Stalin e il comunismo
di Andrea Graziosi
Dopo il 1991 la storia dell’Urss ha conosciuto una stagione straordinaria, che ho avuto la fortuna di vivere, legata all’apertura di buona parte degli archivi ex sovietici. L’immagine di quella storia ne è uscita sostanzialmente modificata, e lo stesso Stalin ha acquistato un volto diverso. Non che quello precedente sia scomparso: che Stalin fosse crudele era noto, ma dagli archivi è emerso un uomo ancor più malvagio di quel che immaginavamo. Soprattutto il grigio re dei burocrati, l’uomo dell’apparato descritto da Trockij, è stato sostituito da un individuo di grandissima forza, anche intellettuale, dotato di una fortissima personalità. Lo Stalin che emerge dagli archivi è insomma, come avevano capito Heller e Nekrič, una figura, se non «immensa», come ha scritto Molotov nelle sue memorie, di grandissima potenza e presenza e di intelligenza e malvagità «prodigiose» (l’aggettivo è di Berija), e un grande pensatore: non un intellettuale, certo, ma un uomo che rifletteva di continuo1.
Dagli archivi è emerso anche un uomo privo di carisma, vale a dire di capacità di presa diretta sul «popolo» e di rapporto immediato con esso, quel rapporto che Hitler, Mussolini e in modo minore lo stesso Lenin furono invece capaci di instaurare. Come vedremo, nel caso di Stalin bisogna piuttosto parlare di costruzione del culto, una costruzione orchestrata da lui stesso e intimamente legata alle sue riflessioni sul potere e il modo di esercitarlo.
Stalin aveva però una straordinaria capacità di soggiogare psicologicamente, manipolare, terrorizzare, tenere in pugno chi gli stava vicino. Egli ebbe sempre, infatti, un seguito personale, che spesso cambiò e variò, sterminandone parti, ma attraverso cui agì, esercitando sulla psiche dei suoi componenti una presa fortissima. Poiché ci è stato domandato di parlare di esseri umani concreti, e credo la richiesta sia più che giustificata visto il ruolo che le grandi personalità hanno giocato nella storia del XX secolo, penso che un paragone adeguato sia quello con un padre crudele e vessatorio, pronto a punire e disposto a tutto pur di avere il controllo su chi gli stava più vicino. Solo così si capisce l’urlo di Chruščëv al XX Congresso, che è un urlo che scaturisce anche dalle umiliazioni subite ed è per questo autorizzato, malgrado dubbi e perplessità, da quasi tutti i membri della cerchia di Stalin che quelle umiliazioni avevano condiviso.
Come tutti gli esseri umani, malgrado alcune stabilità di fondo, specie caratteriali, anche Stalin non fu naturalmente sempre la stessa persona e conobbe anzi una profonda evoluzione, legata da un lato alle straordinarie esperienze storiche da lui vissute, e dall’altro alla sua già ricordata capacità di riflettere. Questa evoluzione passò attraverso diverse tappe, ed è intorno alla discussione di alcune delle principali tra esse che ho organizzato la mia esposizione. Parleremo quindi dello Stalin di prima del 1914 e di quello di guerra, rivoluzione e guerra civile, dello Stalin della rivoluzione dall’alto – una sua definizione –, vale a dire dello Stalin della collettivizzazione forzata, dell’industrializzazione e della grande carestia del 1929-1933, nonché dello Stalin del «Grande terrore» del 1936-1938, di quello della seconda guerra mondiale e del vecchio e vittorioso despota degli anni che precedettero il 1953. Sarà naturalmente quasi una cavalcata, ma proverò a guidarla ragionando sulle prospettive aperteci dalle nuove fonti emerse dopo il 1991.
Prima di tutto va ricordato che l’intero arco dell’evoluzione di Stalin va iscritto sotto il segno della coscienza che l’azione rivoluzionaria sarebbe stata «una guerra disperata, sanguinosa, di sterminio»2. Sono parole, scritte da Lenin nel 1906, che riassumono bene la fede, quasi apocalittica, nella necessità di una grande rivoluzione sterminatrice e la volontà di condurne una nel nome del socialismo che unirono tutta la dirigenza bolscevica. La Grande Guerra gli offrì l’opportunità di realizzare questa speranza, ma non furono le contingenze a «costringere» questo gruppo a usare la violenza, anche se è probabile che la guerra civile li portasse al di là di dove avevano immaginato di arrivare. Lenin, Stalin e i loro compagni sapevano insomma quel che volevano e lo dicevano. E una delle grandi lezioni che ho appreso studiando la storia sovietica è quella della necessità di «ascoltare», di dar peso a quello che le persone dicevano di sé e delle loro intenzioni, di non leggere le loro parole superficialmente, perché non si trattava solo di «parole», come potremmo pensare oggi. Si trattava piuttosto di dichiarazioni di intenti: per prendere il potere occorreva fare una guerra sanguinosa, disperata e di sterminio, l’unica che avrebbe permesso di vincere, e di mantenersi al potere una volta vinto.
Ma veniamo al periodo precedente il 1914. Come tutti sanno Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili, Gori, 18 dicembre 1878, ma lui dichiarava 1879 – Mosca, 5 marzo 1953) era un georgiano, figlio di un ciabattino alcolizzato, uso a picchiare la moglie, quella madre alla quale egli fu invece molto legato. Colpito dal vaiolo a 7 anni, e travolto poco dopo da un carro che gli lesionò il braccio sinistro, salvandolo nel 1914 dalla chiamata alle armi, frequentò dal 1895 il seminario ortodosso di Tbilisi, dove scrisse i primi versi, di ispirazione patriottica georgiana. Subito ateo, nel 1898 entrò nel partito socialdemocratico e, espulso dal seminario, si tuffò in un’intensa attività politica clandestina che gli costò diversi esili e comprese una famosa e sanguinaria rapina per finanziare il partito. Soprattutto l’attività politica nel Caucaso, in Georgia prima e in Azerbaigian poi – dove vide grandi scioperi condotti da un proletariato plurinazionale, ma assistette anche ai violentissimi pogrom antiarmeni e antiazeri – lo mise in diretto contatto con quello che è ancora uno dei focolai principali delle rivendicazioni nazionali in Europa. Di qui la sua precoce percezione della fondamentale importanza della questione nazionale, e di quella della composizione plurinazionale di buona parte dei territori dell’Europa orientale, abitati a macchia di leopardo da gruppi linguistici, e religiosi, diversi, che l’emergere delle piattaforme nazionali – il 1848 diciamo – aveva messo in conflitto tra loro e con le vecchie nazionalità dominanti.
Quella di Stalin era però la percezione di un autodidatta, con tutti i limiti che ne derivavano, e tale, ancorché di grande potenza, egli restò per tutta la vita. Grazie all’incontro con Lenin, avvenuto in Finlandia nel 1906, quella percezione acquistò però un originale spessore, anche teorico. Contrariamente alla massa dei marxisti affascinati dall’internazionalismo, Lenin e Stalin ebbero chiaro che il problema chiave del XIX e del XX secolo era la costruzione degli Stati nazionali, legata alla dissoluzione degli imperi, prima di quelli europei e poi di quelli coloniali, e che la questione nazionale era quindi un elemento fondamentale di qualunque movimento rivoluzionario. Ed entrambi compresero che la Russia non era l’impero russo e non poteva coincidere con esso. Ma se Lenin, che riconobbe il diritto ucraino e bielorusso (oltre che quello polacco, finlandese ecc.) all’indipendenza, vedeva la Russia in prospettiva come una nazione come le altre, che poteva diventare democratica, e socialista, solo rinunciando ai suoi domini, e anche su questa base concepì poi l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (che di russo non aveva formalmente nulla), Stalin, sulla base della sua esperienza caucasica, percepiva la «Russia» come una specie di continente, una piccola Europa, o un’India, a sé stante, abitata dai «popoli della Russia», fra cui i russi erano certo i più importanti, ma che aveva una sua unità culturale e statale, e cui Mosca era chiamata a imporre ordine. Non a caso, il primo libro importante, forse il più importante, di Stalin è appunto Il Marxismo e la questione nazionale, scritto a Vienna nel 1913. È un’opera diseguale, con parti banali mescolate ad altre di grande acume, che combinano Herder e la teoria «linguistica» della nazione con l’evoluzionismo darwiniano e il marxismo, facendo della nazione un oggetto storico e quindi in continua evoluzione, un’evoluzione manipolabile da chi fosse capace di comprendere le leggi del suo movimento.
Il nodo successivo è quello del 1914-1922, che è per Stalin quello della rivoluzione e della guerra civile, visto che della guerra egli percepì solo gli effetti al ritorno dall’esilio nel febbraio 1917. Il ruolo di Stalin in esso è stato a lungo sottovalutato, dimenticando che egli era stato scelto da Lenin già nell’estate del 1917 per leggere al suo posto il rapporto al congresso del partito, e che poi gli era stata affidata la gestione della questione nazionale, con quella militare e quella contadina la principale di quegli anni, visto che la rivoluzione e la guerra civile, come Lenin e Stalin scrissero ripetutamente, furono fatte e vinte grazie ai contadini e alle nazionalità, e non certo grazie ai pochi operai dell’impero zarista. Alla morte di Sverdlov poi, nel 1919, Stalin, già capo di un proprio seguito personale, divenne anche il gestore della fazione leninista del partito, posizione da cui condusse, con la benedizione di Lenin, la lotta contro Trockij nel 1919-1921, mentre Lenin si occupava di alta politica.
Sono questi anni cruciali nella formazione di Stalin, in un contesto che è quello della violenta guerra sterminatrice intravista da Lenin nel 1906. I bolscevichi condussero questa guerra non solo contro i «bianchi» ma anche contro tutte le forze che gli si opponevano, dagli anarchici agli altri partiti socialisti e liberali, agli operai che non sottostavano alle direttive dello Stato-partito, e soprattutto contro contadini il cui «socialismo» – che pure i bolscevichi avevano cavalcato nel 1917-1918 – era molto diverso dal loro. Gli archivi sovietici sono pieni di rapporti come questo, scritto dalla polizia politica del governatorato di Omsk nel febbraio 1922, un rapporto che ho scelto perché relativo agli anni in teoria «pacifici» della Nep, il compromesso con i contadini varato da Lenin nel marzo 1921:
Le violenze degli ammassatori raggiungono dimensioni assolutamente incredibili. I contadini arrestati vengono rinchiusi in granai gelidi, frustati e minacciati di fucilazione... Quelli che non hanno soddisfatto agli obblighi di consegna sono stati inseguiti per le vie del villaggio e calpestati coi cavalli, poi denudati e rinchiusi in granai privi di riscaldamento3.
Immaginiamo quindi l’asprezza della guerra tra il nuovo Stato e i contadini negli anni ferrigni del comunismo di guerra (1918-1921), quelli in cui si formarono Stalin e il gruppo dirigente bolscevico. Torniamo qui al rapporto di apprendistato che legò allora Stalin a Lenin, in cui il primo riconobbe sempre il suo maestro. In una riunione del Presidium (l’organo che aveva sostituito l’Ufficio politico) di fine 1952, poche settimane prima della sua morte, Stalin si rivolse a Molotov e Mikojan (la moglie del primo e il figlio del secondo erano già stati arrestati e deportati) accusandoli rispettivamente di avere «posizioni antileniniste» e di «commettere errori di carattere trockista». Molotov, terrorizzato, prese a balbettare «S-s-sono s-sempre stato un allievo del compagno Stalin», per essere bruscamente interrotto dalla voce irata del capo: «Stalin non ha allievi. Solo il compagno Lenin ne ha»4, un’esplicita rivendicazione del suo essere tale.
La rivendicazione non era infondata. Tra il 1917 e il 1922, Stalin apprese da Lenin la gestione spietata del potere, l’uso elastico dei precetti ideologici a seconda delle circostanze pur rimanendo custodi dell’ortodossia, la necessità della durezza nella lotta per il controllo del partito, l’importanza dello strumento partito e del suo ruolo nell’assicurare il controllo dello Stato, nonché quella dei rapporti con i contadini e della questione nazionale, che i trockisti non furono spesso in grado di capire. Ciò naturalmente nulla toglie alla realtà del conflitto che separò i due nel 1922, riavvicinando Lenin a Trockij. Gli stessi archivi che provano la vicinanza tra Lenin e Stalin prima di allora ne hanno confermato la radicalità, suggerendo però che in questo conflitto la maggior parte dei dirigenti, trockisti inclusi, era più vicina al secondo che al primo, i cui dubbi sulla natura dello Stato sovietico pochi volevano ascoltare.
Alla luce della nuove fonti sembra insomma possibile dare una risposta soddisfacente alla questione, tanto dibattuta, dei rapporti tra Lenin e Stalin. Nella guerra civile, il primo fu di sicuro maestro del secondo, che come suo «capo di stato maggiore» (l’espressione è di Trockij) ne apprese l’arte in campi cruciali. Ma dire maestro non significa postulare l’eguaglianza tra i due uomini o sostenere che il secondo si limitò ad applicare le lezioni del primo. Come tutti gli allievi brillanti, Stalin seppe trovare la sua strada, e fu questa una strada diversa da quella che il suo maestro aveva in animo di tracciare.
Se pensiamo all’Europa del primo dopoguerra come a un fertile territorio di coltura per dittature e dispotismi, generalissimi, duci, Führer e vožd’ (il termine russo per «duce», usato sia per Lenin che per Stalin), come a un’«era di tirannie», per usare la brillante definizione di Elie Halévy, allora l’Urss, che di quell’Europa era parte, ebbe in sorte di avere due tirannie consecutive e affini, imparentate con quelle che sorgevano in tutto il continente. Qui però la dittatura di Mussolini restò la dittatura di Mussolini, e la tirannia di Hitler rimase sua dall’inizio alla fine. Leninismo e stalinismo furono invece anche tirannie diverse perché diversi furono i problemi che furono chiamate ad affrontare e diversa era la personalità e la cultura del tiranno – e come ha insegnato Montesquieu il carattere di un despota è in un dispotismo un fattore decisivo.
Nei conflitti che accompagnarono la costruzione dello Stato sovietico, come sempre accade in questi casi, i maggiori leader bolscevichi si formarono seguiti personali che furono determinanti nella lotta per il controllo del partito negli anni successivi. La loro consistenza e composizione sarebbero poi mutati, ma il nucleo centrale rimase quello della guerra civile, e quello di Stalin non solo non fece eccezione ma è forse l’esempio migliore di questo fenomeno. Esso fu composto all’inizio da un gruppo caucasico – con leader come Mikojan (che finirà la sua vita come ardente antistalinista e principale sostenitore di Chruščëv) e Ordžonikidze (che si suiciderà nel 1937 dopo un violento alterco con Stalin sull’opportunità delle purghe) (fig. 1) – cui si sovrapposero nel 1918-1920 altri strati, tra cui il più importante fu quello formato dai dirigenti del Donbass e del Fronte sud, inclusi quelli della cavalleria rossa.
Fig. 1. Stalin tra Mikojan e Ordžonikidze, 1925.
Su questa cerchia intima, che all’inizio degli anni Venti era composta da uomini duri ed energici sui 40-45 anni, che la guerra civile aveva «militarizzato» nei comportamenti e nei pensieri, Stalin esercitava come sappiamo una presa fortissima, da padre-padrone temuto ma anche obbedito e amato, sia pure in modo tormentato, tanto che i suoi membri si riferivano a lui come al «nostro amico principale», e più spesso come al «padrone» (chozjajn). Ho già detto che Ordžonikidze nel 1937 preferì suicidarsi piuttosto che sparare a un uomo che pure riteneva ormai un pericolo, e Chruščëv si fece umiliare in mille modi, salvo poi trovare nel 1956 il coraggio di reagire. L’unico che probabilmente il coraggio lo trovò prima del 1953 fu Berija, che forse lo fece avvelenare, un’ipotesi che ho trovato per anni assurda ma che oggi non mi sento più di escludere e che sarebbe comunque possibile controllare riesumando il cadavere del despota.
Questa cerchia fu la leva che permise a Stalin di sconfiggere Trockij e gli altri leader che concorrevano alla successione di Lenin. E già in quella lotta è possibile intravedere le linee principali dello stile e del modo di comando di Stalin, che agiva prima di tutto su questa cerchia intima di fedeli, a lui devoti e selezionati per le loro capacità e la loro spietatezza, usandoli per guidare informalmente il partito e lo Stato. Il secondo strumento fondamentale era la polizia politica, con cui Stalin ebbe sempre un rapporto privilegiato e personale. Essa era usata per raccogliere informazioni e portare avanti le grandi operazioni repressive di volta in volta ritenute necessarie, ma anche, e forse in primo luogo, per controllare, e disciplinare, la sua cerchia intima e, in secondo luogo, il partito (il terzo dei suoi strumenti), sottoposto a purghe periodiche, soprattutto quando Stalin ne sospettava l’ostilità alle politiche che aveva deciso di portare avanti. Sulle, diciamo così, «masse» Stalin quindi non agiva direttamente, ma attraverso attrezzi che la polizia politica serviva a mantenere affilati e proni ai suoi voleri.
Arriviamo così alla «rivoluzione dall’alto» del 1928-1933 e ai suoi paradossi. È prima di tutto necessario, e interessante, analizzare lo schema intellettuale che Stalin pose alle sue fondamenta. Bucharin, ormai schierato contro una persona da cui si sentiva ingannato, lo descrisse così a Kamenev in un incontro clandestino del luglio 1928:
La linea di Stalin è questa: «Il capitalismo è cresciuto o a spese delle colonie, o coi prestiti, o sfruttando gli operai. Noi colonie non ne abbiamo, di prestiti non ce ne danno, e perciò non possiamo che fondarci su un tributo imposto alle campagne... L’esazione di un tributo farà crescere la resistenza, e sarà perciò necessario un potere duro... solo io sono in grado di applicarlo»... Vuole instaurare uno sfruttamento militare-feudale dei contadini5.
Come Bucharin stesso aggiunse, Stalin era chiaramente sotto l’influenza delle teorie della sinistra trockista, di Preobraženskij in particolare, sulla necessità di un’accumulazione primitiva «socialista». Lo strumento principale di questa accumulazione non poteva naturalmente che essere lo Stato, violenza politica organizzata (dittatura del proletariato) al servizio del socialismo. Siamo qui di fronte al completo rovesciamento dell’originario evoluzionismo positivista del marxismo ottocentesco. Del resto, che questa fosse l’essenza del bolscevismo, così come definito da Lenin nel 1917, era stato subito chiaro a Gramsci, che intitolò il suo primo commento alla Rivoluzione di ottobre La rivoluzione contro il capitale, in cui il capitale non era quello del capitalismo ma Il Capitale di Marx, secondo il quale la rivoluzione socialista nei paesi arretrati come l’impero zarista era un controsenso teorico.
Di aver fatto una rivoluzione contro la teoria marxista tanto Lenin che Stalin erano coscienti, anche perché sapevamo bene di averla fatta usando contadini e nazionalità, e non gli operai. Ciò era stato reso possibile dall’uso dello strumento partito, volontà politica organizzata, vale a dire grazie a un fortissimo elemento soggettivo. Col tempo questo elemento soggettivo si era rafforzato, trasformandosi in un partito-Stato, e questo era ora – alla fine degli anni Venti – lo strumento che Stalin si proponeva di usare per fare la sua rivoluzione dall’alto, rimediando a posteriori al controsenso marxista del 1917. Se in Urss non c’era la base sociale ed economica adeguata alla sovrastruttura socialista nata dalla rivoluzione, si trattava di usare questa sovrastruttura per «innalzare» la società al suo livello. In altre parole bisognava costruire il socialismo dall’alto, estremizzando i già fortissimi tratti che facevano del bolscevismo una ideologia soggettivista di inizio Novecento, molto più simile alle ideologie soggettiviste di destra che non al socialismo ottocentesco nella sua vulgata socialdemocratica.
Marx però continuava a contare, Stalin continuava a ritenersi un marxista e a sforzarsi di pensare come tale, il suo testo di riferimento restava Il Capitale, e lo scopo era quello di costruire, sia pure con metodi che Marx non aveva previsto, ciò che Marx aveva preconizzato. Tra questi nuovi metodi vi era anche quello del potere personale. Come sappiamo lo Stalin di fine anni Venti giustificava la sua necessità con la coscienza che lo scontro con i contadini, vale a dire con l’80% della società, era inevitabile. Come avevano già dimostrato nel 1918-1921, le campagne del socialismo di Stato non volevano saperne, e si sarebbero ribellate al tentativo di instaurarlo. Serviva quindi un potere duro e concentrato, capace di portare a termine senza tentennare quella che si presentava anche come una grande operazione repressiva.
Di qui le celebrazioni del 1929 per il cinquantesimo compleanno del nuovo duce (vožd’) del partito, come anche importanti ex oppositori definirono allora Stalin, nuova incarnazione della volontà di costruire, a qualunque prezzo, il socialismo. Fu quello il primo passo importante della costruzione del culto di massa di un capo senza capacità carismatiche, allora presentato come il ferreo costruttore della modernità socialista (e non di una modernità qualunque) di cui il paese aveva bisogno. Al Lenin «miracoloso» perché nel 1917 aveva reso possibile ciò che il marxismo aveva ritenuto impossibile succedeva così un altrettanto miracoloso Stalin che ne completava l’opera. Anni dopo, intuendo l’essenza soggettivista di questa operazione, che non a caso culminò nella creazione di un grande e terribile dispotismo, Valentinov (Vol’skij), un vecchio bolscevico amico di Lenin ma divenuto col tempo socialdemocratico, diede una bellissima definizione dello Stalin del 1927-1939 come di un «rivoluzionario del tutto è possibile», sganciato cioè sia dai vincoli della struttura socioeconomica, che intendeva anzi plasmare, sia da quelli morali, visto che per plasmare quella struttura non riteneva di dover sottostare a qualsivoglia limite di ordine etico. Da questo punto, aggiungeva Valentinov, solo Hitler poteva aspirare a rientrare nella stessa categoria (dove personalmente porrei anche Mao), ma non Mussolini, che fu piuttosto un finto rivoluzionario del «tutto è possibile», pronto a usarne, e anche a inventarne, il vocabolario, ma per nostra fortuna incapace di metterlo in pratica.
L’industrializzazione fu lanciata utilizzando, oltre alla retorica della costruzione del socialismo, quella del nazionalismo russo, già usata nel 1920 in occasione della guerra con la Polonia. Stalin, che negli anni seguenti avrebbe fatto sempre più ricorso ai temi nazionali grande-russi, di cui non poteva fare a meno di notare il buon funzionamento, si presentò allora come il nuovo Pietro il Grande, capace di costruire un’industria in grado di fare della «Russia», prima battuta da polacchi, tedeschi e giapponesi, una potenza invincibile. Come dimostrano per esempio le grandi acciaierie di Magnitogorsk (fig. 2) negli Urali, copia fedele di quelle americane di Gary, sul breve-medio periodo l’obbiettivo fu raggiunto. A prezzo di enormi sacrifici umani e naturali, l’Urss fu dotata velocemente di una grande industria pesante, di un livello tecnologico pari a quello dei più avanzati paesi occidentali perché ne era, appunto, la copia. Alla fine del decennio i carri armati prodotti con il suo acciaio erano, come è noto, migliori di quelli nazisti, come nel 1941 i tedeschi scoprirono con amara sorpresa.
Fig. 2. Acciaierie di Magnitogorsk, anni Trenta.
Stalin provava così di essere una «persona seria», come serio e devoto era il gruppo di vecchi bolscevichi che guidò l’industrializzazione, un gruppo poi annientato nelle grandi purghe del 1936-1938. Ma la sua industrializzazione aveva poco a che vedere col piano quinquennale – essa fu anzi accompagnata da crisi e squilibri devastanti – e soprattutto con il socialismo e il benessere popolare. Certo, come tutte le modernizzazioni, essa causò l’ascesa sociale di alcuni milioni di persone, chiamate a formare le burocrazie tecniche e amministrative richieste dal nuovo settore urbano-industriale. Malgrado le persecuzioni e le privazioni cui anch’essi furono sottoposti, molti di questi «neopromossi», spesso di umile origine, sarebbero rimasti dei sostenitori di Stalin, che dei loro poteri e del loro status era stato l’artefice. Ma dal punto di vista economico il paese nel suo complesso regredì, e di molto (se usiamo come indice il salario reale dei teoricamente privilegiati operai della grande industria, lo vediamo precipitare nel 1933, al culmine della crisi sovietica, al 30-35% di quello zarista, per risalire nel 1936-1937, l’anno migliore del decennio, a un magro 60%). Soprattutto, la nuova grande industria sovietica, nata come complesso di industria statale, doveva provarsi sul lungo periodo incapace di autorinnovarsi: una fotografia di Magnitogorsk degli anni Ottanta ci presenterebbe un quadro non molto diverso da quello della foto che ho usato, e il peso crescente di settori obsoleti e in perdita avrebbe nel corso degli anni contribuito a far crescere le dimensioni del macigno che avrebbe schiacciato il sistema socioeconomico sovietico.
Alla luce di quel che accadde la retorica della costruzione dell’«uomo nuovo» appare, appunto, retorica. In privato, del resto, Stalin non aveva dubbi: come scrisse a Molotov il 1° settembre 1930,
Per avere [più soldati] abbiamo bisogno di più soldi. Dove possiamo prendere questi soldi? Ritengo sia necessario aumentare, per quanto possibile, la produzione di vodka. Dobbiamo abbandonare ogni falsa vergogna e spingere apertamente per la massima produzione di vodka6.
Che uomo nuovo si poteva costruire facendo dell’alcolismo, vale a dire dello spaccio di stupefacenti, la fonte più importante delle entrate statali? La scelta confermava la natura profondamente antipopolare del regime staliniano, tanto più se si ricorda che, in linea con le vecchie tradizioni socialiste, i bolscevichi avevano preso il potere in nome anche del proibizionismo. La vendita di vodka era stata poi reintrodotta nel 1924, col voto contrario di Trockij, che ribadì che essa avrebbe portato alla rovina le famiglie operaie.
Ma il volto più feroce delle politiche antipopolari di Stalin del 1928-1933 è quello rivolto verso le campagne. Il problema era semplice: per estrarre il tributo che si riteneva necessario – e tale non era – per costruire le acciaierie, si decise di togliere ai contadini, ma anche ai nomadi dell’Asia centrale, di cui non parlo perché non ve n’è lo spazio, non solo grano e bestiame, ma anche la terra, in modo da muovere al tempo stesso verso la «socializzazione». I contadini, però, avevano fatto la rivoluzione rivendicando «la terra a chi la lavora», uno slogan che non è affatto uno slogan comunista, anche se grazie al Lenin del 1917 esso ha finito per essere considerato tale. Tradizionalmente, anzi, l’intero movimento socialista, bolscevichi compresi, ma anche le leghe bracciantili italiane, lo riteneva uno slogan piccolo-borghese e reazionario, perché avrebbe portato all’aumento della piccola proprietà privata, vale a dire il contrario di quanto preconizzato dai socialisti, favorevoli invece alle grandi aziende collettive.
Il «miracolo» dell’ottobre, e poi quello della vittoria nella guerra contro i bianchi, era stato compiuto da Lenin proprio rovesciando temporaneamente la tradizionale politica socialista e creando milioni di piccoli proprietari, anche se di tipo particolare viste le tradizioni russe. Ora, togliere a questi milioni di nuclei familiari sia la terra, appena conquistata, che i suoi prodotti non poteva che sfociare in una guerra, una guerra che perciò Stalin decise di giocare all’offensiva, «prevenendo», come era nel suo carattere, i possibili problemi e predeterminando così l’esito del confronto.
Prima di attaccare direttamente i circa 25 milioni di nuclei famigliari, fu perciò deciso di eliminare preventivamente la loro élite. Questa fu l’essenza della cosiddetta «dekulakizzazione»: i kulak, il termine spregiativo dato apposta ai contadini più agiati, che guidavano i villaggi, per giustificare la loro eliminazione, furono colpiti all’inizio del 1930. Alla fine vennero in tutto fisicamente eliminate diverse decine di migliaia di uomini e deportate centinaia di migliaia di famiglie, per un totale di più di tre milioni di persone. La loro liquidazione e la loro deportazione fu un affare relativamente facile. Molto più difficile fu trovare dove mettere i deportati, visto che nulla era stato preparato per accoglierli. Perirono allora di fame e di stenti centinaia di migliaia di individui, specie bambini, non perché li si volesse sterminare, come nel caso del nazismo, ma semplicemente così, per negligenza criminale, una negligenza che discendeva naturalmente dalla decisione che si trattava di un gruppo sociale da «liquidare», come diceva il titolo di un famoso articolo di Stalin. Lo scandalo fu enorme, anche nel partito, dove molti erano ancora fedeli agli ideali della rivoluzione. Mosca ricevette lettere e proteste, e alla fine l’Ufficio politico, che aveva nominato una commissione segreta, decise di affidare i deportati alla polizia politica, ritenuta un’organizzazione più efficiente delle altre, mentre veniva lanciata una campagna propagandistica sul valore redentore del lavoro forzato per il socialismo.
Nacque così, quasi per caso, come conseguenza di una grande azione repressiva e non in base a considerazioni ideologiche, l’impero dei campi della polizia politica, che fino al 1930 aveva avuto a disposizione poche decine di migliaia di detenuti. Esso fu poi reso famoso da Solženicyn come «arcipelago Gulag» e fu a lungo coperto dal segreto. Nei primi anni però, prima che ci si accorgesse che era meglio negarne l’esistenza piuttosto che vantarne il valore rieducativo, il lavoro forzato fu millantato come uno strumento nell’edificazione del socialismo e nella rieducazione delle anime. A questi anni risale la foto mostrata in fig. 3, che è una foto di propaganda, perché ovviamente di immagini veritiere dei primi campi di concentramento staliniani non ve ne sono.
Fig. 3. Lavori forzati, 1930-31, foto di propaganda.
I villaggi, intanto, dapprima scioccati dalla dekulakizzazione, reagivano in massa, anche con grandi rivolte, alla collettivizzazione della terra. I rapporti della polizia politica, a questo proposito univoci, ci dicono che essa era definita dai contadini come una «seconda servitù». Il riferimento era alla prima, abolita nel 1861 e ancora viva nella memoria collettiva. Presto però ci si rese conto che di fronte a uno Stato come quello bolscevico, e a Stalin che lo guidava, la rivolta era una strada che portava solo alla morte o alla deportazione. I contadini espressero allora il loro malcontento lavorando poco e male, e talvolta non lavorando del tutto, sui campi collettivi. La produzione agricola prese a calare, mentre la popolazione urbana cresceva e lo Stato aveva bisogno di più grano per nutrirla e per ripagare, esportandolo, le crescenti importazioni di tecnologia, macchinari e metalli per l’industrializzazione.
I problemi erano naturalmente più acuti nelle principali zone cerealicole, nelle regioni dove le tradizioni del movimento contadino erano più forti e nelle aree non russe, dove le pretese di Mosca incontravano una resistenza maggiore. L’Ucraina, il granaio dell’Urss, teatro nel 1918-1921 di grandi rivolte contadine a sfondo sociale e nazionale, era il focolaio maggiore, ma non l’unico, di una resistenza forte anche nel Caucaso settentrionale e nelle regioni del Volga.
Le prime carestie locali, frutto diretto ancorché imprevisto delle politiche lanciate nel 1928, si manifestarono già nell’inverno 1931-1932. Nella tarda primavera del 1932 le cose erano abbastanza serie da spingere alcuni grandi dirigenti ucraini a chiedere l’aiuto di Mosca, che Stalin all’inizio concesse, sia pure in ritardo, a malincuore e in misura inferiore al necessario. Presto però egli si convinse che, almeno in Ucraina, la resistenza alle sue politiche, che aveva contagiato anche il partito locale, era un segnale di grande pericolo. L’11 agosto 1932 egli scrisse a Kaganovič che
la questione più importante è ora l’Ucraina. Le cose in Ucraina vanno malissimo. Malissimo per quel che riguarda il partito... Va malissimo anche per quel che riguarda i soviet e anche nel GPU... Se non ci diamo subito da fare per raddrizzare la situazione, potremmo perdere l’Ucraina... Pensate che il partito comunista ucraino (500.000 iscritti, ah, ah, ah) conta tra le sue fila non pochi (sì, non pochi) elementi marci, petljuristi [Petljura era stato il capo dei nazionalisti ucraini nel 1918-1920] coscienti e incoscienti di esserlo, e agenti di Piłsudski [il leader polacco]. Non appena le cose peggioreranno, questi elementi non tarderanno ad aprire un fronte dentro (e fuori) il partito, contro il partito... Dobbiamo porci il compito di trasformare in brevissimo tempo l’Ucraina in una vera fortezza dell’Urss, in una repubblica davvero modello7.
In autunno, in un momento di crisi terribile del regime, una crisi ben più acuta di quella che nel 1929 aveva scosso l’Occidente, quando in occasione del quindicesimo anniversario della Rivoluzione si suicidò l’amata moglie di Stalin, mentre nel partito, scontento, circolavano documenti che chiamavano al tirannicidio, milioni di contadini facevano la fame e l’industria rischiava la paralisi, Stalin decise di raddrizzare la situazione usando quella stessa carestia che avrebbe dovuto combattere. Si può da qui giudicare, credo, la terribile, crudele «grandezza» dell’uomo, che per vincere i contadini e costringerli ad ingoiare la «seconda servitù» non esitò a sfruttare la fame. L’idea era semplice: usarla per impartire ai contadini una lezione basata sul vecchio precetto socialista del «chi non lavora non mangia». Non volete lavorare nei colcosi? Non accettate le politiche di Mosca? E noi non vi diamo da mangiare, vi lasciamo crepare.
Il ricorso all’ideologia socialista per giustificare una politica di sterminio, che in Ucraina e in Asia centrale prese caratteri «genocidi», è evidente anche nel modo in cui Stalin giustificò l’adozione, in piena carestia, di una legge che puniva con anni di lavoro forzato i contadini trovati a rubare poche spighe. Ancora una volta il riferimento era all’accumulazione primitiva: se i capitalisti avevano usato la forca per insegnare il rispetto della proprietà privata, lo Stato socialista aveva il diritto e il dovere di usare misure repressive altrettanto aspre per insegnare ai contadini i valori del collettivismo e il rispetto della proprietà pubblica.
Una carestia che avrebbe causato probabilmente qualche centinaio di migliaia di vittime fu così trasformata alla fine del 1932 in una carestia che fece in meno di sei mesi circa 5 milioni di morti, 3,5 dei quali in Ucraina (il picco della tragedia si raggiunse tra i nomadi dell’Asia centrale, dove perì più del 35% della popolazione kazaca). I contadini morti di fame giacevano anche nelle strade delle maggiori città ucraine, come Char’kov, dove un diplomatico polacco scattò la foto che accompagna questo testo (fig. 4). Ma le città erano circondate da cordoni di polizia, per cui i contadini che vi arrivavano erano pochissimi, e in genere venivano presi e riportati in campagna a morire con i loro compaesani.
Fig. 4. Strade di Char’kov, primavera 1933.
Stalin vinse così la sua battaglia: nell’estate del 1933 i contadini, piegati, lavorarono, salvando il regime. Essi erano ormai, e lo sarebbero rimasti fino alla metà degli anni Settanta, cittadini di serie B, privi del passaporto interno, reintrodotto appunto alla fine del 1932, e quindi del diritto di muoversi liberamente, e privi di gran parte dei miseri privilegi accordati ai residenti urbani, specie a quelli dei grandi centri o delle zone dove sorgevano industrie di valore strategico.
Come reagì il partito, e soprattutto i suoi dirigenti, eccezion fatta per i complici immediati di Stalin, all’uso sterminatore della fame? Quelli che sopravvissero alle epurazioni del 1932-1933, quando decine di migliaia di quadri locali e intermedi furono fucilati o imprigionati per aver aiutato i contadini, cantarono in pubblico le lodi del genio che aveva conseguito un nuovo, grande successo. Ma l’idea di dipendere da qualcuno che aveva scelto a freddo di lasciar perire milioni di persone dovette diffondere la paura, non solo tra i colcosiani, terrorizzati e ormai ammutoliti, ma anche tra i dirigenti del partito. La paura divenne così un nuovo, importante elemento del culto costruito intorno a un uomo cui si rendeva omaggio perché lo si temeva, contribuendo a dare sostanza a un carisma costruito, che riusciva così a mettere i suoi artigli nella psiche di milioni di persone. Esso era quindi molto diverso da quello fondato sulla capacità spontanea di fascinazione, ma non meno reale, vista l’aureola di potenza e infallibilità che circondava ora un uomo che era stato capace di spezzare chi gli si opponeva.
Un altro elemento del culto fu l’uso sistematico della menzogna, del falso, anzi dell’assurdo, imposto come vero. Il la fu dato dallo stesso Stalin, che nel novembre 1935, meno di due anni dopo la morte per fame di milioni di persone, rilasciò questa allora famosa dichiarazione, alla quale anche chi aveva appena perso dei famigliari, o visto la strage coi suoi occhi, dovette sottoscrivere:
La vita si è fatta migliore compagni. La vita si è fatta più gioconda. E quando la vita è gioconda, il lavoro ferve. Di qui le alte norme di produzione. Di qui gli eroi e le eroine del lavoro8.
Arriviamo così a un nuovo nodo nella vita e nell’evoluzione del tiranno, ora vittorioso ma abbastanza intelligente da sapere che, soprattutto ai vertici del partito, tra i quadri che sapevano quel che era successo e perché, menzogna e paura non bastavano a rendere sicura la sua presa. Già nel gennaio 1934, al cosiddetto «congresso dei vincitori», in cui si celebrò appunto la vittoria sui contadini, Stalin aveva dichiarato:
I militanti [che ostacolano il nostro lavoro] sono coloro che hanno reso dei servizi nel passato, ma ora sono diventati dei grandi signori e ritengono che le leggi del partito e dei soviet non siano scritte per loro... Questi gran signori presuntuosi pensano di essere insostituibili...9
Una delle accuse principali poi rivolte loro, quella di «doppiogiochismo», fa pensare che Stalin sospettasse che molti di essi mentissero quando lodavano i suoi successi. Alla luce di quanto era accaduto nel 1929-33, tale sospetto non era irragionevole: come faceva infatti un comunista a esaltare sinceramente lo sterminio per fame dei contadini o il crollo dei salari operai? È qui una delle radici delle successive purghe dell’élite sovietica, in cui perirono alcune decine di migliaia di alti dirigenti del partito e dello Stato. Il clima di paura in cui questi ultimi vissero dopo il 1934 è testimoniato da una lettera in cui Ežov, il nuovo capo della polizia politica, racconta a Stalin nell’agosto del 1936, subito dopo il secondo processo a Kamenev e Zinov’ev, la visita che aveva ricevuto da Pjatakov, già braccio destro di Trockij, convertito allo stalinismo nel 1928 e grande organizzatore dell’industrializzazione sovietica:
[Pjatakov] chiede che gli venga data una qualunque possibilità (su decisione del Comitato centrale) di riabilitarsi. In particolare, ha avanzato la proposta di permettergli di uccidere personalmente tutti i condannati a morte al processo [Kamenev-Zinov’ev], inclusa la sua ex moglie dandone notizia sulla stampa10.
Alla paura dei dirigenti corrispondeva l’odio che Stalin provava per essi, testimoniato dagli appunti scritti a margine della condanna a morte del generale comunista Jakir, nel giugno 1937, da cui traluce anche la volgarità del despota e della sua cerchia:
Stalin: «È un vigliacco e una prostituta». Molotov: «Una definizione azzeccata». Kaganovič: «È mascalzone, stronzo e mignotta»11.
La persecuzione dell’élite comunista ci è nota sin dal 1956, quando Chruščëv ne fece il nucleo della sua denuncia al XX Congresso, e di fatto su di essa è stata schiacciata per decenni l’immagine del Grande terrore. Dopo il 1991 però quest’ultima è radicalmente mutata, facendoci scoprire un altro volto di Stalin. Nel luglio 1937, quando Bucharin era ormai in prigione da mesi e i grandi generali erano appena stati liquidati, Stalin diede infatti l’ordine di scatenare un nuovo tipo di purghe, dirette contro la popolazione, o meglio suoi gruppi specifici, individuati per la loro potenziale pericolosità. Queste purghe, che si protrassero fino al novembre 1938, furono condotte in base a quelli che vengono definiti «decreti di massa», di cui lo 00447, del 30 luglio 1937, fu il modello. Vi si leggeva tra l’altro:
Tutti i kulak, i criminali comuni e gli altri elementi antisovietici [...] vanno divisi in due categorie: a) nella prima sono da annoverare i soggetti più pericolosi [...] passibili di arresto immediato e [...] di fucilazione; b) nella seconda sono da annoverare gli elementi meno attivi ma ostili [...] punibili con l’arresto e la reclusione nei lager per 8-10 anni [...]. Si stabilisce che il numero dei soggetti a repressione è il seguente... [seguiva un totale di circa 270.000 persone, tra cui 76.000 di prima categoria, divise per repubbliche e regioni]12.
Poiché fu deciso che le sentenze, benché emesse in contumacia e per via extralegale da trojka costituite a questo scopo, dovessero essere comunque basate su «prove», e poiché era impossibile trovare queste prove contro centinaia di migliaia di persone, in genere innocenti e colpite solo per la loro appartenenza a una determinata categoria, divenne necessario estrarre in poco tempo centinaia di migliaia di confessioni, che venivano poi allegate al fascicolo sulla cui base le trojka emettevano la loro sentenza. La tortura divenne quindi la regola, mentre molto minore fu, contrariamente a quel che si è a lungo pensato, il ruolo delle delazioni e quello dell’ideologia. Il ricorso ad essa fu personalmente autorizzato da Stalin, che rivendicò così la sua scelta in un telegramma ai dirigenti del partito e della polizia politica del gennaio 1939:
Il Comitato centrale del Partito chiarisce che l’applicazione di metodi fisici [la tortura] da parte del commissariato agli Interni è stata autorizzata nel 1937 dallo stesso Comitato centrale [...]. È comunemente noto che tutti i servizi borghesi di intelligence usano i metodi fisici [...]. Perché l’intelligence socialista dovrebbe essere più umana quando ha a che fare con agenti inveterati della borghesia, con rabbiosi nemici della classe operaia...13
Ma chi furono le vittime dei decreti di massa? La lista delle categorie colpite è lunga, minuziosa e sorprendente, e dice molto sul modo in cui Stalin ragionava e sulla natura del suo regime. I politici (le ex guardie bianche e i religiosi, ma anche gli ex militanti dei partiti socialisti, gli anarchici e gli ex membri delle varie opposizioni comuniste) non mancano, ma la massa dei circa 700.000 fucilati e del milione di condannati al lager in 16 mesi è costituita da «gente comune», ex condannati anche per reati comuni, ex kulak che avevano scontato la pena e cittadini sovietici appartenenti a gruppi nazionali che Stalin riteneva infidi a causa dell’approssimarsi della guerra: persone dal cognome polacco e tedesco (le due «nazionalità» di gran lunga più colpite perché giudicate le più pericolose e prone al tradimento in caso di conflitto), giù giù fino ai cittadini sovietici di origine coreana, la cui unica colpa era quella di vivere al confine con la Manciuria occupata dai giapponesi. Ciò avrebbe favorito, secondo Stalin, l’infiltrazione di spie giapponesi, che potevano confondersi tra loro: circa 200.000 coreani furono perciò trasferiti in Asia centrale, e poiché anche Stalin riconosceva la loro innocenza, essi non persero i loro diritti. Quasi il 15%, tuttavia, perì durante il trasferimento, pagando un prezzo altissimo alla metodica, e lucidamente paranoica, sospettosità del despota.
Come Bucharin comprese, la purga avviata con i decreti di massa aveva due obbiettivi principali: ripulire il paese dalle «scorie» della costruzione del socialismo prima di proclamare il passaggio ad esso, e quindi l’eguaglianza teorica dei diritti (come fece la Costituzione del 1936), ed eliminare preventivamente le possibili quinte colonne in vista della prossima guerra. Essa riguardava perciò tre tipi di persone: «1) i colpevoli; 2) le persone sospette; e 3) le persone potenzialmente sospette». Si trattava quindi di una «razionale» operazione di chirurgia etno-sociale condotta sul corpo della popolazione per eliminarne specifici gruppi in base a una logica preventivo-categoriale.
Ho messo «razionale» tra virgolette perché il ricorso alla tortura e alle confessioni – che implicarono il coinvolgimento di un altissimo numero di persone non comprese nelle categorie previste dai decreti –, la concorrenza tra i dirigenti della polizia politica nello scovare il maggior numero possibile di sabotatori e organizzazioni terroristiche e la mancata corrispondenza tra obbiettivi assegnati da Mosca e realtà degli schedari locali trasformarono presto in loco l’andamento della razionale operazione pianificata da Stalin in un incubo caotico. Stalin tuttavia mantenne il controllo sull’intero processo e fu in grado, quando lo decise, di arrestare bruscamente il terrore alla fine del 1938.
Quelle virgolette sono però necessarie soprattutto perché la razionalità di Stalin aveva aspetti paranoici. Il despota che emerge dagli archivi è insomma una persona psichicamente malata. Ma anche quando raggiunge il suo picco la follia di Stalin resta una follia lucidamente razionale, che decide di sterminare «statisticamente» interi gruppi della popolazione in base a ragionamenti abbastanza sofisticati, di cui è in genere possibile ricostruire la logica e ai quali egli stesso fece riferimento in una lettera famosa, in cui scrisse che pensare doveva essere l’occupazione principale di chi deteneva il potere. Faccio solo due esempi. Quando nel 1932-1933 Stalin decise di sradicare il movimento contadino ucraino arrivò persino a organizzare la liquidazione dei cantastorie di villaggio, attirati con un concorso a premi, in modo da recidere anche quella radice della cultura contadina. E quando ritenne necessario spezzare i legami tra l’Unione Sovietica e la comunità internazionale arrivò a colpire anche i collezionisti di francobolli, in quanto portatori di un interesse per quel mondo esterno da cui si voleva isolare il paese. Follia, certo, ma una follia «logica», e che almeno sul breve periodo spesso conseguiva i risultati che si era posti: quando nel 1937 Stalin decise di fare di tutti i condannati a più di tre anni per reati comuni negli anni precedenti un obbiettivo delle operazioni di massa, perché una persona che era stata imprigionata non poteva che essere un oppositore potenziale, e perché le città sovietiche sarebbero così divenute più «sicure», ebbene tale maggiore sicurezza fu davvero raggiunta, e poi mantenuta con periodiche «pulizie» della popolazione urbana.
Siamo qui di nuovo di fronte al ruolo cruciale della personalità del despota in ogni dispotismo: come ha osservato Chlevnjuk, uno degli aspetti più sorprendenti di quella di Stalin era la sua tendenza ad affrontare qualunque problema che emergeva nel paese con l’applicazione sistematica di violenza a gruppi specifici e ben definiti in termini socioculturali, o nazionali, della popolazione. Questi gruppi e il trattamento che venne loro inflitto variarono nel corso del tempo in base alla situazione interna e internazionale e alle convinzioni personali di Stalin, ma molte delle sue politiche presentarono perciò caratteri «genocidi», tesi cioè a eliminare il problema attraverso l’eliminazione del gruppo al quale ne veniva imputata la responsabilità.
Il terrore staliniano ha perciò poco a che fare con il terrore come applicazione casuale di violenza tesa ad atomizzare la popolazione immaginato dai teorici del totalitarismo. Ma è in realtà tutta la loro elaborazione concettuale a mostrare la corda se applicata all’Urss dell’anteguerra, come dimostrano l’entità dell’opposizione, attiva e passiva, manifestata dalla stragrande maggioranza della popolazione contro le politiche del regime, l’impopolarità di quest’ultimo e del suo duce, la finzione dell’uomo nuovo, annegato nell’alcol, ecc. Le cose stanno invece altrimenti se pensiamo al totalitarismo come alla categoria che raggruppa gli Stati di tipo nuovo emersi in Europa dalla prima guerra mondiale, nel qual caso, naturalmente, l’Urss di Lenin e Stalin ne è a buon diritto forse il membro più importante.
Un bilancio delle vittime di Stalin, che arrivi fino al 1953, è un’operazione complessa, perché occorre tener conto di cose molto diverse, e quantificabili con precisione diversa, dai detenuti del Gulag ai deportati speciali di vario tipo, ai fucilati, sicuramente ben più di un milione, ai torturati, ai morti per fame ecc. Il numero dei detenuti nei lager e nelle colonie di lavoro all’inizio di ciascun anno crebbe dai 179.000 del 1930 ai 725.500 del 1935, a 1.317.000 nel 1939, a 1.500.000 nel 1941, per ridursi durante la guerra e continuare poi a crescere fino al 1952, quando oscillava intorno ai 2,5 milioni. Queste cifre sembrano dar ragione a chi ha ridimensionato le stime che parlavano di decine di milioni di prigionieri. Abbiamo però imparato che il dato assoluto dei singoli anni va valutato tenendo conto del turnover dei campi stessi, più alto di quanto si fosse immaginato. È ragionevole ritenere che tra il 1930 e il 1953 passarono nei campi almeno 18 milioni di persone, e che altri 15 sperimentarono tipi diversi di lavoro coatto. Arriviamo così alle decine di milioni delle stime più alte, che vanno però imputate all’intero periodo staliniano e non a suoi singoli anni.
Anche la mortalità nei campi e nelle prigioni è risultata inferiore alle stime più alte. Nel Gulag i tassi di mortalità si aggirarono fra il 3 e il 5% all’anno rispetto all’1,7% medio dell’Urss tra il 1927 e il 1930 (anche se va tenuto presente che nei campi vi erano pochi vecchi e bambini, e quindi un calcolo per classi di età darebbe risultati di 5-6, e non di 2-3, volte superiori alla norma). Nel 1942, l’anno peggiore, si arrivò però al 25%, e punte molto alte si verificarono anche nel 1932-1933 e nel 1937. In totale si ritiene che fino al 1941 i morti nei campi fossero circa 500.000.
Vi sono poi le deportazioni verso le cosiddette «colonie speciali», cominciate nel 1919 e che raggiunsero il loro culmine nel 1930-1931 contro i kulak e poi durante la guerra contro le nazionalità. Studi recenti ce ne hanno dato un quadro credibile, che vede quelle basate su criteri di classe o comunque sociali (çi-devants, cosacchi, kulak, nomadi, «elementi socialmente pericolosi», criminali comuni) e politico-religiosi (membri di partiti e organizzazioni disciolte e di sette religiose, famigliari dei nemici del popolo, sacerdoti e religiosi di varie confessioni ecc.) col tempo sopravanzate da quelle basate su criteri etnico-nazionali. Questi ultimi furono seguiti a partire dal 1934 per «ripulire» i confini dalle nazionalità ritenute sospette e travolsero poi i residenti di nazionalità straniera, per sfociare nelle deportazioni di interi popoli a scopo preventivo (come i tedeschi del Volga nel 1941) o punitivo (ceceni, tatari di Crimea ecc.). È stato calcolato che le nazionalità interamente e sistematicamente deportate dal 1937 al 1951 furono 13, per un totale di più di 2 milioni di persone. Alcune di esse persero il 20% e più dei loro membri14.
Secondo Chlevnjuk negli anni Trenta lo stalinismo colpì quindi con diversa violenza quasi 20 milioni di persone, circa un quinto-un sesto della popolazione adulta del 1937, e questo senza tener conto delle vittime delle carestie «speciali». Ad esse vanno aggiunti i repressi degli anni successivi, da quelli dei territori occupati nel 1939-1941 alle vittime della legislazione speciale contro l’indisciplina sul lavoro e i furti, che determinò da sola, dal 1940, anno in cui vennero adottate le sue prime misure, al 1956, quando essa fu abolita, la condanna di più di 18 milioni di persone.
Stalin e il suo regime furono quindi responsabili a più riprese e su grande scala di crimini contro l’umanità, scatenati a freddo dopo gli anni relativamente pacifici della Nep, a loro volta succeduti a quelli della guerra civile, con le loro stragi e i loro massacri, opera però di molte delle parti in conflitto. Torniamo qui al rapporto tra Lenin e Stalin, che ancora una volta appare segnato sia dalla diversità sia dalla continuità. Le prime repressioni di massa preventivo-categoriali, come la decosacchizzazione nel 1919, avvennero infatti sotto Lenin, e anche l’uso della carestia del 1921-1922 per liquidare i nemici, deportando all’estero gli intellettuali e reprimendo i religiosi, insegnò qualcosa a Stalin. Ma il salto di qualità e di scala da lui operati dopo il 1928 è innegabile.
La natura del terrore staliniano illumina anche la questione della realtà e delle dimensioni del potere di Stalin, confermando le ipotesi sul suo potere assoluto come potere di applicare la quantità desiderata di violenza su qualunque punto ritenuto necessario, e quindi di sconvolgere a piacimento la vita di milioni di persone, piuttosto che come un’impossibile controllo continuo e totale sul paese e i suoi abitanti. Quando per esempio i contadini entrarono nel mirino di Stalin, i rapporti di polizia su di loro diventarono decine di migliaia, il loro modo di vita fu sradicato, i morti si accumularono a milioni. Ma, salvo periodici ritorni di fiamma, quando questo o quel problema spinse Stalin a interessarsi di nuovo delle campagne, dopo il 1933-1934, quando i contadini non furono più percepiti come un problema, i rapporti si fecero sempre più rari, ed essi furono «liberi» di arrangiarsi, di sopravvivere, naturalmente all’interno del nuovo quadro determinato dall’iniziativa di Stalin, mentre l’agricoltura andava in malora.
Lo stesso accadde ad altri gruppi della popolazione. Il controllo dello Stato stalinista sulla società, pur raggiungendo vertici con pochi precedenti nella storia europea, rimase quindi limitato anche dopo aver spezzato la resistenza delle strutture sociali. Esso del resto non aspirava alla completezza. Le crisi del 1930 e del 1932-1933 avevano insegnato al regime che la cosa necessaria era ottenere un livello sufficiente a conseguire i suoi obiettivi prioritari. L’efficacia del controllo esercitato dalle burocrazie staliniane sulla popolazione non era per questo meno notevole: esso traeva la sua forza dal dominio su leve che permettevano in qualunque momento di decidere, quasi senza tener conto di alcun vincolo, del destino di qualunque individuo o gruppo sociale o etnico. Lo Stato e il suo despota rimanevano quindi sospesi sulla società, pronti a intervenire, concentrando risorse e potenza, laddove lo ritenevano necessario. Questo era vero anche nei confronti dei grandi dirigenti, che godevano di autonomia e poteri per certi versi straordinari ma sapevano bene, come notò il grande scrittore Grossman, che un semplice moto di collera di Stalin poteva trasformarli in un granello di polvere nei campi.
Ma torniamo al 1936-1938. Grazie alle purghe, Stalin si ritagliò allora anche una nuova cerchia in cui, accanto a sopravvissuti della vecchia, molto spesso elementi caucasici o del Fronte sud della guerra civile, come Vorošilov, figuravano nuovi dirigenti come Malenkov, Berija, Ždanov e Chruščëv (fig. 5). Il ritratto di Stalin e Vorošilov che camminano sugli spalti del Cremlino, dal classico stile oleografico e pompier, noto come realismo socialista, ci mostra come il Grande terrore fosse stato accompagnato da una rivoluzione (o piuttosto un’involuzione) in campo culturale, i cui primi segni erano comparsi già dopo il 1932-1933 e che nel 1946 uno studioso americano di origine russa definì la «Grande ritirata». Ma già nel 1937 Trockij, osservando le leggi che punivano l’aborto e rendevano difficile il divorzio, il pomposo stile architettonico che aveva preso il posto del modernismo e l’esaltazione dei grandi zar del passato, fino a Ivan il Terribile, aveva parlato di «rivoluzione tradita». Stalin, che era attentissimo alle questioni culturali, e rivedeva per esempio le sceneggiature dei film più importanti, si occupò di persona di questa svolta, che incluse una nuova e più pesante rivalutazione del nazionalismo grande-russo, la cui presa sulle nuove burocrazie – di gran lunga superiore a quella del socialismo – era stata confermata dall’esperienza degli anni precedenti.
Fig. 5. Stalin e Vorošilov, olio, 1938.
Stalin sapeva però di non potersi spingere troppo lontano in questa direzione, pena il malcontento delle altre nazionalità. E comunque l’uso strumentale del nazionalismo russo da parte del regime non era ancora sostanziato da eventi reali, che potessero renderlo credibile. Più in generale, esso non bastava a legittimare un regime e un potere personale che alla vigilia della guerra erano vissuti da gran parte della popolazione – circa il 70% della quale viveva ancora nelle campagne – come ostili e distanti. Certo, parte delle già ricordate nuove burocrazie, che dovevano la loro posizione alla modernizzazione socialista e ignoravano la realtà dell’Occidente, nonché giovani come Solženicyn, che allora sfilava inneggiando a Stalin, sentivano che il sistema sovietico era il loro sistema. Ma per la maggioranza esso era al tempo stesso impopolare e antipopolare.
La guerra mutò radicalmente questa situazione. Nel 1939-1941, grazie al patto Molotov-Ribbentrop, Stalin riuscì non solo a riconquistare i territori dell’impero zarista persi nel 1918, come il Baltico o la Bessarabia, ma anche ad aggiungervi nuove regioni come la Galizia. L’orgoglio nazionale russo ricevette così dal regime qualcosa di tangibile, e l’abilità di Stalin ebbe ampi riconoscimenti.
Questa abilità andava oltre quella percepita dai nazionalisti russi. Il patto Molotov-Ribbentrop ridisegnò i confini dell’Europa orientale seguendo una linea tracciata da Stalin, che godeva in quel momento di un forte vantaggio negoziale. Questa linea, dettata dall’idea di dividere quell’Europa in due sfere di brutale dominio imperiale, era tuttavia una linea intelligente, che fu poi confermata a Jalta e che ancora definisce i confini di quella parte del nostro continente. Stalin infatti la tracciò tenendo presente le questioni nazionali e seguendo in parte le indicazioni, poi inascoltate, fatte dagli esperti in materia alla conferenza di pace successiva alla prima guerra mondiale, sicché la sua linea coincideva in parte con quella suggerita a suo tempo da Lord Curzon e dalla diplomazia britannica. Inutile dire che, pur rispettando i confini nazionali, Stalin era intenzionato ad assicurare lo strapotere della sua Mosca. Ma egli fu sempre attento a dire che non stava prendendo territori per la Russia, anzi: assicurava piuttosto finalmente l’unità delle terre ucraine e di quelle bielorusse, dava ai lituani Vilnius, la loro capitale, ecc. Non a caso, nelle storie dell’Ucraina il giudizio su Stalin, durissimo – e a ragione – fino al 1939, cambia allora di colpo per la sua capacità di costruire la «grande» Ucraina sempre sognata dai nazionalisti, salvo poi ritornare in fretta al precedente a causa delle spietate repressioni da lui ordinate nel 1939-1941 per «sovietizzare» i territori appena annessi.
Queste repressioni furono di tale entità da rovesciare per sempre un’opinione locale che era stata tradizionalmente filorussa perché antitedesca o antipolacca. In pochi mesi un orientamento secolare fu ribaltato, e il Baltico e l’Ucraina occidentale divennero focolai di opposizione al regime sovietico, e tali sarebbero rimasti fino alla crisi terminale dell’Urss. Il loro simbolo è Katyn´, la foresta dove furono fucilati migliaia di ufficiali polacchi (fig. 6)15, approfondendo il solco tra Mosca e la Polonia, un solco poi temporaneamente e parzialmente colmato dalla garanzia militare sovietica alla «riconquista» polacca della Prussia, della Slesia ecc. nel 1945.
Fig. 6. Fosse di Katyń, ufficiali polacchi fucilati, 1941.
Nel giugno 1941 la fede nell’abilità e nella sapienza di Stalin ricevette un colpo mortale. L’incapacità di prevedere l’attacco tedesco fu aggravata dalla decisione di contrattaccare, che spinse nelle braccia delle tenaglie corazzate di Hitler intere armate, permettendo ai tedeschi di prendere milioni di prigionieri e illudendoli a luglio di aver già vinto una guerra, che anche Stalin ritenne allora perduta e per propria colpa. Nel famoso brindisi che egli fece nel 1945 di fronte ai suoi generali vittoriosi, la cosa è apertamente ammessa: io brindo al popolo russo, disse Stalin, perché qualunque altro popolo nel 1941 si sarebbe ribellato contro il governo e l’avrebbe mandato a casa.
Russi, ucraini, bielorussi ecc. contro i tedeschi invece combatterono duramente, e subito. I resoconti dei generali tedeschi sono unanimi: anche all’inizio, nel momento delle sconfitta, l’Armata rossa si batté, malgrado gli ordini sbagliati, i cattivi ufficiali, l’impopolarità del regime. Il fronte ucraino, in particolare, resse più a lungo di altri. Questo comportamento si può spiegare come reazione all’invasione, ma credo c’entri soprattutto il disprezzo, la malvagità con cui gli invasori trattarono subito le popolazioni conquistate. Il trattamento dei milioni di prigionieri di guerra, lasciati intenzionalmente a morire di fame – i soldati di guardia aprivano il fuoco sui contadini che osavano portare pane agli affamati – fu da questo punto di vista decisivo. Si calcola che i morti furono circa 3 milioni, uno sterminio che ha pochi paragoni.
Alla metà di luglio la resistenza sovietica si indurì, e anche Stalin comprese che la guerra era diventata la «grande guerra patriottica». Essa fu vinta sotto Mosca già nel dicembre 1941, lo stesso mese in cui gli Stati Uniti entrarono in guerra, quando le truppe sovietiche, guidate da Žukov, il maresciallo della vittoria, attaccarono e sconfissero il gruppo Armate Centro. Nei mesi successivi, contro il parere dei suoi generali, Stalin disperse le forze in molte offensive, convinto di poter costringere i tedeschi alla ritirata. Egli invece permise così loro di riprendersi e trovare il varco necessario al nuovo sfondamento del giugno 1942, che mise di nuovo in forse la sopravvivenza del regime sovietico.
Pochi mesi dopo, però, Stalingrado sanzionò l’esito dello scontro. Grossman immaginò così lo Stalin che ricevette la notizia del successo dell’operazione Urano:
Era l’ora del suo trionfo. Non aveva sconfitto solo il suo nemico presente, aveva sconfitto anche il suo passato. L’erba sarebbe cresciuta più folta sulle tombe del 1930 nei villaggi. Le nevi e i ghiacci al di là del circolo polare sarebbero rimasti silenziosi. Sapeva meglio di ogni persona al mondo che i vincitori non vengono giudicati16.
Lo Stalin di Stalingrado non era insomma più solo quello della carestia, del terrore, del Gulag. Egli era anche, inevitabilmente, e per sempre, lo Stalin della vittoria su un nemico crudele e detestato dall’opinione pubblica mondiale. Nel secondo conflitto mondiale gli americani persero circa 415.000 soldati, gli inglesi 380.000, i francesi 217.000, gli italiani 300.000, i giapponesi 2,1 milioni, i cinesi 3,8 (e più di 16 milioni di civili), i tedeschi 5,5 milioni, al 90% e più sul fronte orientale (e 1,5 milioni di civili), e i sovietici quasi 11 milioni di militari e più di altrettanti civili. La guerra si combatté insomma in Asia, e soprattutto sul fronte orientale europeo. È tenendo presenti questi dati che vanno giudicati gli incontri dei tre grandi a Teheran e Jalta. Roosevelt e Churchill vi parteciparono in condizioni di chiara inferiorità, anche psicologica, e Stalin aveva buon gioco a rimproveragli di sopportare, da solo, l’impatto di quasi il 90% delle forze tedesche, e anche di più prima dello sbarco in Normandia. Se è vero quindi che Roosevelt a Jalta si è forse comportato in modo arrendevole, a causa delle sue illusioni sul futuro dei rapporti sovietico-americani, la realtà dei rapporti di forza era quella disegnata sui campi di battaglia, dove la vittoria era prima di tutto, e in Europa quasi esclusivamente, sovietica.
Sovietica voleva dire dell’Armata rossa e di chi vi aveva combattuto, dagli armeni agli ucraini, passando per azeri, ebrei, kazachi ecc., ma in primo luogo dei russi e anche di Stalin, che dal 1941 al 1945 fu contemporaneamente segretario generale del partito, capo dell’Armata rossa e del Comitato statale di difesa, presidente del Consiglio e ministro della Difesa, sviluppando una mole di lavoro gigantesca, tra tensioni spesso insopportabili. Lo Stalin del dopoguerra è quindi un despota stanco e affaticato, che i dirigenti che non lo vedevano da qualche anno stentavano a riconoscere. L’esaurimento parziale delle sue energie lo portò tra l’altro a fare lunghe vacanze, delegando il potere alla sua cerchia a Mosca, che iniziò allora ad assaporare i piaceri di una direzione collegiale ancora però sospesa alle improvvise decisioni del capo. All’indebolimento fisico corrispose però uno straordinario rinvigorimento del suo prestigio e del suo mito, che aveva ora nella forza, nella capacità di risolvere i problemi schiacciando i nemici, una delle sue basi più importanti.
Il simbolo più potente del nuovo Stalin è la famosa parata della vittoria sulla Piazza Rossa, con soldati scelti tra i più decorati di ciascuna delle principali unità militari che vanno a gettare le bandiere prese ai nazisti ai piedi del capo, che torreggia sul mausoleo di Lenin (fig. 7), consacrato dalla vittoria. Negli anni successivi, fino alla sua morte, Stalin fu perciò intoccabile, anche quando, dopo pochi mesi, divenne evidente che non aveva intenzione di rispettare il patto che la popolazione credeva di aver stretto col regime per cui aveva combattuto e vinto. Le speranze di chi aveva creduto che dopo la guerra nulla sarebbe tornato come prima furono infatti tradite: in nome della necessità di costruire l’arsenale militare e nucleare adeguato a una superpotenza imperiale, le durissime leggi antioperaie del 1938 e 1940 non furono abolite (dal 1940 al 1953 gli operai condannati a pene detentive per assenteismo e mutamento illegale di lavoro furono più di 2,7 milioni, e quasi 11 milioni quelli condannati al lavoro correttivo sul posto con paga ridotta); ai contadini, che si erano illusi che i colcosi sarebbero stati aboliti come premio del sangue versato, furono imposte condizioni ancor più dure che nella seconda metà degli anni Trenta; e il numero dei prigionieri nei campi e nelle colonie continuò a crescere, raggiungendo il suo culmine nel 1952.
Fig. 7. Mosca, parata della vittoria, 1945.
Le scelte del dopoguerra sono simboleggiate dalla risposta che Stalin diede alla nuova carestia che nel 1946-1947 colpì il paese, facendo più di un milione di morti, specie in Ucraina. Quando Chruščëv, che ne era il responsabile, spinto da lettere e rapporti su fame e cannibalismo gli telefonò per chiedere aiuti, il despota «ringhiò: Hai lo stomaco debole. Ti ingannano. Riportano casi del genere per far leva sul tuo sentimentalismo. Cercano di obbligarti a consegnargli le nostre riserve»17. Subito dopo Stalin inasprì la legislazione contro i furti, aumentati a causa della carestia. Un decreto del giugno 1947 portò la pena minima per il furto di proprietà statale, che era stata di tre mesi nel 1926, a 7-10 anni di lavori forzati. Nei sei anni successivi i condannati furono circa 1,3 milioni, spesso donne che avevano rubato cibo per i figli.
Come già nel decennio precedente, la stragrande maggioranza delle vittime della repressione staliniana furono quindi contadini, operai, donne e minori, condannati ad anni di lager per aver rubato qualche metro di stoffa o un chilo di farina da rivendere al mercato nero. Certo, nel mirino c’erano anche e ancora i vecchi e nuovi oppositori politici, gli ex trockisti, gli ex anarchici, gli ex ufficiali zaristi o i partigiani nazionalisti ucraini, ma si trattava di una percentuale che oscillava intorno al 20% del totale, e gli era spesso inferiore. Ben maggiore era il peso delle nazionalità giudicate ostili o traditrici, i cittadini sovietici di origine tedesca, cecena, inguscia, tatara, ecc., deportati nel 1941-1944, e molti erano gli abitanti delle regioni riannesse nel 1944, specie il Baltico e l’Ucraina occidentale.
A cominciare dal 1946-1947 anche gli ebrei sovietici, i cui sentimenti nazionali erano stati risvegliati dalla Shoah, entrarono nel mirino di Stalin, che dopo la nascita di Israele prese e considerali la categoria più ostile e pericolosa, a causa della loro presunta doppia fedeltà statuale (lo stesso sospetto che aveva portato alla repressione dei cittadini di origine polacca nel 1937), aggravata nel loro caso dai legami culturali e famigliari con la comunità ebraica americana, che in larga parte proveniva dall’impero russo18.
Le crescenti repressioni, che pare dovessero culminare in provvedimenti di deportazione degli ebrei residenti nelle grandi città russe, spezzarono allora il legame fra il regime e la comunità ebraica «laica», che aveva goduto dell’abolizione delle discriminazioni zariste (la più numerosa comunità ortodossa gli era invece rimasta ostile a causa delle campagne antireligiose), spingendo molti dei suoi rappresentanti a chiedere di emigrare non appena la distensione rese la cosa possibile.
L’ultimo Stalin, più ancora di quello degli anni Trenta, ragionò quindi in base a categorie nazionali, senza per questo abbandonare il marxismo, come provano i suoi ultimi scritti, dove – probabilmente sotto la spinta dell’esperienza della guerra – arrivò a sostenere che le lingue (e quindi le nazionalità) erano gruppi più longevi e forti delle classi sociali, ma dove cercò anche di affrontare i problemi dell’economia socialista che aveva creato e che non funzionava nel modo in cui si era sperato.
La preferenza accordata alle interpretazioni e alle politiche fondate sulle nazionalità è provata anche dal ricorso, ormai esasperato, al nazionalismo grande-russo come strumento di propaganda e legittimizazione, anche contro le possibili «contaminazioni» della cultura occidentale. Una delle parole chiave fu quella della lotta al «cosmopolitismo», di cui gli intellettuali e gli scienziati di origine ebraica furono le vittime principali, ma non le uniche.
In generale, però, a differenza che negli anni Trenta, con la rilevante eccezione degli ebrei e di un gruppo di alti dirigenti di origine leningradese, colpito nel 1949 perché sospettato di voler creare un centro di potere autonomo, lo Stalin del dopoguerra risparmiò le classi dirigenti che aveva creato. Tutti gli alti ufficiali furono sorvegliati con cura, alcuni, Žukov incluso, furono sottoposti a umiliazioni, altri furono torturati e fucilati per le loro opinioni, ma il fenomeno non assunse proporzioni di massa, anche perché la guerra fredda era lì a ricordare al despota che non poteva fare a meno di chi aveva sconfitto il nazismo. È anzi possibile dire che nel dopoguerra si consolidò un’élite abbastanza vasta, di tipo imperiale, che dal nuovo impero e dal saccheggio dell’Europa centro-orientale aveva tratto vantaggi considerevoli. Insieme alle classi medie urbane, anch’esse ormai stabilizzatesi e allargatesi a comprendere buona parte degli ufficiali e sottufficiali, specie se decorati, cui vennero dati incarichi di responsabilità, questa élite, che includeva anche una parte del mondo intellettuale, formò quello che potremmo chiamare il «popolo sovietico», un popolo che costituiva solo una frazione, ma una frazione di una certa consistenza, di una popolazione che in maggioranza conduceva ancora una vita durissima.
Nei paesi dell’Europa centro-orientale, con la possibile eccezione parziale della Cecoslovacchia, l’occupazione sovietica fu subito avvertita come tale. La decisione di Stalin di puntare anche qui, in un primo momento, su politiche nazionalistiche, incoraggiando l’espulsione violenta delle minoranze tedesche o ungheresi, sostenuta dalla maggioranza delle loro popolazioni, non riuscì a bilanciare il risentimento creato da repressioni e saccheggi che alimentavano le memorie del 1939-1941. Ancora una volta, e su più vasta scala, Stalin tracciò i confini, etnici e geografici, di quella parte del continente, eliminando la presenza storica di grandi minoranze e quindi possibili punti di frizione. Ma lo scontento, che alimentò specie in Polonia, Lituania e Ucraina occidentale una guerriglia che si protrasse a lungo, fu poi rinfocolato dalle scelte del 1947, quando la sovietizzazione fu accelerata per rispondere al piano Marshall. Esso si fece infine acutissimo in paesi i cui governi non avevano alcuna legittimità agli occhi della popolazione dopo l’estate 1949, quando lo scoppio della bomba atomica sovietica e la vittoria comunista in Cina convinsero uno Stalin fino ad allora prudente che era possibile puntare a mutare con la forza gli equilibri scaturiti da Jalta.
La necessità di preparare la guerra, che Stalin – come Mao – riteneva inevitabile oltre che necessaria per garantire l’affermazione del socialismo, lo spinse a comprimere ulteriormente il tenore di vita nei paesi satelliti, i cui gruppi dirigenti erano intanto sottoposti a dure persecuzioni per evitare la comparsa di nuovi Tito. L’Europa centro-orientale si coprì allora di cupi monumenti al despota e ai suoi soldati, poi abbattuti o distrutti negli anni successivi. Basta, credo, guardare al più grande e famoso di essi, quello costruito in ritardo a Praga, e coglierne senso e dimensioni (fig. 8), per capire che incubo furono, per le popolazioni di quei paesi, gli anni tra il 1945 e il 1956.
Fig. 8. Praga, monumento a Stalin, 1955-1962.
Nel giugno 1950 l’invasione della Corea del Sud, che Stalin autorizzò, diede il via agli anni di maggior tensione della guerra fredda. Come Stalin scrisse a Mao il 5 ottobre 1950, per spingerlo a salvare con un intervento militare il pericolante regime di Kim il Sung,
occorre naturalmente fare i conti con la possibilità che gli Stati Uniti decidano comunque [...] di imbarcarsi in una grande guerra; la Cina verrebbe quindi direttamente coinvolta e l’Urss [...] sarebbe trascinata anch’essa nel conflitto. Dovremmo aver timore di ciò? Penso di no perché insieme siamo più forti di Stati Uniti e Gran Bretagna [...]. Se la guerra è inevitabile, che cominci pure adesso, e non tra qualche anno19.
Questa posizione era invece molto impopolare tra i membri della cerchia di Stalin, tutti contrari alla guerra e impauriti dalla deriva, anche psichica, del «padrone». Come Chruščëv avrebbe detto allo scrittore Erenburg,
nei suoi ultimi anni di vita Stalin era psicopatico, psi-co-pa-ti-co, te lo dico io. Un pazzo sul trono. Riesci a immaginarlo? [...] E pensi fosse facile? I nostri nervi erano tesi allo spasimo, e dovevamo bere vodka tutto il tempo. E dovevamo essere sempre sul chi vive20.
Come lascia intuire anche il già ricordato scambio tra Stalin e Molotov alla fine del 1952, nei mesi immediatamente precedenti la sua morte, cupamente segnati dall’«affare dei medici avvelenatori», buona parte del gruppo dirigente sovietico temette per la sua vita. Molotov e Mikojan avevano già sofferto per la persecuzione, rispettivamente, della moglie e del figlio, il presidente dell’Urss, Kalinin, era morto con la moglie deportata, Chruščëv aveva più volte temuto di morire, e Berija e Malenkov sapevano di essere, o essere stati, nel mirino. Paradossalmente, quindi, il despota era temuto, e spesso odiato, da chi gli era più vicino, nonché dagli operai, dai colcosiani e dai deportati che gli erano più lontani, mentre godeva del favore delle burocrazie urbane che aveva costruito e di cui garantiva status e potere.
Questa situazione è rispecchiata con chiarezza da quel che accadde alla sua morte. Gli alti dirigenti iniziarono allora una corsa alle riforme, tesa a smantellare il sistema politico-repressivo staliniano, guadagnando presto il favore della popolazione, mentre i quadri del partito e dello Stato assistevano sconcertati a quanto andava accadendo. Già una decina di giorni dopo la morte di Stalin circa 1,3 milioni di prigionieri del Gulag, in genere operai, donne, contadini, autori di piccoli reati ecc. vennero amnistiati, e nelle settimane successive Berija varò una serie impressionante di riforme, poi rallentate dalla sua liquidazione, ma presto riprese da Malenkov e Chruščëv. Furono diminuiti i poteri della polizia politica, aumentati i diritti delle repubbliche nazionali, ridotte le imposte ai contadini e aumentati i loro redditi, abolite le leggi antioperaie e quelle che criminalizzavano l’aborto, introdotte le prime, sistematiche misure di previdenza sociale dagli anni Venti ecc. La rapidità stessa con cui si succedettero provvedimenti che smantellavano il regime staliniano, ma non come vedremo il suo sistema economico, ci pone ancora una volta di fronte alla questione se, e in che senso, è corretto definire quel regime un «totalitarismo» nel senso dato al termine dai suoi teorici: può la scomparsa di una sola persona provocare mutamenti così repentini in un totalitarismo classicamente definito? La risposta sembra essere negativa, e ci costringe, credo, a puntare a dare al termine un altro significato, e ad affiancarlo con quello di tirannia, o dispotismo.
Come si è detto, le riforma guadagnarono in Urss ai loro fautori una rapida popolarità. Almeno nell’Urss dei confini pre-1939 sembrò che finalmente il regime adempisse alla sua parte del patto stretto con la popolazione durante la «grande guerra patriottica». Ma nei territori annessi nel 1939, e soprattutto nei paesi dell’Europa centro-orientale, la reazione fu molto diversa. Come i loro dirigenti, che ben conoscevano quanto profonda fosse la loro impopolarità, fecero presente, più tolleranza non avrebbe voluto dire maggiore legittimità, ma sarebbe piuttosto stata vista come un’occasione per scuotere il gioco di Mosca.
Vorrei concludere con qualche breve riflessione relativa all’eredità di Stalin e dello stalinismo, ragionando su vari livelli temporali. Essa fu per anni e in primo luogo costituita dalle vittime e dai loro famigliari, dalle sofferenze e dal lutto di milioni di persone, riflessi nella deformazione della piramide demografica sovietica.
Ma Stalin lasciò in eredità ai suoi successori anche un sistema socioeconomico, basato sulla collettivizzazione dell’agricoltura e la statizzazione integrale dell’economia urbana-industriale, e sul partito-Stato incaricato di gestirli. Fu questo il sistema che Chruščëv, convinto della sua superiorità su quello occidentale, scelse nel 1956 di conservare, pur introducendovi importanti modifiche. In altre parole, se lo stalinismo politico fu denunciato e in parte smantellato già prima del XX Congresso, quello socioeconomico continuò a vivere fino al 1991, facendo sì che l’Urss rimanesse, in un senso profondo, la creatura di Stalin e della sua rivoluzione dall’alto. Di ciò gli alti dirigenti sovietici furono coscienti, e anche per questo non perdonarono mai a Chruščëv di aver «ucciso» il padre quando sarebbe bastato disfarsi in silenzio di alcuni dei suoi lasciti. Come dichiarò il maresciallo Ustinov, ministro della Difesa, a un Ufficio politico del luglio 1984:
Non importa quel che si dice, Stalin è la nostra storia. Nessun nemico ci ha fatto tanti danni quanti ne fece Chruščëv con la sua politica nei confronti del passato del nostro paese, del nostro Stato e di Stalin21.
Questo sistema è crollato nel 1991, ma inevitabilmente pezzi di esso sopravvivono tanto nelle cose, nelle fabbriche e nell’organizzazione del territorio, quando nelle pieghe della mentalità e della cultura della nuova Russia, dei suoi leader come dei suoi abitanti. La sopravvivenza più impressionante, e quella dalla portata maggiore, comune a tutti i paesi ex sovietici, con l’eccezione di quelli musulmani, è l’alcolismo di massa, con la brutalizzazione che ne discende e soprattutto con la catastrofe demografica che esso provoca. In questi paesi, oggi, l’attesa di vita maschile, che ha cominciato a declinare alla metà degli anni Sessanta, non arriva spesso ai sessant’anni, venti in meno che nei paesi occidentali, un abisso che è il muto testimone dell’inumanità del sistema creato da Stalin nel 1929-1933 e della scelta, allora operata, di fare dell’alcol uno dei suoi pilastri.
L’eredità, o sarebbe forse meglio in questo caso dire la sopravvivenza, più appariscente di Stalin è però legata alle scelte ideologiche compiute da Brežnev negli anni Sessanta e di recente riprese in buona sostanza da Putin. L’idea originaria era quella di fare della grande guerra patriottica, che Stalin, sospettoso del suo potenziale significato liberatorio, aveva fatto celebrare in sordina, il fondamento della legittimità ideologica del regime sovietico, sostituendola di fatto, anche se mai completamente, alla rivoluzione del 1917, di gran lunga meno popolare della vittoria. Ma, come fu subito evidente, celebrare la vittoria come una vittoria della forza e della potenza di una Russia accerchiata da nemici ostili voleva dire riabilitare Stalin (il cui anniversario si tornò non a caso a celebrare nel 1969). Dopo una parentesi in cui prima Gorbačëv e poi El’cin cercarono invano di trovare altre forme e simboli di legittimazione, Putin è tornato alla guerra, alla vittoria e al mito della Russia accerchiata, essenzialmente diversa dall’Occidente e incompresa da esso, arrivando di nuovo a una spesso non solo implicita rivalutazione di un certo Stalin, che è andata di pari passo con la celebrazione di Solženicyn, da parte di un regime che obbiettivamente con Stalin, e Solženicyn, non ha nulla in comune.
Torniamo qui a quanto detto a proposito della vittoria. Essa fu anche di Stalin, e certi modi di celebrarla non possono prendere le distanze da lui. È questa la maledizione della storia russa, da cui Stalin è incancellabile perché, malgrado l’immenso danno che egli ha apportato al paese e ai suoi abitanti, la sua figura è identificata col momento di massima potenza russa nel XX secolo, ed è quindi difficile da condannare senza appello, se non con operazioni intellettuali certo vere, ma forse troppo sofisticate perché possano penetrare presto nella coscienza popolare.
Ciò contribuisce tra l’altro a scavare il solco tra la Russia e altre repubbliche ex sovietiche, quelle baltiche, naturalmente, ma anche l’Ucraina, dove sempre di più Stalin è identificato con il Holodomor, la carestia sterminatrice del 1932-1933, e forse un domani il Kazakhstan, dove la denomadizzazione del 1931-1933 potrebbe diventare motivo di identità e retorica nazionale.
Vi sono infine almeno due lasciti dello stalinismo che riguardano direttamente anche gli europei occidentali, e noi italiani in particolare. Il primo è il distacco della storia russa da quella europea causato dal 1917, e soprattutto dal 1929. Nel 1914 la «Russia» era parte integrante di un’Europa di cui la sua cultura – poi vittima della guerra civile e del terrore staliniano – era una delle punte più avanzate. Dopo il 1991 si è discusso del possibile ingresso della Turchia, e forse dell’Ucraina, in un’Unione europea dalla quale la nuova Russia, figlia del periodo sovietico, sembra lontana e nella quale essa è avvertita come tale, anche perché il posto occupato dalla cultura russa nella formazione dei suoi cittadini si è drasticamente ridotto.
Il secondo è la distruzione, o forse si potrebbe dire l’autodistruzione, di una parte significativa della sinistra occidentale, che non ha saputo fare per tempo i conti con lo stalinismo: né sul piano morale, dove pure sarebbe stato facile, né, e soprattutto, forse per salvare la sua utopia, su quello intellettuale.
Note
1 Dati l’origine e il taglio del saggio ho usato le note con parsimonia, in genere solo per le citazioni virgolettate. Il lettore può fare riferimento ai miei L’Urss di Lenin e Stalin, 1914-1945 e L’Urss dal trionfo al degrado, 1945-1991 (il Mulino, Bologna 2007 e 2008) e ai saggi bibliografici che li corredano. Questi saggi sono una versione ridotta di una bibliografia tematica e cronologica liberamente consultabile sui siti di H-Russia, http://www.h-net.org/˜russia/teach/graziosi.html e dell’Harvard Project on Cold War Studies, http://www.fas.harvard.edu/%7Ehpcws/biblioguide.htm.
2 V.I. Lenin, Gli insegnamenti dell’insurrezione di Mosca, in Opere scelte in due volumi, Edizioni in lingue estere, Moskva 1946, vol. 1, p. 435.
3 In Sovetskaja derevnja glazami VČK-OGPU-NKVD [La campagna sovietica agli occhi del VČK-OGPU-NKVD], vol. 1, 1918-1922, Rosspen, Moskva 1998, p. 573, citato in A. Graziosi, Stato e contadini nelle Repubbliche sovietiche attraverso i rapporti della polizia politica, 1918-1922, «Rivista storica italiana», II (1998), pp. 463-528.
4Appunti di A.M. Rumjancev, in Mistika cifr [La mistica delle cifre], «Novaja gazeta», 14-20 ottobre 1999.
5 In Ju.G. Fel’štinskij, Dva epizoda iz istorii vnutripartijnnoj bor’by: konfidencial’nye besedy Bucharina [Due episodi della lotta nel partito: le conversazioni segrete di Bucharin], «Voprosy istorii», 2-3 (1991), pp. 182-203.
6 O.V. Khlevniuk et al. (a cura di), Stalin’s Letters to Molotov, 1925-1936, Yale University Press, New Haven 1995 (cito dall’edizione russa, p. 209).
7 R.W. Davies et al. (a cura di), The Stalin-Kaganovich Correspondence, 1931-36, Yale University Press, New Haven 2003 (cito però dall’edizione russa, p. 273).
8 Discorso alla prima conferenza degli Stachanovisti dell’Urss, in Questioni del leninismo, Edizioni in lingue estere, Moskva 1946, pp. 536-550.
9 Rapporto al XVII congresso del partito sul lavoro del Comitato Centrale del VKP(b), in Sočinenija [Opere], vol. 13, Edizioni in lingue estere, Moskva 1955, pp. 288-388.
10 Reabilitacija. Politicˇeskie processy 30-50-ch godov [Riabilitazione. I processi politici degli anni Trenta-Cinquanta], Izdatel’stvo politicˇeskoj literatury, Moskva 1991, p. 219.
11 V. Naumov et al. (a cura di), Georgij Žukov. Dokumenty, Fond Demokratija, Moskva 2001, p. 159.
12 In O. Chlevnjuk, A. Graziosi, T. Martin, Il Grande terrore, «Storica», 18, 2000, pp. 7-61; N. Werth, L’ivrogne et la marchande de fleurs. Autopsie d’un meurtre de masse, 1937-1938, Tallandier, Paris 2009.
13 O.V. Chlevnjuk, Storia del Gulag, Einaudi, Torino 2006, p. 215.
14 N.F. Bugai, The Deportation of Peoples in the Soviet Union (1992), Nova Science Publishers, New York 1996, e Kavkaz: narody v ešelonach (20-60e gody) [Caucaso: popoli sui convogli, anni Venti-Sessanta], Insan, Moskva 1998; P. Polian, Against their Will. The History and Geography of Forced Migration in the USSR (2001), CEU Press, Budapest 2004; J. Otto Pohl, Ethnic Cleansing in the USSR, 1937-1949, Greenwood, Westport, CT, 1999; P. Ther, A. Siljak (a cura di), Redrawing Nations: Ethnic Cleansing in East-Central Europe, 1944-1948, Rowan & Littlefield, Boston 2001; e N.L. Pobol’, P.M. Poljan (a cura di), Stalinskie deportacii, 1928-1953 [Le deportazioni staliniane, 1928-1953], Meždunarodnyj fond «Demokratija», Moskva 2005.
15 V. Zaslavsky, Pulizia di classe: il massacro di Katyn, il Mulino, Bologna 2006.
16 V.S. Grossman, Vita e destino, Jaca Book, Milano 1984 (ma ora Adelphi, Milano 2008), p. 618.
17 In N.S. Chruščëv, Vospominanija [Memorie], «Voprosy istorii», 11 (1991), p. 38 (ora S. Khrushchev, a cura di, Memoirs of Nikita Khrushchev, vol. 2, Reformer, 1945-1964, The Pennsylvania State University Press, University Park 2006).
18 A. Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah: genocidio, resistenza, rimozione, il Mulino, Bologna 2007.
19 In V.M. Zubok, C. Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War: from Stalin to Khrushchev, Harvard University Press, Cambridge, Ma, 1996, pp. 62 sgg.
20 In W. Taubman, Khrushchev: The Man and His Era, Norton, New York-London 2003, p. 593.
21 In R.G. Pichoja, Sovestkij sojuz. Istorija vlasti, 1945-1991 [L’Unione sovietica. Storia del potere, 1945-1991], Sibirskij chronograf, Novosibirsk 1998, p. 431.
Referenze iconografiche
Fig. 2. Raccolte Museali Fratelli Alinari (RMFA) – Collezione Favrod, Firenze. Archivi Alinari, Firenze.
Fig. 5. © Contrasto.
Fig. 6. © Contrasto.
Fig. 7. © Corbis.
Fig. 8. © Corbis