Mussolini e il fascismo

di Emilio Gentile

Desidero dedicare questa lezione a due persone a me molto care, Elvira Onofrio e Antonio Gentile, non solo perché sono stati i miei genitori, ma perché da loro ho sentito parlare per la prima volta, oltre mezzo secolo fa, di Mussolini e del fascismo, quando rievocavano la loro giovinezza: una giovinezza che iniziò, come per milioni di giovani italiane e italiani, con l’entusiasmo dei canti Giovinezza, giovinezza oppure Duce, tu sei la luce, fiamma tu sei nel cuore, e che tramontò angosciosamente dopo un ventennio, sfogandosi col ritornello Vento, vento, portalo via con te, mentre l’Italia era travolta dalla furia devastatrice della guerra, che trascinò via con sé, al prezzo di molte vite umane, Mussolini e il fascismo, lasciando il paese umiliato e distrutto.

Avevo pensato di iniziare la lezione con una domanda: Benito Mussolini, chi era costui? Ma poi ho rinunciato, pensando che avreste svuotato immediatamente la sala per protesta a sentirvi rivolgere una domanda di banalissima eco manzoniana. Infatti, qui sappiamo tutti chi era Mussolini e cos’era il fascismo. E tutti abbiamo qui un’opinione, un’idea, un giudizio su Mussolini e sul fascismo. Ma sappiamo anche che le opinioni, le idee e i giudizi su Mussolini e sul fascismo sono almeno tanto numerosi quante sono le persone presenti in questa sala, moltiplicate per tutte le persone, e saranno molte migliaia, forse anche molti milioni di persone, che sanno chi era Mussolini e cos’era il fascismo. Ci sono nelle biblioteche decine di migliaia di libri che raccontano, interpretano, giudicano la storia di Mussolini e del fascismo. La migliore biografia di Mussolini, scritta da Renzo De Felice, ammonta a oltre seimila pagine. La migliore biografia scritta da uno storico straniero, Pierre Milza, supera le mille pagine. Negli ultimi dieci anni sono uscite sei nuove biografie di Mussolini e altre due o tre o quattro sono state annunciate. Eppure, nonostante tale mole di ricerche, di studi e di riflessioni, molte questioni cruciali della storia di Mussolini e del fascismo sono tuttora aperte, suscitano numerosi interrogativi accompagnati ancora da risposte poco convincenti, contrastanti o addirittura opposte.

Ma forse, proprio perché ci sono tanti giudizi diversi e contrastanti su Mussolini e sul fascismo, può essere utile riflettere insieme sulle origini e su alcuni aspetti della personalità politica di Mussolini e del sistema di potere da lui instaurato insieme al partito fascista. Vedremo nel corso di questa lezione il motivo della precisazione apparentemente pleonastica: «insieme al partito fascista».

Forse, riflettendo insieme su questi temi, potremo notare qualcosa che ancora non sappiamo su Mussolini e sul fascismo, sui rapporti fra Mussolini e il fascismo. Oppure potremo vedere Mussolini e il fascismo, e i legami che li unirono, in una prospettiva diversa da quella comunemente nota. E forse, attraverso queste riflessioni, comprenderemo meglio la natura del potere di Mussolini e del fascismo, la novità del «volto del potere» di Mussolini nella storia del Novecento.

In questa lezione non farò uso di immagini, anche se considero le immagini un utilissimo ausilio per l’analisi storica, specialmente nel caso di Mussolini e del fascismo, che molto usarono l’immagine nell’esercizio e nella rappresentazione del potere. Nonostante ciò, non farò uso di immagini. E ne spiego la ragione. Innanzitutto, invitandovi a riflettere su Mussolini e il fascismo come artefici di un nuovo sistema di potere, intendo rivolgermi esclusivamente alla vostra ragione e non alla vostra immaginazione. Perciò eviterò di introdurre nella vostra riflessione la suggestione delle immagini. Così facendo, intendo richiamare la vostra attenzione su fatti concreti che riguardano le origini e il metodo del potere mussoliniano e fascista, indipendentemente dall’uso delle immagini con le quali lo rappresentarono. Inoltre, ho rinunciato all’uso delle immagini perché penso che negli ultimi tempi si sia diffusa in modo eccessivo la tendenza a privilegiare le immagini nell’analisi e nell’interpretazione del fascismo, abusando di interpretazioni di Mussolini come artista della politica, del fascismo come politica-spettacolo, come estetica della politica, come regime fondato sulla rappresentazione simbolica e la coreografia di massa.

Essendo stato uno dei primi studiosi a proporre questo tipo di interpretazioni, è evidente che non ho alcuna ostilità preconcetta nei loro confronti. Le considero tuttora importanti. Temo, tuttavia, che questi modi di analizzare e interpretare il fascismo, essendo ora diventati una moda, possano produrre effetti nocivi per la riflessione storica, specialmente quando pretendono di svelare in modo esclusivo e definitivo la natura e il significato storico del fascismo, mentre in realtà oscurano entrambi – e gravemente – perché tendono a diffondere una interpretazione estetizzante del fascismo, dove tutto è rappresentazione, simbolo, mito, rito, retorica, testo, linguaggio, discorso. E tutto ciò viene spesso attribuito alla mancanza di originalità ideologica e politica del fascismo, che colmò questo vuoto con l’appariscente sovrabbondanza coreografica di esibizioni spettacolari e ludiche miranti a distrarre e divertire le masse per carpire il loro consenso. L’essenza del fascismo si riduce così alla rappresentazione, all’immagine, alla coreografia e al simbolo, che assurgono addirittura al rango di unica significativa realtà storica del fascismo e del suo duce. Da questo punto di vista, la tendenza a privilegiare le immagini nella interpretazione del fascismo è sfociata talvolta nella banalizzazione, se non addirittura nella negazione del fascismo stesso come originale sistema di potere, fondato sul monopolio della forza e della politica, imposto attraverso la violenza e la soppressione dei diritti fondamentali del cittadino per opera di un partito unico.

Le immagini, lo spettacolo, l’estetica, la coreografia di massa furono certamente un aspetto importante nell’esercizio fascista del potere, ma la realtà di questo potere, la sua origine consisteva in una razionale, consapevole e deliberata pratica di dominio, che rifletteva una concezione dell’uomo e della politica, che fu propria di Mussolini e del fascismo. Il potere di Mussolini e del fascismo era nato dalla forza, ed era fondato sulla organizzazione della forza in un sistema permanente di monopolio del dominio politico, che costituiva una novità senza precedenti nella storia degli Stati parlamentari e degli Stati autocratici in Europa occidentale e negli altri continenti.

Per definire l’originalità della pratica di dominio messa in atto da Mussolini e dal fascismo fin dai primi mesi dopo la marcia su Roma, alcuni antifascisti sentirono l’esigenza di coniare due nuovi termini – «totalitario» e «totalitarismo» –, introducendo quindi un nuovo concetto per meglio indicare la originalità di un sistema di potere instaurato nell’ambito di un regime parlamentare, che era insieme il dominio di un singolo individuo – il Mussolini duce – e il dominio di un movimento di massa – il fascismo organizzato in partito milizia – congiunti in un complesso intreccio di relazioni non risolvibile unicamente col rapporto di subordinazione del partito al duce o addirittura con un’identificazione del fascismo col mussolinismo. La personalità politica di Mussolini fu un elemento essenziale nel nuovo sistema di potere instaurato dal fascismo dopo il 1922, ma senza il movimento di massa del fascismo organizzato in partito milizia il potere di Mussolini sarebbe stato simile al mozzo di una ruota senza raggi e senza cerchio: o non avrebbe mai cominciato a girare o avrebbe comunque girato a vuoto su stesso.

Per comprendere il complesso intreccio di relazioni fra Mussolini e il fascismo, che hanno dato origine al nuovo sistema di potere instaurato in Italia dopo il 1922, è necessario ripercorre, con una rapida carrellata, le vicende della biografia politica di Mussolini e la storia del fascismo negli anni che precedono la loro ascesa al potere.

L’origine del fascismo viene generalmente fatta risalire al 23 marzo 1919, quando Benito Mussolini diede vita al movimento dei Fasci di combattimento, con una cinquantina di seguaci. Era il periodo tumultuoso del «biennio rosso», i primi due anni dopo la fine della Grande Guerra nei quali la scena politica italiana era dominata dal partito socialista massimalista, il maggiore partito politico italiano, che voleva importare in Italia la rivoluzione bolscevica. A quel tempo, Mussolini non aveva alcuna idea del suo futuro e non immaginava assolutamente che, dopo appena tre anni dalla fondazione di un movimento con una cinquantina di seguaci, sarebbe diventato il presidente del consiglio dello Stato italiano e l’artefice di un nuovo sistema di potere.

Alla fine del 1918 Mussolini era uno sbandato che non sapeva cosa fare né dove andare. Il giornale da lui fondato e diretto dal novembre 1914, «Il Popolo d’Italia», versava in cattive acque finanziarie. La creazione dei Fasci di combattimento era stata soltanto un espediente per riprendere un qualche ruolo nella lotta politica del dopoguerra. Ma l’iniziativa non ebbe successo.

Alla fine del 1919, gli aderenti ai Fasci di combattimento erano appena 800 in tutta Italia. Nelle elezioni politiche, tenute nel novembre dello stesso anno, Mussolini e il movimento fascista subirono una sconfitta totale, tanto che i socialisti inscenarono un funerale simbolico annunciando che nel Naviglio era stato trovato il corpo in decomposizione del suicida Mussolini. Avvilito e prostrato dalla sconfitta, Mussolini pensò di vendere il suo giornale, di abbandonare la politica, di emigrare fuori d’Italia. Alla sua amante e collaboratrice Margherita Sarfatti confidò: «Prima di tutto posso fare il muratore: sono bravissimo! Poi sto imparando a fare il pilota aviatore. Oppure posso girare il mondo col mio violino: magnifico mestiere il rapsodo errante! Alla famiglia, lascio quel che ricavo dal mio giornale; da vivere per me, trovo sempre. Del resto, Bocca mi fa eccellenti proposte per Il Mito e l’Eresia. Quindici giorni di ritiro in un eremo, e lo scrivo subito. Ho anche parlato con Talli: divento attore e autore. Il mio dramma in tre atti, La lampada senza luce, è già pronto: non ho che da scriverlo».

Alla fine del 1920, Mussolini, che non aveva abbandonato la politica e continuava a dirigere il suo giornale, capeggiava un movimento fascista che raccoglieva 20.000 iscritti in tutta Italia. Tuttavia, nella organizzazione di questo movimento, Mussolini non occupava ufficialmente la posizione di massimo dirigente, non era il segretario generale, ma soltanto un componente della giunta esecutiva, e le sue scelte politiche erano discusse, accettate o respinte nelle riunioni del gruppo dirigente dei Fasci.

Alla fine del 1921, Mussolini appare come il «duce» del più forte partito politico italiano, il Partito nazionale fascista, ufficialmente costituito nel novembre 1921, con circa 150.000 iscritti. Il partito fascista era un partito del tutto nuovo, era un partito milizia, che dominava col terrore in molte province dell’Italia del nord e del centro, dopo avere distrutto con la violenza delle sue squadre armate gran parte delle organizzazioni del socialismo e degli altri partiti considerati dai fascisti «nemici interni» della nazione.

Il rapido successo del fascismo dopo il 1920, la sua trasformazione in movimento di massa, non fu dovuto all’iniziativa e all’abilità di Mussolini, ma alla violenza delle squadre armate sorte e organizzate per iniziativa di capi locali, quasi tutti molto più giovani di Mussolini, che godevano di un prestigio e di un potere personale fra la massa dei fascisti della loro provincia, ed erano del tutto indipendenti da una qualsiasi investitura o riconoscimento da parte di Mussolini. Neppure nel partito fascista Mussolini assunse la massima carica di segretario generale, pur essendo riconosciuto e acclamato come duce. E anche nel partito fascista le sue scelte erano discusse, accettate o respinte, dagli altri dirigenti.

Passa ancora un altro anno, e il 29 ottobre 1922 Mussolini ottiene da Vittorio Emanuele III l’incarico di formare un nuovo governo, dopo aver minacciato di effettuare una conquista rivoluzionaria del potere con la mobilitazione delle squadre armate del partito fascista.

Soffermiamoci un momento sulla singolarità della figura di Mussolini nel momento in cui diventa presidente del consiglio.

Quando assunse l’incarico di primo ministro in uno dei principali Stati europei, governato da oltre cinquant’anni con un regime parlamentare, Mussolini aveva 39 anni. Non solo era il più giovane primo ministro della storia d’Italia, ma era deputato appena da un anno e non aveva mai avuto altra esperienza di governo. Per capire la singolare novità di questo dato anagrafico e politico della figura mussoliniana nella storia italiana, occorre ricordare che quando Giolitti fu nominato presidente del consiglio per la prima volta, nel 1892, aveva 50 anni, era deputato da dieci anni ed era stato già ministro. Molto più anziani del Mussolini primo ministro erano tutti gli altri parlamentari che lo avevano preceduto negli ultimi quattro anni come presidenti del consiglio: al momento della loro nomina, Orlando aveva 59 anni, Nitti 51, Giolitti 80, Bonomi 48 e Facta 61. Anche sulla scena politica europea, Mussolini presidente del consiglio era una figura assolutamente singolare per la sua età, molto più giovane dei coevi governanti principali dei maggiori Stati del mondo: il primo ministro francese Poincaré aveva 62 anni, il primo ministro inglese Bonar Law ne aveva 64, il cancelliere tedesco Kuno 46, il presidente degli Stati Uniti Coolidge 50, e aveva 56 anni il presidente della Repubblica Cinese Sun Yat-sen. Inoltre, erano più anziani di Mussolini, a quel tempo, anche i capi bolscevichi che avevano conquistato il potere e imposto in Russia il primo Stato a partito unico della storia. Lenin aveva 48 anni quando giunse al potere con la rivoluzione di ottobre del 1917. Stalin ne aveva 43 quando fu nominato segretario del partito bolscevico nel 1922, e ne aveva 50 quando riuscì a celebrare il potere assoluto nel 1929, dopo aver eliminato i suoi antagonisti in una lotta durata cinque anni, dalla morte di Lenin avvenuta nel gennaio 1924.

Mussolini conservò il primato della precocità anche nei confronti degli altri dittatori che popolarono l’Europa negli anni fra le due guerre: Mustafa Kemal aveva 42 anni quando divenne presidente-dittatore della nuova Repubblica turca da lui fondata; il generale Primo de Rivera ne aveva 53 nel 1923 quando assunse poteri dittatoriali nella monarchia spagnola; 50 anni aveva nel 1926 il generale Piłsudski quando assunse poteri dittatoriali come presidente della Repubblica Polacca. Adolf Hitler era prossimo ai 44 anni quando fu nominato Cancelliere del Reich nel 1933.

Questo elenco di date e di dati può apparire noioso, ma è importante per comprendere uno degli aspetti più singolari e più straordinari del «volto del potere» di Mussolini e del fascismo. Per la sua giovane età, Mussolini al potere fu considerato dai contemporanei il simbolo di una rivoluzione generazionale avvenuta nel mondo politico dell’epoca, come lo era il nuovo partito fascista costituito nel 1921, se consideriamo la giovane età dei suoi dirigenti rispetto ai dirigenti degli altri partiti italiani: nel 1921 l’età media dei dirigenti fascisti era di 32 anni, mentre era di 45 anni quella dei dirigenti socialisti, di 36 anni quella dei dirigenti comunisti e di 37 anni quella dei deputati del Partito popolare.

Inoltre, dal confronto con gli altri principali dittatori rivoluzionari del periodo fra le due guerre, un altro fatto singolare e straordinario emerge dalla biografia politica di Mussolini. Lenin, Stalin, Hitler raggiunsero il potere militando sempre nello stesso movimento nel quale erano nati politicamente. Quando Mussolini giunse al potere, la sua biografia era una collezione di militanze politiche diverse e opposte.

Dieci anni prima di diventare il primo ministro di una monarchia parlamentare come duce di un partito milizia nazionalista, militarista, antidemocratico e antimarxista, Mussolini era stato un marxista, rivoluzionario socialista, antimonarchico, antinazionalista, antimilitarista. Nel 1911 aveva organizzato uno sciopero contro la guerra di Libia e per questo fu condannato al carcere. Poco dopo, nel 1912, uscito dal carcere, balzava improvvisamente sulla scena nazionale al Congresso del Partito socialista a Reggio Emilia, dove si imponeva come il più vigoroso esponente della corrente rivoluzionaria che prese la guida del partito socialista. Mussolini aveva allora 29 anni. Nel 1912, gli altri futuri dittatori totalitari o erano militanti esiliati e clandestini, conosciuti solo nella cerchia della loro setta politica, come Lenin e Stalin, oppure vagabondavano nell’oscurità, come Hitler, alla ricerca di una via, sbarcando il lunario dipingendo e vendendo acquerelli. Anche allora la giovane età di Mussolini fu una novità straordinaria a confronto con l’età degli altri dirigenti socialisti: Costantino Lazzari, nuovo segretario generale del Partito socialista, aveva 55 anni, e 55 ne aveva Filippo Turati, uno dei fondatori del partito e massimo esponente della corrente riformista combattuta e sconfitta da Mussolini.

Nominato direttore dell’organo ufficiale del principale partito italiano, uomo nuovo del socialismo, come fu chiamato, Mussolini fu idolatrato dai giovani militanti e dalle masse proletarie per la sua violenta intransigenza rivoluzionaria. Nel Congresso di Ancona del 1914, chiese, impose ed ottenne la incompatibilità del partito socialista con la massoneria e incitò i socialisti alla rivoluzione, confermando con questa vittoria di essere il capo effettivo del partito socialista, circondato già da un alone carismatico. Nel giugno dello stesso anno, Mussolini plaudì ai moti rivoluzionari della «settimana rossa» annunciandoli come preludio all’abbattimento dello Stato borghese. Eppure soltanto due anni dopo, alla fine del 1914, quando abbandonò la neutralità per sostenere la necessità dell’intervento italiano nella Grande Guerra, il giovane Mussolini precipitò in pochi giorni dal piedistallo che gli avevano innalzato le masse proletarie e fu marchiato dalle stesse masse proletarie come traditore del socialismo.

Espulso dal partito socialista, Mussolini fu accolto dagli interventisti rivoluzionari e democratici come una figura eroica, che aveva sacrificato una brillante carriera e una posizione importante di potere e di prestigio per essere coerente con le sue nuove convinzioni e idealità, che lo avviavano verso un nuovo genere di nazionalismo rivoluzionario, vagamente socialista all’inizio, decisamente antisocialista alla fine dell’esperienza della Grande Guerra.

Finita la guerra, Mussolini diede vita ai Fasci di combattimento, che volevano essere un movimento antipartito di breve durata, con un programma nazionalista, repubblicano, libertario, antistatalista, tendenzialmente anticapitalista, oltre che naturalmente antibolscevico. La sconfitta elettorale del 1919 persuase Mussolini a modificare il programma del movimento: il nuovo programma accantonava il libertarismo, esaltava il nazionalismo, proclamava la difesa della borghesia capitalista e dello Stato contro il pericolo di una rivoluzione bolscevica.

Tre anni dopo, pochi giorni prima dell’ascesa al potere, il duce dichiarava il rispetto per la monarchia, proclamava la morte dello Stato liberale, preannunciava la creazione di uno Stato nuovo antidemocratico, in nome dei principi e degli ideali della rivoluzione fascista, senza però precisare i modi, i mezzi e i tempi di attuazione della sua rivoluzione. Questa si svolse in pochi giorni, fra il 27 e il 29 ottobre, quando le squadre fasciste si mobilitarono per marciare su Roma, ottenendo così la convocazione del loro duce al Quirinale con l’incarico di formare il nuovo governo. La marcia su Roma si concluse con una parata e non con l’assalto al potere, che fu conquistato quasi pacificamente: resta il fatto che l’ascesa di Mussolini al governo non fu il risultato di una libera e pacifica consultazione fra il sovrano e i parlamentari, ma il momento culminante di una sequela di gesta violente compiute dal partito fascista nei mesi precedenti per rendere impossibile la vita ai partiti dell’opposizione e imporre un proprio dominio in molte province dell’Italia settentrionale e centrale, sottraendo allo Stato il monopolio della forza.

Singolare e straordinaria è la brevità del tempo impiegato dal fascismo per conquistare il potere. Il partito bolscevico aveva 14 anni quando conquistò il potere con un colpo di Stato nel 1917. Il partito nazionalsocialista aveva 13 anni quando giunse al governo nel 1933 sull’onda di una vittoria elettorale. Quando conquistò il potere il fascismo non aveva ancora compiuto un anno come partito, e aveva compiuto poco più di tre anni dalla sua nascita come movimento.

La brevità del periodo trascorso dalla nascita alla conquista del potere è un fattore importante da considerare per comprendere perché la massima parte degli antifascisti e dei fiancheggiatori conservatori del fascismo non compresero la natura del fascismo, non presero sul serio le sue azioni e le sue dichiarazioni e credettero seriamente che il manesco infante non sarebbe stato capace di restare al potere, conquistato quasi per accidente, più di qualche mese o al massimo qualche anno. Inoltre, la brevità trascorsa dalla nascita all’ascesa al potere aiuta anche a comprendere i motivi per i quali Mussolini e il partito fascista impiegarono tre anni prima di instaurare un regime a partito unico, mentre il bolscevismo e il nazismo, movimenti politici più anziani, e quindi più coesi e meglio organizzati, poterono farlo nel giro di pochi mesi. Subito dopo la marcia su Roma, una serie di crisi interne sconquassò il partito fascista, che non aveva ancora raggiunto una coesione interna per la sua troppo rapida crescita. Nonostante ciò, non fu travolto dalla crisi interna e continuò la sua marcia verso la conquista del monopolio del potere. E tutto questo avveniva in Italia negli ultimi mesi del 1922, quando la democrazia parlamentare, scomparsa la minaccia di una espansione continentale del bolscevismo, sembrava trionfare nella nuova Europa nata dalla distruzione di imperi autocratici, e si stava avviando, Italia compresa, verso una pacifica stabilizzazione sull’onda di una generale ripresa economica.

Formalmente il governo Mussolini nacque con una sanzione costituzionale confermata dal voto di fiducia del Parlamento. Tuttavia, come notarono alcuni ortodossi custodi del parlamentarismo liberale, il modo in cui Mussolini era giunto al potere era certamente poco parlamentare e piuttosto rivoluzionario. Infatti, il conferimento dell’incarico a Mussolini per formare il nuovo governo non fu una spontanea e autonoma decisione del re, né scaturì dalla designazione di una maggioranza parlamentare, né fu il risultato di una consultazione fra i partiti. La nomina di Mussolini a presidente del consiglio fu imposta al re sotto la minaccia di una insurrezione armata da parte di un partito milizia, che alla Camera aveva allora solo una trentina di deputati. Quando Hitler fu nominato cancelliere nel gennaio 1933 dal presidente Hindenburg, il partito nazionalsocialista era il partito col maggior numero di deputati eletti nel Parlamento della repubblica tedesca.

L’effettiva novità rivoluzionaria dell’avvento di Mussolini al potere consisteva nel fatto che mai prima di allora, in uno Stato parlamentare, era stato nominato presidente del consiglio un duce di bande armate, organizzate in un partito milizia, il quale dichiarava pubblicamente che il secolo della democrazia era finito, che lo Stato liberale era superato, che il parlamentarismo era morto. E soprattutto dichiarava pubblicamente, dentro e fuori delle aule parlamentari, che l’avvento del fascismo al potere era un evento irrevocabile, segnava la fine dello Stato liberale. Il 4 ottobre 1922, alla vigilia della marcia su Roma, Mussolini aveva dichiarato, e le sue dichiarazioni furono pubblicate sul «Popolo d’Italia»: «Ormai lo Stato liberale è una maschera dietro la quale non c’è nessuna faccia. È un’impalcatura; ma dietro non c’è nessun edificio. Ci sono delle forze; ma dietro di esse non c’è più lo spirito. Tutti quelli che dovrebbero essere a sostegno di questo Stato, sentono che esso sta toccando gli estremi limiti della vergogna, dell’impotenza e del ridicolo». E quanto poi allo Stato fascista – come Mussolini lo chiama il 4 ottobre 1922 – precisa come sarebbe stato, non avrebbe concesso la libertà agli avversari come faceva lo Stato liberale. Noi «dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani ‘indifferenti’, che rimarranno nelle loro case ad attendere, i ‘simpatizzanti’ che potranno circolare; e finalmente gli italiani ‘nemici’, e questi non circoleranno».

Mussolini presidente del consiglio parlava di normalizzazione e di rivoluzione, prometteva ordine e legalità ma incoraggiava le squadre a rendere la vita impossibile agli avversari. L’ambiguità del duce rivelava forse una incertezza sulla strada da seguire. Ma una cosa era chiara per lui e soprattutto per la massa dei militanti del partito fascista: l’avvento del fascismo al potere non era stata una normale vicenda parlamentare ma un evento irrevocabile. La nomina di Mussolini a presidente del consiglio non rappresentava per il fascismo una normale e provvisoria vicenda costituzionale, tipica di uno Stato liberale, ma segnava l’inizio irrevocabile di un trapasso di regime. Lo disse Mussolini stesso parlando al consiglio dei Ministri il 15 dicembre 1922, quando denunciò «alcune esigue minoranze di politicanti» che «non si rassegnano all’assoluta irrevocabilità del fatto compiuto nell’ottobre col trapasso di regime». E il partito fascista agì per renderlo tale, continuando la pratica di violenza e di terrore contro i partiti di opposizione, spesso palesando pubblicamente la sua ambizione al potere totale.

La maggior parte degli antifascisti e dei fiancheggiatori del governo Mussolini sottovalutarono la forza del fascismo e continuarono ad operare immaginando che la crisi interna del partito fascista lo avrebbe travolto in pochi mesi. Furono invece pochi gli antifascisti i quali intuirono che il partito fascista, per la sua stessa natura di partito milizia, era incompatibile con la democrazia parlamentare, e la sua permanenza al potere avrebbe portato alla distruzione dello Stato liberale. Né bastò la enorme maggioranza parlamentare ottenuta dal partito fascista nelle elezioni politiche dell’aprile 1924 per farlo desistere dalla perpetuazione della violenza e dal pretendere di mirare alla conquista totale del potere.

La pretesa fascista al monopolio del potere era connaturata alla natura, alla mentalità e al comportamento del partito fascista, come avevano compreso alcuni lungimiranti osservatori antifascisti, ancor prima della marcia su Roma. Alla fine del novembre 1921, subito dopo la costituzione del partito fascista, una rivista antifascista aveva scritto che il fascismo non era un fenomeno transitorio, ma era una «minaccia per l’avvenire stesso della Nazione, la sua libertà, la sua pace... Il fascismo non sopporta dissensi: contesta agli avversari il diritto di pensare, di discutere, di operare alla luce del sole. [...] Si è preteso attribuire ai fascisti il merito di aver salvato l’Italia dal pericolo di una dittatura bolscevica. E non è, dunque, una forma di dittatura quella che essi stanno esercitando? E cosa farebbe, cosa ci darebbe, quella che essi eserciterebbero domani se riuscissero ad impadronirsi di tutti gli organi dello Stato?».

La risposta a queste domande venne subito dopo la formazione del governo Mussolini. Il nuovo metodo di esercizio del potere da parte di Mussolini e del fascismo fu definito «totalitario» dagli antifascisti, e «totalitarismo» fu il sostantivo di nuovo conio adoperato dagli antifascisti per definire non la ideologia o le aspirazioni o i fini ultimi del fascismo, ma la concreta realtà del suo agire politico, come partito alla guida del governo di un regime parlamentare.

Già pochi mesi dopo la marcia su Roma, nell’aprile 1923, il giornale antifascista «La Stampa» scrisse che il fascismo mirava ad attuare «la sua totale dittatura di partito [...] si vuole la dittatura di partito e il partito unico, cioè la soppressione dei partiti, cioè la fine della vita politica, come la si concepisce in Europa da 100 anni a questa parte».

Nello stesso periodo, l’antifascista liberale Giovanni Amendola coniò il termine «totalitario» per definire il metodo «del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa», usato dal fascismo per imporsi nel paese. Il vocabolo di nuovo conio fu subito ripreso da un deputato ex fascista, Alfredo Misuri, che era stato violentemente aggredito dagli squadristi, in un discorso alla Camera del 29 maggio 1923, per denunciare le prevaricazioni del governo Mussolini e le violenze del partito fascista, che pretendeva di «inglobare tutti nel fascismo, in guisa da fare monopolizzare da esso, per un lungo periodo della vita nazionale, ogni e qualsiasi forma di attività civile e politica». Nel novembre successivo, Amendola osservò che la caratteristica principale del partito fascista era «lo spirito «totalitario», il quale non consente all’avvenire di avere albe che non saranno salutate col gesto romano», gettando gli italiani in una «guerra di religione» per imporre la propria fede politica.

Il termine «totalitario» ebbe subito fortuna fra gli antifascisti. All’inizio del 1924 il maggiore esponente dell’antifascismo cattolico, il sacerdote Luigi Sturzo, costretto dal fascismo ad abbandonare la guida del Partito popolare, condannò le violenze del partito dominante denunciando la sua tendenza alla «trasformazione totalitaria di ogni e qualsiasi forza morale, culturale, politica, religiosa in questa nuova concezione: ‘la fascista’. E poiché le menti non si piegano né le coscienze si trasformano, è fatale che si pieghino le teste e le ginocchia con l’uso della forza esterna».

Qualche mese dopo, un altro intransigente antifascista cattolico, Igino Giordani, metteva in guardia la Chiesa dal cedere alle lusinghe del governo fascista, denunciando le inconciliabilità fra la religione cattolica e la «religione fascista», come egli definiva la concezione politica del fascismo. Il fascismo, con il suo «spirito totalitario, di violenza, di amoralità, di illegalismo e di sopraffazione», mirava unicamente ad usare la Chiesa come strumento per attuare il suo «esperimento» di dominio politico, perché «la sua anima totalitaria, egocentrica, assorbente, non tollera forze isolate e incontrollate, fuori del suo geloso serraglio».

Infine, in un articolo scritto alla fine del 1924, e pubblicato il 2 gennaio 1925 sulla rivista antifascista «Rivoluzione Liberale» diretta da Piero Gobetti, un giovane socialista, Lelio Basso, usò l’espressione «totalitarismo indistinto» per definire il sistema di dominio assoluto e incontrastato che il partito fascista era venuto instaurando dopo il suo avvento al potere, pretendendo di identificarsi con lo Stato e con la nazione. «Lo Stato fascista, egli scrisse, nega che possa esservi un movimento a sé, contrario o comunque diverso, e se qualcuno, pur timidamente, si mostra, tenta di distruggerlo irrimediabilmente». Ciò era coerente attuazione dei principi fascisti: «soppressione di ogni contrasto per il bene superiore della nazione identificata con lo Stato, il quale si identifica a sua volta con gli uomini che detengono il potere (Stato fascista). Questo Stato è il Verbo, e il suo Capo è l’uomo mandato da Dio per salvare l’Italia; esso rappresenta l’Assoluto, l’Infallibile... Una volta posti questi principi, lo Stato può tutto: ogni opposizione al fascismo è veramente tradimento della Nazione» mentre ogni delitto fascista era giustificato in nome della nazione. Risultato di questo nuovo sistema di dominio, concludeva Basso, era la subordinazione dello Stato ad un partito unico: «tutti gli organi statali, la corona, il parlamento, la magistratura, che nella teoria tradizionale incarnano i tre poteri e la forza armata che ne attua la volontà, diventano strumenti di un solo partito che si fa interprete dell’unanime volere, del totalitarismo indistinto».

Il giorno dopo la pubblicazione di questo articolo, con il discorso del 3 gennaio, Mussolini avviava definitivamente la instaurazione della dittatura, procedendo alla soppressione del regime liberale e alla creazione di un regime a partito unico, che fu chiamato «Stato totalitario». La svolta del 3 gennaio non fu un evento imprevisto, provocato da una successione di eventi imprevisti derivati dalla crisi gravissima provocata dall’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti nel giugno 1924. L’assassinio del deputato socialista non fu un fatto accidentale, ma la conseguenza di una situazione di illegalità perpetuata dal partito fascista dopo la marcia su Roma col proposito di giungere alla conquista del monopolio del potere.

Fin dall’ascesa al governo, evento considerato da Mussolini un irrevocabile trapasso di regime, la cui difesa era affidata alla forza armata della milizia fascista, una «potentissima armata di volontari», disse Mussolini al Senato l’8 giugno 1923, vigilava per difendere «quella speciale forma di reggimento politico che si chiama fascismo». E la «speciale forma di reggimento politico» era già concretamente operante nelle nuove istituzioni di partito, come il Gran Consiglio e la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che il duce affiancò subito alle istituzioni dello Stato per espandere il suo potere personale e renderlo autonomo dai freni costituzionali, dando così origine a un dualismo di poteri nel quale era il potere del duce e del partito fascista a prevaricare sui poteri tradizionali dello Stato monarchico liberale. Lo osservò ancora una volta, con precoce perspicacia, Giovanni Amendola fin dall’aprile 1923:

Noi abbiamo visto svolgersi ed estendersi ogni giorno di più, l’attuazione di un disegno, alla lunga insostenibile, nel quale, accanto ad ogni organo statale viene collocato un organo fascista che lo domina, lo controlla, e lo paralizza: il Gran Consiglio accanto al Consiglio dei Ministri, i Commissari politici accanto ai prefetti, i segretari dei fasci accanto ai vari organi dell’autorità statale, ecc. È superfluo aggiungere che, in questo sistema, spetta al Ministro, al Prefetto, al Questore, al funzionario in genere di ubbidire al corrispondente grado della gerarchia fascista.

Nonostante la ricerca di un consenso elettorale per ottenere una maggioranza parlamentare, varando una riforma elettorale destinata ad assicurala, il fascismo affidò principalmente alla forza, e non al consenso, il consolidamento del suo potere. La rivoluzione fascista, proclamava Cesare Maria De’ Vecchi, capo del fascismo torinese, il 26 aprile 1923, procederà inesorabile «col consenso o senza il consenso; ma certamente con la forza che molte volte genera il consenso – come oggi lo genera – con la forza di queste 300.000 camicie nere oggi inquadrate nella milizia volontaria per la sicurezza nazionale».

A questo punto, comunque, la lezione non è ancora finita. Dopo la rapida carrellata sulle origini e la natura del potere di Mussolini e del fascismo, dobbiamo soffermare l’attenzione su una questione fondamentale dei rapporti fra Mussolini e il fascismo: fu Mussolini l’artefice, il creatore del fascismo che nacque dalla testa carismatica del duce come Atena uscì, adulta e armata, dalla testa di Giove, oppure fu il fascismo a partorire il Mussolini duce, ponendogli sulla testa l’aureola del capo carismatico?

Tentiamo di rispondere, sia pure sommariamente, a questa domanda. La questione riguarda principalmente la personalità politica di Mussolini e il suo ruolo di capo carismatico del fascismo. Nell’ambito della politica, si parla di capo carismatico quando al capo di un movimento o di un partito i suoi segaci conferiscono attributi straordinari – il carisma – tali da trasformarlo in simbolo e incarnazione di un’idea, di una missione. Come tale, il capo carismatico è trasfigurato in un mito vivente, diventando così oggetto di fedeltà, obbedienza, dedizione e venerazione. Il potere carismatico scaturisce dunque dal rapporto tra un capo e i suoi seguaci: può essere associato ad alcune effettive qualità personali dell’uomo che assurge a capo di un movimento, ma la sua origine e la sua durata dipendono esclusivamente dall’atteggiamento dei seguaci, dalla loro disponibilità a riconoscerlo come uomo straordinario, cui son dovute fedeltà e obbedienza incondizionate. Senza il riconoscimento dei seguaci, il capo non ha carisma oppure perde il carisma che gli è stato precedentemente attribuito.

Nel caso del carisma mussoliniano, occorre ricordare alcuni fatti importanti della biografia politica di Mussolini, precedenti la nascita del fascismo. Infatti, prima di diventare capo carismatico del fascismo, Mussolini era stato già circondato da un alone carismatico nel corso delle sue precedenti militanze politiche, come socialista rivoluzionario prima, come interventista rivoluzionario dopo.

Mussolini appare come una figura carismatica quando balza sulla scena politica nazionale a 29 anni, diventando uno dei nuovi dirigenti del partito socialista, con un enorme fascino sui suoi militanti. Un giornale socialista così descriveva la sua apparizione al Congresso di Reggio Emilia nel luglio 1912: «pallido, pensoso, con due occhi ardenti, con una fiamma di bontà sparsa sul viso tormentato dal suo pensiero». Quando fu nominato direttore dell’«Avanti!», Paolo Valera, un socialista che sarà poi antifascista, presentava Mussolini con un linguaggio propriamente carismatico: «È tutto di bronzo. È un uomo di idee. È carico di avvenimenti». Uno dei giovani socialisti rivoluzionari che diedero vita nel 1921 al Partito comunista ricordava nelle sue memorie: «Noi giovani eravamo tutti entusiasti di Mussolini». Il fascino carismatico di Mussolini fu riconosciuto anche dai suoi avversari della corrente riformista, che proprio per questo temevano il giovane estremista, barricadiero e focoso, che li aveva detronizzati dalla guida del partito, avviandolo verso una nuova politica rivoluzionaria che i riformisti consideravano utopica, anacronistica e pericolosa per il proletariato. Giovanni Zibordi osservava nel 1913 che Mussolini aveva istituito nel partito «una dittatura che ha basi individuali e basi collettive, psicologiche, o meglio sentimentali», e poteva «far ingerire alle masse» tutto quello che voleva grazie al «prestigio irresistibile della sua combattività aspra ma elevata» e al fascino delle sue «doti personali di credente e di militante». Carlo Treves, uno dei principali capi della corrente riformista, riconosceva che Mussolini era diventato in breve tempo «il ­beniamino delle ringiovanite schiere socialiste, l’excubitor dormitantium, l’elettrizzatore del partito, il rinnovatore del­l’‘Avanti!’ [...] l’uomo rispettato da tutti nel partito». E persino dopo la sua espulsione dal partito socialista, nel novembre 1914, l’«Avanti!» ricordava che in Mussolini «la gioventù socialista aveva trovato, dopo una lunga e ansiosa attesa, non soltanto la buona tempra del combattente a parole e a scritti, ma anche l’anima eroica del rivoluzionario in azione. L’uomo Mussolini in altre parole era diventato il simbolo».

Al fascino carismatico del Mussolini socialista rivoluzionario furono sensibili anche intellettuali non socialisti, come gli intellettuali della rivista «La Voce», o intellettuali che avevano militato nel partito socialista, come Gaetano Salvemini, perché contrari tanto ai riformisti quanto ai rivoluzionari. Salvemini, che divenne durante gli anni del regime fascista uno dei più aggressivi e sprezzanti nemici di Mussolini denunciando con documentate indagini le malefatte del suo potere e del suo regime, aveva subito anche lui il fascino carismatico del Mussolini socialista, da lui definito nel 1912 «un uomo di fede... di quelli che parlano come pensano e operano come parlano e perciò portano in sé tanta parte dei futuri destini d’Italia».

C’è stato dunque un carisma mussoliniano nel periodo della militanza socialista, percepito anche al di fuori del partito socialista. Ma quando Mussolini, nel novembre 1914, passò nel campo degli interventisti, si dimise dalla direzione dell’«Avanti!» e diede vita ad un nuovo quotidiano, «Il Popolo d’Italia», e subì per questo l’espulsione dal partito socialista, le masse proletarie lo marchiarono subito come «traditore». Agli elogi entusiasti seguirono immediatamente gli insulti più infamanti.

Il Mussolini interventista perse completamente il suo carisma fra le masse socialiste, e non lo riacquistò mai più, neppure durante il regime, nonostante il massiccio martellamento della propaganda. Se ci fu una categoria di italiani durante il ventennio fascista che rimase refrattaria al culto del duce, questa fu la classe lavoratrice socialista che lo aveva acclamato come capo prima della Grande Guerra.

La singolare esperienza della perdita del carisma, vissuta da Mussolini nel 1914, ebbe un’enorme importanza nel suo successivo rapporto con il fascismo, e soprattutto nell’atteggiamento che il duce Mussolini ebbe nei confronti del Partito nazionale fascista, che lo aveva portato al potere. Nella storia dei capi carismatici rivoluzionari che conquistarono il potere nel periodo fra le due guerre, Mussolini fu l’unico che visse l’esperienza traumatica della perdita del carisma. Lenin, Stalin, Hitler non fecero mai esperienze simili: essi acquistarono e non persero mai il potere carismatico che gli era stato conferito, militando dall’inizio alla fine della loro vita in un unico movimento politico. Questa diversità di esperienza è importante per capire la peculiarità del potere mussoliniano nell’ambito del fascismo, come partito e come regime.

Incontriamo, qui, un’altra singolarità nella vicenda del carisma mussoliniano, che non ha confronti con quella di altri capi carismatici. Infatti, a differenza degli altri capi rivoluzionari come Lenin, Stalin e Hitler, Mussolini non soltanto visse l’esperienza della perdita del carisma, ma visse anche l’esperienza di una rinascita del suo carisma in un nuovo movimento politico, opposto al movimento che precedentemente lo aveva privato del carisma che gli aveva attribuito. Infatti, espulso dal partito socialista come «traditore», Mussolini perde il carisma tra la masse socialiste ma subito lo ritrova tra le minoranze interventiste, che lo salutano come una figura eroica, perché aveva rinunciato alla carica, al potere e al successo e anche a un congruo stipendio come direttore dell’«Avanti!» per seguire le sue idee. Si era convinto che la guerra rivoluzionaria era necessaria al socialismo rivoluzionario e aveva deciso di cambiare posizione pur sapendo che sarebbe stato contro il partito socialista.

Eppure Mussolini, quando decide di organizzare le forze dei reduci, raccoglie appena 50 seguaci, segno che ancora una volta egli ha perso il carisma che aveva acquistato fra gli interventisti. Il Mussolini fascista del 1919 non ha nessun potere carismatico sui suoi poco numerosi seguaci. I quali lo rispettano, lo ammirano, per le sue doti di giornalista e di oratore. Fra i fascisti, nessuno sa scrivere come lui, nessuno sa parlare come lui, e per giunta nessuno ha un giornale nazionale come ce l’ha Mussolini: quindi per i fascisti sparsi in Italia Mussolini è un necessario punto di riferimento, ma non è il loro capo carismatico, non lo riconoscono come capo carismatico, anche se lo chiamano duce, un appellativo frequente nella tradizione di sinistra. Persino nell’organizzazione dei Fasci di combattimento, come abbiamo visto all’inizio, Mussolini non è ufficialmente il capo. Hitler, nel 1921, si fa nominare presidente dittatore del Partito nazionalsocialista e tale rimane fino alla morte. Mussolini nel movimento fascista è semplicemente uno dei membri della Commissione esecutiva e quando viene fondato il Partito nazionale fascista, nel novembre 1921, non ne è il segretario. È acclamato come duce, ma non è riconosciuto come il capo carismatico, ciecamente obbedito e seguito. Lo dimostra la gravissima crisi che separa Mussolini dalla massa dei fascisti nell’estate del 1921, quando in massa gli squadristi e i loro capi si ribellano contro la decisione mussoliniana di siglare un patto di pacificazione con i socialisti, smantellare l’apparato militare dello squadrismo e trasformare il movimento fascista in un partito laburista.

Assumendo queste decisioni, Mussolini pretende di essere obbedito e seguito ciecamente dai fascisti come un capo carismatico, rivendicando di essere stato il creatore del fascismo e di essere per questo il suo capo indiscusso, anche se, in realtà, egli non aveva avuto nessun ruolo significativo nella formazione di un movimento di massa fascista, che fu principalmente opera di giovani capi locali, solo formalmente legati al gruppo dirigente milanese. Ebbene, in occasione del patto di pacificazione con il partito socialista, nonostante il fascino di Mussolini, nonostante il suo potere, nonostante il fatto che avesse alle spalle una storia nazionale, la maggioranza dei fascisti si ribella alla sua decisione. Uno dei capi locali, il venticinquenne Dino Grandi, avvocato e squadrista bolognese, diventa il portavoce della rivolta antimussoliniana, proclamando pubblicamente davanti alle masse fasciste, nelle piazze e dalle colonne del suo giornale «L’Assalto», che il fascismo non è stato creato da Mussolini e Mussolini non può pretendere di esserne il capo assoluto: «neghiamo a Mussolini (al quale pure siamo legati da devozione e da affetto) l’esclusivo diritto di disporre, coll’autorità di padrone e di pater familias di romana memoria, di questo nostro movimento al quale tutti dobbiamo la nostra anima, la nostra giovinezza, la nostra vita». A caratteri cubitali, sul giornale di Grandi è scritto: «Il fascismo non è un uomo, è un’Idea!». E gli squadristi ribelli, alludendo al Mussolini espulso dal partito socialista nel 1914, cantano «Chi ha tradito, tradirà». Mussolini impreca contro i ribelli, condanna i fascisti come bande criminali, sbatte la porta, si dimette dalla Commissione esecutiva, minaccia di distruggere il fascismo dopo esserne stato l’artefice. Ma questa volta non fa l’errore che aveva fatto nel ’14: si dimette e sbatte la porta, ma rimane dietro l’uscio e aspetta di essere richiamato. Ed è quel che avviene, dopo che i capi della rivolta antimussoliniana avevano invano sollecitato Gabriele D’Annunzio a porsi a capo del fascismo, poiché nessuno di loro, giovani capi locali, benché localmente potenti, avrebbe potuto prendere il posto di Mussolini come unica figura nazionale, la più nota e prestigiosa del fascismo, nonché la più dotata politicamente, come gli stessi fascisti ribelli sono costretti a riconoscere.

Un compromesso alla fine fu trovato. Mussolini è costretto ad accettare ciò che gli impone la massa dei fascisti squadristi, cioè che il nuovo partito fascista non dovrà essere un partito parlamentare, né un partito laburista ma è un partito armato, un partito milizia, un partito che incorpora il militarismo squadrista nella sua struttura e nella sua cultura, fondata sulla concezione della politica come guerra permanente contro i «nemici interni della nazione», che non concede nessuna possibilità di sopravvivenza politica agli avversari, mentre rivendica il privilegio di essere l’avanguardia della nazione destinata ad assumere il potere senza nulla concedere alla democrazia liberale. Mussolini accetta il compromesso e diventa così duce del partito fascista. Ma attorno alla sua figura non si è ancora consolidato un alone carismatico. Il suo stesso ruolo di duce non è ancora garanzia di obbedienza assoluta da parte dei seguaci. Di fronte a scelte decisive per il fascismo, non è il duce ad apparire come il capo che precede e guida, con indiscussa autorità e sicura convinzione, verso una meta risolutiva. Come nel caso della marcia su Roma.

La decisione della marcia su Roma viene attribuita a Mussolini. In realtà, Mussolini non era decisamente convinto di mobilitare le squadre fasciste per compiere un gesto rivoluzionario di conquista della capitale. Egli viene spinto alla marcia dagli altri capi del fascismo, prima di tutto il segretario del partito Michele Bianchi, dai capi della milizia fascista, come Italo Balbo, dai maggiori esponenti del fascismo più intransigenti come Roberto Farinacci. Mussolini accetta teoricamente la marcia su Roma, ma preferirebbe giungere al governo per una via meno azzardosa: la sua aspirazione massima, prima della decisione finale, non è la conquista del potere e un governo da lui presieduto, ma un ministero di coalizione con lui e alcuni fascisti come ministri. In realtà, nel precipitare della situazione politica durante gli ultimi giorni di ottobre del 1922, il principale ispiratore e artefice della decisione di marciare sulla capitale, a qualsiasi rischio, è Michele Bianchi. E lo rinfaccia lui stesso a Mussolini, in una lettera scrittagli il 10 giugno 1924, quando il duce, dopo la scomparsa di Matteotti, appare disorientato e isolato, mentre il mito popolare che lo aveva circondato dopo l’ascesa al potere vacilla pericolosamente. Bianchi gli scrive:

Ricorda, Duce, che ti sono stato a fianco con pieno disinteresse, sempre, e più specialmente nei momenti tristi e difficili, quando si era un pugno di uomini, e si rischiava tutti; ricorda che l’opera mia valse quel che valse a inquadrare il Partito e a renderlo capace di fronteggiare la situazione del 1921-1922; ricorda che la marcia su Roma non sarebbe stata possibile se nell’agosto del 1922 il Fascismo non avesse stroncato lo sciopero legalitario, imponendo per mia iniziativa, soltanto per mia iniziativa contro il difforme parere del vecchio gruppo parlamentare fascista e le tue strapazzate all’Hotel Savoia contro il mio «colpo di testa», l’ultimatum delle 48 ore; ricorda che prendendomi del matto dai saggi che pontificavano di politica a Montecitorio, alla vigilia della Marcia su Roma, lanciavo io per primo – 26 ottobre 1922 – l’idea di un Governo Mussolini.

Dopo l’ascesa al potere, Mussolini deve ancora lottare all’interno del fascismo per farsi riconoscere dai fascisti come duce carismatico, capo indiscusso, ciecamente obbedito e riverito. Quando, all’indomani della marcia su Roma, forte della carica e del prestigio di primo ministro, Mussolini decide di imporre la sua autorità personale al partito fascista, molti fascisti reagiscono negativamente, sia i fascisti revisionisti, sia i fascisti integralisti, cioè i capi delle squadre armate, che non accettano di essere addomesticati da un Mussolini presidente del consiglio, così come non accettano di attribuire a Mussolini la paternità del fascismo né di identificare il fascismo con la sua persona, per quanto grande sia il suo ruolo di duce. E ancor meno sono disposti a riconoscere a Mussolini un potere nel fascismo al di sopra e indipendente dalla volontà dei fascisti, ribellandosi all’idea di creare un culto del duce. Mussolini, scrive nel 1923 un giornale revisionista, si trova e deve trovarsi «nel punto più alto della gerarchia fascista non per investitura del Padreterno, ma perché i fascisti vogliono che ci sia... Se noi supponiamo essere Mussolini il Verbo, il Sole, il signore assoluto al cui beneplacito tutto deve inchinarsi, implicitamente noi neghiamo la vita al PNF». Ma in realtà «Mussolini è dove si trova, ha le facoltà che ha di comandare perché elevato a quel posto dai fascisti, perché interprete del fascismo», e anche se nessuno gli nega «le sue virtù speciali», garantendogli il sostegno per mantenerlo al governo, c’è tuttavia, nello stesso tempo, la necessità di «‘garantirsi’ da qualunque deviazione da parte di Mussolini, garanzia che solo una gerarchia che rispecchi perfettamente l’idea fascista può dare agli iscritti del PNF».

Dopo il delitto Matteotti, Mussolini non ha nessun carisma nei confronti dei fascisti e non ha neanche la capacità di trovare una soluzione ad una crisi che lo vede definitivamente accasciato e sconfitto. Ferruccio Parri scrisse in quel periodo: «Esisteva un mito di Mussolini adorato dalle masse. Quel mito è crollato». Lo riconobbe Mussolini stesso, in un discorso segreto ai fascisti radunati a Roma nell’agosto 1924, che il suo mito aveva subito una forte incrinatura. In quel periodo, i fascisti integralisti che reclamavano la conquista totale del potere furono i più virulenti nelle critiche alle esitazioni di Mussolini, pubblicamente maltrattato come un duce che non guidava né sapeva risolversi a guidare la rivoluzione fascista fino alla conquista dello Stato. Si parlò di nuovo fra le file degli squadristi, nei momenti più gravi della crisi provocata dal delitto Matteotti, di un «fascismo contro Mussolini» e di un «Mussolini contro il fascismo», mentre Curzio Suckert, portavoce dei fascisti integralisti, ingiungeva pubblicamente al duce, dalla prima pagina della sua rivista «La Conquista dello Stato»: «tutti debbono obbedire, anche mussolini, al monito del fascismo integrale». E con modi più cortesi, ma con tono egualmente deciso, un altro giovane intellettuale fascista, Camillo Pellizzi, si rivolgeva pubblicamente a Mussolini ricordandogli che lui stesso aveva scritto di recente «che un grande moto politico, o una nazione in marcia, non si riassumono mai totalmente in un Capo»: «Così – proseguiva Pellizzi – il Fascismo non si riassume in Voi. [...] Comunque la politica non è mai un a solo. Essa è, come suggerisce il suo stesso nome, una sinfonia: maggior maestro è chi sa fondere in essa un maggior numero di singole armonie, e di individuali strumenti. [...] A Voi, che avete creata in Italia una grande orchestra di patriottismo efficiente e sostanziale, non è necessario ripetere questa verità».

Furono i fascisti integralisti e i capi della milizia che, nella notte del 31 dicembre 1924, imposero al duce Mussolini la svolta decisiva verso il regime a partito unico, annunciata nel discorso del 3 gennaio 1925. Così, tre anni dopo l’ascesa al governo, il fascismo impose il suo monopolio del potere e della politica, mise al bando tutti i partiti e avviò la costruzione di un nuovo regime a partito unico, dove tutte le libertà garantite dallo Statuto e dalla tradizione dei governi liberali nei settanta anni dopo l’Unità furono abolite.

Nel corso degli anni Trenta, Mussolini e il fascismo continuarono sistematicamente, anche se gradualmente, a fare a pezzi le strutture fondamentali dello Stato monarchico e a costruire il nuovo Stato totalitario fascista. Dopo avere trasformato nel 1929 un organo di partito, il Gran Consiglio, in supremo organo costituzionale dello Stato, togliendo alla monarchia l’automatismo della successione al trono, dieci anni dopo il fascismo abolì la Camera dei deputati, ultima vestigia dello Stato parlamentare, per istituire la Camera dei fasci e delle corporazioni, nominata dal duce. Intanto l’intera società, masse di uomini, donne e bambini erano ingabbiate nella rete capillare delle organizzazioni del regime, mobilitate e indottrinate nella religione fascista e nel culto del duce, mentre erano contemporaneamente controllate da un complesso ed efficiente sistema poliziesco. Tutto il radicale stravolgimento della tradizione liberale e parlamentare dello Stato italiano avvenne entro la cornice di una monarchia che fu svuotata delle sue principali prerogative costituzionali.

Quale sia stato l’impatto che il potere totalitario di Mussolini e del fascismo ebbe sulla società italiana è tuttora argomento di dibattito fra gli studiosi. La testimonianza degli antifascisti può offrire tuttavia materia per molte riflessioni. Trattandosi di testimonianze provenienti da fronti opposti dell’antifascismo, sono per questo ancora più importanti e utili per uscire dalla secca di diatribe meramente polemiche:

Il fascismo – scriveva nel 1938 un esponente del movimento liberalsocialista «Giustizia e Libertà» – non opprime e non controlla solo con la sua polizia; esso opprime e controlla con i suoi sindacati, con l’educazione, con la parte che esercita nelle industrie e nelle banche, con la burocrazia immensa che crea, dirige e mette in moto, con la stampa e con la radio. Tutto il paese è inglobato in questo apparato: le manifestazioni di scontento e di sfiducia sono avvertite immediatamente dal centro, e sono deviate utilizzandole per quei fini stessi di aggressione contro i quali sono sorte.

Le forze del lavoro e della libertà: proletariato industriale e agricolo, piccola impresa commerciale e industriale, che produce secondo i bisogni del pubblico, perciò fuori dai veri e propri fini dello Stato: pensatori che pensano col proprio cervello e non «per fini nazionali»: giovani che (anche se provenienti dalla classe burocratica dirigente) non se la sentono di accettare lo schema prefisso dell’organizzazione statale né i fini ai quali la casta dirigente intende dirigerli: tutte queste forze sono nell’apparato fascista compresse, incanalate, controllate e divise fra di loro con ostacoli morali e materiali, in modo da impedirne lo sviluppo autonomo, per togliere loro ogni peso politico. A questa oppressione si accompagna la più sfrenata propaganda e repressione contro gli ideali animatori di questi elementi, nei quali queste classi, o questi ceti, trovano la loro ragione di autonomia: socialismo (da loro battezzato comunismo), libertà, democrazia.

Non diversa appariva la condizione degli italiani nel regime fascista ad un esponente dell’antifascismo comunista, in quello stesso periodo:

la situazione del popolo italiano è spaventosa, ma se noi vogliamo liberarci del fascismo dobbiamo esaminarla per quella che è, senza illusioni e senza abbellimenti. Noi militanti anti-fascisti sentiamo tutto il peso del fascismo, quanto sia odioso, ipocrita, violento e degradante. Noi vogliamo abbattere il fascismo per la vita libera e felice del popolo italiano, ma non potremo agire efficacemente se non useremo dei modi adatti e la nostra attenzione deve essere quella che la realtà consente perché sia un’azione realmente efficace, e quindi il primo punto da stabilire senza illusioni è la situazione concreta della realtà italiana dopo quindici anni di fascismo. Ogni giorno tutti vediamo che il Partito Fascista tiene china sotto il suo controllo tutta la vita del popolo italiano, le grandi masse dei piccoli borghesi, degli operai, dei contadini, degli intellettuali possono vivere solo assoggettandosi al controllo esercitato dal fascismo. L’organizzazione dello Stato non permette, se non eccezionalmente, di vivere fuori dei quadri, fuori del controllo del Partito Fascista e dei suoi diversi organi. Non c’è scampo: chi deve vivere in Italia deve appiccicarsi l’etichetta fascista, lo sappiamo tutti. E va bene, ma tuttavia, nella nostra azione pratica, spesso noi non teniamo nel giusto conto questa realtà dura e degradante, ma tuttavia realtà della vita italiana. Che significa che la popolazione italiana è controllata dal fascismo? Che significa che per vivere deve essere inquadrata nel fascismo? Significa che è impossibile che la nostra azione sia veramente efficiente se noi non teniamo conto della mentalità, dei bisogni e del modo di vita della popolazione italiana. Da quindici anni si sfila in parata, si seguono i gagliardetti e, soprattutto, c’è l’imposizione di non pensare, perché a pensare deve essere uno solo, Mussolini, e a obbedire devono essere tutti. Tutto ciò, ripetuto giorno per giorno, per sedici anni interi, ha abbassato la coscienza umana e la mentalità politica del magnifico popolo italiano.

Col metodo totalitario analizzato dagli antifascisti fin dal 1923, elaborato ed applicato con costante gradualità e intensità, rafforzando e moltiplicando gli strumenti per la sua applicazione, Mussolini e il fascismo dominarono l’Italia per un ventennio. Al di là dell’atteggiamento della maggioranza degli italiani verso Mussolini e il fascismo, la realtà nella quale tutti gli italiani vissero fu condizionata da una complessa organizzazione di Stato e di partito, che fu messa in crisi e fu travolta soltanto dalla sconfitta militare nella seconda guerra mondiale. Prima di quella disastrosa disfatta, nessuna seria minaccia interna aveva messo in pericolo la solidità di un sistema di potere fondato sul monopolio della forza nelle mani di Mussolini e del fascismo.

Come dicevo all’inizio, il potere di Mussolini e del fascismo non ebbe origine dal consenso e non si fondava sulla propaganda delle immagini, dei simboli e dei riti. Fu un potere che ebbe origine dalla forza e si basava fondamentalmente sulla organizzazione della forza e il monopolio della politica, conquistato e imposto con la violenza, consolidato con l’apparato poliziesco di uno Stato moderno, sottoposto al comando unico del duce. Anche se conservò il prestigio della corona e continuò ad esercitare formalmente le funzioni di capo dello Stato, il re fu progressivamente esautorato e sovrastato dal prepotente giganteggiare della figura e del potere del Duce, non solo come capo del Governo, ma come capo del partito e come capo del regime, e soprattutto come suprema autorità carismatica, avvolta nell’aurea mistica e mitica di un nume vivente.

Incontriamo qui un’altra singolarità del potere di Mussolini e del fascismo. Mussolini fu il primo dittatore carismatico del XX secolo idolatrato dalle masse nei rituali di un culto dedicato alla sua persona. Artefice del culto del duce, già saldamente istituito nel 1926, fu il partito fascista. L’apoteosi di Mussolini come un nume vivente e il culto dedicato alla sua persona furono l’aspetto principale e più vistoso del fascismo come religione politica, insieme alla esaltazione della sacralità dello Stato fascista, condannata da Pio XI come nuova «statolatria pagana», che fu motivo costante di attrito, di tensione e di conflitto fra il regime e il Vaticano, nonostante la stipula del Concordato del 1929.

Non esisteva una simile idolatria di un capo vivente nell’Europa degli anni Venti. Nella Russia bolscevica e atea era stato instaurato il culto di Lenin, ma soltanto dopo la sua morte – da vivo Lenin non l’avrebbe accettato – e ciò avvenne principalmente per opera di Stalin, che usò il culto di Lenin come il piedistallo sul quale innalzare, dal 1929 in poi, il culto della sua stessa persona. E lo fece prendendo probabilmente a modello l’unico esempio di culto di un capo vivente allora esistente: il culto del duce.

Per le molteplici somiglianze nell’uso della violenza, nel monopolio del potere, nella organizzazione dello Stato sulla base di un partito unico, nella trasformazione dell’ideologia in una religione politica, e nel culto del capo come nume vivente, i nuovi termini «totalitario» e «totalitarismo» coniati dagli antifascisti italiani per definire la realtà politica del potere di Mussolini e del fascismo, e non la loro ideologia o le loro aspirazioni, furono applicati dopo gli anni Venti anche alla definizione del regime comunista in Russia da parte di antifascisti democratici, liberali, socialisti e cattolici. Il primo a rilevare somiglianze nella realtà del fascismo e del bolscevismo, associandoli col termine «totalitarismo», fu nel 1926 il cattolico Luigi Sturzo, uno dei primi antifascisti costretto a lasciare l’Italia e andare in esilio. Inoltre, non fu il modello del totalitarismo bolscevico, ma fu il modello del totalitarismo fascista ad avere successo nell’Europa fra le due guerre fra i nuovi dittatori. Mentre la Russia bolscevica aveva rinunciato a esportare la rivoluzione per costruire il socialismo in un solo paese, dalla seconda metà degli anni Venti una epidemia dittatoriale, con proliferazione di regimi autoritari nazionalisti e anticomunisti, che assumevano come modello il fascismo italiano anche quando non si dichiaravano fascisti, dilagò ovunque in Europa: nel Mediterraneo, nella penisola iberica, nell’Europa orientale, nel Baltico, e infine esplose in Germania con l’avvento del nazismo al potere all’inizio degli anni Trenta.