeno nel Campionato di Prosa: l’avevo sempre saputo. Bisognava lavorare sodo e a lungo, se si voleva vincere. Bisognava dare tutto di se stessi, cercare di evitare le penalità, e sperare di essere abbastanza bravi e forti da riuscire vincitori.

No, Il Macinatore non aveva intenzione di gettare la spugna. Ma nemmeno io avevo l’intenzione di gettarla.

Uscii dalla doccia, mi asciugai, mi fasciai la ferita al polpastrello, indossai una divisa pulita e sorseggiai il resto del Carburante. Sentii che mi tornava la fiducia in me stesso e che si consolidava.

L’orologio digitale sulla parete indicava che c’erano ancora nove minuti d’intervallo. Gironzolai un po’, flettendo le gambe per impedire al tendine del ginocchio di irrigidirsi. Era tranquillo lì, forse troppo tranquillo, e all’improvviso mi ritrovai a pensare che ero molto solo. Avrei voluto che Mort fosse lì con me a discutere la strategia da adottare; avrei voluto che i miei vecchi e Sally fossero lì, per poter dire loro che ero sicuro di me.

Ma anche se fossero stati lì, pensai in un secondo tempo, avrebbe fatto davvero molta differenza? Sarei stato solo lo stesso, no? Si è sempre soli, nelle gare di professionismo: i genitori, l’agente, i Redattori, la tua ragazza ti danno tutto l’aiuto e l’appoggio che possono, ma non sono scrittori di pulp e semplicemente non sanno cosa vuol dire uscire in campo ogni volta, affrontare la macchina per scrivere, i fogli bianchi, la tensione e la sofferenza che sono il prezzo di milioni di parole sfornate in centinaia di Incontri. I soli a sapere cosa vuol dire sono gli altri professionisti: solo il tuo avversario può capirti. 

Solo il tuo avversario.

Il Macinatore?

Eravamo davvero avversari, nemici? O eravamo fratelli spirituali, legati tra loro più strettamente di due parenti, in quanto ci trovavamo a condividere la stessa solitudine di fondo?

Era un pensiero angosciante e lo allontanai dalla mente. Non potevo entrare in campo e fronteggiare Culp con la convinzione di essere tutt’uno con lui. Sarebbe stato come combattere con me stesso, come cercare di sconfiggere me stesso in una gara che nessuno avrebbe mai potuto vincere...

Finalmente il pannello della porta si aprì e sentii suonare il segnale d’avviso che mi dava tre minuti di tempo per tornare in campo. Mi precipitai fuori dello spogliatoio, entrai nel tunnel passando davanti alle guardie silenziose, e uscii nell’arena.

 

Le ultime bande e le ultime majorette stavano allontanandosi a passo di marcia verso le linee laterali. I fan stavano rumoreggiando, e quando mi videro emergere dal tunnel e affrettarmi in direzione della Linea ci furono degli evviva e degli applausi, e la mia banda intonò ancora l’inno della mia vecchia scuola. 

Culp non c’era ancora, ma appena raggiunsi la Linea e mi avvicinai al mio posto sentii il rumore in tribuna farsi più forte e i suoi aficionados scandire in coro: — Macinatore! Macinatore! — Lo vidi uscire dal tunnel sud: non correva ma aveva un’andatura sciolta e sostenuta. Quando fu a metà strada parve barcollare appena, ma riprese subito il suo passo veloce. Quando si fermò di là della Linea, vidi che i suoi occhi erano ancora luccicanti e piuttosto fissi, simili a spilli luminosi in un vecchio blocco di legno. Mi chiesi quanto Carburante avesse preso durante l’intervallo. Non che importasse: in ogni caso non sarebbe bastato a cambiare le cose.

Il Caporedattore arrivò con le bandiere in mano. Mi accesi la pipa, e Culp si accese una sigaretta: eravamo pronti tutti e due. Il rumore della folla calò quando il Caporedattore alzò la bandiera rossa, e poi aumentò di nuovo quando la bandiera fu abbassata e il clacson suonò.

La seconda mezz’ora era cominciata.

La mia mente era chiara e lucida quando mi lasciai cadere sulla sedia. Avevo controllato sul tabellone la mia prosa, mentre aspettavo alla Linea, e avevo già in mente la fine della frase che avevo lasciato a metà e il resto del paragrafo: li buttai giù, e vi aggiunsi tre veloci paragrafi di descrizione. Dovevo usarli per preparare un’altra scena di azione e confronto diretto? No. Ero soltanto a metà storia, e questo mi avrebbe portato a rallentare il ritmo. Feci invece un’abile riga di collegamento, d’effetto scioccante, e cambiai così argomento.

— Dài, Sackett, dài! È così che ce la fai!

Le grida d’incitamento dei Sostenitori di Sackett e del resto dei fan furono come una bella boccata di Carburante per me: parole, frasi, espressioni, immagini vivaci mi uscivano fuori con scioltezza. Il ticchettio della mia macchina per scrivere era regolare e ininterrotto e pareva il rotolare di un tuono nel cielo azzurro e assolato.

Ma il mio non era l’unico tuono del Campionato di Prosa. Mi accorsi di colpo che anche la macchina del Macinatore batteva, più forte, più in fretta, con furia perfino maggiore. Per la prima volta da quando era iniziato il quarto d’ora diedi un’occhiata al punteggio.

CULP 6132, SACKETT 5898.

Non riuscivo a crederci. Pensavo di avere ridotto il suo vantaggio, di essere arrivato almeno a 175 parole da lui: invece Culp aveva aumentato il suo margine di altre 30 parole. Mi sentii invadere di nuovo da una lieve sensazione di paura, che si insinuò in me diminuendo la fiducia e l’autocontrollo che avevo sempre quando andavo bene. Stavo dando il mio meglio, qui nel terzo quarto d’ora, eppure non era sufficiente, perché Il Macinatore mi faceva mangiare la polvere.

Morsi così forte il cannello della mia pipa, che la sentii scricchiolare fra i denti. Continua a buttar giù la tua prosa, mi dissi deciso. Non smettere neanche un secondo.

 
CONTINUAVA A PENSARE AL CASO, A CERCARE DI METTERE INSIEME I VARI PEZZI, QUANDO IL TELEFONO SQUILLÒ. ERA VELDA. — ERO PREOCCUPATA PER TE, SAM — DISSE CON LA SUA DOLCE VOCE SEDUCENTE, E TUTTO D’UN TRATTO LUI SENTÌ IL BRUCIANTE DESIDERIO DI VEDERLA. ERA L’UNICA PERSONA CON CUI POTESSE PARLARE. L’UNICA PERSONA AL MONDO CHE CAPISSE QUELLO CHE LUI SENTIVA.
 

— Sackett, Sackett!

Ma la macchina del Macinatore continuava ad andare a velocità pazzesca; le parole del Macinatore continuavano a scorrere sul tabellone con rapidità inesorabile.

 
QUANDO LEI FU SICURA CHE IL COMANDANTE DORMISSE, USCÌ DALLA CUCCETTA E ANDÒ, SENZA FAR RUMORE, FINO AL POSTO DOVE LUI TENEVA L’UNIFORME. ADESSO SAPEVA COSA DOVEVA FARE. FINALMENTE ACCETTAVA LA VERITÀ, PERCHÉ PER TUTTO IL TEMPO IN CUI AVEVA FATTO L’AMORE COL COMANDANTE AVEVA PENSATO A DENEB E AL CORPO E ALL’ODORE DEL MOSTRO VERDE.
 

— Culp, Culp, Culp!

La spinta che mi avevano dato le sei once di Carburante adesso era scomparsa, e mi era tornata la tensione, che mi induriva i muscoli delle dita e delle spalle. Il sole sembrava sempre più cocente, e mi faceva pulsare la testa e uscire dai pori torrenti di sudore. Le parole continuavano a venirmi in fretta, ma le immagini non erano più così nitide come qualche minuto prima, e la qualità della prosa non era alta come all’inizio del quarto d’ora. Ma non m’importava. Quello che importava adesso era la velocità: ero disposto a sacrificare la qualità pur di non perdere la velocità.

CULP 6912, SACKETT 6671.

Ora ero indietro di 241 parole: nelle ultime 800 parole scritte, Il Macinatore ne aveva guadagnate solo sette. Ma le aveva guadagnate lui, non io: pareva che io non potessi riuscire a diminuire il suo vantaggio, qualunque cosa facessi. Alzai la testa, continuando a battere a macchina furiosamente, e lo guardai. Gli si vedevano i denti, e il sudore luccicava come olio sulla sua pelle grigia. Eppure le sue dita erano così veloci da apparire come una macchia indistinta sui tasti: sembrava che fossero creature indipendenti da lui che eseguissero una folle danza.

 
STRINGENDO IN MANO LA PISTOLA LASER DEL COMANDANTE SI AVVIÒ VERSO POPPA, DOVE C’ERA LA SCIALUPPA DI SALVATAGGIO. CONOSCEVA LE COORDINATE PER DENEB. AVREBBE ORDINATO AL COMPUTER DELLA SCIALUPPA DI SALVATAGGIO DI PORTARLA LÀ, DI PORTARLA VERSO LA SPERANZA DEL VERDE.
 

Un senso di disperazione s’impadronì di me. Il tempo stava per scadere: c’erano ancora meno di 500 parole da usare in quel quarto d’ora, e meno di 3000 nella gara. Si avevano così 2500 parole nell’ultimo periodo di gara, ma era impossibile inventarle se non si era in piena forma. E io non lo ero, a quanto pareva: soltanto Il Macinatore lo era.

I fan continuavano a urlare, creando un selvaggio contrappunto al rimbombo di tuono delle nostre macchine per scrivere. Immaginai di udire la voce di Mort dirmi di tenere duro, di continuare a macinare, e la voce di papà, rauca per aver troppo urlato, e la voce di Sally dire: «Ce la puoi fare, caro, ce la puoi fare!».

CULP 7245, SACKETT 7002.

Tenevo duro. Ero indietro di 243 adesso, ma tenevo duro.

 
GLI OCCHI DI SLEDGE BRILLARONO QUANDO LUI GUARDÒ IL. MAGNIFICO SENO DI VELDA. VELDA. L’UNICA DONNA CHE AVEVA DESIDERATO DA QUANDO SUA MOGLIE LO AVEVA LASCIATO, TRE ANNI PRIMA, DICENDO CHE NON POTEVA SOPPORTARE IL SUO LAVORO E IL TIPO DI GENTE CON CUI LUI TRATTAVA. I PALMI DELLE MANI DI SLEDGE ERANO BAGNATI, CALDI E PIENI DI DESIDERIO.
 

Anche le mie mani erano calde e bagnate, ma non osavo perdere tempo ad asciugarle. Avevo ancora soltanto 150 parole da usare, adesso, nell’ultimo quarto d’ora.

 
LUI LA PRESE FRA LE BRACCIA. ERA STUPENDO SENTIRE IL SUO CORPO VOLUTTUOSO. SLEDGE PREMETTE FORTE LA BOCCA CONTRO QUELLA DI LEI E SENTI CHE LEI GEMEVA, MENTRE CON LA MANO LE ACCAREZZAVA LA CURVA DEL SENO. — PRENDIMI, SAM — GLI SUSSURRÒ SULLE LABBRA, CON VOCE RAUCA. — STRAPPAMI I VESTITI E DAMMI IL TUO CALORE...
 

Tolsi con foga la pagina ventisei e infilai con altrettanta foga la pagina ventisette.

 
... AMORE. DAMMELO ADESSO, SAM! — ERA PROPRIO QUELLO CHE SLEDGE VOLEVA FARE. MA QUALCOSA LO TRATTENEVA. POI SENTI UN RUMORE NELL’ATRIO, UN RASPARE FURTIVO COME DI TOPO. SÌ, PENSO, UN TOPO UMANO. LASCIÒ ANDARE VELDA, TIRÒ FUORI LA SUA CALIBRO QUARANTACINQUE E SI GIRÒ DI SCATTO, ACQUATTANDOSI.
 

La mia macchina si bloccò un istante dopo che ebbi battuto il punto: il Redattore di Linea aveva suonato il clacson.

Il terzo quarto d’ora era finito.

 

Curvai le spalle, seduto sulla mia sedia, conscio solo per metà del rumore sempre più forte della gente attorno a me, e sbirciai il tabellone. Le lettere e i numeri brillavano come scintille di fuoco alla luce del sole.

CULP 7500, SACKETT 7255.

Una stanchezza sempre più grande si stava insinuando in me, intorpidendo i miei pensieri. Con lo sguardo appannato vidi Il Macinatore piegato in avanti sulla sua macchina per scrivere: aveva la testa reclinata tra le braccia e il corpo che si alzava e abbassava come se i polmoni non riuscissero a inalare aria sufficiente. Chissà cosa stavano dicendo i cronisti del Nuovo Sport su di lui, nella trasmissione TriDim. Ritenevano che Il Macinatore potesse mantenere il suo ritmo sfiancante per un altro quarto d’ora?

Ritenevano che io avessi ancora una minima possibilità di vincere?

Indietro di 245 parole con sole 2500 ancora disponibili...

Culp questa volta prese il Carburante da seduto, rovesciò la testa indietro e si attaccò furiosamente alla bottiglia. Io feci lo stesso: sentivo che se mi fossi alzato in piedi le ginocchia mi avrebbero ceduto, e che sarei caduto a gambe all’aria come un clown. Il regolamento di gara permetteva che si prendessero non più di tre once di Carburante nell’intervallo del terzo quarto d’ora: io non ne avrei preso addirittura, se non mi fossi trovato così indietro rispetto a Culp. Mi rifeci di quello che non avevo preso prima e buttai giù sei once piene, augurandomi che mi ridessero forza, e mi dovetti trattenere dal berne nove o dieci.

Ma il Carburante non mi fece l’effetto che mi aveva fatto durante l’intervallo della prima mezz’ora, e che di solito mi faceva durante le gare. Non sentii nessuna spinta. La mia mente rimase intorpidita e i muscoli delle braccia e dei polsi non mi si rilassarono. Il Carburante mi rese la testa pesante e mi diede un senso di nausea.

Nel minuto che mi rimaneva, caricai la pipa e l’accesi. Il fumo aveva un sapore disgustoso e mi fece pulsare la testa ancora di più, dolorosamente. Deposi la pipa e tirai qualche respiro lento e profondo. Dall’altro lato della Linea, Culp si stava accendendo una nuova sigaretta con la cicca della vecchia. Aveva un’aria rinsecchita adesso, sembrava invecchiato di dieci anni e non era affatto imponente come all’inizio.

Non m’incuti più soggezione, gli dissi mentalmente cercando di tirarmi su. Ti posso battere perché sono bravo come te, perché sono più bravo di te. Sono più bravo, mi senti?

Lui non mi guardò. Non mi aveva guardato una sola volta per tutta la durata dell’Incontro.

Il Caporedattore sollevò la bandierina rossa. Misi le mani in posizione, scuotendo la testa nel tentativo di liberarmi dell’intontimento. Gli urli dei fan erano vicini all’isterismo, esprimevano un senso di attesa e di fame, come se gli spettatori fossero animali che aspettavano di vedere uccidere.

Bene, pensai, ci siamo.

La bandierina rossa s’abbassò e il clacson squillò.

 

BENE, PENSÒ SLEDGE, CI SIAMO. ANDÒ...

 

La mia mente era vuota.

Cominciarono a tremarmi le mani: il sudore mi colava lungo le guance. Pensa a una frase, per amor di Dio! Ma era come se il mio cervello si fosse contratto, come se si fosse ridotto a un grumo immobile che impediva qualsiasi collegamento con l’inconscio.

La macchina per scrivere del Macinatore era tornata a rimbombare.

ANDÒ...

ANDÒ...

Bloccato. Ero bloccato.

Mi sentii invadere dal panico. Era dal mio primo anno di semiprofessionismo nella Società del Romanzo Gotico che non avevo un blocco: non avrei mai creduto che mi potesse succedere nei campionati importanti. Avevo tutti i sintomi del panico: senso di soffocamento, dolore al petto, respiro irregolare, nausea, suoni inarticolati che mi salivano in gola senza tradursi in parole.

Una bordata di fischi mi rimbombò nelle orecchie, facendomi male ai timpani. Mi misi a gemere sommessamente: avevo la terribile sensazione di stare per svenire sulla macchina per scrivere.

Il ticchettio della macchina per scrivere di Culp cessò due o tre secondi, il tempo per togliere il foglio vecchio, inserire il nuovo e ricominciare con furia.

Un frammento di ricordi uscì dalla mia mente bloccata: il ricordo di quando Mort mi aveva detto, molto tempo prima: «Per districarti da un blocco mentale, devi ricominciare dall’inizio. Soggetto. Oggetto. Sostantivo. Verbo. Preposizione. Participio. Prendi una parola alla volta, costruisci una frase, e abbastanza presto verrà tutto il resto».

Soggetto.

Sostantivo. Pronome.

LUI.

Verbo. Verbo.

ANDÒ.

LUI ANDÒ.

Preposizione.

ALLA

LUI ANDÒ ALLA

Oggetto.

 
ALLA PORTA E LA SPALANCÒ E L’UOMO GRASSO ERA LÌ, RANNICCHIATO VICINO ALLA SCALA, CON LA PISTOLA STRETTA NEL SUO PUGNO GRASSO. SLEDGE SENTÌ LA RABBIA SALIRGLI DENTRO. SI NASCOSE NEL CORRIDOIO E ALZÒ LA SUA CALIBRO QUARANTACINQUE. IL GRASSONE ERA DESTINATO AD ASSAGGIARE PRESTO IL FUOCO DI SLEDGE.
 

— Sackett, Sackett, Sackett, Sackett!

Le parole mi erano venute fuori di getto: il blocco mentale era scomparso, e insieme erano scomparsi il senso di soffocamento, il dolore al petto e la nausea. Ma il panico c’era ancora. Ora tornavo a sfornare a piena velocità, ma quanto tempo avevo perso? Di quante parole ero rimasto indietro?

Avevo paura di alzare gli occhi verso il tabellone. E tuttavia dovevo sapere il punteggio, dovevo sapere se avevo ancora una minima possibilità. Pieno di paura, alzai gli occhi, sbattendo le palpebre per mandar via il sudore.

CULP 8015, SACKETT 7359.

Al panico si sostituì la disperazione. Indietro di 656 parole, con meno di 2000 da usare ancora e col Macinatore che non dava alcun segno di stanchezza. Senza speranza: la situazione era senza speranza.

Ero destinato a perdere.

La maggior parte dei fan erano in piedi, e incitavano Culp urlando a gran voce il suo nome: adesso sembravano ancora più affamati. Capii con sgomento che volevano vedere Culp umiliarmi, sfornare sempre più parole e battermi con un vantaggio schiacciante di un migliaio di parole o più. Non intendevo dare loro questa soddisfazione. Non volevo coprirmi di vergogna davanti a Mort, alla mia ragazza, alla mia famiglia e a trenta milioni di spettatori TriDim. Non intendevo gettare la spugna.

Con frenesia battei le ultime righe della pagina trenta, la tolsi e ne misi una nuova. Azione, azione: dovevo allungare la scena di almeno altre tre pagine. Aggettivi, avverbi e simili. Parole. Parole.

 
SLEDGE DIEDE UN CALCIO NELL’INGUINE AL GRASSONE E LO MANDÒ A ROTOLARE GIÙ DALLE SCALE COME UN PUPAZZO ROTTO E URLANTE, URLANTE ESCLAMAZIONI DI DOLORE.
 

La testa, la gamba, il polpastrello ferito mi facevano un male tremendo. Sentivo nelle orecchie un rumore che non aveva niente a che fare con la folla.

CULP 8566, SACKETT 7930.

Avevo guadagnato 20 punti: venti parole! Avrei voluto ridere, ma mi venne fuori un suono inarticolato: lanciai uno sguardo a Culp, che stava piegato come una C, con le dita ad artiglio e un’espressione di sofferenza sulla faccia bagnata di sudore. Anche lui cominciava evidentemente a sentire lo sforzo. Ma sul tabellone la sua prosa continuava a venir fuori in lettere vivide come sangue dorato.

 
LEI ERA MOLTO STANCA, MENTRE ATTRAVERSAVA FATICOSAMENTE LE POLVEROSE SABBIE DI DENEB: MOLTO STANCA. MA DOVEVA ANDARE AVANTI, DOVEVA TROVARE IL VERDE. LO SMAGLIANTE VERDE, IL MAGNIFICO VERDE: LE SEMBRAVA CHE NELLA SUA VITA NON CI FOSSE STATO MAI ALTRO CHE LA RICERCA E IL BISOGNO DEL VERDE.
 

Immaginai ancora una volta le grida d’incitamento di Sally, e di papà e mamma: «Non arrenderti, Rex! C’è ancora speranza, c’è ancora una possibilità!». Poi queste voci scomparvero dalla mia mente, insieme con qualsiasi altra cosa. Persi la cognizione del tempo e dello spazio: mi sentivo come rinchiuso in una specie di vuoto. Non vedevo, non sentivo altro che le parole, le parole che apparivano come grandi e insensati simboli sulla carta e nel cielo. Adesso c’eravamo soltanto Il Macinatore e io, soli nello stadio. Non importava nemmeno più vincere o perdere. L’unica cosa che importava eravamo noi due, e il lavoro che eravamo costretti a fare.

 
IL GRASSONE ERA SEDUTO, SANGUINANTE, CONTRO IL MURO, NEL PUNTO DOVE SLEDGE L’AVEVA SCAGLIATO. ERA ANCORA VIVO, MA NON LO SAREBBE STATO A LUNGO. — VA BENE, SBIRRO — GRACCHIÒ. — PER ME È FINITA, PER ME ORMAI È UN GRAN CASINO. MA TU NON AVRAI MAI IL DIAMANTE. LO PORTERÒ CON ME ALL’INFERNO.
 

Punto a capo. Nuova riga.

Il cartellone:

CULP 8916, SACKETT 8341.

E la prosa del Macinatore continuava a venir fuori, veloce come sempre.

 
IL MOSTRO APPARVE IN LONTANANZA DAVANTI A LEI, NEL BOSCHETTO, E LEI SENTÌ IL CUORE BALZARLE IN PETTO. SI SENTIVA STORDITA, COME SE DA UN MOMENTO ALL’ALTRO POTESSE SVENIRE. NON POSSO PORTARE A TERMINE QUEST’IMPRESA, PENSÒ. COME POSSO CONTINUARE COSI? HO BISOGNO...
 

La macchina di Culp smise di battere, come se lui fosse arrivato a fine pagina. Dapprima mi resi a malapena conto di quel silenzio, ma dopo cinque o sei secondi capii che non aveva ricominciato a scrivere. Il rumore in tribuna pareva avere cambiato ritmo e avere preso un andamento diverso: anche la folla aveva notato il silenzio di Culp.

Alzai la testa e sbirciai oltre la Linea.

Il Macinatore era seduto di sghimbescio sulla sedia, e gesticolava furiosamente in direzione delle linee laterali. Mentre guardavo, uno dei suoi secondi si precipitò in campo con la bottiglia di Carburante. Il Caporedattore agitò la bandierina giallo-azzurra. 

Penalità per Eccesso di Carburante. Culp si era beccato una penalità di 20 secondi per Eccesso di Carburante.

Era la prima crepa nel suo rigido autocontrollo, ma io non ebbi nessuna reazione. La crepa era troppo piccola e si era manifestata troppo tardi: una penalità di 20 secondi a quel punto della gara, con un punteggio di 8960 a 8419, non avrebbe certo influenzato il risultato. Forse poteva mettermi in grado di ridurre il margine a 400 parole, a fine partita, ma niente più.

Questa volta non guardai Il Macinatore prendere il suo Carburante: abbassai invece la testa e continuai a battere sui tasti, chiamando a raccolta le ultime riserve di energia.

— Culp, Culp, dacci quel pulp! 

Appena questo coro si levò dai fan di Culp, capii che il tempo della penalità stava per terminare. Alzai gli occhi quel tanto da controllare il punteggio e da vedere Il Macinatore curvo sulla macchina per scrivere, con piccole gocce di Carburante che gli colavano sul mento come parole perdute.

CULP 8960, SACKETT 8536.

La sua macchina ricominciò a martellare.

Provai di nuovo la sensazione di svenire, ma non per un altro blocco mentale: questa volta semplicemente per la terribile stanchezza e la spaventosa tensione mentale. Continuavo a mantenere la velocità e continuavo a vomitare parole su parole, mentre mi avvicinavo alla scena dell’ultimo confronto diretto. Le parole mi sembravano confuse e incoerenti, ma non vidi bandierine di penalità, e la macchina non mi venne bloccata.

 
SLEDGE ORA SAPEVA L’ORRIBILE VERITÀ, ED ERA COME UN COLTELLO CHE GLI TAGLIASSE PEZZI DI CARNE DALLA PSICHE. SAPEVA CHI AVEVA IL DIAMANTE MICAWBER E CHI AVEVA AIUTATO IL GRASSONE AD ASSASSINARE IL SUO SOCIO.
 

Trentacinque pagine finite e la trentaseiesima nella macchina per scrivere.

CULP 9333, SACKETT 8946.

Meno di 700 parole da usare ancora. Il Campionato di Prosa era quasi finito. Solo tu e io, Macinatore, pensai. Facciamola finita.

Altre parole sfornate: cinquanta, cento.

E tutto d’un tratto si levò dalla folla un coro di esclamazioni, il tipo di esclamazioni di sorpresa che si sentivano negli stadi gremiti quando succedeva qualcosa d’inaspettato. Quel boato mi costrinse ad alzare la testa.

Il Caporedattore aveva sollevato la bandierina marrone e arancione che indicava Narrativa Confusa. Mi accorsi allora che la macchina per scrivere del Macinatore era ferma. Guardai il tabellone e lo lessi incredulo.

 
— TI DESIDERO — DISSE ALLA CREATURA. — TI DESIDERO COME LE SPIAGGE DI NETTUNO DESIDERANO GLI AGITATI ESPLORANTI MARI COME I MARI DESIDERANO LE PROFONDITÀ SPAZZATURA SPAZZATURA.
 

Continuai a guardare il tabellone e a scrivere, perché il mio inconscio non cessava di vomitare fuori parole. Non riuscivo a capire cos’era successo: mi pareva che le parole di Culp non avessero senso. Alcuni fan urlavano a squarciagola la loro disapprovazione. Nel Settore G, i sostenitori di Sackett intonarono cori con rinnovato eccitamento.

— Rex, tienti pronto! Macina il tuo racconto!

Il Macinatore, seduto dietro la macchina per scrivere, aveva una strana espressione sconsolata. Aveva la bocca aperta e le labbra che si muovevano, come se stesse parlando fra sé.

Finii la pagina trentasei, la tolsi come fossi in trance e allungai la mano verso un altro foglio bianco. Proprio mentre lo stavo infilando nel rullo, la macchina di Culp si sbloccò e ricominciò a ticchettare.

Ma non per molto.

 
NON POSSO PIÙ SCRIVERE QUESTA MERDA

 

Macchina bloccata. Bandierina delle penalità.

Adesso capivo. Il Macinatore aveva ceduto sotto il peso della tensione: quella che in un primo tempo era stata solamente una crepa adesso era diventata un grosso crepaccio e lui aveva perso il controllo.

Avevo sentito dire che cose del genere erano successe altre volte, ma mai a un Campionato di Prosa. E mai a uno scrittore di pulp che era a poche centinaia di parole dalla vittoria. 

CULP 9449, SACKETT 9228.

La bandierina delle penalità si abbassò.

 

SPAZZATURA.

 

E la bandierina tornò a sollevarsi, e le grida di disapprovazione della folla echeggiarono nel pomeriggio afoso come insulti rabbiosi.

La faccia di Culp era stravolta dall’emozione, bagnata di qualcosa di più del sudore: qualcosa che poteva essere solo pianto. Culp stava piangendo. Il Macinatore stava piangendo!

Fui commosso dalla sua tragedia, e colpito da un senso di compassione. Ma poi queste sensazioni scomparvero, cancellate da quello che leggevo sul tabellone: CULP 9449, SACKETT 9296. Sussultai per la gioia, anche se a scoppio ritardato per via delle reazioni lente dovute alla fatica. Adesso ero indietro di sole 153 parole: se Il Macinatore non si riprendeva alla fine del tempo di punizione, e se magari se ne beccava un’altra, potevo riuscire a raggiungerlo. 

Potevo ancora batterlo.

Potevo ancora vincere il Campionato di Prosa.

 
— SEI STATA TU, FIN DALL’INIZIO, VELDA — SLEDGE LE SBATTÉ IN FACCIA. — SEI TU CHE HAI INDIRIZZATO MILES DAL GRASSONE. NESSUNO, ALL’INFUORI DI ME E DI MICAWBER, SAPEVA CHE MILES AVREBBE CUSTODITO IL DIAMANTE QUELLA NOTTE, E MICAWBER È AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO.
 

Bandierina delle penalità giù.

 

TUTTA SPAZZATURA.

 

Bandierina su.

Nuovo foglio bianco nella mia macchina. Parole, frasi, paragrafi. Un’altra mezza pagina completata.

MERDA scrisse Il Macinatore. Un’ondata di urla furiose. E grida d’incoraggiamento dal Settore G. 

SACKETT 9481, CULP 9449.

L’avevo raggiunto e adesso conducevo io...

 

VELDA INFILÒ LA MANO NELLA SCOLLATURA, FRA I SUOI MAGNIFICI SENI. — VUOI IL DIAMANTE? — URLÒ A SLEDGE. — VA BENE, SAM, ECCOLO! — GLI SCAGLIÒ LA PIETRA LUCCICANTE, POI SI BUTTÒ DI LATO, AFFERRÒ LA BORSA E TIRO FUORI UNA PICCOLA PISTOLA AUTOMATICA DALL’IMPUGNATURA DI PERLE. MA NON EBBE MODO DI USARLA. PIENO DI ODIO PER LEI. PER SE STESSO, PER TUTTA QUELLA LURIDA MALEDETTA FACCENDA IN CUI SI ERA INVISCHIATO, SLEDGE SPARÒ DUE VOLTE CON LA PISTOLA CHE TENEVA AL FIANCO
 

— Sì, Sackett. dài! Dài che ce la fai!

Ancora parole. Nuova pagina. Ancora parole.

SACKETT 9702, CULP 9449.

Il Macinatore era in piedi. Si allontanò barcollando dalla macchina per scrivere e si mise a girare in tondo sul campo vuoto, tenendosi le mani sulla faccia. Le lacrime colavano sulle sue mani tremanti.

 
COLARONO LACRIME DAGLI OCCHI DI SLEDGE, MENTRE GUARDAVA QUELLO CHE RIMANEVA DELLA BELLA E INFIDA VELDA, CHE GIACEVA SUL PAVIMENTO. ADESSO DESIDERAVA SOLTANTO ANDARSENE DI LÌ, ANDARE A CASA DA SALLY. MA NO, SALLY LO AVEVA LASCIATO TANTO TEMPO PRIMA E NON C’ERA PIÙ NESSUNO AD ASPETTARLO, A CASA, ERA COSÌ STANCO CHE I SUOI PENSIERI ERANO SCONNESSI.
 

Due dei secondi di Culp erano arrivati in campo e adesso lo stavano sorreggendo. E lo stavano accompagnando via. 

Nuova pagina, vecchie parole. Altre parole, ancora.

 
SLEDGE PARTÌ IN FRETTA CON LA MACCHINA, SOTTO LA FREDDA PIOGGIA TORRENZIALE, E SCIVOLÒ LUNGO LE LURIDE STRADE DI QUELLA GIUNGLA CHE ERA LA CITTÀ. TUTTO ERA QUASI FINITO, ORMAI. AVEVA BISOGNO DI RIPOSARE A LUNGO, E NON SAPEVA SE AVREBBE POTUTO CONTINUARE A FARE QUEL LAVORO, ANCHE SE L’AVEVA SEMPRE FATTO – MA IN QUEL MOMENTO NON GLIENE IMPORTAVA
 

Nelle tribune c’era il pandemonio.

Il conteggio delle parole era salito a 9985.

 
E SAM SLEDGE, SOLO E VUOTO COME LA NOTTE, GUIDÒ PIÙ IN FRETTA VERSO CASA.
FINE.
 

Il clacson squillò.

Al di sopra del chiasso, la voce amplificata dell’annunciatore cominciò a gridare. — Punteggio finale: Rex Saekett, Diecimila, Leon Culp, novemilaquattrocentoquarantanove. Rex Sackett è il nuovo Campione di Prosa!

I fan si stavano riversando fuori dalle tribune: il personale di sicurezza si precipitò a formare un cordone di protezione. Ma io non mi mossi. Mi limitavo a stare seduto e a fissare il tabellone.

Avevo vinto. E non provavo assolutamente niente.

 

Il Macinatore mi aspettava nel mio spogliatoio.

Continuavo a non sentire niente quando i miei secondi mi lasciarono alla porta dello spogliatoio, dieci minuti dopo la fine dell’Incontro. Non volevo vedere nessuno, quando mi trovavo in quello stato d’animo. Né i cronisti del Nuovo Sport, né gli annunciatori TriDim che mi aspettavano alla sala delle conferenze stampa. E non volevo vedere nemmeno Sally, o papà e mamma, o Mort. 

Dissi ai miei secondi e alle due guardie del corridoio che desideravo stare da solo per qualche minuto. Poi entrai nello spogliatoio, e corsi alla bottiglia di Carburante. Me n’ero versato tre once, che tenevo in mano, quando appunto mi accorsi che Culp era nella stanza. 

— Salve, ragazzo — disse.

Lo guardai. La sua comparsa improvvisa mi aveva preso di sorpresa, e non riuscii a pensare a nessuna frase da dire.

— Sono venuto qui passando sotto le tribune — disse. — Una delle guardie è un mio amico e mi ha lasciato entrare. Ti dispiace?

Un po’ tremante, buttai giù un sorso di Carburante. Mi aiutò a ritrovare la voce. — No — dissi. — Non mi dispiace, Macinatore.

— Leon — disse lui. — Semplicemente Leon Culp. Non sono più Il Macinatore.

— Certo che lo siete. Lo siete ancora. Voi, Macinatore, siete ancora il migliore, non importa quello che è successo oggi. Siete una leggenda...

Lui rise: una risata roca e amara. M’accorsi che aveva bevuto parecchio altro Carburante prima di venire da me. Eppure, aveva un aspetto migliore di quando era in campo: era più calmo.

Disse: — Una leggenda? Non ci sono leggende, ragazzo. Solo professionisti, bravi e non. E i migliori di noi vengono ricordati soltanto finché continuano a vincere, finché sono sulla cresta dell’onda. A nessuno importa un fico degli ex e dei perdenti.

— I fan non potrebbero mai dimenticarvi...

— I fan? Perdio, li hai sentiti quando mi sono fatto prendere dalla tensione e ho ceduto nella tirata finale? Insulti, nient’altro che insulti. Per loro è solo una partita. Credi che capiscano come ci sentiamo dentro, che capiscano la solitudine e la sofferenza che patiamo? Credi che capiscano che per noi non è affatto una semplice partita? No, ragazzo, i fan sanno che io sono finito. E lo sa chiunque altro bazzichi in questo tipo di affare.

— Non siete finito — dissi io. — Tornerete alla ribalta la prossima stagione.

— Non essere ingenuo. Il mio agente ha già detto che non c’è bisogno della rivincita, e non ce n’è un altro disposto a rischiare di fare affidamento su di me. Lo stesso vale per i Redattori di Società. Ho finito col professionismo, ragazzo.

— Ma cosa farete?

— Non lo so — disse lui. — Non ho mai messo da parte il denaro: sono quasi al verde com’ero quando cominciai, trentacinque anni fa. Chissà che non riesca a fare l’istruttore in qualche Società Junior, in modo da potermi comprare il pane e il Carburante. Non che importi molto, comunque.

— Importa a me.

— Davvero? Be’, tu sei un professionista, capisci come vanno queste cose. Credo almeno che tu possa capire.

Mi sentivo un nodo in gola e deglutii per scioglierlo. — Sì, capisco — dissi.

— Allora lascia che ti dia un piccolo consiglio. Se sei intelligente, questa dev’essere la tua ultima gara. Hai vinto il denaro in palio: investilo bene, e puoi viverci sopra per il resto dell’esistenza. Non dovrai mai più scrivere una sola riga. Esci dal gioco da vincitore, ragazzo, perché se non lo fai ora, subito, magari un giorno ti toccherà uscirne da perdente, come me.

Alzò una mano in una specie di goffo saluto e si trascinò verso il pannello della porta.

— Macinatore, aspettate.

Lui si girò.

— Quello che avete scritto alla fine, cioè che quello che scriviamo è spazzatura... lo pensate davvero?

Un breve, amaro sorriso gl’increspò le labbra. — Tu che ne dici, ragazzo? — disse, poi si girò di nuovo e imboccò il tunnel. Il pannello si chiuse alle sue spalle. Il Macinatore era scomparso.

Mi sedetti davanti alla bottiglia di Carburante. Ma non ne volevo più, adesso: non ne avevo bisogno. Il senso di vuoto era scomparso. Adesso sentivo di nuovo emozioni e sensazioni.

Ora sapevo perché mi era parso di essere così vuoto quando l’Incontro era terminato: parlare con Il Macinatore mi aveva costretto ad ammettere la verità. Non si era trattato di stanchezza. come avevo desiderato credere. Si trattava del fatto che tutte le cose che lui aveva detto le avevo già intuite da solo sul campo. Si trattava del fatto che avevo visto giusto quando, durante l’intervallo avevo pensato che li Macinatore ed io eravamo fratelli spirituali, che combattere lui era come combattere me stesso, che sconfiggere lui era, come in effetti era, un po’ come sconfiggere me stesso. 

Ma c’era anche qualcos’altro, la cosa più importante di tutte. Era stato Culp a soccombere alla tensione, ma altrettanto facilmente avrebbe potuto soccombervi Rex Sackett. E in qualche altro Incontro, in qualche altro Campionato di Prosa, poteva capitare a Rex Sackett di scrivere SPAZZATURA SPAZZATURA e di mettersi a vagare piangendo per il campo vuoto. 

Esci dal gioco da vincitore, ragazzo, perché se non lo fai magari un giorno ti toccherà uscirne da perdente, come me. 

Avevo già preso la mia decisione: non avevo nemmeno bisogno di pensarci ancora. Sally e i miei genitori sarebbero stati i primi a cui l’avrei detto: poi l’avrei detto a Mort e dopo avrei fatto l’annuncio ufficiale nella sala della conferenza stampa. Era finita per Il Macinatore ed era finita anche per me.

Questo sarebbe stato il mio ultimo Campionato di Prosa.