Gli olimpici
di Mike Resnick
Titolo originale: The Olympians
Traduzione di Delio Zinoni
© 1984
... come il Pony Express, che si guadagnò nella storia dell’umanità un posto molto superiore all’importanza dei suoi risultati, durante gli undici mesi della sua esistenza, così il culto degli Olimpici ricevette una pubblicità completamente sproporzionata alle conquiste ottenute, nei corso della sua breve vita durata ventidue mesi. Con ciò non si intende in alcun modo denigrare quei romantici idoli della primitiva Democrazia, poiché a quell’epoca l’uomo aveva bisogno di tutti gli idoli che poteva darsi, e certamente nessun gruppo andò mai incontro a quella necessità con la dedizione e l’orgoglio degli Olimpici.
L’Uomo: Dodici millenni di conquiste
...degni di un cenno sono forse gli Olimpici, poiché si può dubitare che alcun altro segmento dell’umanità abbia mai rispecchiato così accuratamente l’incredibile egocentrismo dell’Uomo, la sua gioia nell’umiliare altre razze, e...
Origine e storia delle razze senzienti,
Vol. 8
C’erano cinquantamila esseri nelle stadio, e altri innumerevoli miliardi seguivano via video. E ognuno di loro, fino all’ultimo, aveva lo stesso scopo: vederlo andare incontro alla sconfitta.
— Il grande momento è arrivato! — disse Hailey, che gli stava massaggiando le gambe, mentre lui era steso a faccia in giù sul lettino. — Questa è la volta che gliela faremo vedere, campione.
Lui guardava davanti a sé, immobile. — Tu lo speri — disse.
— Io lo so — disse Hailey. — Tu sei un Uomo, ragazzo, e gli Uomini non perdono. Sei pronto a incontrare la stampa?
Lui annuì.
La porta venne aperta, e una marea di reporter, umani e no, gli si accalcarono attorno.
— Pensi ancora di sconfiggerlo, Big John?
Lui annuì. Gli Olimpici erano noti per essere taciturni. Avevano i manager per rispondere alle domande.
— Ci sono più di cinquanta gradi là fuori — disse un altro. — E poco ossigeno.
Lui si limitò a guardare il reporter. Non gli era stata rivolta alcuna domanda, e lui non diede alcuna risposta.
— Ragazzi — disse Hailey, mettendosi di fronte a lui — sapete che Big John dev’essere emotivamente preparato alla gara, perciò rivolgete le domande a me. Sarò felice di rispondere. — Sorrise con aria sicura verso una delle telecamere.
— Non sapevo che gli Olimpici avessero emozioni — disse un reporter di Lodin XI con sarcasmo.
— Certo che le hanno, certo — borbottò Hailey. — È solo che, essendo professionisti, non le fanno vedere.
— Signor Hailey — disse un essere che respirava cloro, chiuso nel suo scafandro, utilizzando il traduttore — che cosa spera di provare esattamente il signor Tinsmith, facendo tutto questo?
— Sono contento che mi abbiate fatto questa domanda, signore — disse Hailey. — Davvero molto felice. Sono sicuro che molti di voi spettatori ve lo sarete chiesto. Bene, lasciate che risponda in questa maniera: Big John Tinsmith è un Olimpico, con tutto quello che ciò implica. Ha preso i voti quattro anni fa, ha fatto giuramento di astenersi completamente da rapporti sessuali, stimolanti alcoolici, narcotici nocivi e tabacco. Come membro del Culto degli Olimpici, il suo compito è identico a quello di ogni altro suo fratello: percorrere in lungo e in largo la galassia come ambasciatore della buona volontà e dello spirito sportivo dell’Uomo, sfidando le razze dei vari pianeti in quelle gare fisiche in cui esse sono specializzate.
— E allora come mai nessun Olimpico ha mai sfidato un Torqual alla lotta? — chiese qualcuno.
— Come stavo dicendo — continuò Hailey — i nativi di Emra Quarto si vantano della loro velocità a piedi. Le gare di corsa sono lo sport più importante, e così...
— C’è per caso qualche rapporto col fatto che i Torqual hanno seicento chili di muscoli? — continuò il reporter di prima.
— Bene, non volevamo rendere pubblica la cosa, ma Sherif Ibn ben Iskad ha sfidato Torqual a mettere in lizza il suo campione per un incontro, il mese prossimo.
— Sherif Iskad! — gridò un reporter umano. — Questa sì che è una notizia! Iskad non ha mai perso, vero?
— Nessun Olimpico ha mai perso — disse Hailey. — E adesso che abbiamo chiarito questa questione, torniamo al nostro argomento. Big John Tinsmith correrà contro il miglior campione che Emra Quarto possa offrire, e io vi garantisco che vedremo...
Hailey continuò per un pezzo, rispondendo alle domande che gli piacevano, evitando abilmente quelle che non gli andavano. Alla fine, quindici minuti prima dell’inizio della gara fece sgombrare la stanza e si rivolse a Tinsmith.
— Come ti senti, ragazzo?
— Bene — disse Tinsmith, che non aveva mosso un muscolo.
— Herb! — chiamò Hailey. — Chiudi a chiave. Per dieci minuti nessuno deve entrare.
L’assistente dell’allenatore chiuse la porta, e Hailey prese da sotto il lettino una valigetta di pelle. L’aprì, ne tirò fuori alcune siringhe, esaminò le etichette di una ventina di flaconi.
— Adrenalina — annunciò, iniettandone una dose massiccia nel braccio di Tinsmith. — La pista mi sembrava anche un po’ irregolare. Meglio darti un po’ di fenilbutazone. — Ne iniettò una dose in ciascun polpaccio. — Qualcosa per farti respirare un po’ meglio... Questo servirà a farti sentire meno caldo... bene, penso che basti. Ti senti in forma?
Tinsmith si mosse per la prima volta, sedendosi sul bordo del lettino, le lunghe gambe sottili che dondolavano a pochi centimetri dal pavimento lucido. Tirò due profondi respiri, espirando lentamente, poi annuì.
— Bene — disse Hailey. — Personalmente ero contro questa gara. Penso che sia ancora un po’ troppo presto per te. Ma gli Olimpici non possono dire di no, perciò l’abbiamo ritardata il più possibile, poi abbiamo accettato. — Tinsmith scese dal lettino, si inginocchiò e cominciò ad allacciarsi le scarpe. — Quel tipo sa correre, non c’è da discutere su questo — disse Hailey. — È maledettamente veloce. Farà il primo miglio in meno di tre minuti, il che significa che sarai rimasto così indietro da non riuscire nemmeno a vederlo. Ma gli Emran non hanno molta resistenza. Il secondo miglio dovrebbe farlo in tre minuti e mezzo, il terzo in tre e tre quarti. Risparmia il fiato fino ad allora. In tutto sono quattro miglia e ottanta yard. Se corri come sei stato allenato, dovresti arrivargli a fianco a quattrocento metri buoni dal traguardo. — Hailey ridacchiò. — Ci pensi? Farlo arrivare a qualche centinaio di metri dal traguardo, poi fregarlo proprio sul filo di lana, il bastardo, quando ogni maledetto alieno da qui all’Orlo penserà che un Olimpico si è fatto finalmente battere!
— Pronto — disse Tinsmith voltandosi verso la porta.
— Ricorda una cosa sola, ragazzo — disse Hailey. — Nessun Olimpico ha mai perso. Tu rappresenti la razza dell’Uomo. Tutto il suo prestigio pesa sulle tue spalle. La prima volta che uno di voi verrà battuto, sarà la fine degli Olimpici.
— Lo so — disse Tinsmith con voce atona.
Hailey aprì la porta. — Vuoi che venga con te? Vuoi che ti faccia compagnia, fino alla pista?
— Gli Olimpici camminano soli — disse Tinsmith, e uscì.
Percorse il lungo corridoio, stretto e tortuoso, e pochi minuti dopo raggiunse la superficie del grande stadio. L’aria era calda, opprimente. Respirò profondamente, decise che l’iniezione aveva funzionato e camminò fin dove la folla sulla gradinata poteva vederlo. Lo fischiarono.
Senza mostrare né provare alcuna emozione, senza guardarsi né a destra né a sinistra, raggiunse il suo avversario, che lo stava aspettando. L’Emran era un umanoide. Alto circa un metro e sessanta, aveva gambe grosse e muscolose. Le cosce specialmente erano un groviglio di muscoli, e i piedi, benché molto larghi, apparivano estremamente efficienti. La sua pelle era color bronzo, e tanto il corpo quanto la testa erano completamente privi di peli. Tinsmith diede un’occhiata al petto dell’Emran. Gli sembrava che non avesse una capacità maggiore del suo. Poi il suo sguardo andò al naso e alla bocca. Il primo era largo, la seconda piccola, con il mento sporgente. Questo significava che non avrebbe potuto spalancare la bocca per respirare nell’ultimo miglio. Se si stancava, non avrebbe potuto farci niente. Soddisfatto, e senza degnare di un’occhiata qualsiasi altra parte dell’Emran, senza rivolgergli un cenno di saluto, si fermò alla linea di partenza, le braccia incrociate, lo sguardo fisso davanti a sé.
Uno dei giudici di gara venne verso di lui e gli offrì un apparecchio traduttore modificato, poiché era noto che nessun Olimpico parlava altra lingua che non fosse quella del mondo su cui era nato. Tinsmith scosse la testa. Il giudice si strinse nelle spalle e se ne andò.
Un altro Emran cominciò a parlare in un microfono, e il sistema di altoparlanti riprodusse una serie di echi metallici che si sparsero nello stadio. Ci furono grida sfrenate, e Tinsmith capì che avevano annunciato il nome del concorrente locale. Un momento dopo arrivarono i fischi, mentre sentiva il suo nome orrendamente distorto. Poi venne descritto il percorso della gara: tre volte attorno al grande stadio, su una pista lastricata di pietra. Alla fine furono lette le regole.
Venne gettata una moneta per determinare la posizione interna. Tinsmith sdegnò di dichiarare. L’Emran lo fece, e perse. Tinsmith raggiunse il suo posto.
Mentre era chino, in attesa del segnale di partenza, diede un’occhiata al suo avversario, studiandolo brevemente. Era sufficientemente umano da mostrare la tensione e la concentrazione spaventose dipinte sulla sua faccia che già sudava. E perché no? Anche lui portava un grosso peso sulle spalle. Era il corridore più veloce di una razza di corridori. L’Emran, accorgendosi che Tinsmith lo guardava, lo guardò a sua volta e mosse la bocca in quello che doveva essere un sorriso. Tinsmith lo guardò freddamente.
Non aveva niente contro quell’essere, come non aveva avuto niente contro i suoi avversari passati; come Iskad non aveva niente contro gli esseri che distruggeva coi suoi muscoli, e Kobernykov non aveva niente contro le migliaia di esseri che aveva sconfitto nei giochi alle scacchiere. Non voleva infliggergli la vergogna di una sconfitta, di fronte al grande pubblico dei suoi simili.
Ma gli Olimpici non avevano altra scelta se non vincere. Se un Olimpico qualsiasi, su qualsiasi pianeta, perdeva, il mito che stavano costruendo sull’invincibilità dell’Uomo sarebbe andato in pezzi, e l’Uomo sarebbe stato solo una delle tante razze di atleti di talento sui campi della galassia. E questo era inaccettabile. Ancora di più: era impensabile.
Non era per l’adulazione degli altri uomini che gli Olimpici gareggiavano. Questa era una ricompensa in più, talvolta fastidiosa. Essi vivevano soltanto per sentire i fischi delle altre razze quando scendevano sul campo, un po’ meno forti a ogni incontro, e per sentirli diminuire attraverso la gara, fin quando, alla fine, non si trasformavano in un rispettoso silenzio, misto forse a paura. La paura e il rispetto non erano per il singolo Olimpico, ma per la razza che lui rappresentava, e così doveva essere.
Non c’era tempo per altre riflessioni, perché la gara era cominciata, e l’Emran era balzato subito al comando. Tinsmith cercò per un po’ di stargli vicino, poi si lasciò superare; mentre le sue lunghe gambe divoravano il terreno senza sforzo. Per il primo quarto di miglio respirò con le narici, per controllare l’efficacia degli stimolanti, poi, soddisfatto, adottò il suo metodo normale di respirazione: una boccata d’aria ogni tre passi.
Davanti a lui, l’Emran stava aumentando il suo vantaggio, distanziandolo di duecento, poi trecento metri. L’Olimpico non gli prestò attenzione. Hailey gli aveva detto cosa poteva fare l’Emran, e cosa non poteva fare, e Tinsmith conosceva le proprie possibilità. Se i calcoli di Hailey erano giusti, avrebbe raggiunto l’Emran fra circa undici minuti. E se Hailey si sbagliava...
Scosse la testa. Hailey non sbagliava mai.
La folla applaudiva, urlava il nome del suo campione, e sparsi per la galassia, 500 miliardi di spettatori guardarono l’Olimpico rimanere talmente indietro che l’immagine video non poteva contenere entrambi i corridori. E Tinsmith sapeva che ognuno di loro, umano e non umano, si stava ponendo la stessa domanda: è questo il giorno? È questo il giorno in cui un Olimpico sarà finalmente sconfitto?
Tutti, tranne Hailey, che sedeva tranquillamente nella sua tribuna, il cronometro in mano, annuendo. Big John stava andando bene, obbediva agli ordini in maniera perfetta. Primo mezzo miglio in 1:49, il miglio in 3:40. Prese il binocolo, vide che il suo ragazzo non mostrava alcun segno di stanchezza, e si sedette soddisfatto.
Alla fine del secondo miglio, il vantaggio dell’Emran non era diminuito, e anche i pochi umani nello stadio avvertirono un senso di disperazione. Ma poi, lentamente, inesorabilmente. Tinsmith cominciò a ridurre il margine. Dopo tre miglia, era ancora indietro ma di soli duecento metri, e mentre iniziavano l’ultimo giro aveva ridotto il vantaggio dell’Emran a centocinquanta metri.
E questo margine rimase, mentre prima l’Emran, e venti secondi dopo Tinsmith giungevano all’ultima curva. L’Olimpico guardò attraverso la polvere la figura bronzea che correva davanti a lui.
Qualcosa non andava! Ormai l’Emran avrebbe dovuto essergli sempre più vicino, la fatica della velocità iniziale avrebbe dovuto farsi sentire nelle gambe corte e tozze. Ma non era così. Le gambe dell’alieno continuavano a divorare il terreno, mantenendo lo stesso margine fra di loro.
Tinsmith sapeva di non poter più aspettare, sapeva che la dirittura finale era troppo lontana, che il suo corpo cominciava a risentire della fatica, e doveva reagire subito. Non ci sarebbe stata alcuna pausa di respiro, né un avversario stanco da superare con comodo, se voleva raggiungere l’anonimato della vittoria, la consapevolezza di essere solo un’aggiunta a una lunga lista di trionfi, e non l’ultimo degli Olimpici.
Si lanciò in avanti, spinto più dalla paura che dal desiderio. Le gambe gli facevano male, le piante dei piedi bruciavano, respirava affannosamente, dolorosamente.
Imboccò la dirittura finale, mentre il suo corpo implorava disperatamente il riposo, e la sua mente cercava di bloccare il tormento. Adesso era a settanta metri dall’Emran, poi cinquanta. L’Emran sentì l’urlo della folla, capì che l’Olimpico cercava di raggiungerlo, e obbligò le proprie gambe torturate a mantenere il passo.
I due correvano e correvano, ciascuno portando sulle spalle un mondo. Tinsmith aveva ancora ridotto il margine dell’Emran, ma stava correndo fuori della pista. Alzò gli occhi, la vista annebbiata, cercando di scacciare le macchie nere che gli nascondevano il filo del traguardo. Era sospeso in mezzo alla pista, a soli duecento metri. Lui ne distava trenta metri più dell’Emran.
Avrebbe perso. Lo sapeva, lo sentiva in ogni muscolo agonizzante, a ogni passo che sembrava spezzargli le ossa. Quando avrebbero parlato degli Olimpici, negli anni futuri, su mondi non ancora scoperti, sarebbe stato lui a essere chiamato per nome. Colui che aveva perso.
— No! — urlò. — No! Non io!
Accelerò il passo. Non correva più dietro all’Emran, stava fuggendo da ogni essere umano vivente e ancora da nascere nella galassia.
— NO!
Stava ancora gridando quando tagliò il traguardo, cinque metri davanti al suo avversario.
Avrebbe voluto cadere a terra, lasciare che il suo corpo martoriato si sciogliesse, confondendosi con la terra e la pietra dello stadio. Ma non poteva. Non ancora, non prima di essere arrivato nello spogliatoio.
Vide confusamente uno degli assistenti di Hailey superare il cordone di poliziotti e funzionari, correre da lui per sorreggerlo, ma lo fece allontanare con un gesto del braccio coperto di sudore. Qualcun altro arrivò con una bottiglia d’acqua. Più tardi ne avrebbe bevuto, più tardi se ne sarebbe versata a litri nella gola riarsa. Ma non ora. Non di fronte a loro. Il fuoco nei polmoni si era un po’ calmato, sostituito da un dolore sordo e pulsante. D’improvviso si ricordò delle telecamere. Deglutì una volta, e si raddrizzò in tutta la sua statura. Gettò un’occhiata calma e sdegnosa alla folla di giornalisti, poi si voltò e cominciò il lento, doloroso cammino verso lo spogliatoio.
Hailey si mosse come per accompagnarlo, poi si fermò. Un altro dei suoi aiutanti cominciò a camminare dietro di lui, ma l’allenatore lo trattenne per un braccio. Hailey capiva.
Gli Olimpici avanzavano soli.