Solimano il Magnifico

di Alessandro Barbero

«Il sultan Solimano, al presente imperator dell’Oriente, è uomo [...] di anni circa 62, lungo della persona [...], magro, di color fosco, ed ha in faccia una mirabil grandezza insieme con una dolcezza, che lo fa amabile a tutti che lo veggono. È molto sobrio nel mangiare, mangiando raro e poca carne [...]. Né beve vino come è fama che facesse al tempo d’Ibrahim, ma acque molto delicate [...]. Ha fama di essere molto giusto, dimodoché quando è bene informato non fa torto ad alcuno. È servatore della sua fede e legge quanto altro che sia stato di casa sua, facendo professione di non mancare alla sua parola ed alla fede; né si può dir maggior laude che questa. È uomo che per la continua pratica che ha avuta già tanti anni che è nell’imperio, intende tutte le cose molto bene, e si risolve il più delle volte al meglio. È stato per sua natura sempre più inclinato alla pace che alla guerra, ed al presente più che mai per esser vecchio e per aver quattro figli ormai grandi [...] ha avuto questo Gran Signore due donne molto care; una circassa, madre di Mustafà primogenito, l’altra, che contro l’istituto de’ suoi passati ha sposata e tiene per moglie, di nazione russa, tanto amata da Sua Maestà, che non fu mai nella casa ottomana alcuna donna che avesse maggiore autorità».

Così alla metà del Cinquecento l’ambasciatore veneziano Bernardo Navagero descriveva il sultano Süleyman Khan, che noi occidentali chiamiamo Solimano il Magnifico, sovrano dell’impero ottomano dal 1520 al 1566. Il suo regno di quasi mezzo secolo coincide con la fase più matura del Rinascimento: Solimano è contemporaneo di Michelangelo, che però è più vecchio di lui, e durante il suo regno si avviano a Roma i lavori per la nuova cupola di San Pietro. È un contemporaneo di Carlo V, l’ultimo grande imperatore cattolico che ha tentato di tenere insieme gran parte dell’Europa e dell’America, in un impero su cui non tramontava mai il sole; e dunque è anche contemporaneo dei conquistadores che si impadroniscono del continente sudamericano.

È un momento in cui ai nostri occhi l’Europa sta lanciandosi alla conquista del mondo; ma gli europei di allora, i contemporanei di Solimano, non la vivevano così. Loro non sapevano che dalle imprese dei conquistadores sarebbe nato un nuovo mondo, ed erano molto più colpiti dal trauma della Riforma protestante, dalla fine della millenaria unità della Cristianità latina. Solimano è un po’ più giovane di Lutero, è contemporaneo di Calvino e del Concilio di Trento, che avvia l’enorme impresa della Controriforma e che si svolge tutto durante il suo regno. Gli europei erano spaventati e sconvolti da questa spaccatura religiosa, dalla violenza che si era scatenata subito dopo la Riforma, dall’odio che era nato fra protestanti e cattolici, dalla violenza bestiale delle guerre di religione. Non avevano la sensazione che il loro mondo stesse partendo alla conquista degli altri continenti, ma che stesse sprofondando nel sangue e nella violenza. E questo è un dato che dobbiamo tener presente, perché ci aiuta a spiegare il fascino strano e contraddittorio che Solimano e il suo impero esercitavano sugli occidentali di quel tempo.

Solimano il Magnifico è un soprannome che usiamo noi in Occidente, e non c’è dubbio che se l’è meritato, qualunque sia il criterio che impieghiamo per giudicare la grandezza di un sovrano: per esempio ha compiuto grandi imprese militari e ampliato enormemente il suo dominio, e se Navagero dice che è sempre stato «più inclinato alla pace che alla guerra», è perché non si ricorda più bene. Da giovane Solimano aveva diretto personalmente grandi guerre di conquista e il suo impero si era allargato fino a occupare gran parte del Mediterraneo e dell’Europa Orientale. Solimano conquista gran parte dei Balcani, prende Buda e Belgrado, distrugge il grande regno d’Ungheria con la battaglia di Mohács del 1526, tre anni dopo arriva ad assediare Vienna: non la prende, ma intanto ha portato i confini dell’Islam fino al Danubio.

Nel 1535 combatte l’altra grande potenza islamica del suo tempo, la Persia sciita e dunque eretica, la sconfigge e conquista Baghdad. Anni prima ha conquistato Rodi, dove si erano installati i Cavalieri di San Giovanni, corsari temutissimi dai naviganti musulmani: Solimano li scaccia dall’isola e li costringe a ripiegare fino a Malta. Nel suo penultimo anno di vita cercherà di prendere anche quest’ultima, e sarà una delle sue poche sconfitte, ma intanto negli anni di Solimano il Mediterraneo va davvero vicino a diventare un lago turco, e dunque un lago islamico. È l’epoca dei pirati barbareschi, che fino a quel momento erano imprenditori indipendenti: Solimano li prende sotto il suo controllo, e le squadre di corsari annidate ad Algeri smettono di essere forze indipendenti che non rispondono a nessuno per diventare corsari con licenza del sultano. I raiss corsari diventano pascià di un impero che va dalle porte di Vienna all’Algeria e allo Yemen: un impero che comprende anche la Mecca, perché già il padre di Solimano, Yavuz Sultan Selim ovvero Selim il Terribile, aveva occupato la Mecca e assunto il titolo di califfo, successore di Maometto, protettore dei luoghi santi e Principe dei credenti.

È un impero che ha molti nomi; è corretto chiamarlo impero ottomano, perché ottomano, in turco osmanli, è il nome della dinastia. È meno corretto chiamarlo impero turco: certo il popolo che l’ha fondato nel XIV secolo sono i turchi, ma Solimano, i suoi ministri e la sua cancelleria non lo chiamavano mai così. Per loro i turchi erano solo il primo fra i tanti popoli dell’impero, e l’impero non aveva bisogno di nome, era lo Stato Sublime; se poi dovevano usare un termine descrittivo, il loro esercito era l’esercito dei musulmani, e la causa per cui combattevano era la causa dell’Islam – il che non impedisce, ed è uno dei paradossi straordinari di questo impero, che quasi metà dei sudditi di Solimano fossero cristiani, perché tutte le sue province europee, da Costantinopoli fino al Danubio, molto più popolose del resto, erano abitate essenzialmente da cristiani.

Solimano è detto il Magnifico anche perché, come molti grandi sovrani nell’Europa di quell’epoca, è stato un grande protettore delle arti; aveva al suo servizio uno dei più grandi architetti della storia islamica, Sinan, e ha commissionato grandi cantieri. Se Istanbul oggi è una delle città più belle d’Europa è anche per gli interventi edilizi di Solimano: una delle grandi moschee che segnano oggi la skyline di Istanbul è la moschea che porta il suo nome, la Süleymaniyé. Ma la sua azione si fa sentire anche in altre città dell’impero, per esempio a Gerusalemme, dove ordina grossi interventi di restauro della Moschea della Roccia. L’aspetto della parte musulmana di Gerusalemme oggi è dovuto in parte ai cantieri voluti da Solimano.

Ma, come si diceva, Solimano il Magnifico è un’espressione che usiamo noi in Occidente. I turchi ancora oggi gli danno un altro appellativo, lo chiamano Kanuni Sultan Süleyman, che vuol dire il legislatore: con questa bellissima parola turca, kanuni, che deriva da canon, ovvero canone, il termine latino che nel mondo cristiano indica in particolare la legge ecclesiastica. I turchi prendono la parola latina e prendono il concetto: così come Giustiniano, imperatore romano, è passato alla storia come il grande legislatore, così Solimano, che in un certo senso è il suo successore perché regna a Costantinopoli, ha compiuto un enorme lavoro di organizzazione della legge. Il punto di partenza naturalmente è la shari’a, perché i musulmani del suo impero si reggono secondo la legge religiosa: che però è una legge elastica, tutta fatta di interpretazioni, di pareri, e lascia scoperti molti ambiti soprattutto in campo amministrativo. Solimano e i giuristi al suo servizio, guidati dal mufti Ebussuud, compiono un enorme sforzo per trasformare la legge islamica in un codice che risponda ai problemi del loro tempo e permetta di governare un grande impero.

E sull’uomo, che cosa sappiamo? Nella cultura dei sultani musulmani non c’è molto spazio per l’introspezione, per le confessioni personali, per il privato, che non a caso si svolge nella zona harem del Serraglio, la zona inaccessibile e vietata agli estranei. Solimano scrive poesie, in turco e in persiano, come tutti i sultani ottomani: è parte integrante del loro modo di vita, è quasi un obbligo scrivere poesie. Solimano, come vogliono le buone regole, si sceglie uno pseudonimo arabo, Habibi, l’innamorato, e scrive poesie d’amore. Poi in vecchiaia cambia genere, comincia a scrivere poesia religiosa. Un altro ambasciatore veneziano, due anni prima della sua morte, nota che il Gran Signore «si diletta di componer in laude di Dio, facendosi umile e dicendo sempre egli non esser niente; ma per lasciar memoria della sua grandezza, fa fare una cronica di tutto quello che ha operato».

Per l’Occidente l’impero di Solimano rappresenta al tempo stesso un’alterità che spaventa e un’alternativa che affascina. La possibilità che l’impero turco dopo tante conquiste «possa anco finalmente ridursi ad una monarchia universale», per citare Marcantonio Barbaro che era bailo a Costantinopoli al tempo della battaglia di Lepanto, è considerata molto concreta ancora alla fine del Cinquecento; tanto più lo appariva durante la giovinezza di Solimano, quando la forza propulsiva dell’impero sembrava inesauribile. Il terrore della conquista turca era vivo soprattutto in Italia, terra di frontiera dove i turchi potevano affacciarsi in qualunque momento, dilagando nel Friuli dai loro possedimenti balcanici o sbarcando in Puglia dai porti albanesi. Entrambe le eventualità si erano già verificate, lasciando un’impronta così duratura sulla psicologia collettiva degli italiani che ancora nel Novecento il giovane Pasolini scriveva dei Turcs tal Friul e Carmelo Bene evocava l’occupazione di Otranto in Nostra Signora dei Turchi.

Il timore della conquista turca è talmente presente nell’Italia del Rinascimento che qualcuno finisce addirittura per stancarsi del fatto che se ne parla troppo. Machiavelli, per esempio, l’anno dopo l’ascesa al trono di Solimano scrive a Guicciardini e gli dice che a Firenze si annoia, la gente non parla d’altro che di queste cose oziose, «sul diluvio che deve venire o sul turco che deve passare, e se fosse bene fare la Crociata in questi tempi e simili novelle da pancacce»: chiacchiere da osteria, insomma. Ma noi sappiamo che Niccolò ci teneva a fare il politico freddo, realista, che non si lascia spaventare dagli spauracchi. La gente, invece, si lasciava spaventare eccome. Sempre Machiavelli nella Mandragola mette in scena questo dialoghetto, tre battute appena, tra una donna e un frate.

La donna: «Credete voi che il turco passi quest’anno in Italia?».

Il frate: «Se voi non fate oratione, sì».

La donna: «Naffé, Dio ci aiuti! Io ho una gran paura di quello impalare!».

Più i turchi suscitano terrore e alimentano un’ossessione sempre presente, più il turbante di Solimano sembra affacciarsi minaccioso all’orizzonte, e più l’impero ottomano entra nel discorso politico e sociale come alternativa paradossale, come modo per riflettere sui problemi e i difetti del mondo cristiano. Tra i politici di mestiere capita di riflettere che certi aspetti del modo con cui Solimano governa il suo impero faremmo bene a impararli anche noi. Il discorso può essere paradossale, perché in realtà nessuno pensa veramente che quello ottomano sia un modello, e affermarlo è una provocazione; eppure Guicciardini a un certo punto fa proprio una riflessione di questo genere a proposito della giustizia. La giustizia nell’Italia di allora era lentissima, i processi non finivano mai, gli avvocati si arricchivano alle spalle dei clienti, mentre nell’impero di Solimano la giustizia veniva resa secondo i principi della shari’a in modo semplicissimo: i giudici nominati dal sultano ricevevano le parti, ascoltavano e sul momento decidevano, senza incartamenti, senza avvocati, in un giorno. E Guicciardini dice: «Io credo siano manco male le sentenzie dei turchi, le quali si espediscono presto e quasi a caso, che el modo de’ giudìci che si usano communemente tra’ cristiani». E poi spiega: «perché chi giudica a occhi serrati espedisce verisimilmente la metà delle cause giustamente, e libera le parte della spesa e perdita di tempo». Tra noi cristiani, invece, certe volte sarebbe meglio perdere la causa il primo giorno piuttosto che vincerla alla fine del processo, con tutte le spese che è costato.

Questo è il paradosso di un politico di mestiere, che provocatoriamente addita, attraverso l’esempio dei turchi, i difetti del nostro mondo. Ma i turchi possono essere richiamati con intento provocatorio anche in altri contesti, come nel caso di quel sovversivo bolognese che stava per essere impiccato dal governatore papale di Bologna e che prima di essere impiccato gli dichiara in faccia: «Vorria piuttosto il governo del turco che quello de’ preti». E il cronista, bolognese anche lui, che riporta l’episodio commenta: «Ben avea rason, ma non dirlo a lui».

Ci sono anche contesti di ribellismo, nell’Europa del Cinquecento, in cui i turchi possono apparire come una speranza. A Venezia a un certo punto circola un poemetto dialettale intitolato Il lamento dei pescatori veneziani, ed è un atto d’accusa contro la classe dirigente della Serenissima. I pescatori raccontano la loro miseria, e imprecano contro i patrizi avidi e arroganti, che si arricchiscono a spese del popolo; e poi all’improvviso salta fuori lui, il sultano: per fortuna, dicono, Dio ha mandato il turco, ha mandato il «gran Soldan», e lui darà una bella legnata ai patrizi, riprenderà loro tutto quello che hanno sottratto ai poveri. Il turco può diventare, così, addirittura un miraggio di palingenesi sociale. In Italia questo sogno non si realizza mai, ma in altre zone d’Europa sì.

La potenza di Solimano infatti si espande nei Balcani e nell’Egeo, occupando paesi dove la condizione contadina è di totale asservimento. In Europa occidentale, a quell’epoca, la servitù della gleba non esiste più, ma in Europa orientale esiste eccome. Nell’impero ottomano, invece, la legge non prevede che i contadini possano essere asserviti dai padroni. Questo significa che ovunque arrivino i turchi, anche se la conquista ovviamente è violenta e accompagnata da stragi, una volta che il sultano impone il suo potere tutti i contadini sono liberati, non devono più rispondere ai loro signori: naturalmente devono pagare gli affitti e le tasse al governo, e non è che la loro condizione economica migliori tanto, ma la servitù è giuridicamente abolita. E noi abbiamo testimonianze concrete del fatto che i contadini questo lo sanno, e ci sono zone dove le masse desiderano la conquista turca: anche nelle colonie veneziane, come le grandi isole di Creta e di Cipro, dove la massa contadina greca cristiana è legata ai nobili dalla servitù della gleba, in una condizione di dipendenza durissima.

Se ci spostiamo di nuovo dal terreno concreto a quello dell’immaginario, il fatto che la conquista turca possa apparire sia come una catastrofe apocalittica sia come una palingenesi sociale spiega il fiorire delle profezie. Al tempo di Solimano circolano straordinarie previsioni sul fatto che i turchi sono destinati a conquistare l’Europa e il mondo. Il Cinquecento in genere è un secolo favorevole alle profezie, è il secolo di Nostradamus; e fra gli stessi turchi circolano predizioni del genere, ad esempio la profezia della Mela Rossa, con cui essi designano l’oggetto finale delle loro conquiste. La profezia dice che Maometto è apparso in sogno al sultano e gli ha predetto: «La vostra generazione conquisterà la Mela Rossa». La Mela Rossa è una città, lontana, nel paese dei cristiani. Nei tempi antichi, prima che i turchi conquistassero Costantinopoli, era identificata proprio con la capitale dell’impero bizantino. Ma c’è ancora molto altro da conquistare, e allora la Mela Rossa può diventare Roma, oppure Vienna, la capitale degli Asburgo. Il sultano, quando sale al trono, passa davanti alle caserme dei giannizzeri e li saluta con queste parole: ci rivedremo alla Mela Rossa. Ma profezie analoghe circolano anche fra gli occidentali e non hanno quel carattere apocalittico che potremmo immaginare. Il tipo di profezia che corre di più nell’Europa lacerata dalle guerre di religione, fra il popolo come fra gli intellettuali, dice: i turchi vinceranno, conquisteranno l’Europa, ci sarà un bagno di sangue, e poi il sultano si convertirà al Cristianesimo. E a quel punto tutti saranno cristiani, perciò al mondo ci sarà la pace e una nuova era di prosperità.

Queste profezie erano così radicate che a un certo punto ci aveva creduto perfino un papa. Ma per questo bisogna tornare un po’ indietro rispetto a Solimano il Magnifico, fino all’epoca del suo bisnonno, Maometto il conquistatore. Subito dopo la caduta di Costantinopoli il papa scrive una lettera al sultano. È vero che il papa in quel momento è un personaggio insolito: è Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, grande umanista italiano, di cultura complessa e laica. Ma è il papa, e scrive al sultano proponendogli in sostanza di convertirsi al Cristianesimo e offrendogli in cambio il titolo di imperatore dei cristiani. Questa lettera di Pio II è straordinaria perché fa vedere bene che già al suo tempo si sapeva bene, come lo sapeva Dante, che i musulmani e i cristiani adorano lo stesso Dio, che le due religioni sono due religioni gemelle. Il papa scrive al sultano – e ammettiamo pure che si tratti di un manifesto destinato alla pubblicazione in Europa e che in realtà Pio II non si aspettasse una risposta – dicendo: tutti conoscono la tua fede, tutti sanno quanto sei fedele all’insegnamento divino, quanto sei giusto. Cosa ti manca in fondo per essere cristiano? Un po’ d’acqua – quella del battesimo, naturalmente.

Si è detto che Solimano porta tanti titoli: è il sultano, che in origine è un titolo arabo e indica il detentore dell’autorità politica; è il califfo, che vuol dire il successore di Maometto, guardiano della Mecca e capo spirituale dei musulmani sunniti; è anche il khan, perché i turchi sono un popolo delle steppe, parenti degli unni e dei mongoli, e da sempre hanno dato ai loro capi questo titolo, e Solimano e i suoi successori continuano a usarlo: lui è Sultan Süleyman Khan. Porta anche il titolo persiano di scià, perché la cultura persiana per i turchi è importante, e quello di padiscià, capo dei re. Ma da quando hanno conquistato Costantinopoli, la seconda Roma, capitale dell’impero d’Oriente, i sultani, e Solimano più di tutti, rivendicano anche il titolo di Cesare e d’imperatore romano. Una pretesa di fronte a cui i papi, per esempio, reagiscono con molta decisione, protestando quando qualche governo cristiano per sbaglio riconosce al sultano il titolo di imperatore. Il Turco, dice il papa, è un tiranno, e il titolo di imperatore non gli conviene: e ricordiamo che nella cultura cattolica, basata sull’insegnamento di san Tommaso, il termine tiranno ha un significato molto preciso, indica un sovrano il cui potere è illegittimo, per cui chiunque ha il diritto di ribellarsi contro di lui.

Ma non tutti in Europa sono così convinti che il sultano sia un tiranno. I veneziani, in particolare, che confinano con lui, e che ogni volta che l’hanno combattuto ne sono usciti malconci, ci tengono a restare in buoni rapporti: tanto da proibire che sulle loro galere siano tenuti al remo schiavi musulmani incatenati, come invece si usa sulle galere di tutte le altre potenze cristiane. Gli ambasciatori veneziani a Costantinopoli, quando parlano del sultano nei loro rapporti, dicono sempre Sua Maestà, e poi lo chiamano con il termine, molto evocativo, che abbiamo già incontrato nella relazione di Navagero, il Gran Signore: per dire il senso di maestà che il sultano proietta e a cui perfino i suoi avversari cristiani non riescono a sottrarsi del tutto. Proprio a Venezia, durante il regno di Solimano, si forma una società commerciale che propone al sultano di fabbricare per lui un set di gioielli. Molti patrizi veneziani investono denaro nell’affare, e anche il tesoriere ottomano da Istanbul investe del denaro suo; il pezzo principale è un copricapo, disegnato apposta per solleticare le ambizioni del sultano, che assomiglia al triregno papale. Oggi è desueto, perché Paolo VI ha smesso di usarlo, ma prima di lui per secoli i papi hanno usato una mitria con tre corone sovrapposte, per simboleggiare il fatto che il papa è il Padre dei re, il Signore del mondo e il Vicario di Cristo. Bene, i veneziani disegnano per Solimano, a un prezzo spropositato, un copricapo analogo che però di corone ne ha quattro, una sopra l’altra.

Fin qui abbiamo parlato di Solimano come imperatore romano, come miraggio di palingenesi per i servi che anelano alla liberazione o per i pescatori veneziani che odiano l’oppressione dei patrizi. Ma ci sono anche situazioni concrete in cui si verifica un travaso di persone che abbandonano il mondo cristiano e scelgono l’impero di Solimano. Oggi la storiografia si interroga molto sui cosiddetti rinnegati. Il contesto è quello di un Mediterraneo tutto attraversato da traffici commerciali e battuto dai corsari. I barbareschi non sono pirati ma corsari, nel senso che hanno autorizzazioni ufficiali del sultano per intercettare le navi cristiane e catturarle, oppure per fare razzie sulle spiagge e catturare schiavi. Questo lo sappiamo tutti, perché la minaccia dei pirati barbareschi è rimasta viva nel nostro immaginario collettivo; mentre di solito in Europa si ignora l’esistenza dei corsari cristiani, che fanno la stessa cosa nei confronti del mondo musulmano: il Mediterraneo è battuto da squadre cristiane che quando intercettano mercantili turchi li sequestrano e riducono tutti quanti in schiavitù; i Cavalieri di Malta sono specializzati in questo, ma tutte le galere spagnole e genovesi lo fanno.

Dunque c’è una perfetta simmetria fra il mondo cristiano e il mondo musulmano, con le galere che vogano cariche di schiavi alla catena. Ma la simmetria si rompe su un aspetto: non succede quasi mai che un turco catturato e messo in catene, per esempio su una galera spagnola, si converta al cristianesimo e venga quindi liberato, e poi si integri nella società cristiana. È invece un fenomeno di enorme rilevanza, anche quantitativa, quello per cui moltissimi cristiani, dopo il trauma della cattura e della riduzione in schiavitù, scelgono di farsi turchi, come si diceva allora. Rinunciano alla fede cristiana, si convertono all’Islam, naturalmente in situazioni di grande pressione; ma la cosa straordinaria è il destino successivo di questi che in Occidente si chiamano rinnegati. I meccanismi della guerra di corsa fanno sì che di solito i rinnegati siano marinai o soldati, gente che ha qualche competenza tecnica, per cui vengono immediatamente assunti nelle squadre corsare o nella flotta del sultano e fanno carriera. La maggior parte dei raiss che comandavano le galere corsare di Algeri non erano turchi di nascita, ma cristiani rinnegati. Di molti di costoro conosciamo le vicende: capitava che qualcuno fosse ricatturato e allora lo portavano davanti al tribunale dell’Inquisizione, e ci sono rimasti i verbali dei processi. Sappiamo che alcuni di loro diventavano addirittura pascià e ammiragli. Poteva capitare che un povero pescatore calabrese o il figlio d’un corsaro genovese catturato da ragazzo diventasse, alla fine della sua vita, kapudan pascià, comandante della flotta del sultano. È un fenomeno su cui evidentemente vale la pena di riflettere, e, se anche non volessimo rifletterci noi, lo fanno gli storici turchi, i quali oggi hanno cominciato a chiederci: ma come mai queste persone di così grande talento dovevano passare attraverso la schiavitù e la conversione all’Islam per fare una carriera che se fossero rimaste a casa loro non avrebbero mai fatta?

Intendiamoci: ci sono ragioni strutturali per spiegare come mai l’impero era così accogliente. Il mondo ottomano aveva settori di arretratezza tecnologica e aveva bisogno di specialisti: per questo chi veniva da Occidente con qualche competenza era accolto a braccia aperte, ed è per questo che il fenomeno era a senso unico: solo ai cristiani che si facevano musulmani si spalancavano grandi opportunità, non il contrario. Ma il fenomeno dei rinnegati è comunque rivelatore di una differenza profonda fra la società su cui governa Solimano e le società europee del suo tempo. La società dell’impero ottomano non conosce la nobiltà di nascita, è una società dove non esiste nemmeno il concetto di nobiltà, il pregiudizio per cui solo chi ha un grande nome e una famiglia prestigiosa alle spalle ha diritto ad occupare i posti di comando. È una società totalmente aperta, dove la volontà del sultano fa fare carriera a chi vuole.

I contemporanei europei ne sono ben consapevoli. Gli ambasciatori veneziani riferiscono molto chiaramente che tutti quelli che comandano nell’impero, non soltanto i visir e i pascià, ma anche i governatori provinciali, i sangiacchi, sono tutti nominati per merito: non succede mai che qualcuno arrivi lì soltanto perché è figlio di una persona importante. Solo dopo la morte di Solimano cominciamo a incontrare i primi casi in cui il gran visir, per esempio, fa nominare sangiacco suo figlio. E l’ambasciatore veneziano scrive: qui c’è molto malcontento, perché giudicano scandaloso «né possono patire che neanco un figlio di primi visiri sia fatto sangiacco per favore». Altri occidentali non trovano particolarmente lodevole questa apertura: convinti come sono dell’importanza della nobiltà, del sangue, della stirpe, pensano che soltanto i nobili debbano comandare e che sia giusto così. Il comandante della flotta veneziana a Lepanto, Sebastiano Venier, scrive che è ignobile dover combattere contro questa gente: «contro un nimico che non ammette conti, né cavalieri, né gentiluomini», ma solo mercanti e contadini.

Dobbiamo per questo pensare che la società ottomana fosse più moderna della società occidentale? In realtà ci sono dei correttivi da introdurre. Nella società cristiana dell’epoca la nobiltà rappresentava una forza che poteva bilanciare il potere del re: una forza organizzata, che godeva di privilegi certamente ingiusti, ma che temperava comunque l’autorità del sovrano, limitando la spinta verso l’assolutismo. Nella società dell’impero ottomano non c’è niente che temperi la volontà assoluta del sultano, non ci sono forze organizzate o corpi, come si diceva nell’Occidente moderno: non c’è una Chiesa, non c’è l’università, non i comuni urbani, e non c’è una nobiltà. Il risultato è una società al tempo stesso più aperta al talento e più esposta alla tirannia.

Ma l’aspetto più sbalorditivo, a proposito della mobilità sociale nell’impero ottomano, è il sistema con cui vengono reclutati i giannizzeri e tutto il personale dirigente, dai cortigiani di Topkapi fino al gran visir. Ogni tre o quattro anni alcuni ufficiali dei giannizzeri vengono mandati in missione nella parte cristiana dell’impero, dalla Grecia ai Balcani. Visitano ogni villaggio e scelgono i ragazzi più promettenti per portarli a Costantinopoli. Questa era una prassi regolare di governo che ha un suo nome preciso, in turco si chiama devs¸irme, che vuol dire raccolta. Gli ufficiali dei giannizzeri girano per la Grecia e per i Balcani, ad ogni villaggio convocano il prete e i notabili, si informano sulla situazione e fanno la loro scelta. Possiamo immaginare il panico delle famiglie, che di colpo si vedono prendere dei ragazzini per portarli via, il giro di negoziati, di raccomandazioni e di bustarelle: la tendenza è di non prendere i figli dei notabili ma quelli dei poveracci, si capisce.

Tuttavia, non dobbiamo vedere il devs¸irme soltanto come una tragica prevaricazione: infatti, mentre secondo la prassi soltanto i sudditi cristiani sono soggetti a quest’obbligo, le comunità musulmane della Bosnia a un certo punto chiedono di avere anch’esse il diritto di fornire i loro ragazzi per la raccolta. Non si trattava dunque necessariamente di una sciagura, anche se è verosimile che per la singola famiglia, per la singola persona, fosse un trauma non da poco. All’inizio vengono presi ragazzini molto giovani, poi gli osservatori occidentali cominciano a notare che si preferisce prenderli più grandi, sui diciott’anni. Arrivati a Costantinopoli, molti vengono affidati per qualche anno a contadini turchi, che li fanno lavorare duro, insegnano loro la disciplina, l’obbedienza, la legge islamica e il turco; dopo qualche anno, quando sono ormai pienamente sviluppati, diventano giannizzeri, cioè formano il corpo scelto dell’esercito del sultano.

I giannizzeri, che al tempo di Solimano sono dodicimila, accasermati a Costantinopoli, sono un corpo d’élite, che il sultano favorisce in tutti i modi, con grandi privilegi e alti stipendi. Il sultano è addirittura membro d’onore di una delle compagnie dei giannizzeri: il suo nome è scritto sul registro e ogni mese, quando è giorno di paga, viene qualcuno da palazzo a ritirare quella del sultano, per sottolineare il cameratismo profondo fra il padiscià e i suoi soldati. Ebbene, i giannizzeri, che gli occidentali per secoli temono come i più efficienti combattenti dell’esercito turco, sono tutti ex bambini cristiani, raccolti col sistema del devs¸irme, e poi, s’intende, circoncisi e convertiti d’ufficio all’Islam, di solito senza chiedere il loro parere. E nelle caserme dei giannizzeri la lingua più diffusa non è certamente il turco, che hanno tutti dovuto imparare da adulti, ma è il serbo-croato o l’albanese che parlavano da bambini in famiglia.

Ma questo è il destino della maggioranza. I migliori fra i ragazzini arrivati a Istanbul, coloro che sembrano più promettenti, non vengono affidati ai contadini ma entrano direttamente a palazzo, vengono allevati ed educati sotto gli occhi del sultano. Quelli che gli piacciono di più entrano al suo servizio personale. Con alcuni allaccia anche relazioni amorose, perché la pederastia è perfettamente accettata nella cultura ottomana. Ogni tanto il sultano decide che un gruppo ha ormai completato la sua educazione: a volte anche qualche centinaio tutti insieme vengono fatti uscire dal Serraglio. Come minimo diventano sipahi, cavalieri della guardia imperiale, e quindi membri di un altro corpo scelto, ancora meglio pagato dei giannizzeri. Ma i migliori in assoluto diventano immediatamente, per decisione irrevocabile del sultano, pascià, visir, ammiragli: l’intero gruppo dirigente dell’impero è reclutato in questo modo. Il comandante dei giannizzeri, il kapudan pascià che comanda la flotta, il gruppetto dei visir che siedono nel governo, compreso il gran visir, che è l’uomo che gestisce veramente gli affari dell’impero: fino al tempo di Solimano, costoro sono tutti bambini nati cristiani nei Balcani. E questo è un tratto piuttosto stupefacente, specialmente se ricordiamo che questo impero è ufficialmente l’impero dei musulmani, messo sotto la protezione del Profeta.

A che scopo era stato costruito questo meccanismo? La spiegazione più probabile è che il sultano voglia essere servito da uomini che siano in tutto e per tutto sue creature: non solo sudditi, quindi, ma schiavi. I bambini portati a Costantinopoli con la raccolta diventano tecnicamente schiavi del sultano, anche se gli osservatori occidentali si affrettano ad aggiungere che tale schiavitù non è affatto degradante, anzi è motivo d’orgoglio. Ora, il sultano non ha il diritto di ridurre in schiavitù i sudditi musulmani, può farlo soltanto con i sudditi cristiani, e questo spiegherebbe perché il devs¸irme sia applicato soltanto a loro. In realtà, poi, sembra che la pratica fosse sostanzialmente illegale anche così, perché i sudditi cristiani erano sotto la protezione della legge, e al di fuori di questo specifico contesto neanche loro potevano essere fatti schiavi: ma è uno dei molti esempi in cui la pratica di governo divergeva dalla teoria legale.

Sta di fatto che questi uomini sono nelle mani del sultano, devono tutto a lui, non hanno niente alle spalle. Beninteso, non dobbiamo pensare che troncassero sempre i rapporti con le famiglie d’origine: abbiamo parecchie testimonianze del fatto che, una volta usciti dal Serraglio e sistemati in posizioni di potere, potevano continuare ad avere contatti con le famiglie. C’è il bellissimo esempio di Mehmet pascià, uno dei favoriti che Solimano introduce nel suo governo, nominandolo visir, e che sarà poi gran visir sotto Selim II. Una delle prime cose che fa Mehmet pascià quando entra nel governo è ottenere da Solimano la creazione di un patriarcato ortodosso in Serbia e far nominare patriarca suo fratello. La vicenda di questo bambino serbo, cristiano e fratello di un prete, che a Costantinopoli si fa musulmano e diventa visir, e poi però si adopera per far fare al fratello una straordinaria carriera ecclesiastica, è veramente esemplare dell’intreccio di identità e di religioni nell’impero di Solimano.

Oggi quello che colpisce di più di questo sistema è il paradosso per cui tutti i leader dell’impero ottomano erano nati cristiani. Ma i nostri antenati occidentali erano più colpiti dall’altro paradosso, per cui tutti costoro erano figli di povera gente. L’idea che i pascià, i visir e gli ammiragli, nei loro sontuosi palazzi di Costantinopoli, da dove governano un impero, siano tutti figli di pastori sconvolge gli osservatori europei. Un ambasciatore degli Asburgo, il fiammingo Busbecq, si stupisce constatando che non se ne vergognano affatto: «Quelli che ricevono i più alti uffici dal sultano sono in gran parte figli di pastori e, ben lungi dal vergognarsi della loro origine, ne vanno fieri e ritengono di potersi vantare, perché non debbono nulla all’accidente della nascita».

Superata la sorpresa, le reazioni dei cristiani si dividono. Ci sono quelli che riconoscono i vantaggi del sistema e si spingono fino ad ammettere che anche le potenze cristiane dovrebbero imparare a promuovere il talento dal basso; e questa è una reazione che serpeggia fra vari osservatori occidentali. Però, spiace dirlo, la reazione prevalente è un’altra, e cioè: che vergogna! Che questa gente nata ignobile e abietta, come dicono loro, possa avere così tanto potere agli occhi degli europei è un difetto dell’impero ottomano: non potrà mai essere governato bene uno Stato dove la gente che comanda è nata in una capanna di pastori.

Siamo dunque di fronte a una differenza strutturale, sostanziale tra l’impero di Solimano e l’Occidente del suo tempo. Ma ce n’è anche un’altra, non meno cruciale: ed è che, come abbiamo visto, nell’impero di Solimano vive un’enorme quantità di sudditi cristiani, oltre a un gran numero di ebrei, e tutti costoro hanno il diritto di praticare pubblicamente la loro religione. È inevitabile allora chiedersi: si può parlare di tolleranza? È difficile rispondere in modo univoco, perché i cristiani e gli ebrei sono sudditi dell’imperatore, protetti dalla legge, ma sono pur sempre sudditi di seconda categoria: pagano imposte speciali che i musulmani non pagano; quando le comunità devono fornire i rematori per le galere del sultano, i rematori musulmani sono pagati di più dei rematori cristiani; a Costantinopoli, dove pure costituiscono una buona parte della popolazione, cristiani ed ebrei sono sempre guardati con qualche sospetto, come potenziali traditori, e sottoposti a occasionali vessazioni o a violenze popolari. Dunque siamo lontani dalla tolleranza come sarà definita, molto tempo dopo, dai pensatori illuministi.

E tuttavia rimane il fatto che nell’impero ottomano vivono cristiani ed ebrei, c’è una Chiesa cristiana funzionante con la sua gerarchia e che ha il diritto di celebrare la messa per i fedeli, come nelle sinagoghe si celebrano le funzioni religiose ebraiche, il tutto sotto la protezione del governo. Questo è di nuovo un tratto che segna una differenza radicale rispetto all’Occidente di quell’epoca, dove non è nemmeno concepibile che possano vivere dei musulmani e praticare pubblicamente la loro religione: costruire moschee è proibito. Dove prima c’erano dei musulmani, nella Spagna della Reconquista, sono stati espulsi o costretti a convertirsi, e, quanto agli ebrei, avevano vissuto a lungo in Occidente, ma anche per loro l’epoca di cui parliamo è un’epoca di espulsioni. Al tempo di Solimano gli ebrei sono espulsi dalla Spagna e da tutti i suoi regni, quindi anche dall’Italia meridionale, e tutti questi ebrei espulsi si rifugiano nell’impero ottomano, da dove le comunità ebraiche scrivono ai correligionari occidentali dicendo: venite qua, perché qua siamo liberi e non ci manca nulla.

Citiamo ancora un fatto a questo proposito: nel Quattro-Cinquecento in Europa è particolarmente forte quella che è stata chiamata, nel gergo storiografico, la calunnia del sangue, cioè l’accusa ricorrente contro gli ebrei di rapire bambini cristiani e sacrificarli per celebrare riti col loro sangue. Di recente ha fatto scandalo in Italia un libro di Ariel Toaff, il quale ha ripreso questo tema suggerendo che forse nell’accusa in taluni casi poteva esserci un fondo di verità. Ebbene, in un’epoca in cui in Europa la calunnia del sangue è moneta corrente, a un certo punto Solimano emana un editto dichiarando formalmente che questo tipo di accuse contro gli ebrei è da considerare sempre falso e che è vietato dar corso a procedimenti di questo genere.

Finora abbiamo sottolineato, per un verso, il fascino strano e paradossale che l’impero di Solimano esercitava sugli occidentali e, per altro verso, quegli aspetti per cui la società ottomana sembra più avanzata di quella europea di allora, meno intollerante e più aperta al talento. Rimane però il fatto che alla lunga l’impero ottomano è rimasto indietro rispetto all’Occidente: la civiltà occidentale è diventata sempre più complessa e più ricca, mentre quella dell’impero ottomano e dell’Europa balcanica è andata verso la stagnazione. È vero che oggi, come paradigma storiografico, il declino dell’impero ottomano non è più di moda, e comunque non per l’età immediatamente successiva alla morte di Solimano: avrebbe declinato un po’ troppo a lungo, questo impero, prima di crollare davvero all’indomani della prima guerra mondiale. Ma sul lungo periodo è indubbio che il modello rappresentato dall’impero di Solimano si è rivelato sempre meno concorrenziale rispetto agli Stati dell’Occidente. E questo è un fatto su cui bisogna pur riflettere.

Uno dei fattori in gioco è rappresentato dall’arretratezza tecnologica. Già nel Cinquecento gli europei hanno la tendenza a giudicare i turchi arretrati: non sanno fabbricare bene le galere, i cannoni o gli archibugi, hanno bisogno di tecnici occidentali rinnegati, non sanno investire nell’economia e lavorare bene la terra, lasciano andare tutto a male. È molto difficile dire quanto questo sia un pregiudizio occidentale e quanto, invece, ci sia qualcosa di vero; ma certo ci sono alcuni aspetti della tecnologia per cui perfino il sultano e i pascià devono ricorrere all’Occidente. I visir di Solimano comprano continuamente in Europa, di solito attraverso Venezia, occhiali, orologi, mappe, tutte cose che l’impero non produce.

E poi c’è uno specifico, importantissimo progresso occidentale che nell’impero ottomano non penetra, ed è la stampa. È difficile dire se sia per una diffidenza religiosa, perché non piace l’idea che il Corano venga stampato da una macchina anziché copiato da un uomo, o se sia perché la società nel suo insieme è meno alfabetizzata e quindi ha meno bisogno della stampa, non offre un mercato sufficiente per il suo sviluppo. Quale che sia la ragione, è un fatto che l’Occidente ha la stampa e la usa, mentre l’Oriente di Solimano la ignora. Questo fa una gran differenza anche sul piano politico. Pochi anni dopo la morte di Solimano si combatte la battaglia di Lepanto, con le flotte veneziana e spagnola che distruggono quella ottomana. Nel giro di pochi mesi l’Europa occidentale è inondata di materiale a stampa, libri, libretti, libriccini, storie, canzoni, poesie, fogli volanti, che portano le informazioni su questo evento fino in ogni angolo del mondo cristiano. Nel mondo ottomano – pur ammettendo che nel caso di Lepanto non c’era nessun motivo di celebrare – dopo una grande vittoria, come ce ne sono spesso, non succede niente del genere: se la gente viene a sapere qualcosa è con le chiacchiere al mercato e ai bagni. Questo alla lunga significa che la diffusione dell’informazione, il peso dell’opinione pubblica e la maturità politica della gente comune non sono allo stesso livello in Occidente e in Oriente.

C’è ancora un’altra differenza importante, che Solimano e i suoi ministri non riconoscono certamente come una debolezza ma che invece lo era. L’impero ottomano è davvero l’erede dell’impero romano, o meglio del tardo impero e poi dell’impero bizantino: dove il sovrano si ritiene mandato da Dio e, per il bene dell’umanità, ha il diritto di fare tutto quello che vuole, senza preoccuparsi troppo degli interessi individuali, della felicità individuale. Per il bene dell’impero, e quindi dell’umanità, l’imperatore può prendere la gente e spostarla, deportare i lavoratori da una provincia dove ce ne sono troppi a un’altra dove ce ne sono pochi, e può chiedere ai sudditi tutto ciò che gli serve. Quando c’è da costruire una flotta, il governo non deve preoccuparsi di quanto costerà, perché si dà per scontato che la popolazione debba collaborare: si manda l’ordine alle comunità contadine che vivono in zone boscose di abbattere gli alberi e poi di trasportare il legname fino allo scalo più vicino, e tutto questo gratis. E quando c’è bisono di rematori, si ordina alle comunità di trovarli e pagarli, perché il sultano – che sa cos’è necessario per tutelare l’Asilo della Felicità, com’è chiamato ufficialmente l’impero – ha il diritto di chiederli e ogni comunità, a turno per non fare ingiustizie a nessuno, deve fornirli.

In Occidente le cose non funzionano così. In Occidente il re paga tutto, non ha diritto di prendere niente al di là delle imposte. Riscuote le imposte in denaro, concesse dai parlamenti, e quando vuole costruire una galera deve sapere quanto costa e pagare tutto, deve sapere quanto costa il legname, quanto costa la tela per le vele, quanto costa ingaggiare i rematori. Noi siamo abituati a immaginare i sovrani europei del Cinquecento così come li ritraggono i pittori, nello sfarzo dei loro palazzi e delle loro armature, ma in realtà passavano le notti con i segretari a sommare cifre e a calcolare quanto venivano a costare i progetti di governo. Il sultano questo non lo deve fare. Solimano e i suoi ministri possono pensare che la potenza dell’impero non ha limiti, perché quando c’è bisogno di qualcosa lo si chiede e i sudditi lo danno, senza fare conti. Alla lunga, questo non fa bene a uno Stato e a una classe politica, come ha dimostrato in tempi più vicini a noi il crollo dell’Unione Sovietica, un’altra economia in cui chi governava non era costretto a calcolare i costi delle sue scelte.

L’idea che il sultano governi per il bene di tutti e che la sua volontà non possa essere ostacolata da nulla porta anche a un’altra conseguenza gravissima per l’immagine dell’impero ottomano, cioè il modo sanguinoso in cui viene risolto il problema della successione al trono. Il sultano, come consente la legge islamica, può avere tutte le concubine che vuole; quindi di solito ha molti figli, e non esiste differenza fra legittimi e illegittimi, così importante in Occidente: tutti i figli del sultano possono succedergli nell’impero. Inevitabilmente si creano feroci rivalità. Solimano aveva quattro figli maschi, poi uno, il preferito, muore; ce n’è un altro, Mustafà, che il popolo ama moltissimo e che a un certo punto entra in urto col padre. Solimano, come capita anche ai grandi sovrani, a un certo punto non sa più gestire questo conflitto, teme il tradimento e fa uccidere il suo stesso figlio.

Ne restano due, i quali si scontrano fra loro: prima ancora della morte di Solimano uno si ribella, l’altro lo sconfigge e lo mette a morte. Quando Solimano muore è rimasto solo lui, Selim II, ma a partire da questo momento si stabilizza nell’impero ottomano l’idea che non si debbano più correre rischi di questo genere: non è possibile che il sultano, che è il vicario di Dio e che governa per il bene dell’umanità, possa vedere il suo potere indebolito dalla concorrenza dei suoi fratelli. E così si stabilisce l’abitudine – che non è legale da nessun punto di vista eppure viene praticata lo stesso – per cui, appena muore il sultano, quello dei suoi figli che riesce a impadronirsi del potere fa uccidere tutti i suoi fratelli. E noi sappiamo che all’inizio la gente è turbata, i buoni musulmani trovano inaccettabile questa prassi, esattamente come la possiamo trovare noi. Ma il potere del sultano è troppo importante e dunque, per salvaguardarlo, è possibile fare anche questo, e nessuno osa protestare.

Dopo la morte di Solimano l’opinione pubblica occidentale, di fronte a fatti del genere, si convince definitivamente che, se anche prima ci potevano essere dei margini di ammirazione o di fascino, in realtà questo è un mondo barbaro da cui non c’è niente da imparare. Alla fine del Cinquecento smettono di circolare le profezie sui turchi che conquisteranno il mondo, sul sultano che si farà cristiano; scompare l’idea del turco come alternativa e nel discorso pubblico rimane soltanto la barbarie. Col crescere del dislivello tecnologico il senso di superiorità degli occidentali si consolida una volta per tutte, e a questo punto Solimano può rimanere nel ricordo come un’eccezione. Qualche anno dopo la sua morte un testo spagnolo lo rievoca così: «fu d’estrema grandezza d’animo, ebbe un cuore da leone, fu molto sollecito nelle cose della guerra». E infine: «in molte cose non aveva niente del barbaro». Ma ormai lo si dice con stupore, sottintendendo che dopo di lui è rimasta solo la barbarie.